martedì 29 marzo 2016

TRIVELLE - 1

In questi giorni viviamo una angoscia principale, che è quella dell’attacco terroristico all’Europa (nel quadro di una guerra tra Califfato e Resto del Mondo e nell’ambito di altri conflitti bellici in Medio Oriente, in Africa ed anche in Ucraina) e della constatazione della sostanziale impotenza dell’Europa (estesa alla connessa questione dei profughi e migranti).
Sono problemi enormi, su cui ho molto da ascoltare, troppo da capire, e poco da aggiungere alle modeste riflessioni espresse nei mesi scorsi; ed al cui cospetto mi appare quasi frivolo occuparmi di altri argomenti, come il referendum “trivelle”, che pure sono assai seri.
Mentre poco serio mi pare l’approccio di gran parte dei contendenti, per cui ho deciso di provare a formulare qualche contributo di chiarezza.
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Il confronto tra Si e NO+Astenuti sul referendum “trivelle” mi sembra si affidi da troppe parti a bufale ed emozioni, anziché a dati certi e ad argomenti razionali.
Per parte mia, con riserva di tornare su singoli aspetti delle campagne in corso, terrei a sottolineare che il referendum riguarda SOLO la proroga automatica e generalizzata (a decorrere dalla loro futura scadenza contrattuale trentennale, talora già prorogata) fino ad esaurimento dei giacimenti, per le concessioni in atto nelle acque territoriali, cioè entro 12 miglia dalla costa marittima italiana.
In questa scelta, compiuta e ribadita (per motivi a me poco comprensibili*) dal Governo Renzi, che pure ha accettato di vietare ogni futura trivellazione nelle stesse acque territoriali (confermandone quindi in generale la negatività ecologica), sono insiti alcuni aspetti a mio avviso assai preoccupanti:
-          la rinuncia preventiva dello Stato ad una attiva politica energetica relativa a queste specifiche riserve, che seppur modeste, potrebbero divenire strategiche oppure no (per goderne subito, o per tutelarle a futura memoria, o per non estrarle mai più), al concreto momento della scadenza delle concessioni;
-          il pre-vigente criterio delle possibili proroghe risultava assai più consono alla gestione degli interessi nazionali; ciò anche riguardo alla destinazione degli idrocarburi estratti, che oggi di fatto probabilmente arrivano al mercato italiano, ma sono nella piena disponibilità di vendita (a chi più loro convenga) da parte delle compagnie concessionarie: il potenziale rinnovo delle concessioni potrebbe invece avvenire anche a diverse condizioni poste dallo Stato concedente;
-          la dubbia coerenza con le direttive europee, che inducono alla concorrenza tra più soggetti in tutto l’insieme delle concessioni dei beni pubblici (vedi ad esempio spiagge e autostrade, dove l’Italia già rischia procedure di infrazione per le restrizioni alla concorrenza);
-          l’oggettiva incentivazione a condotte scorrette da parte delle imprese concessionarie, che – in particolare in fase di prezzi calanti degli idrocarburi – potrebbero essere tentate di diluire a loro piacimento il ritmo di estrazione, conservando il diritto esclusivo di prelievo per tempi migliori e rinviando nel contempo “sine die” il costo finale di disattivazione degli impianti e ripristino ambientale, cui sono tenute  dai contratti di concessione;
-          il conseguente aumento del rischio di incidenti per obsolescenza e scarsa manutenzione degli impianti.

*L’unico buon motivo che riesco ad intuire nella condotta del Governo (rispetto ad alternative più morbide che erano perseguibili, evitando il referendum) sarebbe quello di precludere alle Regioni l’attuale diritto di veto sul rinnovo delle concessioni: ma è già da tempo in dirittura d’arrivo la riforma costituzionale promossa dal Governo Renzi, che comunque tra pochi mesi dovrebbe togliere questo e diversi altri poteri alle Regioni. Oppure forse il referendum è stato cercato per dare una botta politica all’opinione pubblica verde-ecologista, non abbastanza entusiasta in generale della linea governativa.


mercoledì 16 marzo 2016

L’ULTIMA LEZIONE DI URBANISTICA DI BERNARDO SECCHI: “LA CITTA’ DEI RICCHI E LA CITTA’ DEI POVERI”

