venerdì 31 luglio 2015

SOLIDARIETA’, DI STEFANO RODOTA’

“Solidarietà. Utopia necessaria” di Stefano Rodotà (Bari, Laterza  - 2014 – pag. 141) è un nitido e appassionato racconto storico sull’evoluzione giuridica del concetto di solidarietà, ed un appello alla sua attuazione anche in questa fase di crisi economica e sociale.

Rodotà evidenzia come la solidarietà emerge, in un storia piena di contraddizioni e conflitti, qualificandosi ad un tempo come dovere dei ricchi e diritto dei poveri, e differenziandosi quindi da tutte le forme di beneficienza e carità, che – pur esprimendo sentimenti positivi di fratellanza da parte del ricco – non contemplano come carattere fondamentale del rapporto di redistribuzione delle risorse la dignità del povero.

La solidarietà ha radici nell’illuminismo e nelle dichiarazioni dei diritti che punteggiano le rivoluzioni americana e francese, ma ben presto si eclissa con il fallimento della “fraternité”, che già in periodo napoleonico  non affianca più “liberté” ed “egalité”, sostituita dalla borghese “proprieté” e quindi da una concezione contrattualistica dei rapporti umani (che di fattore restringe anche la libertà e l’uguaglianza).

Nel difficile cammino verso una universalità dei diritti, secondo Rodotà, è interessante la tappa costituita dal Codice Civile del nascente regno d’Italia, che nel 1865 riconobbe i diritti civili anche agli stranieri  (anche per l’influenza culturale di Pasquale Stanislao Mancini), e che solo dal Fascismo fu limitato agli stranieri degli stati amici.

Successive tappe importanti sono state le nuove costituzioni di Italia e Germania dopo il 1945, l’una fondata sul lavoro e l’altra sulla dignità umana, e da qui un nuovo ruolo positivo del “costituzionalismo” nella costruzione del diritto, che arriva – per Rodotà – ad una svolta decisiva riguardo alla solidarietà con la vigente Carta Europea dei Diritti, annessa al Trattato di Lisbona, e dunque vincolante, in teoria, per tutti gli stati dell’Unione Europea – e per la stessa Unione - , che invece spesso la ignorano, ma possono già essere richiamati con successo ricorrendo alla Corte Europea di Giustizia.

Anche se il testo di Rodotà talora si libra su elevati concetti giuridici e si appoggia su un’ampia e raffinata bibliografia internazionale, resta di agevole lettura e ci conduce infine al nocciolo della questione, ovvero se sia possibile, nel contesto della globalizzazione, della prevalenza dei valori economico-finanziari e della relativa scarsità delle risorse pubbliche, affermare, nella lotta politica e con gli strumenti del diritto (a partire da quello costituzionale) una “riserva” in favore di una solidarietà sociale come “bene comune”, non mercificabile, e come diritto di cittadinanza, tendenzialmente universale.

Rifiutando invece una visione riduttiva del benessere sociale come variabile totalmente dipendente dalla “crescita”, che quindi confina di fatto il ”welfare state” in una felice parentesi storica ormai esaurita (anche grazie alla caduta della paura del comunismo); e affidando agli afflati positivi del volontariato un ruolo complementare rispetto ai doveri solidali della “cosa pubblica” nei confronti dei diritti fondamentali di una vita dignitosa per tutti gli uomini (migranti compresi). 


E per una volta, in queste recensioni, non ho nulla da obiettare con i miei corsivi. 

domenica 19 luglio 2015

LO STATO INNOVATORE DI MARIANA MAZZUCATO

Il testo “Lo stato innovatore” (Laterza, Bari pagg. 351) di Mariana Mazzucato è uscito (tradotto) in Italia nel maggio 2014 (in USA e Gran Bretagna nel 2013) ed ha suscitato l’anno scorso un discreto dibattito,  tra gli specialisti e sui media, sia per l’autorevolezza dell’Autrice, ricercatrice e docente italo-americana e cattedratica dell’Università del Sussex, sia per la chiarezza e nettezza dei contenuti.
Spiace constatare che, passato il clamore mediatico, il dibattito politico-economico nostrano (ed europeo) resti incagliato sui consueti temi, senza apparenti scalfitture e però anche senza serie confutazioni delle tesi della Mazzucato.

