domenica 20 settembre 2020

UTOPIA21 - THOMAS PIKETTY TRA CAPITALE E IDEOLOGIE

 

THOMAS PIKETTY

TRA CAPITALE E IDEOLOGIE

di Aldo Vecchi

 

Una poderosa ricerca, che allarga l’orizzonte del precedente “Il Capitale nel XXI secolo” nella conoscenza della storia delle disuguaglianze sociali e le intreccia con l’analisi delle ideologie che le hanno “giustificate”; con una ambiziosa ma discutibile conclusione propositiva per una Società Giusta.

 

Sommario:

-       premessa

-       la lunga storia delle disuguaglianze

-       gli antichi regimi “tri-funzionali”: nobilta’, clero e terzo stato

-       colonialismo e schiavismo

-       i regimi proprietari

-       la fase socialdemocratica

-       la parabola del socialismo reale

-       l’onda neo-liberista

-       l’analisi sociologica dei flussi elettorali

-       le proposte per una societa’ giusta

-       commento conclusivo

(in corsivo anche gli altri elementi più soggettivi della recensione)

 

NOTA:Le virgolette doppie “…..” indicano citazioni testuali o sintetiche dal testo recensito, quelle semplici ‘….’ invece appartengono al linguaggio del recensore)

 

 

PREMESSA

 

“Capitale e ideologia”1 si sviluppa sulla scia del grande successo de “Il capitale nel XXI secolo”2,3, edito nel 2014, anche per le sollecitazioni che l’Autore ha recepito durante la diffusione mondiale di tale ‘best-seller” (ed anche grazie all’apertura di alcuni archivi alla curiosità dei ricercatori del World Inequality Lab[A], per effetto di tale successo), con l’ambizione di:

-       allargare la narrazione storica sulle diseguaglianze, nello spazio e nel tempo,

-       intrecciare le vicende socio-economiche della accumulazione con la evoluzione delle ideologie con cui le disuguaglianze hanno cercato e/o trovato una adeguata “giustificazione” nei diversi contesti sociali,

e introdurre così nella parte finale del testo una articolata proposta di (ri-) fondazione di una “società giusta” (a scala pressoché planetaria).

 

Se nel “Capitale del XXI secolo” Piketty intendeva soprattutto smuovere i confini tra una disciplina economica autocompiaciuta di suoi tecnicismi (fino a non vedere la realtà della crisi non solo finanziaria dal 2008) e le scienze storiche e sociali, per illuminare la realtà misconosciuta della nuova polarizzazione delle ricchezze, nel nuovo libro (2019, e quindi ante-pandemia), l’Autore mira ad aprire la speranza verso possibili trasformazioni radicali dell’economia e della società:

-       sia dimostrando che non vi sono nel passato correlazioni deterministiche tra livello di sviluppo e regimi proprietari (bensì sempre si aprono “biforcazioni” e traiettorie specifiche),

-       sia postulando che divenga oggi indispensabile, per un futuro diverso, approntare una adeguata proiezione teorica, in direzione egualitaria: perché non esistono assetti socio-politici senza una adeguata predisposizione ideologica.

 

Comune ai due testi è il linguaggio chiaro e comprensibile, anche nelle note e nell’apparato statistico numerico/grafico (allargabile ad ulteriori tabelle nel sito internet connesso); inoltre nel nuovo volume Piketty dichiara esplicitamente la necessità, cui spesso già sopperisce, di interpretare la stratificazione dei “decili” e “centili” dei più ricchi o dei meno ricchi come una immagine astratta dei concreti soggetti sociali, che invece sono caratterizzati anche da ben altri attributi storici, soggettivi ed “ideologici”, oltre la nuda evidenza statistica e numerica.

