mercoledì 11 luglio 2018

UTOPIA21 - LUGLIO 2018: DEBITO E DEMOCRAZIA SECONDO DAVID GRAEBER




In due diversi testi, pubblicati in Italia nel 2012, una proposta di lettura alternativa dei rapporti, sociali e politici dall’antichità alla crisi attuale, con l’ambizione di individuare nel debito la chiave di lettura fondamentale e di demistificare la democrazia occidentale

Riassunto:
Parte 1^: DEBITO
Le mistificazioni sul baratto e sulla moneta nelle società antiche
La cultura originaria del dono e del dovere impagabile
La nascita ed il declino degli imperi “assiali”
Medioevi e moderni imperialismi
La pervasività del debito nelle società attuali
Debitori di tutto il mondo unitevi?
Parte 2^: DEMOCRAZIA
La falsa continuità della democrazia da Atene all’Illuminismo
L’ignoranza occidentale su altre forme di potere diffuso nella Storia degli altri continenti
La negazione degli influssi subiti dall’Occidente (Cina, Irochesi, Pirati Atlantici…)
I limiti intrinseci della moderna democrazia, insiti nelle disuguaglianze sociali e nella sopraffazione delle minoranze, nonché nel monopolio della Forza
L’ipotesi di una alternativa anarchica di piccole comunità
Mia difesa della democrazia europea, in quanto stato di diritto, in quanto patto sociale ed in quanto territorio della laicità


PARTE 1^: DEBITO

“DEBITO - I PRIMI 5000 ANNI” 1 dell’antropologo americano David Graeber ha avuto notorietà nel 2012, sia perché l’Autore - entrato in contrasto con il sistema accademico - è considerato un ispiratore del movimento Occupy Wall Street, sia perché il tema del debito è risultato centrale nella lunga crisi economica e sociale che sta attraversando l’Occidente.

Graeber propone “un affascinante viaggio nella storia delle diverse civiltà”, entro cui ”pone in serio dubbio l’esistenza stessa del baratto come modello di rapporto commerciale dominante” 2 e quindi l’astrattezza del concetto di “mercato” (come scambio teoricamente tra eguali), su cui si fondano le discipline economiche e nel suo insieme la cultura egemone dell’Occidente (sia nella variante neo-liberista, che – secondo  Graeber – nelle modalità subalterne fatte proprie dal “movimento operaio”).

L’Autore soprattutto impiega il suo sapere antropologico, riferito sia alle civiltà antiche sia alle tribù primordiali esplorate negli ultimi decenni, per dimostrare quanto il baratto risulti marginale (limitato a parte degli scambi esterni alle comunità) rispetto ad assetti sociali impostati sulla comunanza delle risorse, sulla autorità “morale” e sugli incroci di “doveri” non quantificabili, ovvero di “debiti impagabili” (dall’amore materno/paterno/filiale alla riconoscenza per chi ti ha salvato la vita), che presentano pesanti smagliature solo nel trattamento da riservare al “nemico” (estraneo alla tribù), il quale può anche divenire schiavo ed essere considerato, conteggiato e scambiato come “numero” e non come “persona” (in tal modo, tra l’altro, lo schiavismo europeo nell’Africa nera riuscì ad avvalersi delle strutture tribali – al tempo stesso destabilizzandole - per approvvigionarsi di schiavi)
Graeber definisce tali società “econome umane”, cui contrappone (schematizzo) le economie dello scambio, soprattutto se monetario, in cui prevale la spersonalizzazione dei rapporti, la quantificazione dei debiti e il venir meno del criterio di onorabilità per l’accesso al credito.

Mi sembra meno convincente (per la forse eccessiva ricerca di paralleli e convergenze) l’ampio affresco storico con raffronti internazionali sull’intero pianeta, così riassumibile:
-          Antichità (tra l’altro, in Mesopotamia): come estensione del tempio e del palazzo, fondati sull’amministrazione dei beni comuni e sugli scambi di lavoro e cibo, emergono attorno al 3000 avanti Cristo anche i mercati ed i mercanti (nonché il prestito ad interesse), soprattutto in funzione del “commercio estero”, mentre ai margini si organizzano tribù di pastori/predoni antagonisti (inclusi coloro che sfuggono dalle città per evitare la servitù per debito);
-          Imperi assiali (quasi contemporaneamente, dall’800 avanti Cristo al 600 dopo Cristo, nel Mediterraneo, in India, in Cina), caratterizzati da militarismo, schiavismo, monete coniate in metalli preziosi (per il soldo agli eserciti e la spendibilità immediata anche in luoghi remoti e tra sconosciuti) e dallo sviluppo di pensieri “speculativi” (sia nel senso di una filosofia laica, sia in quello del calcolo di convenienza);     
-          Periodi “medievali” successivi, con forme statali ed economiche più labili e “locali”, in cui le antiche monete restano come unità di conto, ma non circolano, e si diffondono invece forme cartacee di regolazione di debiti e crediti, mentre le grandi religioni (ed anche le rivolte contadine, in Cina) mettono in discussione schiavitù ed usura, con il grande sviluppo dei mercati e mercanti mussulmani, attorno all’Oceano Indiano, liberi dalle ingerenze dello stato ed operanti sulla fiducia e l’assenza di prestiti ad interesse e viceversa con lo sviluppo pre-capitalistico dei grandi templi buddisti, imprese collettive e tesaurizzatrici;
-          Imperi coloniali e capitalistici “moderni” (dal 1450 d.C.), con il ritorno dei grandi eserciti, della monetazione metallica e della schiavitù (riservata, per i cristiani, alle razze inferiori ed esercitata in prevalenza fuori Europa) e con il progressivo “sdoganamento” dell’usura (sia per gli Ebrei che per i Cristiani, con le Riforme protestanti a fare da traino), fino all’affermarsi del paradigma indiscusso della presenza costante del prestito ad interesse (e più modernamente con il connesso dogma della “crescita del PIL”); interessante vedere l’inizio della globalizzazione, dal 16^ secolo, con il flusso massiccio di argento dall’Europa e dall’Africa, e poi dalle Americhe, verso la Cina, bisognosa di moneta metallica ed esportatrice di merci pregiate;
-          Età contemporanea o dell’incertezza (parole mie) ovvero “L’inizio di qualcosa ancora da definire”, a partire dall’abbandono americano della convertibilità dollaro-oro (1971) e la diffusione del debito privato (che i poveri però devono vivere come “colpa”, mentre banchieri e speculatori si fanno rimborsare dagli stati) e pubblico, questo motivato e sorretto – per gli USA – dall’esercizio della loro forza militare mondiale.

Mi sembra molto valido il punto di vista non-euro-centrico dell’intero panorama geo-storico e l’approccio dialettico, che evidenzia i conflitti e le crisi, opponendosi a visioni tradizionali di sviluppo lineare e di progressismo ottimista e superando lo schematismo del Marx di “Forme economiche precapitalistiche” (da correlare però alle limitate conoscenze storiche ed archeologiche del tempo).
Meno valida invece la spiegazione della svolta capitalistica dell’Occidente cristiano (aggravata del traduttore che propone “avarizia” in luogo di “avidità”, probabilmente “greed” nel testo originale) che – anche prima della legittimazione luterana e calvinista del prestito ad interesse - ha visto svilupparsi nel suo ambito il successo economico e politico-militare dei banchieri (a partire da Firenze e Genova) e  nonché forti correnti di imperialismo predatorio già prima del Rinascimento, con l’intreccio tra Crociate e repubbliche marinare/corsare, e poi – anche in piena area cattolica -  con l’imperialismo coloniale. 
Ancor meno convincente mi è sembrata la parte finale, che – forse anche per un’ottica nord-americana, che contempla sindacati deboli, proletari militaristi e indebitamento di massa – sottovaluta di fatto la contraddizione tra lavoro salariato e capitale (non solo in Occidente, ma nelle nuove città-fabbriche dell’ex “terzo mondo”), evidenziando - a mio avviso eccessivamente - gli sconfinamenti del primo nel ritorno allo schiavismo e del secondo nella pura rapina “a mano armata” (nel senso del sostegno politico-militare), e privilegiando la questione del debito, non tanto come struttura macro-economica (vedi invece Luciano Gallino 3-4), ma soprattutto a livello antropologico: la ricchezza come dono di Dio e il debito come colpa da espiare
Ad esempio evidenzia l’iniquità dei debiti di studio per gli studenti universitari anglo-sassoni, proponendo come via d’uscita (destabilizzante) l’azzeramento dei debiti stessi e non considerando altre alternative nell’ambito della ridistribuzione del reddito, quali la rivendicazione di salari più alti per i genitori oppure di borse di studio e/o gratuità degli studi superiori (perché comunque, secondo Graeber, il capitalismo non potrebbe soddisfare richieste universaliste, senza andare in crisi).
“Debitori di tutto il mondo unitevi” sembra essere la parola d’ordine per la rivolta anticapitalista ed anti-statuale tratteggiata da Graeber, per ora solo in negativo: per l’Autore è preliminare demolire il paradigma culturale del baratto e del debito; dove andremo lo si scoprirà poi; forse a partire dall’Irak, dove il prestito ad interesse è stato inventato nel 4000 a.C. e poi sospeso per mille anni dai mussulmani; forse altrove.