Dimostrando le sue affermazioni con documentate ricerche, proprie ed altrui, l’Autrice tende a smontare alcuni miti ricorrenti nel pensiero economico e nella pratica politica di molti paesi; tra questi:
-          che la piccola impresa sia comunque e sempre da privilegiare perché dinamica e creativa;
-          che il successo delle nuove imprese (tipo Silicon Valley) sia effettivamente sostenuto dagli investimenti del “venture capital”, il quale invece interviene solo in fase di imminente decollo della commercializzazione di nuovi prodotti (senza scommettere sulla ricerca di base), per poi uscirne al più presto con la quotazione in borsa o cessione/fusione delle nuove aziende (con il rischio di stroncarne l’effettiva capacità innovativa);
-          che la crescita e l’innovazione siano direttamente proporzionali al numero dei brevetti (i quali invece divengono spesso elementi di freno e ingabbiamento della ricerca) ed all’entità della spesa  ufficialmente definita di “Ricerca&Sviluppo”, mentre tale importo può includere mere spese di marketing e commercializzazione: è invece decisivo distinguere la qualità delle connessioni che si istaurano tra università, enti di ricerca ed aziende (la rete eco-simbiotica dell’innovazione).

Viceversa la Mazzucato, attraversando in lungo ed in largo le vicende dello sviluppo tecnologico ed economico dei trascorsi decenni, si impegna a dimostrare il ruolo, indispensabile e spesso misconosciuto, svolto da specifiche agenzie e iniziative statali, nella liberistica America (anche sotto i presidenti repubblicani) e altrove, per la realizzazione dei più importanti percorsi strategici dell’innovazione, quali ad esempio:
-          informatica e internet, dalla Darpa americana (iniziata a fine anni 50 in risposta ai successi tecnologico-militari dell’Union Sovietica, al tempo degli Sputnik) alla concertazione Stato-imprese peculiare del Giappone  e della Corea;
-          energie rinnovabili, dalla Germania alla Danimarca, e poi in Cina ed in Brasile, ma anche con grandi investimenti pubblici, ancorché discontinui (anche per le resistenze delle lobbies carbon-petrolifere), e per questo meno efficaci, degli stessi USA;
-          bio-tecnologie, nanotecnologie, ricerca farmaceutica per le malattie rare.
In tutti questi (ed altri) casi, secondo la Mazzucato, solo lo Stato può avere le risorse, il coraggio e la pazienza per sostenere ricerche di base ed applicative senza immediato sbocco, con grossi rischi di fallimenti (vedi il caso dell’aereo Concorde), che però lo Stato stesso può bilanciare con l’insieme dei risultati positivi del suo ruolo di Grande Innovatore.

La Mazzucato non intende sminuire il compito centrale delle imprese private nello sviluppo commerciale dei nuovi prodotti, ma sottolinea come lo Stato, oltre ad assicurare le funzioni fondamentali del vivere civile ed a sobbarcarsi i costi delle infrastrutture materiali ed immateriali di scarso rendimento finanziario (dalle ferrovie all’istruzione), oltre a regolare ed orientare i mercati – e quindi anche la domanda dei nuovi prodotti – con le norme ed il fisco, oltre ad agevolare l’iniziativa delle imprese stesse ed a smorzarne i rischi o gli effetti dei fallimenti, deve intervenire pesantemente e costantemente nella promozione dei nuovi fronti di ricerca, per assicurarsi il conseguimento di obiettivi generali (dalla egoistica supremazia politico militare del proprio stato ai più nobili fronti della qualità ambientale e della salute e del benessere dei cittadini).

Il testo si occupa in particolare del successo della Apple (anche perché tanto pubblicizzato dall’azienda stessa) per indicare quanto i nuovi prodotti dell’azienda di Cupertino siano in realtà fondati su fondamentali scoperte messe a disposizione della ricerca pubblica, dai micro-processori agli schermi a cristalli liquidi, da internet al GPS (per citare solo 4 dei 12 capi d’accusa); ed analizza Apple anche come tipico esempio di multinazionale che de-localizza il lavoro ed elude il fisco (giocando anche tra le diverse aliquote di imposta tra California e Nevada), comprime i salari e le carriere dei livelli medio-bassi a vantaggio di top-manager e azionisti, in un processo complessivo di privatizzazione dei guadagni e di socializzazione dei costi (analogo e forse più spudorato processo è quello illustrato dall’Autrice per il settore farmaceutico).

Un altro lungo capitolo (molto interessante per chi abbia sensibilità ecologiche) è dedicato alle strettoie, tecnologiche e finanziarie, del difficile cammino verso un’industria energetica non inquinante.

Nella parte conclusiva il testo propone alcuni criteri per la riappropriazione pubblica dei benefici derivanti dall’impegno innovatore dello Stato (del tipo royalties sulle scoperte della ricerca di base, restituzione a lungo termine dei fondi iniziali di sostegno alle nuove imprese oppure mantenimento di quote azionarie) in un quadro generale di riequilibrio fiscale, fondato su una corretta ri-considerazione del premio da riconoscere al rischio (non dei soli azionisti e top-manager, ma anche dei lavoratori e dello stesso Stato) e finalizzato a sostenere una copiosa  e costante politica di investimento nell’istruzione  e nella ricerca (anche e soprattutto nei paesi più deboli dell’Europa, tra cui l’Italia, dove invece si punta solo a ridurre l’insieme della spesa pubblica). 

