venerdì 15 dicembre 2017

E NON ANCHE "FRATERNI"?


Sul nome e sul simbolo della nuova formazione politica di sinistra di ”Liberi e UGUALI” si è ampiamente discettato con riguardo al genere maschile degli aggettivi, alla volatilità delle “foglioline” che alludono ad una “e” (congiunzione oppure tendenziale desinenza femminile?), sulla tonalità di rosso “amaranto”, sulla (scarsa) qualità grafica (perché Liberi e UGUALI e non LIBERI E UGUALI, oppure Liberi e Uguali, oppure ancora lIBERI e uGUALI, ecc.?) e sulla somiglianza con il logo di Emergency.

Vorrei invece richiamare l’attenzione sull’assenza della FRATERNITE’ che nell’origine illuminista/giacobina (e poi nella distorsione massonica, dove la fratellanza finisce per includere solo gli appartenenti alle logge) affiancava la LIBERTE’ e l’EGALITE’.



Stefano Rodotà in “SOLIDARIETA’. UTOPIA NECESSARIA” del 2014 ben spiegava l’eclissi storica della Fraternitè nel periodo post-giacobino, sostituita della borghese “proprieté” del codice civile napoleonico; ed anche l’attuale necessità e possibilità dei valori solidaristici, preferendo però la parola “solidarietà” a quella di “fraternità” (vedi nella PAGINA "ULTERIORI LETTURE" la mia recensione del testo di Rodotà) .



Nel secolo 21°, però, l’omissione della fraternità/solidarietà (o comunque la scelta di privilegiare gli altri 2 vertici del triangolo settecentesco) merita a mio avviso qualche approfondimento.



Capisco che si faccia fatica a sentirsi fraterni con Renzi ed i Renziani, da cui puoi aspettarti rottamazioni, “ciaoni”, epiteti di “gufo” o rinfacciamenti percentuali (“siete quelli del 25%” prima, quando era in voga il 40% europeo, “quelli del 7%” ora, che la postazione al 25 se la sono occupata loro…).

In tal modo però si manca totalmente di solidarietà anche verso i numerosi elettori del PD e del centro-sinistra che sarebbero tutt’ora “bramosi di unità” (e perciò almeno “desiderosi di desistenze”, perché abituati a considerare come avversari (oggi quanto mai temibili) i vari Berlusconi, Salvini, DiMaio&Grillo&Casaleggio, e non gli altri pezzi dello stesso centro-sinistra.



Ma, più seriamente, mi chiedo se tale orientamento non sia una spia di aspetti più profondi e più gravi, nella irresistibile crisi (planetaria?) della sinistra:

-          ammiccamento o accodamento alla propaganda ideologica del MoVimento 5 Stelle, che ha sempre e solo parlato di “cittadini”, senza uno straccio di analisi sociale (né della società né dello stesso MoVimento: in basso ci stanno i cittadini, che si “uniscono in rete”, in alto casta&banche…), trascurando volutamente i valori solidaristici, soprattutto verso chi (ancora) non è “cittadino”, come “ad esempio” i migranti, e avversando quindi lo “ius soli”, che estenderebbe i benefici dell’ipotetico “reddito di cittadinanza” a chi non ha fatto la fatica di nascere da genitori italiani (con un certa assonanza con le Destre che reclamano “prima gli italiani”); l’ipotetico “reddito” è presentato come un “diritto”, avulso dai rapporti solidali della società, dove potrebbe pericolosamente mischiarsi, sempre “ad esempio”, con i doveri; doveri giustamente presenti, a mio avviso in  alcuni elementi della proposta del PD, seppur renziano, quali il servizio civile obbligatorio – forse un mese è poco – e l’alternanza scuola-lavoro, non solo per il suo concreto funzionamento o spesso dis-funzionamento formativo/professionalizzante (aspetto che comunque apre importanti contraddizioni), ma per le sue valenze di apertura mentale, attraverso esperienze vissute, sulla realtà extrascolastica e sul lavoro, almeno quello altrui;

-          abbandono ufficiale delle tematiche fraterne e solidali in favore del mondo cattolico, come esito di un processo di burocratizzazione e di allontanamento dai bisogni quotidiani delle persone, che ha contrassegnato l’involuzione degli organismi partitici, sindacali e cooperativi della sinistra storica negli ultimi decenni (quante Case del Popolo chiuse o abbandonate? Quanti Circoli operai conquistati dalla Lega? Quante sedi sindacali ridotte a patronati per problemi “individuali”? Quante Cooperative senza alcuna cooperazione?) Questa involuzione generale non esclude il generoso attivismo di singoli, di gruppi di militanti e di alcune associazioni laiche di volontariato (basti citare Emergency), spesso in collaborazione sul campo con le suddette forze cattoliche: ma la deriva del (fu) popolo di sinistra è evidente (ed il renzismo ne è uno degli effetti e non certo la causa). Ho l’impressione che lo schieramento di Liberi e UGUALI, per come finora si presenta, vada a confermarla piuttosto che a contrastarla;

-          di fraternità e solidarietà c’è un gran bisogno, a mio avviso, su scala globale, sia per le responsabilità comuni del genere umano verso le ferite inferte dall’industrialismo alla MADRE TERRA (che – purtroppo – sa vendicarsi), sia nei confronti dei più poveri del mondo, che sono i poveri dei paesi poveri: ai quali che si voglia essere “liberi ed uguali (tra di noi…)” importa fino ad un certo punto, se non traduciamo le nostre politiche in una seria inversione di tendenza sull’uso delle risorse, sui prezzi dei prodotti agricoli e delle altre materie prime, sulle clausole sociali per i prodotti di importazione, sulla crescente concentrazione delle ricchezze finanziarie; temi che vedo trattati da Papa Francesco o da Carlin Petrini, ma sostanzialmente  assenti da quasi tutti i programmi elettorali in via di definizione, se non per qualche richiamo rituale, oppure per l’esorcismo anti-migranti “aiutiamoli a casa loro”.

domenica 3 dicembre 2017

TRE RIFLESSIONI DI FINE NOVEMBRE


ROSATELLUM 4 - EUROPA

Riallacciandomi alle considerazioni che ho formulato di recente a partire dall’approvazione della nuova legge elettorale per il Parlamento italiano (“Rosatellum”), mi avventuro ad allargare la riflessione a scala europea, alla luce delle difficoltà di formazione del nuovo governo in Germania, precedute da analoghe difficoltà in altri stati con leggi elettorali proporzionali (Olanda e in precedenza Belgio) o moderatamente maggioritarie (Spagna, Grecia); ed anche nella patria del maggioritario uninominale a turno unico, la Gran Bretagna, dove il condizionamento di un gruppo minore (gli unionisti nord-irlandesi) è risultato più difficile e costoso per la quasi-maggioranza conservatrice, rispetto ad analoghi casi precedenti.

Sullo sfondo stanno i noti processi di rimbalzo della globalizzazione (e del finanz-capitalismo, e delle ondate migratorie) sui sistemi politici nazionali dell’Occidente, con il declino dei tradizionali schieramenti di centro-destra e (soprattutto) di centro-sinistra, l’emergere di nuovi populismi e l’inasprimento dei localismi, prima più moderati o latenti, mentre aumentano l’astensionismo e la sfiducia nelle istituzioni.

L’insieme si configura anche come una crisi della stessa democrazia rappresentativa, come l’abbiamo conosciuta nel secolo scorso, quale strumento di controllo sulle élites e di rinnovo delle stesse (cioè la forma più avanzata di distribuzione del potere finora sperimentata alla dimensione dei grandi stati moderni, fondata non solo sulle elezioni a suffragio universale, ma anche sulla divisione dei poteri e sull’autonomia della magistratura, e contestualmente su importanti forme di partecipazione popolare attraverso partiti, sindacati e movimenti).

Senza la pretesa di approfondire qui ed ora le ampie implicazioni di questa crisi con le problematiche antropologiche e sociologiche sottese, vorrei solo richiamare l’attenzione sulla diversità del caso francese, dove la vittoria di Macron, sia alle presidenziali che alle legislative, non ha certo superato le criticità del sistema politico (infatti né Macron ha finora catalizzato uno stabile consenso, né pare avviata una effettiva ristrutturazione delle forze politiche), però ha tenuto in qualche misura le “istituzioni” al riparo da tali criticità, trovando comunque legittimazione nel voto popolare (voto che avrebbe potuto anche premiare la Le Pen o Melenchon, ma – per l’appunto – solo con piena responsabilizzazione in tal senso degli elettori, attraverso 2 elezioni a doppio turno).

Le difficoltà sulla strada del 4° governo Merkel, con probabilità di alleanze forzate tra soggetti politici che allearsi non vorrebbero (sia nel primo tentativo con Verdi e Liberali, sia ora nel probabile ritorno dei Socialdemocratici alla “Grosse Koalition”), mostra a mio avviso la superiorità pratica dei sistemi elettorali a doppio turno con ballottaggio, dove le alleanze – magari in parte comunque obbligate dagli esiti del primo turno – devono essere sancite sia dai partiti che dagli elettori (come da noi avviene per i Comuni, e non sarebbe avvenuto con l’Italicum, che nella sua ultima versione, anche per questo incostituzionale, escludeva le alleanze dopo il primo turno).