L’insieme del messaggio mi sembra molto stimolante sotto il profilo culturale, come sollecitazione a rivisitare molte categorie del pensiero corrente esercitando una sorta di “microfisica del potere economico”; poco convincente sotto il profilo della proposta politica, perché se è vero che non si vedono in campo valide alternative di riformismo radicale adeguate alle dimensioni della crisi del finanz-capitalismo (vedi mia nota ai limiti della linea Gallino 3-4), pare difficile generalizzare come modello la rivolta dei contadini-debitori che incendiano il municipio con i registri dei debiti, oppure accontentarsi di un anarchismo de-costruttore, rinviando ad un domani imprecisato gli indirizzi per ricucire il tessuto sociale, cioè accelerare la crisi, in quanto ineluttabile, e prepararsi culturalmente alle bellezze di un nuovo medioevo.


PARTE 2^: DEMOCRAZIA

L’altro testo di Graeber, “Critica della democrazia occidentale” (risalente al 2007, ma tradotto in Italia solo nel 2012), pur essendo più esile, offre spunti interessanti, ed in parte per me nuovi, di lettura storica dei sistemi politici, anche se a mio avviso si chiude infine in una visione anarchica di scarsa prospettiva.

Nella rassegna storica presentata da Graeber emergono:
a)        la confutazione della pretesa continuità di un “modello occidentale”  da Atene a Roma e poi dal Rinascimento all’Illuminismo, a partire dai limiti stessi della democrazia ateniese (sessista, schiavista, ostracista, bellicista, ecc.) e considerando poi anzi:
- il disprezzo della democrazia in molte fasi della storia dell’Occidente, dalla stessa Roma al Cristianesimo, e poi nelle fasi iniziali delle rivoluzioni liberali,
- la sistematica repressione dei movimenti democratici nelle colonie degli imperi occidentali;
b)        la negazione del monopolio occidentale dei valori democratici, con il richiamo invece ad altre fasi e luoghi di potere diffuso, quali l’antica Mesopotamia, alcuni interstizi tra India e mondo Mussulmano, l’assetto delle tribù Maya dopo la distruzione dell’omonimo impero;
c)         il disvelamento di specifici influssi esterni, nella formazione dei moderni stati occidentali, alternativi a quelli ideologicamente sbandierati (Atene e Roma repubblicana), e solo in parte ammessi od ammissibili dagli storici ufficiali, tra cui sugli stati nazionali europei l’influenza dell’impero cinese e sui nascenti Stati Americani gli influssi sia della federazione degli irochesi (in particolare con il loro modello educativo non-repressivo) sia della stessa comunità dei pirati atlantici.

Nel suo ragionamento di fondo emerge a mio avviso una giusta critica ai limiti teorici della stessa democrazia, in quanto “voto a maggioranza tra eguali”, sia per la frequente irrealtà della presupposta uguaglianza, sia per la violenza implicita nella decisione a maggioranza (suo limite esemplare l’ostracismo verso le minoranze).
Secondo Graeber tale assetto comporta o la diffusione del potere armato tra tutti i partecipanti al potere democratico, oppure un potere armato concentrato nello Stato per rendere effettive le decisioni della maggioranza.
Ne consegue una visione anarchica, che contempla la diffusione ugualitaria del potere in piccole comunità assembleari, dove si pratichi la ricerca del massimo consenso e della tendenziale unanimità, e si evitino le “spaccature” che prima o poi evocano la vendetta dei perdenti.
E al di sopra nessuna delega, nessuno stato, nessuna burocrazia.

Apprezzo questa attenzione all’inclusione (vedi Luigi Bobbio6 ed altri) ma non condivido questa visione “zapatista” che non prospetta nessun orizzonte di convivenza per i grandi gruppi sociali che la storia ha prodotto (vedi anche la mia recensione su Magnaghi 7-8); come burocrate, seppure in pensione, mi sentirei inoltre assai disoccupato...
Mi sembra inoltre che la visione di Graeber, forse anche perché americano, trascuri parecchio la nostra esperienza europea:
-           di democrazia come stato di diritto (vedi Costituzione Italiana) e non solo come regime di decisioni a maggioranza: e quindi connotata innanzitutto da uno statuto dei diritti, sia delle persone che delle comunità, in particolare se minoritarie;
-           della democrazia come “patto sociale”, gestito storicamente dai corpi intermedi e capace in qualche misura di rendere organici i conflitti (di classe e non solo) e di far loro sopravvivere la convivenza statuale;
-           nonché la fondamentale conquista illuminista della laicità (seppure radicata in alcuni aspetti della stessa etica cristiana), che differenzia parecchio l’Occidente da altre storie seppur interessanti di diffusione del potere in altre civiltà.

Suggerirei infine di non farsi fuorviare dalla prefazione all’edizione italiana,  di Stefano Boni, che piega il pensiero di Graeber in direzione assai più “antagonista”, con motivazioni poco condivisibili (del tipo, schematizzando: “lo scontro è necessario perché altrimenti i media non ci vedono”); poco condivisibili soprattutto per chi, come me, ha attraversato l’estremismo degli anni ’70 con sofferenza e qualche consapevolezza.



Fonti:
1.    David Graeber  “DEBITO - I PRIMI 5000 ANNI” – Il Saggiatore, Milano 2012
2.    Recensione di “Debito- i primi 5000 anni su “l’Unità” di Alessandro Bertante (luglio 2012)
3.    Luciano Gallino “FINANZ-CAPITALISMO” – Einaudi, Torino 2011
4.    Commento a “FINANZ-CAPITALISMO su questo blog – PAG. I^ FILOSOFIA-SOCIOLOGIA-ECONOMIA
5.    David Graeber “CRITICA DELLA DEMOCRAZIA OCCIDENTALE. NUOVI MOVIMENTI, CRISI DELLO STATO, DEMOCRAZIA DIRETTA” – Eleuthera, Milano  2012
6.    Luigi Bobbio “LA DEMOCRAZIA NON ABITA A GORDIO. STUDIO SUI PROCESSI DECISIONALI POLITICO-AMMINISTRATIVI”  - Franco Angeli, Milano 1996
7.    Alberto Magnaghi “IL PROGETTO LOCALE – VERSO LA COSCIENZA DI LUOGO” Bollati Boringhieri, Torino 2000 e 2011
8.    Aldo Vecchi “IL DIBATTITO SULLA CRESCITA E SULLA SOSTENIBILITA’ DEI FENOMENI URBANI E METROPOLITANI (PARTE 2^) su “UTOPIA21”, luglio  2017https://drive.google.com/file/d/0BzaFw8WEAEgYbVVSYVBVQ3M0bEU/view?usp=sharing

UTOPIA21 - LUGLIO 2018: CONVERSAZIONE-INTERVISTA CON FRANCO PARACCHINI SULLE VICENDE DELLA TEMATEX E DELLA COMECOR DI VERGIATE



                                                           
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Dalle lotte per la difesa dei posti di lavoro, minacciati dalle ripetute crisi aziendali (1971 e 1981), alla esperienza originale, per la nostra zona, della formazione di una cooperativa di produzione metalmeccanica, attiva dal 1985 al 2017, tra successi e difficoltà. Ne parliamo con uno dei principali protagonisti.

