mercoledì 29 gennaio 2014

URBANISTICA N° 150-151



Uscito con qualche semestre di ritardo, il n° 150-151 di “Urbanistica” mi ha fatto re-incontrare il piacere e la fatica del contatto fisico con il pesante fascicolo e con i riflessi sulla carta patinata; nonché con raffinate analisi e riflessioni, in gran parte convergenti con la mia sensibilità; in particolare:
-            -  i servizi, ampli o brevi, su Siena e Brasilia, Melbourne e Lione, e sulla pianificazione paesaggistica in diversi paesi d’Europa
-           -  la ricerca sull’edilizia recente in (mancata) attuazione dei Piani comunali “riformati” in Toscana, riferita da Andrea Jacomoni
-       -  l’approfondimento sul pesante impatto sul paesaggio degli impianti per le energie rinnovabili (eolico e fotovoltaico-in-pieno-campo) a cura di Anna Maria Palazzo e Biancamaria Rizzo
-      -  il contributo teorico di Ennio Nonni sulla “bio-urbanistica” (qualcosa di molto diverso dalla sommatoria di tante bio-architetture), che cerca di abbracciare in uno stesso discorso le metropoli dei paesi ricchi (che consumano suolo per l’irrazionalità delle espansioni periferiche a volumi isolati oppure a villette, ma garantiscono servizi e spazi pubblici) e quelle dei paesi poveri (che si espandono per l’inarrestabile migrazioni nelle baraccopoli) e – valutando comunque criticamente la praticabilità dell’obiettivo del risparmio di suolo a fronte della pressione migratoria, che non è esclusa neanche per le città del mondo ricco – propone di perseguirlo, nella nostra realtà, sostituendo le periferie esistenti con organismi urbani compatti ed integrati (simili ai nostri “centri storici” ma anche all’urbanità che esprimono le stesse favelas); la proposta mi sembra convergente con quelle che ho riepilogato come “architettura della città”, nella pagina e nel post omonimi (che pertanto provvederò ad aggiornare), e mi pare presenti – come le altre da me ivi riepilogate – un sostanziale difetto, e cioè di non spiegare come si può conseguire tale indirizzo, nelle nostre società, in termini di consenso antropologico (ancor prima che politico e di mercato).

Insomma, un bel quadro di letture stimolanti (anche le restanti che non ho menzionato), rispetto alle quali mi pare sfiguri l’editoriale del direttore Paolo Avarello (con il rispetto dovuto sia per l’autorevolezza accademica, sia per il merito di dirigere la rivista di cui ho appena elogiato i contenuti): con il titolo “non solo piano”, ripropone il tema della divaricazione tra “piano”  e “progetto” oppure, volendo tra urbanistica “bi” e “tri” dimensionale, concludendo con buon senso sugli opposti rischi di inutili irrigidimenti del piano oppure di una eccessiva flessibilità “caso per caso”, che vuoterebbe il significato steso dei piani.
(Sull’argomento rammento il convegno INU di Genova nel 2006 sui “progetti urbani”, che mi pare tracciasse validi ragionamenti).
Ciò che meno mi ha convinto del testo di Avarello è il riepilogo storico, che da un lato fa partire i programmi complessi dall’esperienza Urban di metà anni ’90, trascurando i Programmi Integrati di Intervento lombardi (e non solo) del decennio precedente (legge Verga del 1986), d’altro lato tende ad appiattire tutta l’urbanistica precedente, dal dopoguerra, sul modello bidimensionale degli azzonamenti, dei “retini” e degli indici numerici (salvo smentirsi, incidentalmente ed in nota, quando rileva l’eretico esempio di Ridolfi come antesignano, già a metà anni ’50, delle “schede progetto” poi rilanciate da Secchi e Gregotti/Cgnardi negli anni ‘80; ma tale eresia minoritaria, di occuparsi della forma urbana, ha coinvolto in tutto il dopoguerra,  tramite i PRG o altri strumenti, quanto meno altri maestri, da De Carlo allo stesso Astengo, da Benevolo a Samonà, e probabilmente anche altri urbanisti e/o architetti minori), dimenticando a mio avviso (cose che in parte ho vissuto ed in parte ho appreso in prevalenza proprio sulle riviste dell’INU):
-          che la legge del 1942 era figlia anche della stagione “littoria” dei concorsi per i Piani Regolatori per molte città d’Italia, in cui negli anni 20 e 30 piano e progetto volentieri si mischiavano (come anche nei precedenti Piani fondati sulla legge del 1865, che erano impostati per lo meno sugli allineamenti – anche in altezza – dei fabbricati lungo le strade di progetto): secondo Avarello, benché in origine architetti, gli urbanisti italiani si sono rinserrati dagli anni Trenta agli anni Novanta in una prassi burocratica tutta giuridico-normativa (si veda invece – ad esempio – il testo “Urbanistica” di Piero Bottoni; e tutto il ciclo culturale olivettiano)
-          che tale attenzione ai volumi, sia pure con il prevalere di una cultura razionalista con corpi edilizi isolati, con la legge 1150 del 42 veniva delegata dal Piano Generale ai Piani Particolareggiati, e che in parti minoritarie d’Italia tali strumenti (e i parenti poveri, i vituperati Piani di Lottizzazione, più tutta la stagione dei PEEP e dei “quartieri”), sono stati redatti ed anche in parte attuati – a partire ad esempio dal QT8 a Milano – si pure con alterni risultati, ma tenendo viva nella disciplina una qualche attenzione per la composizione fisica – ed umana - del paesaggio urbano, anche prima dei “programmi complessi”.  
    Inoltre mi sembra impreciso anche il giudizio sulla pigrizia delle regioni nell’assumere le nuove potestà legislative negli anni ’70, perché prima del Piemonte di Astengo nel 1977 (seguito a ruota dall’Emilia Romagna) arrivò la dignitosa legge regionale lombarda n° 51 del 1975; ed ingeneroso il giudizio sull’insieme dei piani successivi alla legge ponte n° 765/67, perché – pur bi-dimensionali – molti di essi non erano affatto né sovra-dimensionati né inattuabili, bensì risultarono validi strumenti almeno per contrastare o controllare la speculazione edilizia e per dotare i Comuni di aree pubbliche e per case popolari.