Complessivamente “Lo Stato Innovatore” si configura a mio avviso soprattutto come uno strumento di battaglia culturale per la de-mistificazione di alcuni fondamenti del pensiero e della propaganda neo-liberista (del tipo “stato minimo e briglia sciolta alle imprese”, “tutto il merito va al venture capital, quindi detassateci”, “il valore azionario premia il rischio” ), e la sua importanza risiede anche nella autorevolezza della  Mazzucato all’interno del mondo accademico anglosassone.
L’ottica della Mazzucato resta comunque “sviluppista” ed assume la sostenibilità ambientale solo quale ragionevole ed auspicabile scelta di uno stato innovatore, e non come una necessià oggettiva, correlata ai limiti delle risorse.
Tuttavia, nel debole panorama delle serie alternative allo “stato di cose presente”, cioè del finanz-capitalismo e della privatizzazione imperante, la posizione della Mazzucato si differenzia dalla mera riproposizione delle ricette neo-keynesiane (rilancio dei consumi e della spesa pubblica, anche in deficit) così come dalla generica invocazione di una “politica industriale” e di un rilancio degli investimenti pubblici, perché mostra precisamente in quali fasi del processo di ricerca e di nascita di aziende innovative si collochi il necessario ed insostituibile intervento dello Stato, che rischia e che sceglie, guidato da una visione generale di lungo respiro.
(Che per l’Europa, se sopravvive alla crisi greca, dovrebbe secondo me assumere una dimensione continentale)
Intanto in Italia, paese ideologicamente orientato in prevalenza verso le privatizzazioni (ma in realtà tuttora permeato da ENI ENEL FS POSTE FINMECCANICA MUNICIPALIZZATE ecc.), ed attraversato da inestricabili gorghi corruttivi, la proposta di nuove connessioni tra pubblico e privato, con la discrezionalità e l’agilità suggerite dalla Mazzuccato, non può che spaventare: cosicché gli intrecci di fatto continuano, mentre manca un trasparente confronto sul miglior orientamento delle risorse pubbliche (a partire da quelle esistenti) nella direzione di una effettiva e strategica innovazione.

BIO-URBANISTICA A FAENZA, DI ENNIO NONNI & C.

Il volume “Biourbanistica –Energia e Pianificazione”, di Ennio Nonni (dirigente del comune di Faenza) ed altri autori  coinvolti nella pianificazione urbanistica ed energetica della città romagnola, edito dal Comune di Faenza e stampato nel 2013 dalla Tipografia Valgimigli di Faenza (pagine 224 in carta patinata con llustrazioni e testo a fronte in inglese) rientra nel progetto Europeo EnSURE, (Energy Saving in Urban Quarters trough Rehabilitation and New Ways of Energy Supply).

Di Ennio Nonni avevo già letto precedenti interventi sulle riviste dell’INU e dintorni, apprezzando in particolare la sua concretezza, legata all’esperienza militante di pubblico funzionario (simile alla mia, nel mio piccolo), e però connessa ad una visione urbanistica di ampio respiro, che ha anticipato di alcuni anni la tematica del risparmio del suolo, intrecciata con le problematiche energetiche ed ambientali (infatti Nonni auto-cita suoi testi del 1990).

Ora Nonni tenta una sintesi più ambiziosa di tali percorsi, introducendo il concetto di “bio-urbanistica”: come afferma il Sindaco Giovanni Malpezzi nell’introduzione del testo, “quanto messo in campo è il tentativo di evitare la semplificazione per cui se tutti isolano la propria casa, la città sarà più sostenibile e più attrattiva” (tema su cui ho avuto occasione di esercitarmi anch’io, sempre nel mio piccolo).

Il testo esplica puntualmente le operazioni svolte dalla città di Faenza per dotarsi di una peculiare pianificazione energetica, con analisi dettagliata dei tessuti edilizi (e – ad esempio –con ulteriore articolazione della classe energetica “G” nazionale, la peggiore, in ulteriori 6 sotto-classi, per meglio definire le condizioni e le azioni di intervento sui tessuti edilizi più datati e più dissipatori di energia), affiancando tale ricerca (che mi è sembrata accurata, ma non molto diversa da altri Piani Energetici Comunali), presentata da Federica Drei (funzionaria comunale) e Massimo Alberti (ingegnere consulente) con interessanti approfondimenti teorici di  Alessandro Rogora e Matteo Clementi (Politecnico di Milano), nonché Nicola Marzot (Architettura Ferrara), che evidenziano le interrelazioni tra consumi energetici, microclima, tipologie edilizie e morfologia urbana, mostrando come l’impostazione progettuale per la riqualificazione energetico-ambientale della città esistente debba affrontare olisticamente numerosi fattori anche conflittuali.