Sommario:
-       Profilo biografico dell’intervistato
-       La Tematex dal 1957 nel tessuto produttivo tra Sesto Calende e Vergiate
-       La crisi della Tematex nel 1971, le lotte e l’occupazione dello stabilimento
-       L’intervento delle Partecipazioni Statali
-       La crisi del 1981 ed il disimpegno dell’ENI
-   La formazione della Cooperativa COMECOR, ancora nel settore meccano-tessile: spinte ideali e occasioni concrete
-       La diversificazione produttiva e l’incorporazione della OMEC
-   Alterni rapporti con il sistema cooperativo e con gli altri soggetti economici ed istituzionali
-       L’impatto con la “grande crisi” degli ultimi anni e la liquidazione della Comecor
-  Valutazioni sugli aspetti gestionali, organizzativi e soggettivi dell’esperienza di autogestione

PROFILO BIOGRAFIOC DI FRANCO PARACCHINI
Nato a Castelletto sopra Ticino (Novara) nel 1951, diplomato all’ITIS “Leonardo da Vinci” di Borgomanero, ha lavorato dal 1974 alla Tematex di Vergiate. Dopo la crisi aziendale del 1981 ha vissuto l’intera vicenda della Cooperativa COMECOR di Vergiate in qualità di impiegato con funzioni direttive e di amministratore, ricoprendo anche le cariche di Presidente e poi di Presidente Onorario. 
E’ stato consigliere comunale e assessore all’Urbanistica nel Comune di Castelletto s/Ticino e consigliere e assessore della Provincia di Novara, prima al Territorio (1996-2000) e poi all'Ambiente (2005-2009), nonché consigliere ed amministratore di organismi sovracomunali (Consorzio Parco Ticino, Consorzio Medio Novarese per i rifiuti, Consorzio acque Reflue del basso Verbano).

PREMESSA: in un territorio già fortemente industrializzato nella prima metà del novecento, tra Sesto Calende e Vergiate la Tematex, con circa 300 operai nel settore delle macchine tessili, era sorta nel 1957 ed insediata in uno dei vari stabilimenti dismessi dalla SIAI-Marchetti, a monte dell’attuale casello autostradale (SIAI che era arrivata nella 2^ guerra mondiale a gestire una dozzina di fabbriche, non solo attorno a Sesto, ma anche in Piemonte, fino a Borgomanero ed Intra).

D. La crisi della Tematex nel 1971 derivava da problemi economici generali dopo l’espansione degli anni ’60, da una contrazione del settore meccano-tessile oppure da particolari condizioni aziendali?

R. La Tematex  ha vissuto 2 momenti di crisi: il primo, nel 71 quando era ancora un'azienda privata, aveva avuto successo soprattutto grazie all’interscambio con i paesi dell’Est europeo ed in particolare con l’allora Cecoslovacchia, alla quale forniva macchinario tessile in cambio di macchine utensili. La crisi aveva origini essenzialmente finanziarie. La lotta sindacale fu sostanzialmente in difesa dei posti di lavoro, con tanto di occupazione della fabbrica durata 40 giorni, e fu vincente perché si risolse con un intervento pubblico. L’azienda infatti, fu acquisita dal gruppo EGAM e successivamente passò nel comparto meccano-tessile dell’Eni: un settore che era ancora in fase espansiva. La seconda crisi intervenne dieci anni più tardi, ma di fatto fu fatale per la continuità produttiva ed occupazionale, nonostante sei mesi di lotte sindacali, comprendenti tentativi di ristrutturazione e/o riconversione.

D. Nella lotta per la difesa dei posti di lavoro alla Tematex emersero tratti specifici, rispetto alla storia sindacale in zona e rispetto ai movimenti radicali di quegli anni, non solo nelle fabbriche?

R. Dal punta di vista sindacale, per come si determinarono le forme di lotta, la vertenza del 1971 fu una novità assoluta, e non solamente nel contesto locale. Occupazione della fabbrica, presidi permanenti, coinvolgimento degli enti locali, delle parrocchie, dei rappresentanti istituzionali oltre che dei partiti politici, manifestazioni pubbliche per sensibilizzare i cittadini, incontri in sedi ministeriali, furono considerate un vero e proprio modello che poi venne seguito da molte altre realtà.




Figura 1 – La Tematex occupata nel 1971


D. E la seconda crisi, nel 1981?

R. La seconda crisi vissuta dalla Tematex, invece, fu conseguente alle difficoltà venutasi a creare nel settore meccano-tessile e più in generale nel settore industriale di quel periodo, sia per progressiva saturazione del mercato di riferimento, sia per una discutibile gestione industriale e politica del gruppo Eni-Savio. La fabbrica, come nel 71, venne occupata dai lavoratori, ma i 6 mesi di lotta non riuscirono a impedirne la chiusura.
In questo caso, nonostante tutte le iniziative, le assemblee, le manifestazioni (Milano Roma Genova Pordenone) e gli incontri con i sindaci di Vergiate e dei paesi limitrofi, con i consiglieri e/o assessori regionali, con i parlamentari, ai ministeri ed i confronti con la dirigenza del gruppo Eni-Savio, rimase la scelta di chiudere la Tematex, ufficialmente in una logica di ristrutturazione del settore, secondo le direzioni aziendali, ma più verosimilmente - secondo le nostre valutazioni - per ragioni politiche. (Vergiate anello debole anche sindacalmente, pur in un contesto di coordinamento sindacale, rispetto a Genova, Imola, Pordenone e Firenze: le altre sedi del gruppo)
Le diversità rispetto alla precedente crisi aziendale per quanto riguarda la vertenza sindacale furono molte, aldilà delle simili iniziali forma di lotta.
Innanzitutto ci fu la capacità del Consiglio di Fabbrica e di alcuni tecnici di elaborare un piano di ristrutturazione, che se fosse stato preso in considerazione avrebbe garantito la permanenza di una unità produttiva nel settore delle macchine tessili, pur con un previsto sacrificio occupazionale. In seguito ci fu la gestione della mobilità di una parte dei lavoratori in alcune società dell’Eni (AGIP, SNAM di Rho e San Donato milanese) ed altri nel gruppo Agusta, poi per altri lavoratori furono contrattate le dimissioni a fronte di incentivi. Di fatto quasi nessuno degli oltre 300 dipendenti rimase senza lavoro.

D. Perché negli esiti della vertenza comparve l’ipotesi di una gestione cooperativa di una parte degli impianti, seppur limitati al capannone più recente, localizzato a Corgeno (frazione di Vergiate)?

R. Falliti anche i tentativi di cessione dello stabilimento ad imprenditori privati, un gruppo di noi (tra i più sindacalizzati, già componenti del CdF ed in maggioranza iscritti e/o simpatizzanti del Partito Comunista Italiano) si costituì in comitato promotore. Dopo aver scartato l’ipotesi di una cooperativa nel settore della manutenzione del verde (iniziativa ripresa anni dopo da un nostro socio fondatore), con l’obiettivo sempre rivendicato di mantenere in Vergiate almeno una unità produttiva, si manifestò alla direzione l’intenzione di realizzare una cooperativa finalizzata alla costruzione dell’ultima macchina rimasta nella gamma delle macchine di preparazione alla filatura tra quelle che produceva la Tematex (la macchina a strappo). La stessa era stata recentemente riprogettata ed aveva un discreto mercato (ritenuto però dalla direzione Eni-Savio non sufficiente dal punto di vista della necessaria massa critica per poterlo inserire, in equilibrio tra costi e ricavi, nella filiera produttiva della stabilimento di Imola). Infatti nello stabilimento di montaggio (quello di Corgeno) si stavano completando, a distanza di oltre 2 anni dalla chiusura dello stabilimento di Vergiate, le ultime code produttive della gestione Tematex e quindi 4 dei nostri futuri soci, che già operavano lì a tempo pieno, sulla base della loro conoscenza e competenza, ci suggerirono di insistere nella direzione indicata dal gruppo promotore, costituitosi circa un anno prima, e di dar vita alla Cooperativa Comecor.

i soci fondatori

Figura 2 - I soci fondatori della COMECOR


D. Puoi riassumere la vicenda della fondazione della CO.ME.COR. (Cooperativa Meccanica Corgeno)? C’erano fattori esterni favorevoli a tale scelta, di tipo ideale (autogestione, socialismo, ruolo dirigente della classe operaia) oppure di carattere pratico (aiuti, commesse, sostegno organizzativo)?