lunedì 27 gennaio 2014

“DE VULGARI ELOQUENTIA”



Negli ultimi tempi l‘aggressività e la violenza verbale, nel confronto politico, nei social media, in tv ed in parte anche nelle piazze (estremo ad esempio l’atteggiamento dei parenti dei malati di “Stamina”), sono state oggetto di analisi e proposte, in particolare di controllo e censura su Internet.
Turpiloquio e violenza verbale sono per altro diffusi nella vita privata, superando precedenti precetti di buona educazione (mi è capitato di sedere al ristorante al tavolo accanto a due professionisti milanesi e di sentirmi subissato dalla volgarità e aggressività della persona che dominava la conversazione, riferendo di scontri di potere con terzi assenti, relativi a questioni di affari; che la tendenza riguardi anche i ceti dirigenti è d’altronde emerso da molti afflati “fuori onda” e talora “in onda).
Tra queste riflessioni mi ha deluso l’articolo di Ilvio Diamanti su Repubblica, spesso perspicace ed acuto osservatore, che si limita ad auspicare che il turpiloquio passi di moda, per effetto del suo stesso uso smodato e sovradosato.
Mi pare infatti che non si tratti solo di un fenomeno passeggero nei comportamenti collettivi e individuali, ma della manifestazione esteriore di processi più profondi, quali da un lato la democratizzazione o meglio la diffusione sociale della scrittura e dall’altro la frammentazione sociale e soprattutto delle rappresentazioni e rappresentanze politiche.
Si è già detto che taluni usi dei social media, specialmente quando di fatto anonimi, e soprattutto di Twitter – per la sua stringatezza – estendono o sostituiscono le scritte nei cessi e le battute da bar, come di sdoganamento delle battute da bar si è parlato per i “nuovi” linguaggi di alcune formazioni politiche degli ultimi decenni, da Bossi a Grillo.
Un lungo processo di protagonizzazione di segmenti sociali e individui, iniziato dal 68 e cresciuto nelle radio libere, poi nella riforma della RAI, nelle TV private, fino alle piazze parlanti di Gad Lerner e Santoro ed ai vari salotti urlanti di Vip, politici e persone comuni, vere e spesso finte.
Ed in parallelo un crescente successo di tutte le forme di “semplificazioni” dei rapporti politici e sociali, ridotti a scontro tra “noi” (qualunque segmento di ragioni, bisogni, interessi) e “loro” (casta, nemico, complotto universale).