  

C’E’ QUALCOSA DI NUOVO A SINISTRA, ANZI D’ANTICO…

Con la sinistra che tenta in questi gironi di riunirsi (candidando forse Pietro Grasso come aspirante premier, altrimenti immagino acute difficoltà nell’individuare una leadership) immagino di trovare ampie consonanze programmatiche (lavoro, sanità, fisco/bonus, investimenti pubblici) più che culturali (ecologismo superficiale, neo-keynesismo a-crititico verso l’accumulo del debito, proporzionalismo, nostalgie varie; non che nel PD ci sia di meglio: dopo che Barca si è defilato, restano Cuperlo e pochi altri pensatori pensanti).

Ma mi dissocio a-priori dal minoritarismo e dal settarismo anti-renziano, che mi pare costituiscano il cemento sostanziale della fusione in atto tra MDP, Possibile e Sinistra Italiana:

-          Il minoritarismo consiste nel privilegiare lo sbandieramento dei valori rispetto alla ricerca della strada più efficace per conseguirli, e nel conseguente accontentarsi di quel 10% che i sondaggi più benevoli possono oggi accreditare alla nuova aggregazione, senza la voglia e la capacità di conquistare la maggioranza dei consensi (se non in un ipotetico domani, sulle ceneri del PD e dell’intero centro-sinistra) o almeno la maggioranza relativa in una alleanza competitiva/conflittuale con il PD Renziano (cioè la convinzione subalterna che il maledetto Renzi li supererebbe in siffatta alleanza, come li ha battuti in primarie e congressi, e quindi bisogna tutti perire perché finalmente anche Renzi – politicamente – perisca)

-           

-          il settarismo sta nella equidistanza verso gli altri soggetti in campo, PD&(pochi)soci, Centro-Destra di Berlusconi-Salvini-Meloni (non di Merkel o Monti, per capirsi), M5Stelle (che forse la nuova sinistra pensa di agganciare o peggio riverire); orbene non amo Renzi, ma vorrei proprio scampare all’alternativa tra Salvini (+Berlusconi) e Di Maio (+Casaleggio).    

Poiché un salvifico ritiro di Renzi è improbabile (non lo ha fatto nemmeno quando se lo era suggerito da solo, dopo la sberla del referendum), mi è lecito auspicare tra sinistra e PD almeno un patto di desistenza nei collegi (come nel 1996), per non regalarli ai veri antagonisti, cioè Destra e M5Stelle?



RIFORMISMO, MASSIMALISMO E UTOPIA

Il noto psicologo Recalcati su Repubblica del 28-11-17 invita la sinistra a ri-leggere Turati contro lo scissionismo settario del nascente partito Comunista (1921) e profeticamente sugli esiti della rivoluzione sovietica, nonché ad elaborare finalmente il lutto per la caduta dei miti novecenteschi, da Gramsci alla Resistenza, che alimentano un massimalismo conservatore, ostile alla concretezza del riformismo possibile.

Invita anche a individuare, con Renzi, in Obama la sinistra di oggi.

In questa dissertazione, alquanto professionale riguardo alla salute mentale della sinistra (ma esente da attenzione alla salute mentale di larga parte della popolazione immersa nelle trasformazioni sociali connesse alla globalizzazione), Recalcati giustamente invita ad elaborare proposte politiche a partire dai problemi attuali.

Esclude però il ricorso all’utopia, che identifica con il passatismo della sinistra nostalgica.

Sul che dissento nettamente, perché il tramonto del “socialismo reale” e la necessaria approfondita riflessione su tal tramonto (e sulle ingombrati macerie che ha lasciato, da Putin alle tendenze ora egemoni negli ex-satelliti dell’URSS) non escludono, ma anzi implicano una ricerca radicale e senza pregiudizi sulle contraddizioni del mondo di oggi, che mi pare sia modernamente capitalista, ma non per questo necessariamente tale per sempre.

Il massimalismo è improduttivo, ma di riformismo non ce n’è uno solo: senza le utopie di Cesare Beccaria o di Maria Montessori, di Gandhi o Martin Luther King, che riformismo avremmo oggi?
Sperando di sopravvivere a Trump, non credo ci sia solo Obama nei nostri orizzonti: penso ad esempio a  Carlin Petrini, a Pepe Mujica, a Papa Francesco...

UTOPIA21 - NOVEMBRE 2017 - SOPRALLUOGHI: PARIS, DEFENSE



Iniziamo da questo numero una nuova rubrica con brevi impressioni di viaggio, in luoghi più o meno noti e più o meno remoti, dove  l’occhio degli autori in qualche misura è ancorato ai temi della sostenibilità: in questo articolo un racconto sul quartiere direzionale della Défense ad Ovest di Parigi


NB: PER LE IMMAGINI VAI AL SITO DI UTOPIA21 www.universauser.it 


Una mattina estiva, soleggiata e rinfrescata da una brezza da Ponente, in simpatica compagnia, mi ha fatto apprezzare parecchio, come turista, l’insediamento parigino della Défense.

Cosa c’è di sostenibile in un distretto d’affari ad altissima concentrazione e di grattacieli in vetro-acciaio-cemento ed appoggiato su una piastra piena di auto parcheggiate oppure in transito lungo autostrade sotterranee?

(Alle sue origini ancor meno sostenibile nelle costruzioni introverse e fortemente energivore, a causa di tutti gli impianti di climatizzazione, illuminazione, ascensori, tanto da determinare dopo la “crisi petrolifera” del 1973 una “pausa di riflessione”, seguita da una qualche correzione di rotta sia per i grattacieli successivi, sia per la riqualificazione di buona parte di quelli preesistenti).



In assoluto probabilmente poco, perché è facile contestare la stessa opportunità delle forti concentrazioni di capitali sottese alle competizioni in altezza e prestigio delle varie torri per uffici, la connessa divisione sperequata dei lavori e dei redditi, la totale impermeabilizzazione del suolo per la dimensione di un intero quartiere, la eccessiva presenza delle automobili (su tutto l’asse degli Champes Elisèe, per altro)



Ma in termini relativi alcune scelte si possono apprezzare (ammesso e non concesso che esistano le multinazionali, le metropoli, gli edifici a torre, i centri commerciali ed i distretti di affari):

-          l’alta densità edilizia è funzione inversa al consumo fisico del suolo,

-          la forte offerta di trasporto pubblico (a fianco della motorizzazione privata, già sopra vituperata), diffusa in tutta la metropoli parigina, ma qui super-addensata, con l’incrocio tra una linea ferroviaria sub-urbana, la super metropolitana “RER” e 2 fermate del Metro, il tutto con stazioni sotterranee integrate in percorsi fortemente vivacizzati da vari tipi di offerte commerciali,

-          la pedonalizzazione di tutto il quartiere, con arredo urbano di qualità, integrato con sculture e giardini e fontane con acqua trasparente (diversamente da quella giallastra delle più famose vasche della Parigi storica, dalle Tuileries ai giardini del Palais de Luxembourg; ma anche quella piuttosto putrida del bacino della Villette, ovvero l’acqua della Senna quando ristagna),

-          il tentativo di intreccio tra funzioni diverse, che affianca ai palazzi per uffici e sedi universitarie due centri commerciali e qualche isolato residenziale (non troppo alti: al massimo 12 piani, con morfologia a corte, chiusa od aperta) con esercizi commerciali e di ristoro ai piani terra (il che fa pensare ad un discreta vitalità degli spazi pubblici in diversi orari); nonché appena fuori dalla piattaforma a nord-ovest, ai piedi dell’Arche, un grande centro sportivo (in ristrutturazione) ma anche 2 vecchi cimiteri di quartiere, ricchi di vegetazione,

-          una embrionale attenzione al risparmio energetico nelle costruzioni e ristrutturazioni più recenti.

  

Resta da parlare dell’architettura, dove la gara tra le archi-star a firmare le soluzioni di facciate più eccentriche (a parità di struttura definita da ingegneri e promotori immobiliari) come sempre poco mi commuove, ma che qui, nel ridondante eccesso delle proposte che si affastellano, appare comunque dominata dall’urbanistica, cioè dal disegno urbano degli spazi pubblici e dei percorsi, anche in assenza di una disciplina stringente sulle disposizioni planivolumetriche – e tantomeno stilistiche - dei singoli elementi (non è l’Antigone di Bofill a di Montpellier, né la Bicocca di Gregotti a Milano).



Audace e prestigiosa davvero l’Arche, in quanto elemento centrale ed assiale (anche se l’allineamento con Place de la Concorde e con l’Arc de Triomphe risulta piuttosto astratto, roba da cannocchiali, oppure da cartografi); divertente mangiare un panino all’ombra, sulle gradinate, in mezzo ad impiegati, altri turisti, giovani che fanno musica.



Una gran bella mattinata, per quanto mi riguarda.

(Ripensata da qui, l’area milanese di Porta Nuova/Garibaldi/Piazza Aulenti, seppur anch’essa vivace, appare davvero un po’ casuale ed abborracciata: provinciale non perché più piccola, ma perché povera di un vero progetto unitario).

UTOPIA 21 - NOVEMBRE 2017 - BREVE: AGGIORNAMENTO SU “CASA ITALIA”.