 

 

LA LUNGA STORIA DELLE DISUGUAGLIANZE

 

Le parti prima, seconda e terza di “Capitale e ideologia” – con qualche (forse incongrua) anticipazione ‘progettuale’ in materia fiscale ai capitoli 11 e 13 - estendono la storia delle disuguaglianze ben prima del XVIII secolo (dove partiva il precedente libro di Piketty) e al di fuori dell’Occidente ‘atlantico’, ovunque la curiosità intellettuale dell’Autore (che non pare interessato alla storia antica né a quella medievale[B]) si incontra con una sufficiente disponibilità di dati quantitativi per misurare i divari di reddito, di ricchezze, di classificazioni sociali.

In particolare Piketty illustra le trasformazioni attraverso questi passaggi”: gli antichi regimi; colonialismo e schiavismo; i regimi “proprietaristi”; la fase socialdemocratica; la parabola del comunismo; l’onda neo-liberista (con una qualità comunicativa che – a mio avviso – dovrebbe farlo assumere – per questi capitoli storici - come testo di formazione consigliata per ogni cittadino istruito e obbligatoria almeno per gli aspiranti ‘quadri politici’):

 

 

GLI ANTICHI REGIMI “TRI-FUNZIONALI”: NOBILTA’, CLERO E TERZO STATO

 

Le società tradizionali sono definite “tri-funzionali” o “ternarie”. L’esempio meglio censito (benché al momento del suo tramonto) è quello dei “tre stati” francesi ante-Rivoluzione, e cioè Nobiltà, Clero e “Terzo Stato”. L’aristocrazia “combattente” giustificava il suo predominio con il compito di “difendere” le comunità (inizialmente ‘locali’) e la chiesa giustificava i suoi privilegi con il ruolo di guida spirituale ed educativa; con importanti variazioni storiche e geografiche:

o   ad esempio in Svezia vi erano 4 Ordini (la borghesia urbana distinta dai contadini), in Spagna il clero era più consistente (e l’aristocrazia a lungo motivata dalla “riconquista” anti-islamica);

o   il clero cattolico aveva la peculiarità del celibato, per cui lo “stato” ecclesiastico si riproduceva per lo più cooptando sistematicamente nuovi membri tra i cadetti dell’aristocrazia, per l’ “alto clero” e dai ceti popolari, per il “basso clero”;

o   fuori d’Europa, nel mondo musulmano solo il clero sciita ha assunto un ruolo rilevante (fino alla recente repubblica teocratica in Iran), in India la divisione in caste (almeno come censita e cristallizzata dai dominatori inglesi) era comunque più complessa e articolata, in Cina il ceto laico/confuciano dei mandarini  sostituiva in qualche modo il ruolo del clero (che invece si riscontrava in Giappone similmente alla media europea);

 

 

COLONIALISMO E SCHIAVISMO

 

Contemplando la conquista coloniale di gran parte del mondo da parte delle potenze europee, Piketty mette in evidenza, oltre alle ideologie di superiorità, con matrice spesso religiosa[C] e con i noti risvolti nelle tecnologie militari, la maggior centralizzazione dei nascenti stati nazionali (anche in virtù delle molteplici rivalità secolari reciproche) rispetto agli assetti socio-politici dei territori sottomessi o dominati, anche qualora costituti da grandi imperi.

Ad esempio, confrontando l’incidenza della “spesa pubblica statale”, in prevalenze militare, di regni come Francia e Gran Bretagna nei secoli XVI-XVIII, prossima al 10% delle risorse nazionali, con quella degli imperi ottomano e cinese, che in quei secoli si aggirava sul 2-3%, essendo molte funzioni gestite in modo decentrato – come in precedenza in Europa, con eserciti a reclutamento feudale.