RECENSIONE PUBBLICATA SU "URBANISTICA INFORMAZIONI" N° 266   - MARZO/APRILE 2016


“La città dei ricchi e la città dei poveri” di Bernardo Secchi (Laterza, Bari 2013, pagg. 78) è l’ultimo contributo teorico, pubblicato prima della sua scomparsa (settembre 2014), dal grande urbanista, milanese e soprattutto europeo, di cui già ho recensito “La prima lezione di urbanistica” (testo del 2000).
Questa “ultima lezione” del maestro Secchi è un agile volumetto, di lettura assai più facile dei precedenti testi di Secchi (ma denso di stimolanti rimandi bibliografici), che rimette in evidenza le questioni fondamentali nella formazione delle città, come il succedersi di diverse modalità di separazione e segregazione tra i ceti sociali, rispolverando concetti spesso dimenticati dal linguaggio e dalla narrazione prevalente sui media (ma anche nella politica e nelle accademie), quali l’esistenza e la diversità di vita tra i “ricchi” ed i “poveri”.

Secchi riassume in breve l’evoluzione delle città negli ultimi secoli, ed evidenzia il differente percorso tra
-          le città americane (del Nord come del Sud America), in cui è prevalente il semplice rispecchiamento sul territorio della divisione tra le classi, con i crescenti fenomeni di insediamenti recintati, destinati ai più abbienti (ed ai ceti medi ad essi integrati) e preclusi ai meno abbienti, le cui abitazioni, segregate ai margini, sono però necessarie allo svolgimento dei ruoli servili e subalterni all’interno della società ed in particolare degli quartieri esclusivi,  
-          le città europee, nelle quali regge, almeno in apparenza, una lunga storia di integrazione e welfare urbano, minata però da nuove forme di frammentazione e discriminazione, quali da un lato la dispersione dei ceti medi nella “città diffusa” e dall’altro l’isolamento dei singoli gruppi etnici degli immigrati, per lo più nelle porzioni più degradate delle periferie ex-industriali, mentre aleggiano crescenti paure per ogni genere di “insicurezza” (dal terrorismo alla disoccupazione, dalla microcriminalità alla prevaricazione sessuale).

(In questa panoramica mi sembra che Secchi colga la compresenza tra le parti antiche, moderne e “contemporanee” dei fenomeni urbani, superando un certo schematismo che mi ero permesso di rilevare nella “Prima Lezione”).

La riflessione di Secchi, che riconosce un valore tutto sommato positivo all’esperienza “riformista” dell’urbanistica europea del Novecento (pur con tutte le ingenuità e gli errori del Movimento Moderno), è orientata soprattutto allo sforzo necessario per comprendere, e rendere palesi, le nuove linee di frattura e discriminazione sociale nelle situazioni concrete dei tessuti urbani e territoriali, e per adeguare in modo efficace i possibili strumenti di ricucitura (trasporti e percorsi, scuole e servizi, progetti di effettiva urbanità), al fine di restituire “porosità” e permeabilità, fisica e sociale, al caotico coacervo delle metropoli contemporanee, ed in particolare alle periferie.

Il testo – data la sua brevità - si limita ad una descrizione complessiva dei fenomeni ed alla enunciazione dei nuovi orientamenti necessari, senza esemplificarli nel dettaglio, ma suggerendo i percorsi di ricerca da praticare.

La lettura a mio avviso offre conforto postumo a quanti di noi hanno vissuto – politicamente e professionalmente – il tema delle differenziazioni sociali nell’urbanistica dei trascorsi decenni (dai PEEP ai Piani di Recupero nei tessuti degradati, dalla mobilità debole alle moschee), e quindi non lo trovano “nuovo”; però si devono rendere conto che torna ad essere argomento “nuovo” proprio perché troppi altri hanno dimenticato addirittura l’esistenza dei “poveri” (ad esempio, di cosa si sta occupando il design italiano contemporaneo?).

Inoltre Secchi mostra come l’argomento sia comunque oggettivamente “nuovo” per tutti, perché “nuovi” in qualche misura sono sia gli attuali ricchi che gli attuali poveri - anche per la difficoltà di riconoscere gli ultimi quando sono “diversi” (migranti, profughi, islamici, rom…) – e nuove le forme degli insediamenti umani sul territorio.