Sperimentiamo con questo articolo un nuovo formato, destinato ad aggiornare in breve su temi trattati più a fondo in precedenti articoli.


RIASSUNTO: le conclusioni del gruppo di lavoro “Casa-Italia” su modi e costi della prevenzione sismica, dai monitoraggi ai recuperi effettivi, con fabbisogno finale da 36 a 850 miliardi di € – le sperimentazioni di Renzo Piano – le scarse tracce nella ‘legge di stabilità 2018’ (e la campagna elettorale che si apre)

Un anno dopo i terremoti di agosto ed ottobre 2016 nelle regioni centrali appenniniche, mentre molto si parla, giustamente, degli interventi di ri-alloggiamento e rimozione macerie, e dei relativi ritardi e carenze, nella difficile prospettiva della ricostruzione, è calato un notevole silenzio sul più ampio e ancor più complesso tema della prevenzione sismica, lanciato mediaticamente lo scorso anno dal governo Renzi sotto il titolo “Casa-Italia” (vedi mio articolo sul primo numero di UTOPIA21, ottobre 20161).

Che fine ha fatto il gruppo di lavoro coordinato dal Rettore del Politecnico di Milano Azzone e con il patrocinio del senatore arch. Renzo Piano?

Nella disattenzione del mondo politico e della stampa generalista (e quindi della maggior parte dell’opinione pubblica), notizie esaurienti sono emerse solo da un rapporto ufficiale, reso noto mi pare solo da “Il Sole-24 ore” in data 22-08-172, curiosamente proprio mentre il “micro-sisma” di Ischia-Casamicciola riapriva il consueto dibattito sulla mancanza di prevenzione, aggravato nel caso concreto dal sospetto di un vasto abusivismo edilizio (con l’evidenza del dilemma se anche i danni per terremoto relativi ai fabbricati e/o ampliamenti irregolari debbano essere o meno rimborsati dallo Stato).

Secondo il testo pubblicato su “Il Sole-24 ore” (che di seguito riassumo e/o riporto) la squadra di Azzone ha concluso positivamente il suo compito esplorativo (ed infatti si estingue passando il testimone ad una nascente struttura ministeriale), “la messa in sicurezza sismica dell’Italia ha un costo che oscilla da un minimo di 36,8 miliardi e può arrivare a oltre 850 miliardi, a seconda della tipologia costruttiva degli edifici e della classe di rischio del comuni in cui sono stati costruiti.”

“Il costo ‘minimo’ di 36,8 miliardi si riferisce alla diagnosi condotta sui soli edifici realizzati in muratura portante e che si trovano nei 648 comuni a maggior rischio sismico.”  

Inoltre “applicare il ‘sisma-bonus’ ai soli edifici in muratura portante che si trovano nei 648 comuni più pericolosi richiederebbe allo Stato un costo di quasi 25 miliardi di euro «sotto forma di minori imposte».

(Confermo qui al mia perplessità sull’ipotizzare il recupero o la ricostruzione di mezza Italia, costituita da borghi e antichi quartieri assai addensati, solo con l’assemblaggio di interventi di singoli privati agevolati dal fisco).

 “Se si includono gli edifici in calcestruzzo armato realizzati prima del 1971 (prime norme antisismiche) il conto sale a 46,4 miliardi; con quelli in cemento armato realizzati fino al 1981 il costo sale a 56 miliardi. Se poi si allarga anche il numero dei Comuni si arriva appunto a 850,7 miliardi. Il costo è stato stimato considerando 400 euro a mq per una abitazione di 110 metri quadrati.”

“Nel rapporto c’è anche una stima delle risorse che servono - circa 125 milioni - per muovere i primissimi passi: una vasta attività di diagnosi sull’esistente e una dimostrazione pratica di come attuare gli interventi, attraverso alcuni cantieri-pilota. Nel primo caso la parola chiave è ‘indagine speditiva’, allo scopo di valutare, sulla base di una griglia di parametri standard, lo stato dell’edificio e gli interventi necessari al suo miglioramento sismico.”

“L’attuazione delle indagini speditive, affidato al ministero delle Infrastrutture prevede un necessario coinvolgimento su larga scala delle professioni tecniche, nel solco di quello che già è stato fatto dopo il sisma in Emilia Romagna e che si sta facendo nel Centro Italia. Il costo stimato per completare l’indagine sugli immobili più vulnerabili nelle aree più a rischio è di poco più di 100 milioni.”

“Per tracciare la strada agli interventi su larga scala, il governo ha finanziato i primi dieci cantieri-pilota, con 25 milioni di euro. Per impostare questo lavoro è stato prezioso il contributo di idee di Renzo Piano e la professionalità del gruppo G124, fondato dall'architetto e senatore a vita. I comuni sono stati individuati. Si è in attesa dei singoli bandi di gara che, stando al rapporto, saranno pubblicati da Invitalia.”

Ora toccherebbe alla legge di stabilità per il 2018 (quella che una volta era ‘la legge finanziaria’) collocare tale previsioni in coerenti programmi di finanziamento pluriennale: il che, scorrendone i 120 articoli3 (e con l’aiuto di un ‘motore di ricerca’), non ho francamento ritrovato, tranne qualche cenno:

-          all’articolo 2 sono confermati o modificati i vari ‘bonus’ per l’edilizia, e l’antisismica è solo implicita (quando obbligatoria) nei bonus per le più generiche ‘ristrutturazioni’,

-          all’articolo 67 le agevolazioni fiscali in campo assicurativo per le abitazioni sono estese anche ‘agli eventi calamitosi’,

-          all’art. 95 sono distribuiti i fondi per l’insieme di tutti gli investimenti statali (meno di 1 miliardo di € nel 2018, quasi 2 nel 2019 e 3 miliardi nel 2020), con un elenco che include alla lettera ‘i’ anche la ‘prevenzione sismica’ (forse qui – oppure anche nelle ordinarie ‘tabelle’ della spesa dei singoli ministeri - potrebbero trovare risorse le ‘indagini speditive’? certamente non i conseguenti interventi).

Mi pare poco, molto poco.

Qualcosa compare in disegni di legge proposti da singoli parlamentari, destinati ormai a estinguersi a fine legislatura, a meno che divengano emendamenti alla ‘finanziaria’ (ma le risorse disponibili sono notoriamente scarse).

Con ogni probabilità se ne riparlerà solo per il 2019, attraverso e dopo la campagna elettorale e la (difficile) formazione di un nuovo Governo (i concetti di ‘Casa-Italia’ e ‘sisma-bonus” ricompaiono ad esempio nella recente piattaforma politica del Partito Democratico): verificheremo promesse e proposte dei diversi soggetti.



Fonti:

1 - Aldo Vecchi – “CASA ITALIA?” www.universauser.it/articoli-recenti/ottobre-2016/casa-italia.htm  – Pubblicato nel 2016

2 - Massimo Frontera “RICOSTRUZIONE E PREVENZIONE - L’ITALIA «ANTISISMICA» COSTA FINO A 850 MILIARDI” su “IlSole-24Ore” del 22-08-2017 www.ilsole24ore.com/.../2017.../l-italia-antisismica-costa-368-miliardi-210023.shtml?

3 – testo legge di stabilità 2018: www.senato-it - atto 2960 “Bilancio di previsione dello Stato per l'anno finanziario 2018 e bilancio pluriennale per il triennio 2018-2020”


UTOPIA21 - NOVEMBRE 2017 - OSSERVATORIO LOCALE: L’AGGIORNAMENTO 2017 DELLA RICERCA “TRA-I-LAGHI”: DEMOGRAFIA


di ANNA MARIA VAILATI E ALDO VECCHI

Gli scriventi hanno condotto nel 2015 una ricerca estesa ad un territorio (che include i 16 comuni allora aderenti ad “Agenda21Laghi”) compreso tra Verbano e lago di Varese, da Vergiate a Laveno, lavorando principalmente sui dati dei censimenti ISTAT 2010-2011 e del rapporto ISPRA 2015 sul consumo di suolo.

La ricerca denominata “tra-i-laghi” – integralmente consultabile all’indirizzo http://www.agenda21laghi.it/vivere_tra_laghi.asp - si compone di tabelle, grafici, cartine tematiche e commenti ed elabora i principali dati statistici successivi al 2000 per tale territorio in raffronto a Provincia di Varese, Lombardia ed Italia, riguardo a demografia, lavoro, pendolarità, istruzione, abitazioni, suolo.

Le tendenze identificate non sono omogenee all’interno dell’area e lo studio delle differenze consente di ipotizzare letture sulle aggregazioni territoriali dei fenomeni di maggior o minor benessere sociale e sui rapporti con l’area metropolitana milanese/lombarda.

Nel 2016 gli Autori hanno prodotto un aggiornamento sui soli dati demografici, aggiornati al 2015 (sempre consultabile sul suddetto sito), ed ora propongono un ulteriore aggiornamento sui dati fino al 2016, con uno specifico raffronto 2016-2011, considerando tale intervallo quinquennale come ricadente a metà del periodo tra i due censimenti 2011 e 2021.