Per quanto mi riguarda non riesco a scrollarmi di dosso pertanto un qualche senso di colpa, per il ruolo iniziale svolto in materia sia dal movimento degli studenti del ’68 e anni seguenti (con accentuazione nel 77), sia in particolare – conferendo parola diretta ad ogni categoria di sfruttati – dall’esperienza operaista sviluppata soprattutto da Lotta Continua, con qualche merito riguardo alla analisi dei bisogni, meno riguardo alle soluzioni prospettate e conseguite (con riflessione pertanto sulla mia personale partecipazione a queste ormai antiche vicende).
Come attenuante alla colpa ci metto volentieri una sorta di diritto di primogenitura, perché sostanzialmente è stato il ’68 – in Italia, nel secondo novecento – a svecchiare e de-impaludare il linguaggio politico, promuovendo il protagonismo di nuovi soggetti e inventando nuovi modi di espressione: perlomeno quindi si aveva il merito di essere “nuovi” (con largo anticipo per l’appunto anche su Bossi e Grillo).
Ricordo un emblematico episodio nella manifestazione nel 1975 per il trentennale della Liberazione a Sesto Calende (cittadina allora ad egemonia “social-comunista”), con un folto corteo ufficiale ed una colorita coda di Movimento Studentesco (grosso modo sestese) e di Lotta Continua (con gruppi operai di Arona e Somma Lombardo), e comizio finale del glorioso comandante partigiano Cino Moscatelli (che richiamava un suo comizio alla SIAI Marchetti di  Sesto C. nell’aprile del 45, scendendo dalla Valsesia a liberare Milano).
Malgrado l’atteggiamento nell’insieme unitario sia del M.S. (geneticamente mai troppo distante dal PCI) sia di L.C. (localmente moderata e in quella fase orientata al “voto al PCI” in base ad una svolta di Sofri dopo il golpe cileno), alla coda del corteo si gridava anche sonoramente “la classe operaia / lo grida in coro: / vaffanculo / governo Moro”: Moscatelli ci tenne a redarguirci dal palco, sia per la parolaccia in se, sia probabilmente per il rispetto dovuto allo stesso governo Moro, ultimo centro-sinistra degli anni ’70 ma non
Alieno di misure impopolari di austerità (appena prima della parentesi del “compromesso storico”), cui il PCI si opponeva pertanto ma non troppo.
Il partito comunista aveva fatto un lavoro immenso, soprattutto nel dopoguerra, per dare la parola alle masse sfruttate, ma sempre in termini didattici, cercando di “elevarne” il linguaggio ed adeguarlo a quello proposto dal Partito (significativo in proposito ciò che ho letto di recente nell’autobiografia di Luciana Castellina “La scoperta del mondo“ sul lavoro politico nelle borgate di Roma – anni 50).
E la violenza, verbale e fisica, di cui è intrisa la storia dell’antifascismo, delle lotte operaie e contadine e dell’antagonismo ai governi democristiani, fino al ’68, non risulta accompagnata da una eversione del linguaggio, bensì soprattutto da una popolarizzazione del linguaggio politico e letterario delle classi colte (operazione che Asor Rosa in “Scrittori e popolo” del 1965 aveva tacciato di populismo, accomunando nell’accusa tra gli altri Pratolini, Cassola e Pasolini). 
Mentre storicamente in Italia era stato  il fascismo, anche per le sue ascendenze nelle correnti anarco-sindacaliste sorelliane del movimento socialista e nella rottura culrurale futurista, ad intrecciare nel primo novecento, con la violenza fisica, la violenza verbale ed il turpiloquio (Me ne frego!, Cagoia!, ecc.: espressioni da caserma ed espressione di un nuovo protagonismo piccolo-borghese), contrapponendosi anche al socialismo ufficiale, affezionato ad uno schema di retorica risorgimentale.
(Anche da qui l’accusa di “diciannovismo” che talvolta il PCI, incluso Berlinguer, rivolse ai movimenti, sbagliando a mio avviso in termini di analisi delle classi sociali, che doveva invece essere la sia specialità “professionale; perché i ceti medi impoveriti coinvolti nel ribellismo degli anni 60 e 70 non tendevano affatto ad allearsi con gli interessi reazionari dei ceti dominanti).