PRIMARIE E ALTRI ACCIDENTI

La vicenda delle primarie del PD per le comunali ha evidenziato diversi fattori di crisi, relativi sia al metodo delle stesse primarie (per come concretamente praticate), sia allo stato di salute del Partito Democratico e delle sue componenti (il tutto ben analizzato nei giorni scorsi da molti commentatori ed in particolare dal vecchio ma sempre valido Alfredo Reichlin).
Si può infatti constatare che il Renzismo non si è sviluppato moltiplicando nei territori schiere di giovani “rottamatori”, ma piuttosto raccogliendo “notabili di mezza età” (Paita, Orfini, Valente) oppure puntando su singoli nomi, considerati vincenti (o meno perdenti) come Sala e Giachetti; la sinistra del PD non ha espresso alle primarie nessuna seria alternativa (a Roma ha appoggiato Morassut, di ascendenze veltroniane, a Milano Majorino e Balzani si sono brillantemente neutralizzati a vicenda).
Il dibattito interno, inoltre, per come è apparso sui media, risulta alquanto asfittico, con la maggioranza che tende a ignorare i problemi delle primarie (minor affluenza, scorrettezze lievi e pesanti) e del partito (nessuno ha ancora capito quale idea di partito abbia Renzi, tranne che comunque non deve disturbare il governo ela sua leadership), affidandosi a battute più o meno penose (spicca Orfini, che ha attribuito la minor affluenza ai seggi romani alla emarginazione dei “voti cammellati”) e con la minoranza che è risultata rappresentata da Bersani (secondo cui Renzi governa ora con i “suoi” voti, mentre in realtà mi sembra che governi Renzi proprio  per i voti che Bersani era riuscito a perdere nel 2013 in favore di Monti e di Grillo)  e addirittura da D’Alema, la cui credibilità come “alternativa di sinistra” non merita a mio avviso ulteriori commenti.
Per sapere cosa d’altro nel merito si siano detti gli oppositori interni a Renzi, nel convegno di Perugia (senza sorbirmi gli interventi in differita pur gentilmente ospitati su Unità-TV) ho dovuto cercare sulla pagina face-book di Gianni Cuperlo, dove ho trovato un appello, come sempre ben scritto, ed anche ragionevole nei contenuti  (riconoscimento di alcuni meriti di Renzi; conferma delle critiche alle svirgolate di destra del suo governo; legittimazione del dissenso interno come risorsa utile alla effettiva vita del partito; richiamo alla necessità di un dibattito serio, dentro e fuori al PD, per affrontare in modo adeguato la crisi sociale e politica dell’Europa; ecc.): ma se questi temi e toni non emergono, sovrastati dalle battute estemporanee dei vecchi ex-leaders, ci deve essere una ragione, che la sinistra dem dovrebbe sforzarsi di comprendere, prima di lanciare la candidatura di Speranza alla segreteria del PD (magari in concorrenza con Enrico Rossi, per ripetere gli autogol delle coppie Cuperlo-Civati e Majorino-Balzani).
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Nel frattempo fuori dal PD è peggio che mai:
-          A sinistra si sbraita o si balbetta, oppure ci si auto-candida qua e là per meglio esercitare vocazioni minoritarie;
-          A destra (non so se ci riguarda, forse sì?) il tramonto di Berlusconi assume aspetti tragi-comici (vedi Bertolaso/Salvini/Meloni, con contorno di Storace e Marchini);

-          A “né di destra né di sinistra” (ovvero MoVimento 5Stelle) si scopre che non sempre “uno vale uno”, soprattutto se “casalinga” e poco telegenica come Patrizia Bedori: nei curricula per le comunarie sarà pregiudiziale la “bella presenza”.

mercoledì 9 marzo 2016

5 STELLE: REFERENDUM ABDICATIVI?

La complessa vicenda dello scontro parlamentare al Senato sulla legge Cirinnà per il riconoscimento delle “Unioni civili” è stata ampiamente commentata ed interpretata, ma vorrei aggiungere una notazione specifica sulla trasformazione del MoVimento 5 Stelle riguardo alla sovranità dei Cittadini.

Fino a ieri il M5S ha teso ad identificare dinamicamente come una sola cosa (con pericolose vocazioni totalitarie):
-          se stesso (cioè i detentori del marchio, Grillo&Casaleggio),
-          i “cittadini-in-rete” (cioè alcune migliaia di aderenti iscritti a votare nelle consultazioni interne)
-          gli eletti nelle istituzioni, immaginati come puri porta-voce dei “cittadini-in-rete”.
-          l’intero elettorato (progressivamente liberato dall’oscurantismo partitico che fa velo alla verità “della rete”: in particolare ipotizzando strumenti quali i referendum propositivi, nascenti dall’iniziativa del M5S stesso; come ad esempio la fallimentare e fallita campagna contro l’Euro).