L’Autore sottolinea in particolare:

o   la questione della schiavitù che – mai pienamente soppressa in Europa, in particolare nella forma ‘attenuata’ della “servitù della gleba”, sopravvissuta in Russia fino al XIX secolo – trovò nuovo slancio ideologico nella supremazia razziale, in particolare verso i neri africani (spesso già tratti in schiavitù dalle dinamiche locali e/o dalle predazioni arabe); e che – quando fu superata, almeno formalmente e con poderose resistenze (vedi guerra di secessione U.S.A. 1861-1865) - a partire dai riflessi della Rivoluzione francese nelle colonie caraibiche, lasciò un lungo strascico di debiti, a carico degli stessi schiavi “liberati”, per indennizzare i padroni “espropriati”, da Haiti (alla fine tributario degli U.S.A.) alla Russia zarista[D];

o   la diversa traiettoria dei territori dominati o subalterni, ad esempio tra India, Cina e Giappone, con quest’ultimo che – pur costretto ad aprire i porti al commercio internazionale grazie alle cannoniere del nuovo colonialismo U.S.A. – per reazione accelerò la trasformazione dall’antico assetto feudale ed investì risorse nella formazione dei nuovi quadri tecnici (e militari) di un moderno stato ‘anti-coloniale’ (salvo assumere precocemente il profilo di un suo nuovo imperialismo nel Pacifico);

o   l’importanza quantitativa dei trasferimenti di risorse in favore delle nazioni dominanti, soprattutto Francia e Gran Bretagna, grazie allo sfruttamento economico da parte delle imprese private, mentre le tasse estorte  nei territori coloniali (spesso affiancate da corvées di lavoro forzato) andavano per lo più a pareggiare le spese di mantenimento delle amministrazioni coloniali, cioè soprattutto a pagare gli stipendi di funzionari e contingenti militari (stipendi molto più alti di quelli offerti alla  manodopera locale, quando impiegata), con scarsa erogazione di servizi – ad es. scolastici – per le popolazioni colonizzate;

o   l’impraticabilità dei tentativi di assimilazione delle colonie ai territori ‘metropolitani’, non appena si dovette affrontare il problema della parità dei diritti civili, politici ed elettorali con i popoli dominati (Francia/Algeria e Francia/Unione Africana), mentre il Commonwealth inglese, mai paritario, ha lasciato strascichi di difficile gestione riguardo alla fase di libera migrazione dalla colonie alla Gran Bretagna.

 

 

I REGIMI PROPRIETARISTI

 

La formazione delle “società proprietarie” si compie, secondo Piketty, pur attraverso passaggi complessi e controversi, nel secolo XIX in Francia, U.S.A. e Gran Bretagna (e poi si estende a gran parte delle nazioni non colonizzate: ben documentato il caso della Svezia), con affermazioni formali di uguaglianza nei diritti dei cittadini (se proprietari: si veda in particolare la limitazione “per censo” del diritto di voto, poi esteso ipocritamente ai maschi alfabeti, nascondendo la natura di classe dello stesso analfabetismo) e soprattutto di libertà di azione economica delle imprese capitalistiche; qui la spiegazione delle disuguaglianze socio-economiche  e delle narrazioni che le  giustificano ricalca in parte “Il capitale nel XXI secolo” (con le tabelle su redditi e successioni e con i riferimenti ai romanzi di Jane Austen e di Honoré de Balzac), evidenziando in particolare:

o   la specifica pretesa “egualitaria” dei regimi repubblicani e post-rivoluzionari di Francia e U.S.A., dove aleggiava la leggenda di uguali possibilità di ricchezza per i cittadini affrancati dal peso degli antichi privilegi, senza indagare sugli effetti concreti di alcuni decenni di sviluppo capitalistico affiancato da tassazioni proporzionali (o capitarie) e NON progressive;

o   le premesse della crisi irreversibile di questo modello di polarizzazione patrimoniale, pervenuto all’apice – con la “prima globalizzazione” - nella cosiddetta “belle epoque” (dopo la crisi attorno al 1880 e fino alla prima guerra mondiale), sia nelle tensioni sociali (con il crescente protagonismo dei movimenti operai e socialisti, nonché femministi) ed a fronte delle spinte indipendentiste dei popoli colonizzati; sia nella contrapposizione militarista tra i divergenti interessi nazionali delle potenze coloniali od aspiranti tali (anzi, Piketty si spinge a considerare, in una sorta di discutibile ‘verifica anti-fattuale’, che – anche senza la prima guerra mondiale – gli stessi nodi sarebbero venuti comunque al pettine).