In particolare, il saggio del prof. Rogora pone al centro dell’attenzione (richiamando altri autori contemporanei, tra cui Sergio Los) il clima dell’ambiente urbano esterno ai fabbricati, cercando di definirne, attraverso un ampio excursus storico e geografico, una sorta di teoria generale alla ricerca del miglior equilibrio tra compattezza urbana e soleggiamento/ombreggiatura, particolarmente importante nelle fasce del globo a clima temperato, dove gli spazi urbani esterni sono potenzialmente più vivibili in modo sociale; l’Autore affronta le singole variabili: altitudine (assoluta e relativa, in situazioni vallive), ventilazione (naturale ed indotta dagli stessi insediamenti), acque superficiali, vegetazione ed alberature, in correlazione con le opzioni tipologiche e morfologiche (ad esempio case a torre e corti urbane alla maniera di Cerdà), ideali e reali, ed alle possibili modifiche, sempre assumendo come unità minima l’aggregazione urbana (la strada o la piazza) e non il singolo fabbricato. 

(La parte analitica di questo saggio mi appare illuminante e paragonabile alle lezioni del compianto Gianfranco Caniggia* sulle regole basilari degli insediamenti, in particolare riguardo ai crinali/versanti/fondovalle; un poco deludente è forse la parte finale, dove le proposte operative per i Regolamenti Edilizi si arenano su un  meccanismo di punteggi, poco gerarchizzato, per cercare di contemperare le diverse componenti conflittuali della progettazione; d’altronde anche in Caniggia la parte propositiva non è appagante come quella analitica).

L’intervento di Nicola Marzot si sviluppa con analoghe finalità, focalizzandosi sulle alternativa morfologiche per gli isolati urbani densi e sulla capacità degli stessi di generare ombra e ventilazione, illustrata attraverso esempi recenti di nuovi quartieri europei sorti (o progettati)  nel recupero di aree produttive dismesse.

Matteo Clementi espone criteri di valutazione ambientale per la progettazione degli interventi di trasformazione urbana impostati su un concetto di “sostenibilità forte”, con calcolo sia delle emissioni di CO2 che dall’impronta ecologica complessiva degli insediamenti, includendo tutto il ciclo dei consumi di risorse indotti dallo “stile di vita” degli abitanti, esemplificato su una ipotetica “persona media” di Faenza, e mostra l’incidenza di fattori come il trasporto privato, che possono essere ridotti solo con la nuova organizzazione di una città densa (e resiliente, citando ancora Sergio Los).

Nelle parti redatte direttamente, Ennio Nonni espone una compiuta proposta di “nuova urbanistica” che, marginalizzando le tecniche perequative (in quanto tipiche dell’urbanistica espansiva), da cui riprende però compensazioni ed incentivazioni, ed esaltando una seria valutazione ambientale (vedi sopra Clementi), non ridotta alla santificazione ex-post delle scelte di piano (come di frequente purtroppo avviene), affida in buona misura alla spontaneità dei singoli interventi (anche in auto-costruzione) il conseguimento di una nuova bellezza ed attrattività della città, attraverso l’imposizione di alcune fondamentali nuove regole e la contestuale liberazione da alcune vecchie regole errate.
Limitandomi alle indicazioni più originali (e dando per scontato quanto riguarda la sicurezza sismica ed idrogeologica, il risparmio energetico, ecc.), segnalo:
-          Recingere la città esistente con una cintura verde invalicabile (con il valore iconico e quasi sacrale delle mura medievali) e costringerla a crescere all’interno del recinto, soddisfacendo i nuovi bisogni con il riuso delle aree dismesse e/o sotto-utilizzate;
-          Riqualificare la campagna, finalizzandola alla produzione alimentare per la città, e sopprimere anche con incentivi di compensazione edilizia (in città) gli interventi edilizi sparsi, incongrui e dissipatori di energia trasportistica;
-          Favorire lo sviluppo degli orti urbani e di ogni forma di gestione creativa delle aree verdi, pubbliche e private;
-          Consentire la densificazione edilizia, sopprimendo gli obblighi di distanza tra fabbricati (restano però le norme nazionali) e gli indici di densità edilizia, e indicando solo allineamenti, altezze e coperture (nonché indici di permeabilità del suolo e di piantumazione minima), facilitando e quasi imponendo nel contempo il mix funzionale, soprattutto riguardo alle funzioni non residenziali nei piani terra fronte strada;
-          Sostituire le norme prescrittive con obiettivi prestazionali, dinamizzando così la progettazione  con incentivi qualitativi, premiando sia i miglioramenti ambientali  e sicuritari (es.  anti-sismici) sia quelli identitari (arte e attrattività urbana);
-          Generalizzare le alberature in tutte le strade e rallentare il traffico con la compresenza di varie funzioni ed utenze nelle aree stradali (senza specializzarle tra pedonali e veicolari, queste pericolosamente e inutilmente veloci);
-          Dare spazio all’arte ed ai creativi, comunque attratti da una città compatta e vivace, e capaci di renderla ancor più attrattiva.