Nel “secolo lungo” precedente, iniziato a fine ‘700 con le rivoluzioni americana e francese, ci si sgozzava pure con frenetica intensità, e anche se l’innovazione di costumi e linguaggio dei giacobini e dei sanculotti, e poi dei carbonari e dei garibaldini, degli anarchici e dei comunardi, creavano scandalo nei benpensanti, probabilmente la paura per la concreta violenza delle armi prevaleva sul timore per la decadenza delle maniere (ben frammiste nella canzone “Contessa” di Paolo Pietrangeli), mentre la faticosa emancipazione culturale delle masse arrivava lentamente all’alfabetismo, e quindi la scrittura permaneva quella delle classi dominanti, e le invettive dei poveri non uscivano dal linguaggio parlato dei campi e delle officine, dei carceri e delle osterie.
Mentre oggi, grazie ad una sostanziale tregua della violenza politica di massa nell’Occidente, lo scandalo per la violenza verbale prevale sulla delle rivolte, che finora la crisi non ha innescato.
Volendo semplificare una storia complessa, in parte già autorevolmente studiata ed in parte ancora da studiare, accade da sempre che nuovi soggetti sociali si affaccino con nuovi linguaggi, le accademie ritardino ad adeguarsi, ed una frazione di intellettuali inizi a recepirli, facendoli parlare nei loro testi, da Dante e Boccaccio, dal Ruzante al Manzoni, da Pietro Jahier (e la lingua del soldato Somacal è già molto più autentica di quella di Renzo Tramaglino) fino a Nanni Balestrini.
Il fatto nuovo che si afferma progressivamente nel novecento, con la compiuta scolarizzazione di massa, è che sempre più “il popolo” tende ad esprimersi autonomamente, non solo tramite contadini ed operai che divengono scrittori (da Silone a Pennacchi), assimilandosi in parte agli intellettuali di nascita borghese, ma in tutte le forme, vecchie e nuove, in cui si può manifestare la comunicazione del linguaggio, in precedenza dal popolo solo parlato.
(Così come ha poco senso per il ‘900 e seguenti una “storia dell’architettura” che guardi solo alle grandi firme e non sia invece anche “storia dell’edilizia”, cioè della massa di manufatti di varia origine che costituiscono la città), bisognerebbe quindi saper scrivere non più “Scrittori e popolo”, bensì “scrittura [e audio-video-internet] e popolo”, con la consapevolezza però che sempre meno esiste un popolo, bensì variegati e differenziati segmenti della società di massa, e che ad esprimersi di più sui nuovi media possono essere spesso individui isolati e quasi autistici, connessi maggiormente ai nuovi media che alle loro “unità di vicinato”.
Pertanto a mio avviso, se mai è possibile una cura contro gli eccessi verbali dei nuovi protagonisti o comprimari della scena comunicativa, organizzati od atomizzati può lentamente maturare solo come corollario di eventuali ed auspicabili (ma ad oggi improbabili) processi di cura delle sofferenze profonde della società (disoccupazione, precariato, isolamento, spaccio di droghe e di consumi sottoculturali).
Non quindi ulteriori forme di censura o di inasprimento del Codice Penale, ma adeguati studi e vigorose “battaglie politico/culturali”: una critica radicale “allo stato delle cose presenti” dovrebbe essere possibile senza violenza, sia fisica che verbale, e senza dileggio delle persone, anche avversarie.