Sommario:

-       commento sintetico

-       tabella 1 – popolazione 2015-2016

-       tavoletta popolazione 2015-2016

-       tabella 2 – movimenti demografici 2016

-       tabella 3 – popolazione 2011-2016

-       tavoletta popolazione 2011-2016


nb: per consultare tabelle e tavolette si rimanda al sito http://www.agenda21laghi.it/vivere_tra_laghi.asp








Con riferimento alla ricerca “tra-i-laghi”, come già nel 2016, abbiamo ritenuto sviluppare un nuovo aggiornamento sui dati demografici, aggiungendo il confronto tra la popolazione residente a fine 2016 (01 gennaio 2017) e quella di fine 2015 (nonché, essendo arrivati a metà del decennio inter-censuale, tra 2016 e 2011), sempre applicato ai comuni che nel 2015 erano in Agenda21Laghi ed ai territori già assunti come riferimento, confermando tutti i criteri metodologici della più ampia ricerca pubblicata nel 2015.

Il calo della popolazione a livello nazionale nel corso del 2015 (ripetuto, in misura minore, anche nel 2016), aveva suscitato un ampio dibattito, sia tra gli specialisti che nella pubblica opinione, per i suoi diversi aspetti, che qui brevemente rievochiamo:

-           la diminuzione del numero dei residenti di nazionalità italiana, non più compensato dagli stranieri, che erano aumentati in misura assai ridotta, in un quadro complessivo di aumento delle emigrazioni (sia di italiani che di stranieri)

-           i connessi fenomeni di calo delle nascite ed invecchiamento della popolazione, affiancato nel solo 2015 da un inedito aumento della mortalità (senile). 

Anche per la nostra area-studio di 23 comuni (di cui 16 allora inclusi in Agenda21Laghi) il biennio 2015-2016 (vedi tabella 1 allegata, con annessa tavoletta, e aggiornamento 2015) rappresenta un periodo di svolta verso una tendenza alla diminuzione della popolazione, dopo il decennio 2001-2011 di generalizzato e vivace aumento (in media dell’1% annuo) ed un periodo di transizione (2012-2014) con dati alterni nei singoli comuni, ma comunque con esito finale positivo per l’area in esame (+ 0,8%).

La diminuzione complessiva per l’area, nel biennio, è di circa 700 abitanti, su 86.000, pari allo 0,8%, superiore quindi alla diminuzione media nazionale, che è solo dello 0,3%, ed a fronte di una situazione ancora positiva per l’intera Lombardia e soprattutto per il comune di Milano, e quasi stazionaria invece per la Provincia e per il comune di Varese; tra i Comuni esterni considerati, solo Somma Lombardo mantiene un saldo positivo costante.

Nel raffronto tra 2016 e 2015, tuttavia, il decremento complessivo risulta attenuato.

I 100 abitanti perduti nel 2016 (vedi tabella 2), infatti, risultano come differenza tra gli oltre 300 persi per il saldo naturale negativo (numero dei morti superiore ai nati) e l’afflusso di circa 200 dal saldo migratorio (numero degli immigrati superiore al numero degli emigrati, diversamente che nel 2015).

Si conferma comunque un allarme per la salute demografica (e socioeconomica?) dell’area, tornata poco sopra la popolazione totale del 2012.

Confrontando l’andamento demografico complessivo dal censimento del 2011 a fine 2016 nei singoli comuni dell’area, si rileva una situazione frastagliata, con tendenze positive nella fascia centrale tra Ispra e Biandronno, nonché a Sesto Calende, ed alcuni casi di maggior calo, come Vergiate, Comabbio, Brebbia e Sangiano, tutti diminuiti di oltre il 2%, come meglio specificato nella tabella 3 e nella tavoletta connessa.


UTOPIA21 - NOVEMBRE 2017 - RECENSIONE: PIKETTY: IL CAPITALE NEL XXI SECOLO (E PRECEDENTI).



Un saggio brillante e documentato, che negli anni scorsi ha riportato (brevemente) al centro del dibattito politico-economico la accentuazione delle disuguaglianze sociali e la accumulazione progressiva del capitale.

nb: già recensito su questo blog alla pagina "ULTERIORI LETTURE"



Riassunto.

-           La correlazione tra la bassa crescita economica e l’accelerazione dell’accumulo di capitali; il ruolo della tassazione

-           L’evoluzione storica, in Occidente, dal 18^ al 21^ secolo; le 4 fasi del Novecento

-           La svolta neoliberista degli anni ’80 del ‘900 e la polarizzazione delle disuguaglianze sociali

-           L’alternativa di una tassazione mondiale progressiva sui capitali, sulle successioni e sui redditi

-           (solo sullo sfondo le dinamiche internazionali e le articolazioni concrete delle classi sociali).



 “Il Capitale nel XXI secolo”1 di Thomas Piketty (giovane economista francese di impostazione classica), è uscito nel 2014, nel bel mezzo della crisi finanziaria, ed è risultato un best seller mondiale, premiato alla fin fine come libro dell’anno in materia di economia dallo stesso Financial Times, che aveva invano tentato di stroncarne l’attendibilità statistica (riguardo al crescente divario tra ricchi e poveri negli ultimi decenni), mentre Piketty ha scelto di rifiutare la “Legion d’Onore” dalla sua Republique.



Il successo raggiunto da Piketty è stato a mio avviso ampiamente meritato, sia per la vastità ed originalità delle ricerche compiute e/o utilizzate (disponibili in Internet), sia per la chiarezza e scorrevolezza del testo, ben leggibile in tutte le numerose pagine (e note) ed anche attraverso le poche formule matematiche ed i molti grafici esposti per spiegare il cuore del problema, ovvero la costante tendenza alla accumulazione e concentrazione del capitale, che diviene massima quando la crescita (demografica e produttiva) è debole, cioè inferiore al 2% annuo (come si profila stabilmente nei paesi sviluppati dalla fine del XX secolo), mentre il rendimento medio dei capitali supera il 4% (con accelerazioni crescenti per i patrimoni più elevati).



Il libro è soprattutto un grandioso affresco sulla formazione ed accumulazione dei capitali (immobiliari e mobiliari) e della tassazione delle ricchezze (successioni, rendite, patrimoni, redditi) dal secolo XVIII al XXI.

Fonti primarie delle ricerche sottostanti alle elaborazioni di Piketty sono i dati derivanti dalla moderna imposizione fiscale, che non a caso ha origine con la Rivoluzione Francese, con divertenti escursioni verso la letteratura (soprattutto i romanzi di Jane Austen e di Honorè de Balzac, testimoni di entità e concezioni patrimoniali del XIX secolo) e verso altre fonti, tra cui hanno un ruolo defilato le teorie di altri economisti, contemporanei e non.



Tra questi Marx2, che Piketty non assume come maestro, ma di cui mostra di conoscere le opere – diversamente da quanto affermano altri recensori3 -, rinfacciandogli in sostanza di sottovalutare la ricerca dei dati, pur allora in parte disponibili, in favore di pregiudizi ideologici o meglio di affrettate conclusioni politiche, e comunque di aver trascurato gli effetti complessivi delle mutazioni tecnologiche.



L’adesione alle statistiche fiscali, accessibili soprattutto nei paesi occidentali, ed in parte solo dal XX secolo ben inoltrato, è anche parziale spiegazione di una limitata attenzione dell’Autore a fenomeni non misurabili con tali strumenti, come:

-          la quota di ricchezze che comunque sfugge al fisco (in taluni casi valutata da Piketty con stime indirette),

-          i paesi poveri, che in genere non hanno sviluppato (e non per caso) una solida cultura fiscale, e conseguentemente anche il divario ricchi/poveri a scala mondiale, che è enunciato ma non approfondito (dopo l’epoca coloniale Piketty non riscontra flussi univoci nei trasferimenti internazionali), anche perché indica già come enorme e scandalosa la crescente polarizzazione all’interno dei paesi ricchi,

-          la struttura sociale e ideologica delle “classi”, che Piketty, per ricerca di scientificità, non considera  come potenziali “soggetti sociali”, ma per lo più riduce a fasce statistiche (il “decile”, il “centile”, il “millile” più ricco, e poi tutti gli altri, suddivisi tutt’al più in due parti, negli ultimi decenni, ovvero un ceto medio che possiede qualcosa, molto al di sotto delle vere élites finanziarie, ed i restanti che non possiedono pressoché nulla),

-          sporadica, ma non assente, è pertanto anche la correlazione con i conflitti sociali,

-          il valore effettivo delle grandezze economiche, sempre esaminate nella loro misura monetaria (espressa in potere d’acquisto, depurato dall’inflazione), e quindi inclusive di bolle speculative così come di sostanziali dis-valori (il tema dei rischi ambientali del pianeta è però accennato da Piketty in termini di potenziale erosione del capitale).