Dall’insieme di tali complesse politiche innovative, secondo Nonni, matura una sinergica crescita della bellezza della città compatta e della qualità della vita, con miglioramento energetico anche riguardo ad una minore e migliore mobilità.
Nonni sostiene anche che i valori positivi insiti in queste scelte non sono soggettività estetiche, ma opzioni auto-evidenti: “si preferisce vivere a Siena o nella periferia nebulosa?” è per Nonni una sorta di domanda retorica.

Ed è qui che meno mi convince. Perché a mio avviso è invece palese che non solo per una congiura di immobiliaristi o di vetero-urbanisti, ma per una spontanea adesione degli utenti, il modello della villetta continua a permanere come mito antropologico, e non nascono facilmente nuove Siene.
(D’altronde non è escluso che un tessuto di villette sia dotato di viali alberati e gradevoli spazi pubblici, anche se restano tutti  i problemi trasportistici e sociali della basa densità). 
Non mi convince nemmeno la densificazione delle espansioni novecentesche attuata a colpi di interventi edilizi singoli, senza una pianificazione dettagliata di quartiere (anche come guida ad eventuale auto-costruzione): probabilmente è anche necessaria una potente leva finanziaria per acquisire immobili da demolire e/o accorpare e poi rivendere/ri-assegnare .
E a questo punto mi incuriosirebbe un sopralluogo a Faenza, perché gli “urbanisti condotti” sono molto più esposti alla verifica nei fatti degli urbanisti privi di responsabilità gestionali.
Infine mi sembra un po’ meccanico associare strettamente la battaglia per limitare il consumo di suolo con la delimitazione della città esistente: occorre forse una pianificazione d’area vasta, fondata sui flussi delle areee trasformabili, ma un po’ più flessibile, perché non ovunque coincidono la domanda di nuovi insediamenti  l’offerta di aree dismesse o sottoutilizzate (comprese le residenze del secondo dopoguerra).


*Gianfranco Caniggia e Gian Luigi Maffei “Lettura dell’edilizia di base” e “Il progetto nell’edilizia di base” Marsilio, Padova 1979 e 1984

DIRITTO ALLA CASA E FISCO

Welfare e diritto alla casa come “minimo vitale”

Dopo la fine dei contributi Gescal (a metà degli anni ’90) e anche grazie all’alta percentuale di famiglie pervenute alla proprietà dell’abitazione (circa 80%), gli interventi pubblici per la casa si sono ridotti ad entità irrisorie, lasciando così crescere numerosi e differenziati fronti di fabbisogno e malessere abitativo: giovani coppie precarie, single, immigrati e fuori sede, nuove povertà (divorziati, lavoratori “esodati”, inquilini morosi o sfrattati e mutuatari in difficoltà).
Benché i problemi dell’abitare non vadano disgiunti dal più generale “diritto a vivere” (lavoro e reddito, servizi e assistenza) e quindi al “diritto alla città” (e alla sua auspicabile “bellezza” -  vedi tra gli altri i testi di Graziella Tonon e Giancarlo Consonni), confrontandosi con i nodi complessivi dell’economia politica (sviluppo e occupazione, salari e profitti, fisco, autonomie locali), ritengo che sia essenziale per qualsivoglia intervento sugli assetti urbani la ri-affermazione del DIRITTO ALLA CASA come diritto di cittadinanza (così recentemente anche il Vescovo Cattolico di Roma, Papa Francesco), meglio se a livello europeo, e la sua articolazione concreta, nelle norme nazionali e locali e nella prassi urbanistica.