R. Personalmente mi occupai delle premesse e successivamente delle procedure costitutive con il supporto di Legacoop Lombardia (alla quale poi Comecor aderì), in particolare con l’associazione delle Coop di produzione e lavoro con sede a Milano (a Varese purtroppo non esisteva una struttura specifica di riferimento per le Coop di lavoro). Con la consulenza ed il supporto di un bravo funzionario, Osvaldo Meazza (deceduto prematuramente), decidemmo di elaborare un piano di fattibilità per verificare a quali condizioni preliminari la cooperativa avrebbe potuto avviare l’attività. Allo scopo fu richiesta ed ottenuta la disponibilità della direzione Cognetex di Imola (gruppo Eni-Savio), nostro potenziale cliente di destinazione delle macchine a strappo (MSC), di supportare il gruppo promotore nella elaborazione del suddetto piano di fattibilità. La Cognetex mise a disposizione due tecnici che, assieme ai nostri soci più tecnicamente qualificati, per circa un anno lavorarono all’analisi tecnica/economica dei componenti della produzione, ivi compresi gli spazi fisici, gli impianti ed i macchinari necessari. Al termine di questo complesso lavoro di elaborazione dei dati, verificata la possibile fattibilità, ci fu la trattativa vera e propria con la controparte/cliente, che sfociò nella sottoscrizione di una lettera d’intenti. Il contratto vero e proprio fu poi sottoscritto dalle parti subito dopo la costituzione della Comecor, che avvenne l’8 ottobre del 1985. La trattativa comprese e definì il numero iniziale dei lavoratori ex Tematex impiegati (11) e le rispettive buonuscite (messe dai soci nel capitale sociale), i macchinari e gli arredi per attrezzare l’officina ed i rispettivi costi. Lo stesso contratto prevedeva la fornitura da parte di Comecor di 12 macchine tessili all’anno per 3 anni. La realizzazione doveva avvenire su disegni e distinte del cliente (la Cognetex di Imola) che si riservava il collaudo funzionale a fine montaggio. Naturalmente l’attività si avviò gradualmente, a partire dai primi di novembre dell’85, con le code di montaggio. Nella primavera dell’86 iniziò l’attività complessiva (costruzione e montaggio), dopo aver trasferito i macchinari e le attrezzature necessarie da Vergiate a Corgeno in una parte dello stabilimento (circa 2000 mq), concesso in comodato gratuito. Vennero poi assunti un’impiegata amministrativa ed un operaio ex Tematex (non interessato ad associarsi) specializzato nella conduzione di un centro di lavoro a controllo numerico (uno dei macchinari più importanti). Per la gestione fiscale, paghe, contributi e bilancio ci appoggiammo inizialmente allo studio Colombo di Sesto Calende, che - attraverso il titolare (Andrea, anch’egli purtroppo scomparso) - svolse un importante supporto di consulenza anche nelle fasi di definizione degli accordi contrattuali. Per l’assistenza tecnica e per la manutenzione, inizialmente, pur senza far parte della Coop, ci diedero un valido supporto a tempo perso alcuni nostri colleghi della Tematex. Successivamente grazie al ricorso ed ai benefici della legge Marcora, nata proprio nello stesso anno di fondazione della Comecor e che aveva come finalità far nascere cooperative tra lavoratori di aziende in crisi, ottenemmo il finanziamento necessario per acquistare il capannone ed i macchinari. Nei primi sette anni di vita l’attività andò meglio delle previsioni. Infatti il numero di macchine richieste e prodotte dapprima raddoppiò e poi triplicò. Questa situazione, se da un lato permise una crescita del fatturato, degli utili, dell’occupazione (altri 3 dipendenti ex Tematex entrarono in Coop) ed un miglioramento delle condizioni economiche dei soci e dei dipendenti (furono possibili aumenti di stipendio, remunerazione del capitale sociale, gite sociali aperte anche ai famigliari), rese complicato e debole il ricorso alla necessaria diversificazione produttiva. Infatti il venir meno delle commesse della Cognetex di Imola, che rappresentavano 80% circa del fatturato, misero la Comecor in difficoltà. La ragione principale della perdita di questo fondamentale cliente fu la decisone governativa di privatizzare tutte le aziende del gruppo Eni –Savio, con la conseguenza che il privato che acquistò la Cognetex (la Sant’Andrea di Novara) non scelse di decentrare la produzione delle macchine a strappo. Di fatto per la Comecor cessò l’operatività nel settore.

D. Da allora avete cercato di diversificare la Vostra produzione?

R. Nel tentativo di ricercare alternative ci imbarcammo in una iniziativa sponsorizzata da un funzionario di Legacoop, che purtroppo si rivelò disastrosa. La Coop di Cremona (una carpenteria), con la quale avremmo dovuto in partnership costruire macchine per la produzione dei pannolini, era di fatto in mano ad un personaggio che avrebbe dovuto svolgere il ruolo del tecnico commerciale, ma si rivelò assolutamente inaffidabile e deleterio per entrambe le realtà. In particolare trascinò la Coop di Cremona al fallimento e la Comecor si salvò grazie alla solidità patrimoniale ed alla tempestiva uscita dal legame societario in cui ci eravamo infilati. Non senza sacrifici anche in capo ai soci, ci ricollocammo nel mercato più generale delle lavorazione meccaniche conto terzi, senza tuttavia rinunciare alla ricerca di produzioni più complesse, ma da quel momento dovemmo rinunciare a tutta una serie di benefici individuali. Iniziarono da allora tutta una serie di iniziative in diversi settori. In particolare nel settore delle macchine per materie plastiche, nel settore siderurgico e delle macchine del settore ceramico. In seguito acquistammo i brevetti della ditta Ferrari di Borgoticino, che realizzava presse per tintoria, ma il cui mercato, sufficientemente remunerativo, purtroppo non andò oltre le forniture al gruppo Golden Lady, nonostante le innovazioni effettuate dal nostro tecnico progettista. Questa nuova opportunità ci indusse, per ragioni commerciali, a promuovere una brochure per reclamizzare meglio i nuovi prodotti e le caratteristiche della nostra officina meccanica, inserendo nella carta intestata della ditta il logo Presse Ferrari, ed a partecipare ad alcune fiere del settore. Un’altra iniziativa fu l’avvio della produzione delle pompe dosatrici: un’esperienza completamente nuova nel campo della lavorazione dell‘acciaio inox su un progetto della nascente Tecnofluss. L’iniziativa servì sicuramente come esperienza, ma non ebbe riscontro positivo dal punto di vista economico. Si consolidarono invece nel tempo i rapporti con due principali clienti: la Siti di Marano Ticino (settore impianti per l’industria ceramica), concorrente della Sacmi di Imola. (Questa era la più grande cooperativa metalmeccanica italiana con un mercato a livello mondiale, aderente a Legacoop, della quale, nonostante numerosi tentativi, non siamo mai riusciti a divenire fornitori). E la Amut (settore impianti per materie plastiche) di Novara, che per molti anni costituirono lo zoccolo duro del fatturato.

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Figura 3 – l’interno della COMECOR

D. Siete così arrivati al secolo 21° ….

R. Nel 2002 uno sviluppo importante fu l’acquisizione del ramo d’azienda della Omec srl di Landoni, un’azienda nostra fornitrice, con sede a poca distanza dal ns. capannone, che operava nel settore della carpenteria meccanica leggera . Una operazione che nei convegni di Legacoop andava sotto l’impegnativa definizione inglese “workers buyout”, la cessione dell’azienda da parte di un imprenditore senza eredi ai lavoratori della stessa. In effetti si trattò di un acquisto da parte della cooperativa, ma ai lavoratori della Omec venne offerta la possibilità di entrare in Comecor come soci. Alcuni di loro accettarono la proposta perché fu loro offerta la possibilità di acquistare, a metà del valore, le quote di capitale sociale dalla CFI (Compagnia Finanziaria Italiana). La stessa, in virtù dell’applicazione della legge Marcora, partecipava dall’87, in qualità di socio finanziatore alla ns. Coop, con una quota del valore di 3 volte il capitale dei soci/lavoratori Comecor e proprio in quella circostanza aveva deciso di dismettere la sua partecipazione. La Omec, che operava prevalentemente nel settore ferroviario (in particolare nella realizzazione dei componenti e delle porte dei treni e degli autobus) continuò per i tre anni successivi ad operare nel capannone di proprietà del sig. Landoni, al quale la Comecor pagava l’affitto. Lo stesso sig. Landoni partecipò in qualità di socio sovventore alla compagine Coop ed affiancò un nostro socio nella direzione dell’officina fino al 2005, quando venne deciso di accorpare nello stabilimento di proprietà della Comecor anche il reparto carpenteria. Con l’occasione, ed in conseguenza di una modifica statutaria, al logo aziendale tradizionale venne affiancato quello della Omec e venne leggermente modificata anche la dicitura che divenne C. Omec.or società cooperativa.