Riassumendo schematicamente l’evoluzione storica rappresentata nel testo (e ignorando qui le peculiari differenze nazionali, ben indagate nel testo), si può affermare che:

-          nel XIX secolo si ha una costante concentrazione dei capitali (prima fondiari e poi in prevalenza mobiliari) ed una crescita mediamente bassa, con i ceti medio-bassi schiacciati in una sostanziale povertà; la tassazione, anche dove colpisce i patrimoni nelle successioni, è bassa e non proporzionale; lo Stato limitato alle funzioni basilari (esercito, giustizia, infrastrutture);

-          all’inizio del XX secolo le differenze in favore di coloro che vivono di rendita (“rentiers”) si accentuano e si affacciano, ma vengono per lo più respinte, le prime proposte di tassazioni universali e progressive sul reddito;

-          il periodo 1914-1950, con le 2 guerre mondiali, la rivoluzione sovietica e la grande crisi del ’29, ha – attraverso turbolenti rivolgimenti -  l’effetto di un temporaneo (ed “involontario”) “suicidio del capitale”, variamente colpito da distruzioni belliche e svalutazioni intrinseche, inflazione al galoppo e prelievi fiscali talvolta molto severi;

-          i successivi “trenta anni gloriosi”, tra il 1950 ed il 1980, a partire dalla ricostruzione nei paesi più distrutti, vede una forte crescita (con medie del 5% annuo, al netto dell’inflazione talora però rilevante), la piena affermazione di uno “stato sociale” (istruzione, sanità, pensioni), minori disuguaglianze (più giustificate, anche verso l’alto, dalle differenze nei redditi da lavoro) ed una accumulazione più lenta del capitale;

-          a partire dal 1980, con la svolta pro-capitalistica di Thacher e Reagan (anche per reagire ad un declino di USA e GB) e poi con il crollo del blocco sovietico, si sviluppa e si consolida un nuovo assetto, caratterizzato dal contenimento delle funzioni statali, la riduzione delle tasse e del controllo sui capitali, una netta ripresa della accumulazione e concentrazione delle ricchezze, nonché delle disuguaglianze sociali (inclusi i redditi da lavoro, ora rilevanti anche tra i ceti più ricchi, ma connessi ad una forte selezione sociale nell’accesso ai livelli di istruzione più elevati e conseguenti carriere) in un contesto di modesta inflazione e bassa crescita (esclusi i paesi emergenti).

-          (lungo il percorso storico Piketty si applica anche – dati alla mano – a confutare luoghi comuni diffusi, talvolta ad arte, lungo i 350 anni in esame: dalla propaganda della Terza Repubblica francese su una uguaglianza già conseguita dai “cittadini” nella rivoluzione di un secolo addietro al mito degli USA come società aperta alla mobilità sociale, che era forse vero nell’Ottocento, ma è radicalmente smentito dai dati degli ultimi decenni).



In assenza di sconvolgimenti (ed escludendo di fatto l’ipotesi teorica di una sovrabbondanza “infinita” di capitale, capace di abbassarne la rendita), Piketty prevede per i prossimi decenni un proseguire della prevalenza del tasso di rendimento del capitale sul tasso di crescita, e quindi un progressivo aggravamento della polarizzazione delle ricchezze in favore di ristrette minoranze, con conseguenze economiche e sociali non sostenibili (cioè foriere per l’appunto di ”sconvolgimenti”) e quindi propone una cura drastica, mediante una “tassazione mondiale progressiva” sui capitali (da integrare con imposte progressive sui redditi e sulle successioni), previo conseguimento di una totale trasparenza internazionale su tutti i movimenti finanziari.

Consapevole del carattere utopico della proposta (ma, rammenta Piketty, anche la tassazione progressiva dei redditi rimase assai a lungo un’utopia, prima di essere realizzata nel cuore del Novecento), l’Autore formula anche soluzioni intermedie, in parte articolate sulle situazioni specifiche dei paesi poveri (dove – India compresa, ma non la Cina - il problema primo è la mancanza di un moderno stato, fiscale e sociale),  degli USA e del mondo anglo-sassone e soprattutto dell’Europa, con i suoi problemi specifici di debiti, austerità e unione monetaria incompiuta (su cui il libro sviluppa una trattazione estesa, ma concisa, che raccomando alla lettura – capitolo 16 - , e su cui non mi soffermo per non prolungare troppo questa recensione)



Diversamente dal suo  non-maestro Karl Marx, Thomas Piketty in questo testo non si spinge a occuparsi del percorso politico necessario per arrivare alla svolta auspicata e degli enormi problemi sociologici ed antropologici connessi NOTA, ma rivendica illuministicamente l’utilità del suo contributo nella battaglia ideologica contro le false rappresentazioni dominanti sulla diffusione e sviluppo della ricchezza; nella conclusione Piketty sollecita gli economisti ad uscire dalla pseudo-scienza degli algoritmi micro-economici ed a riconoscersi all’interno delle altre “scienze sociali”.



NOTA: Dopo la pubblicazione del “Capitale nel XXI secolo”, Piketty ha assunto tra l’altro le funzioni di consigliere del movimento Podemos in Spagna e del nuovo laburismo radicale di Corbyn in Gran Bretagna, ed ha appoggiato nelle presidenziali francesi il candidato socialista Hamon, e non il nuovo fronte di sinistra massimalista anti-europeo di Mélenchon.



Fonti:

1.    Thomas Piketty “IL CAPITALE NEL XXI SECOLO” – Bompiani, Milano 2014

2.    Karl Marx “IL CAPITALE” – Editori Riuniti, Roma 1964
3.    David Harvey, recensione “RIFLETTENDO SU ‘CAPITAL’ DI PIKETTY”  riportata su www.inventati.org\cortocircuito

UTOPIA21 - NOVEMBRE 2017 : INSEGUENDO L’UTOPIA, ATTRAVERSO “LA FILOSOFIA DEL NOVECENTO (E OLTRE)” DI REMO BODEI


Un ripasso personale della filosofia attorno al ‘900, limitato ai temi dell’Utopia, ed appoggiato sul testo di Remo Bodei.

  

Riassunto. Premessa ed introduzione.

a)    il confronto sul socialismo realizzato

b)   la reazione nazi-fascista e l’idealismo e lo storicismo italiano

c)    la frammentazione ed il disincanto del secondo novecento



PREMESSA

Quando facevo il liceo, appena prima del 1968, non avevo avuto l’occasione di studiare bene la filosofia del ‘900.

Ed ho poi sofferto di queste carenze, incontrando argomentazioni filosofiche moderne e contemporanee nelle mie varie esperienze successive.

Qualche tempo addietro ho allora pensato di rimediare almeno un poco, leggendo l’agile e denso volume “la filosofia del Novecento (e oltre)” di Remo Bodei, che sul secolo in esame con sole 237 pagine compie una vigorosa cavalcata con un suo stile personale ed accattivante (tutt’altro che uno schematico “bigino”).

Qualcosa in più ho capito. Devo confessare però che non mi si è scalfito più di tanto un pregiudizio che avrei preferito invece superare, e cioè il dubbio che alcuni filosofi più difficili (tipo Husserl, Heidegger, Lucaks…) dicano cose ai più incomprensibili e oggettivamente poco utili per i destini dell’umanità, mentre i filosofi che dicono cose più comprensibili ed applicabili non si scostano invero di molto dal comune buon senso (cui aggiungono precisione di linguaggio specialistico assai più che contenuti di valore: da Paul Ricoeur allo stesso Bodei, ultimi 2 capitoli); contemporaneamente, soprattutto nel Novecento, le intuizioni e ricerche più profonde sull’uomo e sul mondo nascono in ambiti culturali diversi, più o meno lontani dalla formale “filosofia” (come conferma il filosofo e semiologo Umberto Eco): nelle scienze, nelle arti, nelle nuove discipline umanistiche (antropologia, sociologia, psicanalisi) ed in quelle vecchie, e persino nella politica *; il che è ben documentato d’altronde nel medesimo testo di Bodei.

(Mi ha confortato leggere un’intervista a Romano Prodi, su Tuttolibri de “La Stampa”, che manifestava anche più radicali disagi nei confronti della filosofia, in quanto disciplina astratta).

Al di là del tentativo di superare tali mie carenze, la lettura del Bodei mi è stata di stimolo in particolare per riflettere sul tema dell’Utopia attraverso i pensieri del Novecento.

Come redattore di Utopia21 e fruitore a distanza dei “festival di Utopia” organizzati da Fulvio Fagiani, mi sembra infatti opportuno approfondire il concetto di “utopia” e la sua attualità, nella consapevolezza di quanto da un lato sia insoddisfacente, sotto il profilo ambientale e sotto il profilo sociale, ‘lo stato di cose presente’, il che – per me e per molti altri - rende necessaria una buona dose di utopia per poter sperare di meglio, e d’altro lato la consapevolezza di quanto siano usurate ed impercorribili le vecchie scorciatoie otto-novecentesche verso ‘un futuro migliore’.



INTRODUZIONE

Parlando del Novecento, premetto, con parole mie, che la storia (più che non la filosofia) del precedente “secolo lungo” (l’Ottocento esteso dalla rivoluzione francese del 1789 alla rivoluzione russa del 1917) è stata fortemente polarizzata da istanze utopistiche egualitarie, di impronta infine marcatamente classista (da liberté-egalité-fraternitè allo “spettro del comunismo”, dal socialismo romantico alle pretese scientifiche del marxismo); mentre nel suo finale si è manifestata pienamente la crisi dello scientismo positivista, sia sul versante delle pretese di estensione sistematica del sapere sia su quello dell’ottimismo sociale (le “magnifiche sorti e progressive”).