Anche se talvolta impoverisce l’azione e il dibattito su aspetti quantitativi e burocratici, LA INDIVIDUAZIONE DI “STANDARD” HA COSTITUITO SU DIVERSI FRONTI UNA IMPORTANTE TAPPA NELLA MATERIALIZZAZIONE DEI “DIRITTI” E DELLE LOTTE PER OTTENERLI: così è stato per l’istruzione, con l’obbligo scolastico al termine della scuola media unica (e sarebbe ora di rivedere in alto tale obiettivo, ancorché non sempre raggiunto), per la connessa edilizia scolastica e per i discussi “standard urbanistici”, ed il principio agisce, ad esempio, dall’Europa contro le inadempienze italiane, per i minimi vitali dell’edilizia carceraria; funziona tuttora, a livello nazionale, per la sanità, attraverso  la definizione e l’aggiornamento dei L.E.A., Livelli Essenziali di Assistenza, purtroppo talora teorici, ma positivamente UNIVERSALI.
Nel welfare italiano, piuttosto asimmetrico, mancano invece altri standard minimi vitali, da quello centrale del lavoro e del reddito, a quello per l’appunto altrettanto fondamentale della CASA (forse perché tutti ci si ammala, mentre i “senza-casa” ed i “senza-casa-in-proprietà” sono pur sempre delle minoranze).
Ritengo che LO STANDARD MINIMO RESIDENZIALE CORRISPONDA, OGGI COME IERI, AD UN ALLOGGIO DIGNITOSO PER OGNI NUCLEO FAMILIARE, CON ALMENO UNA STANZA PER PERSONA, ED IN CONDIZIONI DI NORMALE URBANIZZAZIONE ED ACCESSIBILITÀ AL LAVORO ED AI SERVIZI.
A questo concetto elementare può corrispondere – sul territorio - una gamma di “valori catastali” (una volta conclusa la lenta riforma in itinere e come già anticipabile – volendo - sulla base della estensione in metri quadrati e delle valutazioni collaudate dall’Osservatorio del Mercato Immobiliare).


Fiscalità immobiliare ed incentivi

Partendo dalla suddetta definizione di un “minimo vitale residenziale” (e tenendo anche in conto che la rigidità del dualismo proprietà/affitto, alquanto incoerente con la crescente precarietà dei rapporti di lavoro e degli stessi legami familiari, induce  problemi di tipo nuovo, all’interno della crisi economica in atto), per introdurre equità e flessibilità nell’abitare,  ed anche per reperire una  parte delle risorse necessarie alla estensione del diritto alla casa, ritengo sia necessario includere in un unica valutazione, complessiva ed organica, la politica economica e fiscale per la residenza, tuttora sbilanciata in favore delle famiglie residenti in alloggi di proprietà che godono per tali abitazioni di una fascia di esenzione dalla TASI (già ICI ed IMU) e dall’IRPEF, procedendo nelle seguenti direzioni:
-         per tutti i soggetti bisognosi, l’offerta di case sociali a canoni adeguati, affiancata   - in mancanza ed in attesa di una casa sociale – da un congruo e permanente contributo per gli affitti (da integrare con le altre politiche di sostegno al reddito);
-         per tutti gli inquilini, la detraibilità dalle imposte sul reddito delle spese per l’affitto della prima casa, fino ad una soglia pari al “minimo vitale” ed equivalente con la fascia di esenzione dalla TASI per i proprietari (tale detraibilità, per la nota legge del “contrasto fiscale”, dovrebbe anche aiutare a far emergere gli affitti “in nero”);
-         per i redditi da locazione di abitazioni, la cosiddetta ‘cedolare’ (cioè una percentuale fissa, indipendente dall’aliquota marginale sul reddito del proprietario), ma limitata al “canone concordato”, con tassazione normale della quota dei canoni eccedenti;
-         per i residenti in alloggi di proprietà, la completa de-tassazione delle transazioni relative alla prima casa, e la conferma della TASI oltre il “minimo vitale”;
-         per gli acquirenti di abitazioni gravati da mutui divenuti temporaneamente o definitivamente insostenibili, la garanzia di permanenza nell’abitazione, con formule differenziate, dal congelamento del mutuo alla conversione definitiva in locazione;
-         per gli immobili sfitti e inutilizzati, la conferma e l’inasprimento di tassazioni più elevate, crescenti progressivamente con il protrarsi del mancato utilizzo (ai sensi dell’art. 42 della Costituzione, vedi ragionamenti di Paolo Maddalena) affiancata anche da incentivi alla vendita di tali alloggi a prezzi calmierati alle Agenzie Pubbliche (come sperimentato in Veneto);
-         sperimentazione di interventi degli ex-IACP per favorire traslochi temporanei e scambi di alloggi in funzione dei trasferimenti per lavoro.