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Figura 4 – Il nuovo logo Comecor

D. Ma poi è arrivata la “grande crisi” (che – paradossalmente - invece ha spinto altri lavoratori in lotta a tentare nuove esperienze di autogestione)?

R. La scelta di strategia industriale che nei primi anni dopo l’acquisizione della Omec si era dimostrata positiva, purtroppo dal 2005 risentì gradualmente degli effetti della grave crisi industriale e finanziaria che colpì il nostro paese e non solo il nostro settore in particolare. Ciò determinò varie problematiche organizzative, finanziarie ed occupazionali (mancati pagamenti da parte dei clienti, riduzioni delle commesse, cassa integrazione, riduzione del personale, difficoltà nei rapporti tra i nuovi soci, ecc). Le difficoltà si trascinarono per l’intero decennio successivo. Solamente il ricorso alla Cassa Integrazione e la buona patrimonializzazione della Coop, dovuta alle riserve accumulate negli anni precedenti, consentirono di proseguire un’attività sempre più ridotta e senza la possibilità di ulteriori investimenti che si erano resi necessari, sia per la sostituzione dei macchinari ormai obsoleti, sia per l’acquisto di nuovi e più moderni strumenti di lavoro. Accanto a queste difficoltà si evidenziarono carenze nella direzione aziendale, che comportarono negli ultimi anni un distacco dei soci dai principi di solidarietà e di spirito di servizio che avevano caratterizzato la nascita della cooperativa. Il pensionamento di tutti i soci fondatori (rimasti nella compagine sociale, ma solo come soci sovventori senza ruoli operativi), le dimissioni di diversi soci/lavoratori per le difficoltà finanziare intervenute (mancato pagamento degli stipendi), ed il venir meno del rapporto di fiducia nel futuro della società, costrinsero di fatto l‘esigua compagine rimasta (6 addetti) ad optare per la messa in liquidazione della Coop, dopo aver verificato l’impossibilità di alternative produttive e dopo aver riscontrato l’interesse di una impresa con sede confinante con la proprietà Comecor ad acquisire il capannone . Da qui a fine 2017 la chiusura definitiva dell’attività, dopo aver venduto tutti i macchinari e le attrezzature presenti e saldato positivamente tutte le pendenze aperte.

D.  Liberarsi dal ‘padrone’ poteva sembrare un’utopia praticabile? La scelta personale di assumere un ruolo imprenditoriale (anziché cercarvi un altro lavoro salariato) l’avete vissuta come un azzardo?

R. Credo che per molti di noi la scelta di formare una Coop fu il tentativo di uscire dalla condizione di lavoratore dipendente, dopo aver vissuto in Tematex, anche nella gestione pubblica, un’altra esperienza negativa. Una scelta consapevole che per le condizioni economiche individuali e per la condivisione degli ideali politici non poteva che essere quella di diventare imprenditori collettivi.

D. Il movimento cooperativo in Italia era tradizionalmente forte nei settori agro-alimentare, edilizio e nella distribuzione commerciale (più tardi anche in servizi, assicurazioni e finanza); molto meno nel manifatturiero. Vi sentivate un po’ isolati (“il socialismo in una sola carpenteria”) oppure in realtà ci sono state altre valide esperienze cooperative anche in questi settori? C’erano dei “modelli” esterni che furono presi in considerazione? E che relazioni furono stabilite con altre esperienze similari? Si ravvisò l’esigenza di sostegni di qualche natura, da parte delle istituzioni o da forme associative?   Quali sono stati, in questi decenni, i rapporti con gli altri soggetti esterni (comunità locale, movimento cooperativo, sindacati e partiti, istituzioni)?

R. Come già ho detto, oltre alla solidarietà politica tra i promotori, ci fu indubbiamente una disponibilità della dirigenza del gruppo Eni-Savio a favorire la nascita della Coop, probabilmente con un duplice obiettivo. Chiudere definitivamente la lunga vertenza sindacale e rendere attuabile una legge dello stato (legge Marcora). Il ruolo del movimento Coop si rivelò positivo particolarmente nella fase di preparazione e formazione della Coop. Sicuramente la debole presenza di Coop nel settore manifatturiero nel contesto provinciale e regionale, diversamente che in Emilia Romagna, al di là delle affermazioni di principio nei congressi e nei convegni della Legacoop su “reti, aggregazioni, integrazioni”, non ha mai prodotto risultati concreti. Meglio hanno funzionato gli strumenti finanziari del sistema Coop ai quali la Comecor ha sempre partecipato e dei quali ha tratto relativi benefici. Ci sono stati alcuni tentativi di approccio con altre Coop del settore metalmeccanico sia Lombardo che di altre regioni (Emilia Toscana Liguria), ma senza conseguenze significative, se si esclude qualche marginale rapporto di fornitura con la Frigorcoop di Sesto Calende e con una Coop emiliana.  Per quanto riguarda il rapporto con le istituzioni locali vi è stato un buon rapporto con il Comune di Vergiate ed in particolare con l’amministrazione Mozzini, che dopo la chiusura si era fatta carico del recupero dell’intera area Tematex di Corgeno e della sua destinazione alle varie aziende interessate all’acquisto. Abbiamo partecipato a diversi bandi di finanziamento della Regione Lombardia ottenendo qualche contributo, fino a quando anche queste forme di sostegno regionali vennero sospese.

D. Il nome COMECOR che riecheggia COMECON (l’area economica comune che allora Collegava l’Unione Sovietica con gli altri paesi del blocco comunista) implicava un giudizio ancora positivo sulla ‘spinta propulsiva’ della rivoluzione del 1917?

R. L’acronimo Comecor fu attribuito dopo un discreto dibattito. Da un lato alcuni di noi avrebbero preferito farlo derivare più marcatamente dal più completo nome Cooperativa Meccanica Corgeno, ma la maggioranza, preoccupata della possibile discriminazione politica, decise per il più asettico Costruzioni Meccaniche Corgeno. La minoranza si adeguò accontentandosi del richiamo al nome del più famoso ente commerciale dell’Unione Sovietica, non ancora caduta in disgrazia.

D. Rispetto alla conduzione padronale, la produzione autogestita si profilò in termini di continuità oppure con importanti discontinuità riguardo al tipo di produzione, alla divisione del lavoro, alle condizioni dei soci e di quella dei lavoratori dipendenti (salari, orari, ritmi di lavoro), ai rapporti con i mercati (fornitori, clienti, banche)?

R. L’organizzazione del lavoro, con le dovute distinzioni, aveva dei punti in comune con quella della Tematex, d’altra parte inevitabilmente la nostra esperienza veniva da lì. Inizialmente anche stipendi ed orari di lavoro furono gli stessi di quelli praticati dall’azienda madre, successivamente venne adottato un contratto delle aziende metalmeccaniche Coop, che però non si differenziava molto da quello della Confindustria. Per quanto concerne i rapporti commerciali, essi si basavano sulla trattativa privata come per qualsiasi altra attività, mentre per i rapporti bancari come riferimento esistevano accordi quadro tra il sistema bancario e le Coop, anche se spesso erano migliori i rapporti stabiliti direttamente con gli sportelli locali.

D. Come funzionava la governance interna? Quale ruolo avevano i dirigenti e i soci e quali i dipendenti? Vista oggi, si possono rilevare deficit nella gestione? Si potevano praticare altre scelte? Da quali cause è dipesa principalmente la chiusura, seppur non traumatica, della Vostra esperienza?