E pertanto è con questo carico di attese (quasi messianiche) che hanno dovuto confrontarsi diversi pensatori del ‘900, cercando però nuovi strumenti e paradigmi conoscitivi.

Nel testo di Bodei il tema dell’utopia, in termini espliciti od impliciti, affiora soprattutto in 3 snodi (ed è significativo che sia invece sostanzialmente assente in quasi tutto il resto della rassegna):

-          Il confronto sul socialismo realizzato (Lenin Luxemburg Bloch)

-          La reazione nazi-fascista e l’idealismo e lo storicismo italiano (Gentile/Croce/Gramsci)

-          La frammentazione ed il disincanto del secondo Novecento (Shutz/Berger, Jonas, Rawls, Adorno, Habermas, Foucault).



a)    IL CONFRONTO SUL SOCIALISMO REALIZZATO

Di Vladimir Ilic Lenin (1870-1924), Bodei esplicita il passaggio dalle teorizzazioni post-hegeliane allo spietato realismo con cui la rivoluzione sovietica cerca di attuare, in una situazione sociale peculiare ed “arretrata” (ed in condizioni di guerra imperialista perdente per l’impero russo, di guerra civile e di accerchiamento internazionale), la costruzione dello stato socialista e la formazione dell’uomo “nuovo” (finalità intrinsecamente connesse alle suddette utopie ottocentesche); il che però prosegue, con Stalin, istituzionalizzando il terrore come strumento di potere e fossilizzando il marxismo in “una sorta di religione di Stato … che mira a sradicare le vecchie concezioni religiose e ‘magiche’ della Russia contadina” 1 ed, aggiungerei personalmente, riproducendone il ruolo a-critico e fideistico.

Già di fronte ai primi sintomi di tale involuzione, Bodei segnala il radicale dissenso di Rosa Luxemburg (1871-1919), che rilancia la carica utopistica del socialismo denunciando come “la dittatura del partito rivoluzionario e le limitazioni alla libertà nuocciono alla rivoluzione”2 ed affermando, nel 1918, che “La libertà … solo per i membri di un partito – per numerosi che possano essere – non è libertà. La libertà è sempre unicamente la libertà di chi la pensa diversamente. …. Il negativo, la demolizione, li si può decretare; la costruzione no. … Solo l’esperienza è in grado di correggere e di aprire nuove strade. … Tutta la massa del popolo vi deve prendere parte. … La prassi socialista esige una completa trasformazione spirituale delle masse degradate da secoli di dominio di classe ….Lenin …si inganna completamente sui mezzi … L’unica via della rinascita è la scuola della vita pubblica stessa, della più illimitata e larga democrazia …. E’ per l’appunto il regno del terrore a demoralizzare”3 .

La critica della Luxemburg al leninismo in corso di realizzazione non ebbe occasione storica per divenire dialettica interna al movimento comunista, perché la Luxemburg bruciò il suo antagonismo nei mesi convulsi seguiti alla sconfitta dell’impero tedesco, finendo assassinata nel 1919 dai rivali socialdemocratici, mentre le correnti alternative a Stalin nella 3^ Internazionale dopo la morte di Lenin, e da Stalin poi soppresse (Bucharin, Trotzki) si polarizzavano su altri fattori (certamente attinente all’utopia, ma non alla democrazia, risultò essere la ‘rivoluzione permanente’ trotzkista).  

Come coerente teorico del marxismo utopico (a partire dalla testimonianza di Rosa Luxemburg) Bodei segnala inoltre Ernst Bloch (1885-1977), filosofo di professione, esule dal nazismo in America negli anni ’30 e poi fuggiasco dalla Repubblica Democratica Tedesca (dove aveva voluto tornare) verso la Repubblica Federale di Germania negli anni ’60.

“Il marxismo eretico di Ernst Bloch …. tende a riscattare, anche dopo la rivoluzione di Ottobre, quanto nell’uomo è sempre stato represso, mutilato, umiliato. … Quel che deve orientare la ricerca del nuovo è l’intero passato irredento … le speranze dei vinti ... ciò a cui l’umanità ha rinunciato “ perché oppressa “dallo sfruttamento, dalla divisione in classi e dall’asservimento della natura”, e riassorbe in questo “sogno di una cosa” “le attese messianiche dei profeti dell’Antico Testamento”4 e dei visionari medievali, ed anche gli ideali ‘borghesi’ delle rivoluzione francese, da attuare, secondo Bloch, in una chiave necessariamente socialista: “non c’è democrazia senza socialismo, non c’è socialismo senza democrazia”5.

Bloch si confronta con la religione, il cui spazio “deve essere conquistato e bonificato, eliminando gli elementi fantastici e retrogradi”: “annientare la religione significa realizzarla nel mondo. In tal senso solo un ateo può essere un buon cristiano” 6; ma si trova di fatto a convergere con alcune moderne correnti cristiane verso un cammino di speranza, in cui Bloch discioglie anche i sogni e i desideri delle esperienze umane più comuni, che è ad un tempo una dimensione psicologica di ricordo e di immaginazione (anche oltre la morte) ed un disegno politico complessivo: “il comunismo, in quanto marxianamente ‘naturalizzazione dell’uomo’ e ‘umanizzazione della natura’ appare a Bloch”  come “la sintesi più alta tra natura e società, l’utopia concreta che orienta la storia” 7.



b)   LA REAZIONE NAZI-FASCISTA E L’IDEALISMO E LO STORICISMO ITALIANO

Senza ricorrere alla parola utopia, d’altro canto, Bodei conferisce, correttamente, adeguato spazio alle (inaccettabili, ma purtroppo non incomprensibili) teorie del nazi-fascismo, che – nel contrapporsi radicalmente al sogno socialista ed ai principi dell’illuminismo – definiscono “un gigantesco progetto di ingegneria umana, di modificazione antropologica e genetica collettiva” 8, a partire dai miti della patria e della razza, dal “naturalismo e darwinismo sociale”9 e con un uso spregiudicato della manipolazione propagandistica e della doppia verità.

Progetto che si realizza, riutilizzando anche il pensiero di Nietzsche (1844-1900), che riteneva necessario “il mantenimento in tutta la durezza della moderna schiavitù del lavoro salariato. Per giunta il segreto dello sfruttamento non va divulgato fra la classe operaia” , fino a dire dei socialisti “Disgraziati seduttori, che hanno distrutto con il frutto dell’albero della conoscenza lo stato di innocenza dello schiavo” 10; ed arrivando così al programma ‘didattico’ di Himmler  (1900-1945) per i popoli assoggettati dell’Europa orientale “… non ci deve essere nessuna scuola che vada oltre quella elementare … . Scopo … far di conto fino a 500, la scrittura del proprio nome …  Non ritengo indispensabile insegnare a leggere” occorre invece “insegnare che è un comandamento divino quello di obbedire ai tedeschi…”11.

Più alta (anche considerando il suo ruolo di organizzatore culturale, pur dentro al Fascismo, ma non senza una qualche autonomia e tolleranza pluralista)  la parabola di Giovanni Gentile (1875-1944), che parte da una esaltazione dello “spirito” contro il materialismo (ma anche della ‘prassi’ marxiana ridotta ad attivismo soggettivo) e perviene a teorizzare lo Stato Etico come “scopo supremo a cui tende la comunità e, insieme, lo strumento della fusione completa e senza residui degli individui in un tutto organico … lo Stato assume il ruolo che per Agostino aveva Dio nell’anima di ciascuno…” e quindi vive addirittura ”in interiore homine”12 (il che, scritto nell’estate del 1943 e considerando a quale concreta ‘statualità’ si riferiva Gentile, suona effettivamente abbastanza utopistico).

Decisamente anti-utopistica è invece la reazione al socialismo da parte di Benedetto Croce (1866-1952), che stinge il suo idealismo in una concezione storicistica piuttosto feroce: “L’impossibilità di formulare previsioni per il futuro, … il rispetto per la durezza dei fatti e per l’agire di potenze immani e transindividuali, il precipitare e il divenire irrevocabile dell’azione del singolo nei grandi accadimenti del Tutto, lasciano spazio solo al riconoscimento del passato.”13 Però “… convertendo il passato in conoscenza, comprendendo quanto oscuramente si agita in noi e nel mondo, siamo pronti a realizzarci, a diventare ciascuno un creatore di storia ….”14 “la vita dello ‘Spirito’ è appunto questo realizzarsi incessante del movimento del Tutto attraverso le opere dei singoli…” che “hanno valore solo se accettano consapevolmente di essere materiale da costruzione di una storia che si innalza la di sopra delle loro teste … delle loro intenzioni” 15; e ancora “siamo circondati da organismi mostruosi a cui siamo obbligati a piegarci, a quei Leviatani che si chiamano Stati … ai quali abbiamo il dovere di servire e obbedire…” mentre “da parte loro hanno buone e profonde ragioni … di sbranarsi, di divorarsi, visto e considerato che solo così si è mossa finora, e così sostanzialmente si moverà  sempre la storia del mondo.”16

In questo quadro di realismo spietato e pessimistico, temperato solo dalla titanica passione per la libertà riservata ad una élite, a Croce appare possibile “accogliere in forma subordinata alcune esigenze del movimento operaio, purché – beninteso – si adegui alla razionalità borghese”; “il proletariato attraversa invece ancora una fase passionale grezza della sua vita politica” e “la previsione marxiana di una lotta di classe che si conclude con la scomparsa di tutte le classi è quindi … un’utopia morale.”17 Croce contempla invece “un equilibrio tra le classi e i blocchi di interesse contrapposti, evitare rovesciamenti drastici e violenti” e quindi, dice Bodei seguendo Gramsci, “la semplice razionalizzazione del dominio esistente”, nonché addirittura “il compromesso con forze …. pre-borghesi, quali la Chiesa. Con essa vi è una sorta di tacita divisione delle sfere di influenza: le élites allo Stato laico e liberale, ---- le masse a una religione che è forma inferiore, passionale, di filosofia, che manterrà il ‘popolo’ nell’obbedienza e nella passività”18.