Non a caso senza nessuna analisi né sociale né antropologica sulle pur evidenti ed enormi “sacche di resistenza” che impediscono a larga parte degli altri cittadini a convertirsi velocemente alla suddetta verità, rimanendo succubi della perfidia della “casta”.

L’opportunismo elettoralistico mostrato con chiarezza dal M5S sul delicato particolare della adozione del figliastro da parte di copie omosessuali (in ispecie se maschili), escludendo una specifica consultazione dei “cittadini in rete” (e riferendosi probabilmente ai sondaggi sugli umori dell’elettore “medio”), ha portato il cauto Di Maio ad invocare anche la devoluzione della specifica decisione ad un referendum “normale” (non si sa in base a quale norma, essendo ora possibili solo i referendum abrogativi), senza alcun  ruolo propositivo nel merito da parte del M5S.

Mi pare importante sottolineare tale desiderio di un referendum consultivo tra tutti gli elettori, dopo aver scavalcato la consultazione tra i propri militanti, come parziale abdicazione al proprio ruolo di avanguardia e parziale sconfessione della pretesa totalitaria di identificazione tra M5S, “rete” e “tutti i cittadini”.
Non so se sia una evoluzione verso il principio di realtà od una involuzione verso il puro elettoralismo, ma ho comunque l’impressione che se al M5S si toglie la retorica della Rete, poco altro avendo approntato, rischia di cadere nel banale.

Anche Bertoldo, che usa una rete per sfuggire al dilemma nudo/vestito, senza Rete rimane nudo come un qualunque Re.

APPLE CONTRO F.B.I.

Nello scontro tra Apple (spalleggiata da gran parte delle altre multinazionali del settore) e FBI sulla decodificazione dello Smartphone dell’attentatore stragista in California, al di là degli aspetti tecnici, mi pare sia in gioco alla radice la questione della sovranità degli stati nazionali rispetto al potere delle Imprese, che in questo caso si propongono all’opinione pubblica internazionale come le vere garanti dei diritti degli individui (mentre di sovente li trascurano ampiamente, siano essi clienti o lavoratori, impegnandosi parecchio invece per tutelare privilegi ed evasioni fiscali contro i singoli stati).

Non intendo trascurare la pericolosità dei poteri polizieschi degli stati, ovviamente crescenti a fronte di precise minacce terroristiche: ma la difesa delle libertà personali preferirei affidarla alla dialettica costituzionale, con i contrappesi vecchi e nuovi della magistratura e della stampa, dei partiti e dei sindacati, dei movimenti e della rete (intesa come cittadini-utenti).

Anche le Imprese naturalmente hanno un pesante ruolo in queste dinamiche (ed è “naturale”, anzi ineliminabile che mirino comunque a garantire i propri profitti): mi pare però inaccettabile che si rafforzi una loro intangibile extraterritorialità, di sapore medioevale, al di sopra dei “poveri” stati nazionali (inclusa la grande potenza statunitense), e che gli stessi USA tendono a imporre all’Europa con la bozza del trattato commerciale Nord-Atlantico (TTIP), che permetterebbe alle multinazionali di aprire vertenze giudiziarie contro i singoli (altri) stati nei “fori” a loro più convenienti contro le leggi “restrittive” delle “libertà di mercato” (come quella di inquinare l’aria con gli scarichi VolksWagen, ad esempio ?).


E comunque la cultura occidentale, che ha inventato il segreto della corrispondenza, ha anche sempre riservato alla autorità giudiziaria la potestà di violarla, entro limiti pre-definiti, in danno ai sospettati di atti criminosi,  sia al tempo delle diligenze che in quella della telefonia (le intercettazioni dispiacciono soprattutto alle mafie, ed a Berlusconi): dovrebbe ora arrendersi solo perché la “corrispondenza”  è divenuta tecnologicamente più complicata? Oppure perché le Imprese si fanno scudo propagandistico dei loro clienti (salvo magari tradirli in accordi segreti con i segreti servizi degli stessi stati occidentali, oppure accettando indicibili compromessi con i regimi autoritari)?