Limitati ritocchi all’insù, ma in senso progressivo (nel tempo ed in relazione alle consistenze patrimoniali), della TASI-IMU e dell’IRPEF sulle case non usufruite dai proprietari (e loro parenti stretti, e trattando in modo specifico le case di origine degli emigrati), potrebbero bastare per compensare le maggiori spese derivanti dagli altri punti della proposta, ad eccezione del primo (offerta di case sociali e sostegno ai costi di affitto), che richiede invece un rilevante impegno sia del bilancio statale che delle risorse ed iniziative a livello locale, ma che potrebbe forse giocarsi internamente alla tassazione sul  settore immobiliare, includendovi le aree edificabili (tema che sviluppo altrove).



RENZI, LA PRIMA CASA E L’ULTIMO SONDAGGIO

Ammesso che il Governo nei prossimi anni riesca a trovare le risorse per compensare il notevole ribasso delle tasse promesso ieri da Renzi (nell’ordine dei 50 miliardi, circa un quindicesimo delle entrate pubbliche annuali), la trovata di partire da una nuova abolizione delle tasse sulla prima casa, comprese le case belle e grandi delle famiglie benestanti, continua a sembrarmi una grandiosa ingiustizia, anche se a proporla non è più Berlusconi.
La tassa sulla casa va abolita “perché è la tassa più odiata”? Allora poi toccherà alle multe per divieto di sosta? E perché invece non abolire i privilegi dei parlamentari, che sono ancora più odiati (in parte a mio avviso anche ingiustamente)?
Se proprio vuol procedere a filo di sondaggi, Renzi, dopo le amministrative e lo scarso fiuto mostrato sulla scuola (pur producendo una riforma a  mio avviso quasi decente), avrebbe molto di più da guadagnare riformando a fondo il PD (non solo a Roma), tema su cui ha rigorosamente taciuto all’assemblea nazionale di ieri.

Tentando invece di parlare di un serio programma riformista, meglio se costruito attraverso effettive consultazioni (alle ultime primarie la mozione Renzi promettendo sul fisco solo semplicità e – per l’appunto – consultazioni, che poi nessuno ha visto svolgere; e nessuna abolizione di tasse sulla prima casa dei ricchi) secondo me  sulla casa bisognerebbe preoccuparsi innanzitutto di assicurare una casa a chi non ce l’ha (sfrattati, migranti, giovani coppie) e non di esonerare dal fisco chi una casa già ce l’ha, e magari anche abbondante.
Sul tema sono già intervenuto più volte e rimando ad un nuovo Post con una sintesi aggiornata delle mie riflessioni su DIRITTO ALLA CASA E FISCO.

Un PD che non vuole essere il “partito delle tasse” non mi attrae per nulla; mi interessano forze politiche che si battano soprattutto per il diritto alla casa, al lavoro, alla salute: possibilmente per tutti.

(Comunque la TASI in famiglia ci costa circa 120 € l’anno e francamente ci fa soffrire molto meno dell’IRPEF, che si vede solo guardando dentro ai cedolini, ma pesa forse 100 volte di più).



E' "EUROPEO" AUMENTARE IN GRECIA LE "TASSE SUL MACINATO"?

Non è facile valutare l’esito (provvisorio) della crisi greca, dopo il referendum che ha respinto l’accordo-capestro imposto dai creditori e la successiva trattativa con cui Tsipras ha accettato un nuovo accordo (meno capestro?), però senza sottoporlo a nuovo referendum.

Quanto sia valido l’accordo del 13 luglio per salvare la Grecia nell’Euro e l’Euro stesso, dipende da molti fattori, tra cui forse decisiva è la parte di trattativa ancora da svolgere sull’ipotesi di alleggerimento strutturale del debito greco, formulata anche da BCE e FMI, ma evidentemente sgradita al Governo Tedesco&C.

Nel merito dei provvedimenti imposti alla Grecia, sulla cui efficacia o nocività gli esperti mi sembrano divisi (perché scelte astrattamente ragionevoli possono avere effetti depressivi in una fase di prolungato stress economico e sociale) , la mia impressione, leggendo i giornali, è che alcune decisioni appaiono di puro buon senso (e stupisce non siano state assunte prima, dall’indipendenza dell’istituto di statistica ad un graduale allungamento dell’età pensionabile), mentre altre proprio non le capisco, e mi sembrano ingiuste ed inaccettabili: tra queste l’aumento dell’IVA sui generi alimentari di prima necessità, in un paese dove orami la povertà è assai diffusa (generi alimentari che intanto continuano ad avere IVA agevolata in Italia ed in molti altri paesi d’Europa).

Nel contempo mi rimangono oscuri  i contenuti del “piano B” che avrebbe voluto sviluppare Varoufakis: uscire dall’Euro? metter mano alle riserve della banca nazionale greca? Scelte di rottura alquanto avventuriste che non sembrano godere di una vasta base sociale e che – se ci fosse stato un vero consenso per un “economia di guerra” (più dura dell’attuale razionamento bancario) –  potevano forse avere un qualche successo se applicate all’improvviso dopo le elezioni e molto meno dopo aver lasciato  degenerare i conti pubblici (e fuggire i capitali) durante diversi mesi di trattative ed incertezze.