Antonio Gramsci (1891-1937) assorbe e critica questo storicismo conservatore per leggere, nel concreto dello scontro sociale e dei condizionamenti ideologici, le potenzialità emancipative delle lotte del proletariato: “dopo il 1917 …. La classe operaia non è più costretta alla passività fatalistica o al ribellismo senza sbocchi … Occorre una compatta ‘volontà collettiva’ per operare la transizione e un ‘nuovo senso comune’ per innalzare le grandi masse al livello della scienza e delle forme di vita moderne … Bisogna apprendere tutti i metodi più elaborati dagli avversari … abbandonare il primitivismo economico e meccanicistico precedente e sviluppare la capacità di previsione e di guida degli eventi…”19 (e da qui le sue note elaborazioni sull’egemonia, sul consenso, sul ruolo degli intellettuali). “La storia deve essere trasformata secondo un progetto di emancipazione collettiva, non contemplata e adorata come un mistero imperscrutabile e crudele nella sua incomprensibile ed eterna essenza”20.    Ed al termine del breve racconto del pensiero gramsciano, Bodei sottolinea come “il suo storicismo” sia “così radicale ed immanente che quel che oggi --- è vero potrà diventare falso…”; cioè, come dice lo stesso Gramsci “Si può persino giungere ad affermare che mentre tutto il sistema della filosofia della prassi piò diventare caduco in un mondo unificato” viceversa “molte concezioni idealistiche … che sono utopistiche durante il regno della necessità, potrebbero diventare ‘verità’ dopo il passaggio ecc.”21: il che mi sembra una bella apertura, per l’appunto davvero “utopistica”, rispetto alle concezioni statiche dell’ortodossia marxista (anche in materia di utopia comunista).

Qualche apertura vertiginosa di questo genere si può rintracciare anche nel pensiero di Mao-Tse-Tung (forse per giustificare alcuni spari contro il suo stesso ‘quartier generale’), personaggio che a mio avviso andrebbe rivalutato forse come pensatore, oltre agli indubbi meriti di condottiero dell’indipendenza e unità nazionale cinese, mentre è giustamente molto discusso come “costruttore di socialismi”. Purtroppo il testo di Bodei è incentrato sulla filosofia occidentale, con limitate aperture al terzo-mondismo antagonistico e però in qualche misura ‘complementare’ di figure quali Frantz Fanon e Leopold Senghor, mentre trascura totalmente elementi più tipici ed autonomi del Terzo Mondo, come Gandhi e Mandela; ed ignora anche i sostenitori europei della non-violenza, come Aldo Capitini (per altro filosofo di formazione accademica), Albert Schweitzer o Danilo Dolci; i quali tutti hanno invece a che fare con l’Utopia, come mi riservo di trattare in successivi articoli. 



c)    LA FRAMMENTAZIONE ED IL DISINCANTO DEL SECONDO NOVECENTO.

Il processo di frammentazione dell’Io e di segmentazione della società era già ben presente nella prima metà del Novecento, sia con l’irruzione della psicanalisi e delle altre scienze umane, sia nelle arti e nelle discipline scientifiche, sia nella riflessione di diversi filosofi (Bergson, Simmel); ma nella seconda metà del secolo tali fenomeni si accentuano e si disgrega anche il terreno di confronto tra le scuole di pensiero, che a mia impressione appaiono sempre più auto-referenziali, come in parte traspare dai seguenti riassunti (mentre i fallimenti dei regimi totalitari e di quelli rivoluzionari - da Hitler e Mussolini fino a Pol-Pot -,   le difficoltà delle democrazie e i nuovi timori di crisi globale, dalla minaccia nucleare alle emergenze ambientali, alimentano il disincanto ed il pessimismo di molti intellettuali). 



Sulla scia di Alfred Schutz (filosofo e sociologo nato in Austria nel 1899, emigrato negli USA sotto il nazismo – anche perché di famiglia ebraica – e morto nel 1959), che muove, divergendone, dalla fenomenologia di Edmund Husserl, per il più giovane sociologo austro americano Peter Ludwig Berger (1929-2017) “la nostra attuale esistenza, specie nelle metropoli, ci introduce incessantemente e ormai quasi impercettibilmente in più mondi, le cui soglie oltrepassiamo continuamente”22 e che “risultano, a loro volta, percorsi da continui flussi di investimento e disinvestimento di senso …. L’esperienza si presenta anche come un viaggio entro i diversi mondi della vita del quotidiano e dell’extra-quotidiano … Si rischia di morire senza memoria e senza coscienza in un mondo della vita in cui l’assurdo e l’ovvio si scambiano i loro ruoli”23 (con rimandi a Joyce e a Beckett, e – aggiungerei – con anticipazione della successiva sociologia di Marc Augé, Michel Maffesoli, Zygmunt Bauman). “Quando il mondo cessa di rappresentare un tutto coerente … anche le opposizioni canoniche di natura e artificio, …” tra verità soggettiva ed oggettiva “ … finiscono per perdere la propria ragion d’essere. L’alternativa non è --- più quella secca tra pluralità dei mondi e mondo al singolare, tra vite parallele e vita unica, tra identità assoluta e ‘uno, nessuno e centomila’, tra realismo e utopia. Tutto diventa incomparabile, incommensurabile”24. Inoltre, segnala Bodei, “la ricerca delle radici si presenta come un rimedio patetico alla dilagante impressione di perdita di un articolato e perspicuo mondo della vita, della propria dimora, perdita avvertita – di volta in volta – nichilisticamente come luttuosa o serenamente come inevitabile.”25



Se in questo panorama di frammentazione del singolo soggetto e dell’intera società gli orientamenti utopistici rischiano di affogare come un nuotatore ingenuo in gran tempesta, “… E’ però soprattutto Hans Jonas…” (1903-1993, anch’egli ebreo tedesco, allievo di Heidegger, emigrato in Inghilterra/Israele/U.S.A) “…a teorizzare più direttamente il ‘principio responsabilità’, in simmetrica opposizione al ‘principio speranza’ di quanti – come Ernst Bloch – hanno favorito il pensiero utopico o gli atteggiamenti prometeici di dominio [sulla] natura e di progresso senza limiti. Essi, infatti, non si sono accorti che – invece di produrre grandi trasformazioni in positivo – hanno finito per minacciare la sopravvivenza stessa della specie umana e di tutto il pianeta, prendendo sul serio le utopie e trasformandole da innocuo esercizio letterario o filosofico in pericolosi programmi di stravolgimento del mondo.”26

In contrapposizione a Max Weber (1864-1920) (“il possibile non sarebbe raggiunto se nel mondo non si ritentasse sempre l’impossibile”)27, Jonas sostiene che “Oggi che l’uomo è diventato un essere altamente nocivo incapace di valutare adeguatamente il risultato congiunto delle azioni di tutti e di ciascuno, con il rischio effettivo di alterare delicati equilibri, in parte ignoti … la responsabilità, la cautela, la riflessione costituiscono un obbligo vincolante e ineludibile…. Paradossalmente, la minaccia della catastrofe deriva non dal fallimento, ma dallo ‘smisurato successo’ della tecnica … Ognuno di noi ha infatti una responsabilità collettiva nei confronti della Terra e dei suoi abitanti, in particolare della biosfera… E’ necessario frenare … la propensione al pensiero utopico, giacché esso è fondato su pretese esorbitanti e su desideri impossibili … di perfezione, nonché sull’idea di radicali sconvolgimenti che il mondo, nella sua attuale fragilità, non è in grado di tollerare. … Il ‘principio [di] responsabilità’   appare comunque” come “ … delegittimazione delle utopie, … sintomo dell’esaurimento di quella spinta in avanti che le aveva giustificate…. Sotto processo sono, più in generale, le filosofie della storia che sorreggono le moderne utopie, adornandole della loro illusoria natura di ‘quasi previsioni’  ….”.28



Occorre considerare, anche al di fuori del testo di Bodei (che invero trascura l’ecologia come nuova scienza, mentre conferisce corretta attenzione a psicanalisi, sociologia, antropologia), altri due paradossi:

-          quello dell’ambientalismo, che comunemente è associato a istanze utopiche, perché postula una correzione dei comportamenti umani, alfine di renderli meno conflittuali con l’ambiente e le altre specie, ma si affaccia nella rassegna filosofica di Bodei solo la cautela sistematica ed anti-utopica di Jonas