R. Con riferimento alla funzione operativa non esisteva la qualifica di dirigente: i livelli più alti erano quelli di impiegato con funzioni dirigenziali. Esistevano comunque diversi livelli di qualifica e retribuzione contrattuale anche tra gli operai. Per quanto riguarda la parte amministrativa, si faceva riferimento allo statuto che prevedeva tra l’altro, che ogni 3 anni l’Assemblea nominasse un Consiglio di Amministrazione, un Presidente ed un Vice. Sostanzialmente Presidente e Vice, per quasi l’intera vita della Comecor, sono stati anche una sorta di esecutivo del CdA ed hanno svolto anche il ruolo tecnico commerciale e finanziario amministrativo per la parte operativa. Sicuramente sono stati commessi diversi errori di valutazione nelle scelte operative (investimenti, fornitori, clienti), ma soprattutto su alcune figure professionali, sia con funzioni direttive sia operaie. Quanto questi errori abbiano influito sulla chiusura dell’attività, rispetto alla crisi generale che ha investito l’industria in generale, non è facile da stabilire.

D. Si può ipotizzare un legame di memoria inter-generazionale tra la Vostra autogestione e le vicende più remote della Vetreria di Sesto e meno remote del Consiglio di Gestione che affrontò lo smantellamento e la riconversione del gigantesco apparato industrial-militare della SIAI Marchetti nel 1945?

R. Credo di no.

D. In Tematex e Comecor hai trascorso gran parte della Tua vita professionale, come tecnico e come manager, come socio e come Presidente, infine “onorario” (anche se le Tue esperienze di consigliere e assessore, sia comunale che provinciale, e di vita di partito, ne hanno ampliato gli orizzonti) e così è stato per buona parte dei Tuoi colleghi: ritieni di poterne trarre un bilancio anche sotto il profilo dei rapporti umani e delle speranze/no di “un mondo migliore”?

R. Indubbiamente l’esperienza in Tematex è stata straordinaria sia dal punto di vista professionale che umano. Ma è stata anche un’esperienza di formazione politica e sindacale formidabile. La solidarietà tra i lavoratori, l’alto livello delle relazioni sindacali, la conduzione democratica ed il buon livello tecnologico dell’azienda, hanno creato le condizioni per una maturazione individuale e collettiva di molti di noi. Non è stato un caso che molte siano state le persone che hanno ricoperto posti di responsabilità nelle amministrazioni pubbliche locali (sindaci, assessori, consiglieri). Per chi ,come il sottoscritto, ma non solo, credeva negli ideali della sinistra, poter fondare una cooperativa figlia di quell’esperienza, nella patria dell’industria metalmeccanica (Lombardia), era il massimo dell’ambizione e della soddisfazione. Il fatto poi che questa esperienza sia durata dieci anni di più dell’azienda madre è stato un ulteriore motivo di soddisfazione.

D. Quali insegnamenti si possono trarre da quella esperienza, eventualmente per orientare e facilitare la nascita e lo sviluppo di iniziative similari? O il modello cooperativo non ha prospettive future (oppure non le ha nel manifatturiero)?

R. Oggi sicuramente è più difficile pensare di ripetere esperienze simili. Mi pare che non solo manchino le spinte ideali per andare in questa direzione, ma al contrario ci sia un riflusso individualistico, che purtroppo non favorisce le scelte di responsabilità collettiva. Inoltre negli anni molti provvedimenti dei governi di centrodestra hanno penalizzato il sistema cooperativistico attraverso un notevole aggravio della tassazione. Si tratterebbe, in questo caso, di ripristinare alcune agevolazioni fiscali, mentre invece da questo punto di vista, sono messe sullo stesso piano delle società private che - diversamente dalle Coop - hanno scopo di lucro. A maggior ragione questa operazione diventa ancora più difficile nel caso di aziende come la Comecor, dove per gestire una officina meccanica occorrono centinaia di migliaia di euro.



UTOPIA21 - LUGLIO 2018: L’UTOPIA (ITALIANA) DEL DIRITTO A UNA CASA, PER TUTTI


PER LE IMMAGINI VEDI IL SITO DI "UTOPIA21"
 www.universauser.it

Una riflessione storica e di prospettiva sulla centralità della casa, tra i bisogni che connotano il vivere civile, e sulla marginalità che invece contraddistingue, negli ultimi decenni, le politiche pubbliche italiane in materia di edilizia sociale, sullo sfondo di una Europa disomogenea e polarizzata dai flussi migratori

Riassunto:
-       le iniziative pubbliche e private per il bisogno di casa dal Regno d’Italia alla ‘Prima Repubblica’
-       la “casa come servizio sociale”
-       l’inversione di tendenza privatistica
-       l’esclusione dal diritto alla casa: problema di minoranze (e di immigrati)
-       l’insufficienza dell’ “housing sociale” in questo inizio di secolo
-       invece in Nord-Europa…
-       le condizioni per rendere possibile anche in Italia l’utopia di una casa per tutti:
o   battaglia culturale per l’inclusione sociale
o   risorse adeguate da un fisco più giusto
o   una diversa concezione dello sviluppo
o   una offerta articolata a fronte di bisogni segmentati e della necessità di ricucire società e territori

Nel dibattito pubblico italiano, mentre si danno per scontati alcuni diritti sociali (un tempo universali, oggi sempre più caratterizzati da forme di esclusione a danno degli immigrati) quali quello alla salute (dove lo Stato definisce addirittura, almeno in teoria, “Livelli Essenziali di Assistenza”) ed all’istruzione (anche qui esiste un “obbligo”, anche qui resta talora teorico), e si confrontano strategie per estendere il diritto al lavoro e/o al reddito, manca invece il riconoscimento di un “diritto alla casa”.

Non è stato così in passato: i primi passi dell’edilizia popolare sotto il Regno d’Italia erano caratterizzati per lo più da ristrette politiche di inclusione sociale in favore di minoranze privilegiate (impiegati dello Stato; dipendenti di imprenditori illuminati e/o paternalistici), cui il Fascismo aggiunse soprattutto le case coloniche nelle zone di bonifica; i primi decenni della Repubblica videro invece lo sviluppo di iniziative edilizie, pubbliche o sovvenzionate, di grande respiro (riforma agraria, INA Casa e Gescal, cooperative), finanziate anche con trattenute sui salari di tutti i lavoratori dipendenti e potenzialmente indirizzate ai fabbisogni abitativi degli stessi lavoratori, raggiungendo una significativa incidenza sia sulla produzione annua di nuove case, sia sulle dimensioni complessive del patrimonio abitativo (pur senza raggiungere le quote più elevate, tipiche dei grandi paesi dell’Europa settentrionale e centro-occidentale).1,2,3,4

Figura 1 – inaugurazione di case popolari

Contestualmente, al livello culturale, gli sforzi per la ricostruzione post-bellica - prima - e poi la ricerca di una attenuazione degli squilibri migratori connessi al ‘boom’ economico, erano affiancati da una attenzione al raggiungimento degli standard di “un alloggio per ogni famiglia” e di “una stanza per abitante” (anche se nella media statistica restava un po’ nascoste le fasce di sovraffollamento, per la nota legge del ‘pollo di Trilussa’), dalla consapevolezza del necessario intervento pubblico e da un diffuso impegno di teorici e progettisti sui temi della casa per tutti e dei quartieri popolari (il tutto facilitato da una concezione univoca della famiglia mono-nucleare, allora in ascesa, rispetto al precedente assetto patriarcale).