 

 

LA FASE SOCIALDEMOCRATICA

 

Piketty denomina nell’insieme “società socialdemocratiche” (malgrado l’eterogeneità delle conduzioni politiche e delle normative socio-economiche), l’insieme delle evoluzioni  dei regimi proprietaristi per lunga parte del Novecento perché caratterizzate – anche in contrapposizione ed in concorrenza alla rivoluzione comunista a partire dall’URSS e per il concomitante conflitto, non solo militare, con il nazi-fascismo – da una forte compressione dell’accumulazione capitalista, in varie forme, di cui l’Autore lamenta la mancanza di una sedimentazione comune (a mio avviso invece naturale corollario di esperienze guidate da forze politiche assai differenti, dai “popolari” e democristiani - e gollisti - alle diverse famiglie socialiste europee, fino ai democratici americani):

o   l’intervento degli Stati nell’economia, sia come controllo macro-economico e sui movimenti di capitale, sia come imprenditoria pubblica;

o   la tassazione a forte progressività sui redditi e/o sui capitali, con punte particolarmente elevate in relazione ai debiti accumulati nelle due guerre mondiali – disciolti però in parte dalla più iniqua inflazione (in danno anche ai salari ed ai piccoli risparmiatori) –; l’Autore sottolinea la maggior convinzione ideologica in tale campo, di ispirazione democratico-egualitaria, proprio in Gran Bretagna ed in U.S.A. [E] (sia per applicazione in patria, sia nell’imporla temporaneamente alle nazioni sconfitte, quali Germania e Giappone), cioè nell’area anglosassone che è oggi nettamente orientata in direzione opposta;

o   la fondazione dei principali istituti del “welfare”: istruzione (di base), sanità, pensioni, indennità di disoccupazione; talché la spesa pubblica dei principali paesi euro-atlantici (con l’area scandinava in testa) salirà stabilmente verso il 30-40-50% del reddito nazionale complessivo;

o   l’esperimento – confinato nelle aree germaniche e scandinave – della “cogestione”, ovvero della compartecipazione di rappresentanti eletti dai lavoratori nella ‘governance’ delle principali imprese private (esperienza che l’Autore valuta positivamente, contrapponendola all’attardamento della sinistra francese, socialista e comunista, sino agli anni ’80 del novecento, sull’obiettivo della nazionalizzazione, rivelatosi nei fatti perdente ai tempi della prima presidenza di Mitterand).[F]

 

 

LA PARABOLA DEL SOCIALISMO REALE

 

Mentre Piketty mi appare dialettico ed esaustivo nell’esaminare le trasformazioni delle nazioni occidentali (e coloniali), più rigido e stringato mi sembra nell’analisi del “socialismo reale”, limitato ai fondamentali casi russo e cinese, i cui fallimenti (fino a Gorbaciov ed a Mao-tse-tung, Piketty imputa soprattutto alla nazionalizzazione totale e centralizzata dell’economia (che non riesce a soddisfare la crescita e mutevolezza dei bisogni, e non coinvolge attivamente i lavoratori), senza misurarsi a mio avviso:

-       con i successi comunque raggiunti dal socialismo reale, non solo riguardo all’egualitarismo (Piketty rileva contenuti dislivelli retribuitivi, ma segnala che la ‘nomenclatura’ godeva di diversi tipi di privilegi “non monetari”) in termini di accumulazione primaria e industrializzazione di territori ancora fermi all’agricoltura feudale, con l’instaurazione di primarie forme di welfare, ed anche di compattezza sociale nelle grandi sfide della guerra anti-nazista (per l’URSS) e dell’indipendenza nazionale (per Cina, ma anche Vietnam, Cuba, ecc.);

-       e – viceversa – con gli insuccessi comunque e dovunque raccolti – non solo con le forme di collettivismo esasperate (esempi tragici della Cambogia e del Nord-Corea) – ma anche con i tentativi di conciliare – in taluni luoghi e fasi - la pianificazione statale (e il dispotismo del partito unico) con l’autonomia delle piccole imprese, dall’Ungheria a Cuba, o con i tentativi di ‘autogestione’ in Yugoslavia.