-          quello dei risvolti anti-democratici nel pensiero dello stesso Jonas, come rilevati ad esempio nel 1990 da Tomas Maldonado (1922,vivente, designer e pensatore di origine argentina), con riferimento ad un testo di Jonas del 1979: “Jonas sostiene … che nella gestione dell’emergenza ambientale l’autocrazia ha vantaggi oggettivi nei confronti della democrazia… si richiedono misure impopolari che possono essere deliberate con difficoltà in un processo democratico..” ed ipotizza pertanto una “tirannide benintenzionata, beninformata e animata da giuste convinzioni”.30



La critica dell’utopia non realizzata dal socialismo reale è presente anche in John Bordley Rawls (filosofo statunitense 1921-2002) che “non solo diffida del carattere stagnante delle società egualitarie, ma le giudica responsabili degli effetti perversi che inducono a violare la libertà senza realmente ridurre la forbice delle disuguaglianze. Il ‘principio di differenza’ rappresenta quindi anche un’alternativa moderata alla lotta di classe, la rinuncia al capovolgimento rivoluzionario di tutte le disuguaglianze esistenti. … Egli è convinto che le diseguaglianze siano in qualche caso positive, che costituiscano degli incentivi…”30 Tuttavia, nella sua ricerca di una società giusta, ma pluralista, in una logica neo-contrattualista, Rawls si appella a dosi piuttosto massicce di utopia: “La giustizia si lega però in lui a un principio di solidarietà e di fratellanza … Vi è probabilmente in Rawls, oltre all’impianto giusnaturalistico … un sensibile pathos religioso: il concetto di ‘società ben ordinata’ viene infatti esplicitamente dichiarato un’estensione del concetto di tolleranza religiosa e una interpretazione del kantiano ‘regno dei fini’.”31 Proponendo inizialmente che “… i canoni per stabilire se una società è giusta possono venire elaborati mediante un accordo razionale tra gli uomini”32 … “la sua opera più recente si concentra .. nello sforzo per rispondere alla domanda ‘com’è possibile che permanga costitutivamente nel tempo una società giusta e stabile di cittadini liberi ed uguali che restano profondamente divisi da dottrine religiose, filosofiche e morali ragionevoli?33?”



Alquanto elitario (ma in termini diversi da quelli di Jonas) appare anche l’atteggiamento di Theodor Adorno (1903-1969: filosofo/sociologo/musicologo tedesco emigrato in GB ed USA durante il nazismo, e ritornato poi a Francoforte), ed improntato ad un utopismo sommesso e ‘non banale’, pur muovendo da un pessimismo alquanto radicale.

“Solo piccole minoranze possono contrastare l’oppressione vigente, con una resistenza quantitativamente debole, ma certo ben più che simbolica. Al concetto di lotta di classe Adorno contrappone quello di resistenza al dominio… Il soggetto storico dell’emancipazione, il proletariato, sembra essere divenuto incapace … di opporsi alla potenza dell’esistente, compresso com’è tra socialismo burocratico, enfatizzazione dei consumi e terrore fascista. … La filosofia e l’arte possono costituire degli antidoti … La dialettica negativa … è lo strumento … per svelare – purtroppo ancora a pochi – come il gigante del dominio abbia piedi di argilla e la sua durata dipenda dall’assenso involontario o estorto degli oppressi. … I residui dell’attuale società sono il lievito della società futura, non la sua completa configurazione. E la lotta per il suo concreto albeggiare è fattiva, non banalmente utopica, non inevitabilmente votata alla sconfitta”.34

Ad altri esiti pervengono, nell’alveo della medesima ‘scuola di Francoforte’, Herbert Marcuse (1898-1979) (trascurato però da Bodei), che mi sembra adegui l’utopismo di Bloch alla luce di una aggiornata critica del mondo neo-capitalista e consumista, e Jurgen Habermas, (1929, vivente) di cui Bodei ben illustra l’ottimismo neo-illuminista, che tende a riassorbire lo storicismo e l’ermeneutica, riproponendo una rinnovata fiducia nell’ ‘agire comunicativo’ e una speranza di crescita cognitiva dell’umanità.

Assai differente, ma non priva di un orizzonte suo malgrado vagamente utopistico è pure la dissertazione su potere e sapere di Michel Foucault (multiforme intellettuale francese 1926-1984):

“Se il potere è oggi onnipervasivo, microfisico … , serve a poco combatterlo su un piano generale, elaborare strategie complessive e utopie di riforma sociale. … è sui particolari che bisogna scardinarlo … portando la battaglia sul terreno accidentato e discontinuo dei focolai di insubordinazione. … La dimensione politica, come attività collettiva tesa alla modificazione della società nel suo insieme, cade contestualmente all’idea di totalità e alla dialettica. … L’immagine della totalità è inibitoria, e anche sul terreno teorico sono i saperi particolari, discontinui, specialistici, che hanno incidenza reale e possono progredire, mentre le costruzioni generali (quali il marxismo o la psicoanalisi) hanno una funzione solo se smontate e utilizzate in singole parti. … Oggi …i privilegi accordati alla particolarità contro l’universale, all’esperienza diretta e locale contro le mediazioni e la totalità, a una pluralità di “ragioni” contro la ragione una e monolitica sono sintomi della dichiarata disintegrazione del modello dialettico, del recupero dell’unità attraverso l’opposizione e il molteplice …” Ma in Foucault c’è “.. l’idea (al limite dell’utopia, tanto disprezzata) che in un remoto futuro, quando la consumazione del pensiero dialettico sarà completa, diventerà possibile una incorporazione non dialettica dell’alterità …”  . Una “situazione pacificata” in cui “.. la ragione dialettica diventerà altrettanto incomprensibile quanto lo sono per noi i comportamenti dei primitivi …”.35



Manca nel testo di Bodei anche l’attenzione ai numerosi movimenti che hanno cercato di realizzare nella pratica di vita (e non nella sola battaglia delle idee oppure nell’organizzazione politica) elementi di pensieri alternativi e di concretizzare segmenti di utopie (talora elitarie e talora anche di massa); movimenti che in parte affondano le loro radici in passati assai remoti ed in retroterra religiosi, ma si manifestano assai attivi nel Novecento, e certo non privi di sviluppi filosofici originali o comunque ragguardevoli: dalle innovazioni e filiazioni del monachesimo cristiano alle varie incarnazioni (anche occidentali) del buddismo e dell’induismo, dal sionismo dei kibbutz alle evoluzioni ed involuzioni dell’Islam (che invero non è solo terrorismo), dalla Teosofia agli hippies, fino alle comuni degli anni ’60 e successivi (di vari indirizzi, tra il comunismo vissuto ed il femminismo, tra l’ecologismo ed il vegetarianesimo).



Fonti:

  1. Remo Bodei “LA FILOSOFIA DEL NOVECENTO (E OLTRE)” – Donzelli, Roma 2006 pag. 78
  2. Ibidem, pag. 79
  3. Ibidem, pagg. 79-80    passi tratti da Rosa Luxemburg “LA RIVOLUZIONE RUSSA” in “SCRITTI SCELTI”, Einaudi, Torino 1975
  4. Ibidem, pagg. 80-81
  5. Ibidem, pag. 82
  6. Ibidem, pag. 81
  7. Ibidem, pag. 84
  8. Ibidem, pag. 87
  9. Ibidem, pag. 85
  10. Ibidem, pagg. 85-86, passi tratti da Friedrich Nietzsche “LO STATO GRECO”, Adelphi, Milano 1964
  11. Ibidem, pagg. 88-89, passi tratti da Heinrich Himmler, testo in tedesco del 1940
  12. Ibidem, pagg. 27-28
  13. Ibidem, pag. 54
  14. Ibidem, pag. 55
  15. Ibidem, pag. 56
  16. Ibidem, pag. 56-57, con passi tratti da Benedetto Croce PAGINE SULLA GUERRA”, Laterza, Bari 1928
  17. Ibidem, pag. 58
  18. Ibidem, pagg. 58-59
  19. Ibidem, pag. 59
  20. Ibidem, pag. 60
  21. Ibidem, pag. 60, con passi tratti da Antonio Gramsci “QUADERNI DEL CARCERE”, Einaudi, Torino 1975
  22. Ibidem, pag. 124
  23. Ibidem, pagg. 125-126
  24. Ibidem, pag. 126
  25. Ibidem, pag. 126
  26. Ibidem, pag. 217
  27. Ibidem, pag. 217, con passo da Max Weber “LA POLITICA COME PROFESSIONE” (1919), in “IL LAVORO INTELLETTUALE COME PROFESSIONE” Einaudi, Torino 1966
  28. Ibidem, pagg. 217-219
  29. Tomas Maldonado “CULTURA, DEMOCRAZIA, AMBIENTE. SAGGI SUL MUTAMENTO”, pag. 75 Feltrinelli, Milano 1990
  30. Remo Bodei “LA FILOSOFIA DEL NOVECENTO (E OLTRE)” – Donzelli, Roma 2006 pagg. 185-186
  31. Ibidem, pag. 186
  32. Ibidem, pag. 184
  33. Ibidem, pag. 186, con passo tratto da John Rawls “LIBERALISMO POLITICO”, pag. 23, Comunità, Milano 1995
  34. Ibidem, pagg. 114-116
  35. Ibidem, pagg. 152-155