Anche se non iscritta nella Costituzione NOTA A, dagli anni 50 agli anni 80 l’aspirazione ad una casa decorosa per tutte le famiglie divenne in effetti un carattere ‘costituente’ del confronto politico e civile. Cui contribuì anche l’iniziativa privata, producendo alloggi in affitto ed in proprietà, nonché un graduale molecolare processo di adeguamento igienico delle case più vecchie, che erano sorte nei precedenti secoli e decenni senza bagni, senza gabinetti (e addirittura senza acqua corrente) all’interno delle abitazioni.
Il culmine di questo processo, di certo non lineare né univoco (stante le fiere contrapposizioni ideologiche e politiche, lungo tutta la cosiddetta ‘Prima Repubblica’, tra democristiani e comunisti - con i socialisti nel mezzo – i primi puntando sulle case in proprietà ed a riscatto, i secondi sugli affitti a canone sociale) può essere simbolicamente indicato nello sciopero generale del 19 novembre 1969, in pieno ‘autunno caldo’, indetto da CGIL-CISL-UIL per “la casa come diritto sociale”; si affermava una concezione dinamica della casa come servizio e si diffondevano le cooperative “a proprietà indivisa”, su terreni assegnati dai Comuni in solo “diritto di superficie”, in contrapposizione alla tradizionale ideologia privatistica della casa come patrimonio della famiglia: una modernizzazione di carattere solidaristico, ma al tempo stesso funzionale ad una ragionevole flessibilità nella distribuzione della forza-lavoro sul territorio. 5


Figura 2 – una manifestazione davanti alla FIAT di Torino

Nei decenni successivi, però, il pendolo prese ad oscillare nella direzione opposta: la diffusione del benessere rese possibile l’accesso alla proprietà della casa anche per buona parte dei ceti subalterni e tale opzione venne facilitata da apposite politiche creditizie e fiscali; l’intervento pubblico per l’edilizia popolare si affievolì, fino ad arrivare, dagli anni ’90 alla soppressione definitiva dei ‘contributi Gescal’ ed a diversi tentativi di privatizzare il patrimonio residenziale pubblico (nonché allo smantellamento, spesso volontario, delle cooperative indivise ed alla conversione dei terreni edificati da diritto di superficie in piena e frazionata proprietà).

Alla vigilia della ‘grande crisi’ degli ultimi 10 anni, diversi cicli di sviluppo edilizio e di speculazione immobiliare (compresi abusivismo e condoni) avevano portato ad estendere la proprietà della propria residenza ad oltre il 70% delle famiglie italiane, rendendo minoritarie le situazioni di disagio abitativo, vissute da frange marginali della popolazione autoctona (giovani, precari, disoccupati, single e divorziati) e sempre di più anche da quota parte della popolazione immigrata, regolare ed irregolare (un insieme di soggetti che nelle grandi città è coinvolto spesso in occupazioni abusive di edilizia abitativa – e non solo – per lo più pubblica ed in stato di degrado, e per lo più gestita da organizzazioni criminali, talora invece da centri sociali antagonistici): il che può spiegare la scarsa attrazione elettorale che negli ultimi decenni riveste il tema del ‘diritto alla casa’.NOTA B



Figura 3 – nuovi grattacieli a Milano

La crisi (che non ha esaurito le spinte speculative verso gli immobili di prestigio, vedi i nuovi grattacieli milanesi) ha invece fermato la corsa ai mutui e ridotto la possibilità di ripetere per figli e nipoti l’accesso alla casa in proprietà che era riuscito a nonni e genitori, ed ha acuito le condizioni di disagio anche in relazione ai procedimenti di sfratto di numerosi inquilini nonché di una parte dei mutuatari, moltiplicando la quantità dei senza-casa ridotti a vivere in immobili degradati oppure direttamente in strada, concentrati soprattutto nelle grandi città; spesso la perdita della casa, conseguente alla perdita del lavoro e connessa a crisi famigliari, comporta e acuisce lo smarrimento dell’equilibrio psichico delle persone colpite, rendendo più difficile il recupero ed il re-inserimento sociale, quando perseguito dagli organismi di volontariato e dalle amministrazioni sociali più sensibili ed attrezzate.

Associazioni ed Enti che – con il supporto delle Fondazioni Bancarie e l’impegno di una frazione del mondo accademico (la maggioranza degli architetti insegue purtroppo i miti modaioli del lusso, delle ville e dei grattacieli) – negli ultimi anni sono riusciti anche ad affinare ed a sperimentare nuove modalità di intervento in favore del bisogno di casa, il cosiddetto “housing sociale”,6 articolato in relazione alle diverse qualità dell’assistenza necessaria (per i vari segmenti del fabbisogno, dagli studenti alle giovani coppie, dagli anziani ai diversamente abili), ma purtroppo quantitativamente impari rispetto alla domanda inevasa.
Tale domanda pertanto – quando gli interessati ne possiedono i requisiti – rimane compressa nelle liste di attesa per l’assegnazione dei pochi alloggi di edilizia popolare che si liberano per i decessi dei precedenti assegnatari (rari sono i casi di effettivo rilascio per il sopravvenuto superamento dei limiti di reddito), spesso in competizione con gli occupanti abusivi.

Proprio per questi pesanti risvolti sociali e personali, anche se riguardano minoranze (e spesso persone escluse dalla cittadinanza perché migranti), ritengo che oggi vada ri-affermato il diritto alla casa come elemento essenziale della dignità umana (delle singole persone innanzitutto, a partire dai minori, dagli anziani e dai portatori di handicap; e quindi anche delle tanto sbandierate ‘famiglie’).NOTE C - D
Credo che si possa considerare ‘civile’ una società che non lascia nessuno a dormire per strada (un principio da aggiungere alla nostra Costituzione?): per lo meno in Europa, dove ci sono le risorse, dove potrebbe sopravvivere una tradizione giuridica solidale; e dove in parte già così è (Scandinavia, Germania), anche di fronte alla difficile prova dell’integrazione di centinaia di migliaia di profughi, asiatici e africani.

Per l’Italia purtroppo mi pare che un tale obiettivo in questo secolo sconfini nell’utopia.
Anche se la gestione dei profughi e richiedenti asilo ha mobilitato (in locazione temporanea, alimentando in parte anche il famigerato “business dell’immigrazione”) ingenti risorse immobiliari che erano di fatto disponibili, ma inutilizzate: ma per lo più nel segno abborracciato di una permanente ‘emergenza’, senza orizzonti di stabile programmazione, ed escludendo chi rimane fuori da un programma ufficiale di protezione: da un lato gli immigrati a cui si nega il diritto di asilo e divengono ‘irregolari in attesa di espulsione’, dall’altro lato i ‘normali’ senza casa, con o senza cittadinanza italiana oppure permesso di soggiorno.

Si tratterebbe però di un obiettivo raggiungibile, ad alcune condizioni (che qui tratteggio brevemente, riservandomi di tornare sull’argomento con un testo analitico e propositivo più dettagliato):
-       innanzitutto, di sviluppare una vigorosa battaglia culturale in favore dell’inclusione sociale e per il riconoscimento della dignità umana, nel concreto dei bisogni basilari;NOTA E
-       in secondo luogo, di reperire le risorse economiche necessarie, a mio avviso capovolgendo le logiche ‘egualitarie alla rovescia’ che hanno portato ad abolire la tassazione progressiva sulle prime case (mentre le spese per gli affitti non sono deducibili!) e bloccando sul nascere la ‘flat tax’ sui redditi minacciata dal “Governo del Cambiamento”;
-       in terzo luogo, di  trovare gli alloggi nel campo del patrimonio sfitto e sottoutilizzato pubblico (da risanare) e privato NOTA F (da acquisire e forse anche espropriare, quando venga meno la “funzione sociale della proprietà” NOTA G) e nell’ambito della vaste operazioni di riqualificazione edilizia e di rigenerazione urbana che urgono in tante parti del territorio edificato (centri storici e periferie, quartieri popolari degradati, paesi remoti e cascine in abbandono), coniugando il diritto alla casa con il ‘diritto alla città’  NOTA H e con l’adeguamento energetico, ecologico, idrogeologico ed antisismico del patrimonio edilizio esistente (cioè senza ulteriore consumo di suolo libero);
-       in quarto luogo, che è in realtà la chiave del discorso, di rendersi conto che l’uscita dalla crisi non può passare dal rilancio all’infinito del vecchio modello di sviluppo consumistico e dissipatore di risorse, ma da una parziale e progressiva sostituzione della ‘domanda e offerta di merci’ con la produzione sociale (il che non esclude che sia anche ‘aziendale’) dei servizi necessari per il riconoscimento dei ‘diritti di cittadinanza’, tra cui la casa dovrebbe primeggiare, nel suo contesto ambientale  e territoriale (città, paesaggio, tutela anti-sismica ed idrogeologica, autosufficienza alimentare ed energetica), assieme alla salute e all’istruzione: credo stia qui anche la sostanza del passaggio dell’indice “PIL” all’indice “BES” NOTA I, sviluppando oltre tutto domanda interna per lavori qualificati (se poi i giovani italiani, istruiti preferiscono giustamente non fare più – ad esempio – i muratori o i giardinieri, sarà il caso di programmare l’apertura delle frontiere per l’afflusso di validi immigrati);
-       da ultimo facendo tesoro delle esperienze avanzate di ‘housing sociale’ (vedi sopra), perché l’impresa da affrontare, diversamente che nel dopoguerra, non è quella di una massiccia offerta di abitazioni ‘standard’, bensì un articolato sostegno ad una pluralità di bisogni frammentari, da ricercare in un capillare lavoro di ‘ricucitura’ fisica e sociale delle ‘periferie umane’ della società contemporanea, che implichi anche la responsabilizzazione e partecipazione dei soggetti interessati (ad esempio anche con esperienze di auto-costruzione e di manutenzioni collettive e solidali, sia per le abitazioni che per gli spazi pubblici e comuni).