lunedì 6 gennaio 2014

ESPLORAZIONE E MONITORAGGIO DI QUARTIERI SOSTENIBILI, IN EUROPA, A CURA DI CECCHINI E CASTELLI



Presentato su “Urbanistica Informazioni” n° 248/2013 da una breve recensione di Paolo Avarello, il volume “Scenari, risorse, metodi e realizzazioni per CITTA’ SOSTENIBILI”, a cura di Domenico Cecchini  e Giordana Castelli (Gangemi editore 2013, pagg. 208, con DVD, € 25,00, non disponibile in e-book), riprende aggiorna ed allarga la ricerca universitaria già pubblicata nel 2010 sul n° 141 di “Urbanistica” su alcune realizzazioni di quartieri “ecologici” in Europa, integrandola con alcuni saggi introduttivi e conclusivi, interessanti ma non molto “sistemici”, di:
-          Lorenzo Bellicini (CRESME) sui “cicli edilizi”, produttivi e finanziari, a partire dai dati dello stesso CRESME, con specifiche riflessioni macro-economiche sul “sesto ciclo” 1996-2012 spentosi nell’attuale e più generale crisi e sui nessi tra demografia, migrazioni, domanda, risparmio, debito, produzione e bolle speculative (il tema mi rammenta uno dei miti culturali nei miei primi anni di università, ad architettura di Milano dal 1967, e cioè la “tesi-di-laurea-di-Ciro-Noja”);
-          Roberto Camagni (Politecnico Milano) sulle potenziali modalità per prelevare dalla rendita urbana, nelle fasi di trasformazione, le risorse necessarie alla qualità dei servizi (come già ho osservato altrove, tale saggio non si estende ad un esame della fiscalità ordinaria sulle transazioni immobiliari);
-          Francesco Rubeo (Sapienza Roma) sul ruolo dei soggetti pubblici e privati e sull e nuove regole necessarie per svilupparne la indispensabile collaborazione, nell’attuale fase di carenza di risorse pubbliche;
-          Domenico Cecchini stesso (Sapienza Roma) sulle tendenze evolutive delle città, mondiali ed europee, con individuazione per queste – dopo le fasi dell’espansione post-bellica e della “trasformazione” post-industriale – di un “ciclo della qualità e della sostenibilità”, esplicitato nella Carta di Lipsia del 2007 e fondato sull’integrazione delle funzioni, sulla rigenerazione ecologica e sulla ricerca di qualità ed efficienza degli spazi pubblici e collettivi, cui l’Italia fatica a partecipare;
-          Francesco Prosperetti (ex dirigente ministeriale) sul ruolo inizialmente svolto dal Ministero dei Beni Culturali nella ricerca in esame, in funzione dell’importanza che la rigenerazione edilizia ed urbanistica, motivata a partire dalle questioni energetica ed ambientale, assume anche ai fini della riqualificazione del paesaggio urbano.

Al centro del testo stanno le analisi – a tavolino e con sopralluoghi - sulla genesi e gli sviluppi dei quartieri di Hammarby Sjostad (Stoccolma), Solar City (Linz), Greenwich Millennium Village (Londra) e Parque Goya e Valdespartera (Saragozza), già indagati nel suddetto saggio in “Urbanistica” n° 141, ma ora ripresi con maggior approfondimento sia delle criticità intrinseche ai rispettivi progetti, sia delle problematiche emerse nei primi anni di utilizzo e – in parte – per i successivi ampliamenti, sia ancora, ove disponibili, dei dati emersi dal monitoraggio scientifico del funzionamento degli insediamenti.
Ne risulta un quadro complesso e ricco di chiaro-scuri, più utile probabilmente per i lettori che non taluni resoconti sulle migliori pratiche di carattere volutamente ottimistico o quasi agiografico.
(Spiace che il raffronto non sia esteso ad altri casi molto noti in letteratura, come il GWL di Amsterdam, a forte densità e connessa pedonalizzazione, oppure i quartieri Vauban e Riesefeld di Friburgo, recentemente ri-esplorati da Fabiola fratini su Urbanistica Informazioni n° 248).
Gli elementi critici che a mio avviso emergono dall’insieme e che personalmente mi sembrano meritevoli di sottolineatura sono:
-          I necessari compromessi, già a livello progettuale, tra un’impostazione strettamente “bio-edilizia” (esposizione lungo l’asse elio-termico, massimizzazione delle prestazioni energetiche, pedonalità) e le altre polarità di una progettazione urbana integrata, che determinano morfologie complesse e meno ingenieristiche;
-          I livelli “relativi” degli obiettivi di risparmio energetico, più o meno avanzati al momento della ideazione dei quartieri, ma oggi in gran parte superati dagli sviluppi tecnologici, e la mancanza di predisposizione per successivi adeguamenti delle parti già costruite (mentre traspare una discreta reattività verso la correzione progettuale delle parti di successiva realizzazione);
-          Un certo scarto tra gli obiettivi di rendimento energetico prefissati ed i consumi effettivi, in gran parte addebitati ad un uso non corretto degli impianti e delle strutture, il che a mio avviso è indice o di un progettazione non adeguata alle effettive condizioni sociali e/o bio-climatiche, oppure di un discreto insuccesso dell’aspetto educativo e socializzante nella costruzione di queste porzioni di città.
Altro dato in comune alle 4 realizzazioni in esame è il vantaggio (non facilmente riproducibile) derivante dal basso costo di acquisizione dei suoli, di recupero in 3 casi e su aree libere (già destinate ad espansione produttive) per Solar City/Linz.