Incertezze che anche Tsipras non ha risparmiato al popolo greco ed ai suoi tignosi interlocutori; però, svoltando verso un accordo che abbandona molte promesse elettorali, sembra aver acquistato una nuova credibilità come miglior difensore possibile degli interessi nazionali: vedremo come riuscirà a gestirla.

domenica 5 luglio 2015

REFERENDUM GRECO, PRIMA DELLO SPOGLIO

Non ho osato scrivere nulla, finora, su questa drammatica crisi greca ed europea, già largamente scandagliata da tutti i commentatori, dai quali però non ho capito bene come andrà a finire da stasera, perché mi pare rimangano troppe incognite sugli effetti del referendum voluto da Tsipras, per ambedue i possibili risultati.
Una scelta, tra Si e No, solo apparentemente binaria per  i malcapitati elettori greci:
-          il Si alle richieste dell’ex-Troika non apre la strada ad un accordo, perché il governo ne uscirebbe delegittimato e perché le “riforme” (in parte ragionevoli ed in parte ancora capziosamente repressive) , in quanto imposte dall’esterno ad un paese riottoso, non assicurano comunque un tranquillo superamento delle difficoltà (come non è stato per le ricette in precedenza imposte ai predecessori di Tsipras);
-          il No perché esprime un chiaro malcontento verso QUESTA Europa, ma non un altrettanto chiaro esito negoziale verso un miglior accordo di salvezza della Grecia entro l’Euro, né tanto meno di felice ritorno della Dracma.
Per questo, a urne ancora aperte, intendo soffermarmi invece su alcuni aspetti collaterali della vicenda, sul tema “democrazia”.

DEMOCRAZIA ED EUROPA: da parte di alcuni critici da sinistra a QUESTA Europa, si sottolineava anche (in sintonia con i meno credibili populisti di destra) la carenza di rappresentatività delle figure istituzionali al vertice europeo (e del Fondo Monetario Internazionale) in quanto non eletti dal popolo.  Convengo che in una futura auspicabile riforma delle istituzioni Europee (se l’Europa sopravviverà a questo tipo di crisi), potrebbero avere più potere il Parlamento e gli elettori e meno i governi nazionali e gli organismi amministrativi, però il punto centrale oggi mi sembra un altro, e cioè che da un insieme di istituzioni nazionali e sovranazionali, legittimamente elette e nominate  nei  singoli stati e in accordo tra tali legittimi governi, la politica che ne esce è QUESTA, a forte ed indelebile egemonia di un pensiero unico neo-liberista, debolmente corretto da componenti socialiste del tutto scoordinate e subalterne, ed insidiato da corpose alternative nazional-populiste e solo da vaghe speranze di nuova sinistra.
Il ragionier Padoan cerca di rassicurarci su un Italia al sicuro dai contraccolpi (spero sia vero), il dottor Renzi cerca di parlare d’altro, il Partito Socialista Europeo di fatto non esiste.

DEMOCRAZIA GRECA: la validità della linea di Tsipras  cerca nobili radici nella democrazia antica di Pericle e Clistene, e certamente fa piangere l’idea che l’Europa sia disposta a mollare la Grecia per un pugno di Euro (o almeno molti autorevoli esperti sostengono che ci voleva poco per salvarla nel 2010, e che anche ora comunque costerebbe di più il non-salvataggio).
Però quelle prime esperienze democratiche di due millenni e mezzo addietro, viste con gli occhi di oggi, non erano così perfette, alquanto permeate da classismo, sessismo, schiavismo, bellicismo ed imperialismo; e dall’ostracismo, che conferiva all’assemblea poteri assoluti contro le libertà personali.
Una storia da approfondire, a mio avviso, anche per meglio impostare possibili correttivi di democrazia diretta negli attuali sistemi rappresentativi.
Non rientra in questi miglioramenti di ingegneria istituzionale, a mio avviso, il referendum indetto dall’ing. Tsipras, perché, per incompiutezza del suo lavoro di governante, chiama il popolo a pronunciarsi (a sfogarsi?) ma non a decidere (come poteva essere sottoponendo a ratifica o meno un accordo compiuto oppure proponendo esplicitamente l'uscita dall'Euro).

E non mi pare vi rientrino, finora, le trovate propagandistiche sull'Euro del Movimento 5 Stelle, movimento che sull’ostracismo è fondato (espulsioni decise in rete dagli iscritti), oltre che sul potere di fatto indiscusso dei 2 fondatori.