NOTE:

A – traggo dal recente testo del professor Giancarlo Consonni “Carta dell’Habitat. Introduzione” sul sito OFFICINA DEI SAPERI (testo il cui inizio non a caso è: “Perché una Carta dell’habitat. Diritto alla casa, diritto alla città. Utopie? Libro dei sogni? Il bilancio planetario delle concrete conquiste sui due fronti è spietato: non lascia spazio per risposte affermative a queste domande. Ciò detto, non si può in ogni caso sottovalutare l’importanza che assume il riconoscimento di questi diritti in dichiarazioni e in linee programmatiche di organismi sovranazionali e, ancor più, il loro accoglimento negli ordinamenti giuridici di singoli paesi”) il seguente quadro informativo sulle affermazioni ‘costituzionali’ del diritto alla casa a livello internazionale:
“La necessità di garantire a tutti un’abitazione adeguata è affermata nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo dell’Onu del 1948 e, riconfermata sempre dall’Onu nel Patto  
internazionale relativo ai diritti economici, sociali e culturali del 1966. L’Unione Europea arriva più tardi, quando nel 1996, aggiornando la versione originaria della Carta sociale europea del 1961, all’art. 31 afferma: «Tutte le persone hanno diritto all’abitazione». Un passo avanti notevole è, infine, il riconoscimento del diritto all’alloggio «nelle carte costituzionali di Francia, Spagna, Finlandia, Portogallo, Grecia, Svizzera».
Mentre “la pur splendida Costituzione repubblicana all’art. 47 (II comma) si limita a dire che la Repubblica «la Repubblica «Favorisce l’accesso del risparmio popolare alla proprietà dell’abitazione”.

B – rimando al mio articolo sui programmi elettorali su Utopia 21 dello scorso marzo https://drive.google.com/file/d/1-pOGmRevCBAEFoVD79kPcjPurVoAPYMM/view?usp=sharing
- aggiornando la ricognizione, segnalo che il tema ‘casa’ nel “Contratto di Governo” tra Lega e 5Stelle è presente solo come questione di ordine pubblico per il necessario sgombero delle case occupate, da graduare però tenendo conto delle condizioni di bisogno degli occupanti; mentre la rigenerazione urbana (ed idrogeologica: manca la prevenzione sismica) è stemperata- pur partendo da un lodevole stop al consumo di suolo – in un corretto capitolo ambientale, improntato all’economia circolare (su cui mi riservo di tornare, per i suoi risvolti comunque ‘sviluppisti’), senza indicazione sulle (enormi) risorse che andrebbero mobilitate (e sui modi per mobilitarle).

C – la centralità della casa per la dignità della persona è stata più volte ribadita da Papa Francesco; mi permetterei però di cogliere questa occasione per dissentire dalla recente riproposizione papale della dottrina cristiana sulla famiglia, in quanto aggravata dalla affermazione di “famiglia ad immagine di Dio” (francamente non ne capisco le ascendenze nelle Sacre Scritture), una famiglia dove inoltre alla donna si consiglia di subire e perdonare le possibili infedeltà coniugali del marito.

D - Il nesso tra perdita della casa e perdita della dignità sociale è ampiamente indagato, con riferimento agli U.S.A., anzi alla città di Milwaukee,  nel libro “Sfrattati” di Matthew Desmond, grande successo in America (almeno questa è una buona notizia?), e recentemente tradotto in italiano per l’editore ”La nave di Teseo”, che ancora non ho letto, ma che segnalo per la recensione/intervista di Anna Lombardi su “La Repubblica” del 25 giugno 2018

E – in tal senso la sola proposizione del “reddito di cittadinanza”, come da Contratto di Governo, nell’ambito di una riproposizione del rilancio consumistico dell’economia (aumento del PIL per colmare deficit e debito, per giunta a forza di flat tax e condoni fiscali), mi sembra alquanto monetaristica e riduttiva rispetto ad una concezione più complessiva dei diritti di cittadinanza

F – nel variegato insieme del patrimoni privato inutilizzato pesano anche le iniziative immobiliari incaute, alimentate dalle bolle speculative finanziarie degli anni precedenti e poi travolte dalla stessa crisi finanziaria a partire dal 2007, con ulteriori effetti sul cosiddetto ‘deterioramento del credito’ e sulla stabilità delle stesse banche che si erano eccessivamente esposte; pertanto una seria prospettiva di rigenerazione urbana deve farsi carico anche di opportune forme di risanamento finanziario, anche attraverso la locazione degli alloggi inutilizzati con affitti ragionevoli, ma garantiti dalla mano pubblica

G – rimando alla mia recensione sul libro di Paolo Maddalena 7 su Utopia21 di maggio 2018https://drive.google.com/file/d/1IdU2z-sZ45rorMzv2wmM7E8co_cYN8BT/view?usp=sharing
ed anche alle mie note sul disegno di legge di Salviamo-il-Paesaggio, nello stesso numero  https://drive.google.com/file/d/1RELgpGvIrv4xV5JUvAX3_m4fTTNlpkkS/view?usp=sharing

H – il nesso inscindibile tra diritto alla casa e diritto alla città è ben spiegato da Giancarlo Consonni nel citato “Carta dell’Habitat. Introduzione” e nella conseguente “Carta dell’Habitat”

I – il BES è un indicatore statistico complesso, elaborato dall’ISTAT (in particolare da Enrico Giovannini) e da altri istituti di ricerca e statistica, che intende misurare il livello di benessere della popolazione, affiancando il più noto PIL (Prodotto Interno Lordo, che è una più rozza sommatoria della ricchezza monetaria prodotta) nel dibattito politico ufficiale dal 2017 (finora con scarsi esiti pratici).


Fonti:
1.    Lando Bortolotti “STORIA DELLA POLITICA EDILIZIA IN ITALIA: PROPRIETÀ, IMPRESE EDILI E LAVORI PUBBLICI DAL PRIMO DOPOGUERRA AD OGGI (1919-1970) - Editori Riuniti,  Roma 1978
2.    Marco Romano “L’URBANISTICA ITALIANA NEL PERIODO DELLO SVILUPPO – 1942-1980” – Marsilio, Padova 1980
3.    Marcello Fabbri “L’URBANISTICA ITALIANA DAL DOPOGUERRA AD OGGI – STORIA, IDEOLOGIA, IMMAGINI” – De Donato, Bari 1983
4.    AA.VV. , a cura di Paola Di Biagi “LA GRANDE RICOSTRUZIONE: IL PIANO INA-CASA E L'ITALIA DEGLI ANNI C”INQUANTA” – Donzelli, Roma 2001
5.    Ferdinando Terranova “EDILIZIA & POTERE POLITICO: NARRAZIONE STORICA E SCENARI ETICI PER IL FUTURO” – Alinea, Firenze 2011
6.    Walter Williams “HOUSING SOCIALE: IL RUOLO E LE PROPOSTE DEL NON PROFIT” – Homeless Book, Faenza 2012
7.    Paolo Maddalena “IL TERRITORIO BENE COMUNE DEGLI ITALIANI” - Donzelli Editore, Roma 2014
8.    Enrico Giovannini “L'UTOPIA SOSTENIBILE” – Laterza, Bari 2018