Riguardo ai singoli quartieri ritengo opportuno rilevare, nell’ambito delle ampie esposizioni  di Giordana Castelli e degli altri ricercatori, i seguenti aspetti specifici (sempre con la mia attenzione agli aspetti più problematici):
-          Hammarby sembra essere il caso di successo più completo ed equilibrato, anche se mi sembra dubbio il consolidamento degli insediamenti commerciali funzionali al quartiere;
-          Solar City, tecnicamente corretto e molto monitorato (considerando però come positivo uno scarto energetico vicino al 20%) pare soffrire della limitata attuazione rispetto ad un progetto più vasto e quindi della forte pendolarità verso al città, da cui provengono i nuovi abitanti, in prevalenze giovani coppie del “ceto medio”; presenta inoltre una densità edilizia contenuta, e quindi non è molto risparmioso di suolo;
-          Millennium Greenwich sta criticando da se il primo “lotto”, prevedendo nelle successive realizzazioni l’abbandono di una rigida pedonalità e diverse soluzioni morfologiche e tipologiche;
-          Parque Goya e Valdespartera, con base sociale assai più povera di Solar City (e con tipologia edilizia che mi appare per l’appunto assai da “case popolari”) evidenzia anche per questo alcuni insuccessi nella apertura degli spazi semi-pubblici (con insorgere di recinzioni) e nell’uso scorretto delle serre solari (con conseguente scostamento dai risultati bio-climatici attesi).

La parte finale del testo affronta,  con le dovute riserve, alcuni casi italiani, però più recenti, e quindi senza profondità diacronica:
-          Spina 3 e l’Environment Park di Torino sono correttamente presentati come parte della complessa e complessiva rigenerazione urbana post-industriale della metropoli torinese; il frammento attuativo più analizzato è però molto particolare, trattandosi di un parco tecnologico e non di una porzione più multifunzionale della città;
-          I quartieri Resia e Casanova di Bolzano (inseriti nella tradizione ormai consolidata della normativa alto-atesina “CasaClima”, che coinvolge virtuosamente tutta l’edilizia nella provincia) ed il quartiere Villa Fastigi di Pesaro (in attuazione del PRG studiato da Bernardo Secchi ed allievi) sono interventi di nuova costruzione su aree libere periferiche, eredi della migliore cultura dei PEEP, che si caratterizzano sia sotto il profilo energetico e bio-climatico, sia riguardo alla connessione e funzionalità degli spazi pubblici (anche rispetto al contesto esterno)  ed alla qualità progettuale;
-          Il quartiere Savonarola  di Padova rappresenta un caso esemplare di “Contratto di Quartiere”, imperniato sul recupero urbano di un vecchio insediamento di case popolari, con una progettazione integrata dagli aspetti fisici dei fabbricati e delle urbanizzazioni a quelli più strettamente sociali.
Mancano più ampie esplorazioni su realizzazioni e progetti in Italia: mi incuriosirebbe capire quale sia il risultato complessivo del quartiere Albere (ex-Michelin) progettato a Trento da Renzo Piano (dove pare che classe A sia indicativo anche di una selezione sociale verso l’alto, determinata dai prezzi elevati) oppure se il quartiere “Laguna Verde” di Settimo Torinese (master plan di Pier Paolo Maggiora) stia per decollare effettivamente oppure sia ancora al PartiamPartiam promozionale.

Nell’insieme il testo risulta ben documentato e stimolante.
Proprio per questo verrebbe voglia di chiedere di più, oltre all’estensione della campionatura: ad esempio una definizione di indicatori ed una schedatura in parallelo dei casi in esame (un modesto tentativo è stato condotto dallo scrivente nel 2010, con Anna Maria Vailati, per alcuni dati disponibili in letteratura – vedi Urbanistica Informazioni n°229 e nel mio blog PAGINE-APPENDICE).
Forse i tempi sono maturi perché il raffronto della casistica conduca anche a riflessioni di sintesi, non in termini di “nuovi standard” (e nemmeno di complicati e poco utili indici numerici riassuntivi), ma di una sistematizzazione delle connessioni dialettiche e “multi-verse” tra le molte variabili in campo (esempio: densità/consumo di suolo/pedonalità, mixitè/pendolarità/sicurezza, forma-urbana/bio-clima/rendimento energetico, ecc.).