Ritengo invece che si debba concordare con la conclusione di Piketty sulla caduta del  “socialismo reale” e sulla repentina trasformazione del regime russo in uno dei più coerenti esperimenti di ultra-liberismo anti-egualitario (definita da Piketty “una deriva oligarchica e cleptocratica”; quasi solo in Russia si applica la “flat tax” con uguale aliquota per tutti i redditi), quale faro del ‘pensiero unico’ iper-capitalista ed ingombrantissima disillusione per i progressisti del mondo intero (in quanto dimostrazione che una alternativa socialista è impossibile).

A ciò concorre anche la svolta cinese (e vietnamita) post-maoista, che ha dato origine ad una forma inedita e specifica di iper-capitalismo temperato dai poteri dello Stato/Partito, su cui a mio avviso occorrerebbero ben altri approfondimenti (resi difficili a Piketty dalla mancanza di adeguate statistiche su redditi e patrimoni [G]), anche per il rilievo geo-politico della gigantesca accumulazione di potere finanziario tecnologico e militare dell’odierna Cina.[H]

 

Per brevità di recensione tralascio l’analisi specifica di Piketty sulla diversa evoluzione dei paesi ex-comunisti dell’Est Europa, segnalando solo il ruolo quasi neo-coloniale dei capitali franco-tedeschi in questi territori, con il flusso dei profitti in uscita che sopravanza i trasferimenti monetari dall’Unione Europea ai corrispondenti Stati (Polonia, Ungheria, Slovacchia, ecc.).

 

 

L’ONDA NEO-LIBERISTA

 

L’esposizione storica di Piketty si conclude, riprendendo ancora in parte i contenuti del “Capitale nel XXI secolo”, con la descrizione della fase del (l’apparente) trionfo mondiale del neo-liberismo, con la svolta anglosassone Thatcher-Reagan degli anni 80 e poi la suddetta caduta del comunismo; l’Autore evidenzia, oltre alle trasformazioni concrete relative alla globalizzazione del movimento delle merci e dei capitali, alle ondate di “liberalizzazioni” e privatizzazioni, agli attacchi ai sindacati ed al welfare, al capovolgimento delle politiche fiscali in senso anti-progressivo, soprattutto i seguenti aspetti:

-       la vigorosa battaglia ideologica che ha preceduto e accompagnato la svolta, per cercare e trovare nuove giustificazioni alle nuove (e vecchie) disuguaglianze;

-       i limiti e le debolezze soggettive delle socialdemocrazie[I], soprattutto riguardo alla questione fiscale (emblematici gli arretramenti della stessa socialdemocrazia svedese, dopo la crisi bancaria degli anni 90 ed un breve periodo di governo conservatore), alle questioni di identità nazionale connesse ai nuovi flussi migratori post-coloniali, al nodo dell’istruzione superiore, che rimane di fatto preclusa ad una parte consistente dei ceti subalterni, mentre gli stessi elettorati dei partiti di centro-sinistra risultano storicamente trasformati in “partiti dei laureati” (senza battersi però per il superamento di tale specifico privilegio)[J];

-       le contraddizioni specifiche dell’Unione Europea, che Piketty non vede come una proiezione organica dell’ “ordo-liberalismo”12 o del liberalismo alla Hajek, ma di fatto pesantemente condizionata su tale versante, soprattutto per l’asimmetria istituzionale tra le materie soggette a maggioranza semplice nel Consiglio (dove sono rappresentati i 28  governi nazionali), tra cui quanto riguarda la concorrenza tra le imprese, e le materie subordinate all’unanimità, tra cui le questioni sociali e fiscali (il che consente a singoli stati, come l’Irlanda, il Lussemburgo o i Paesi Bassi, di praticare un sistematico “dumping fiscale” in favore delle imprese multinazionali, con riflessi negativi a cascata a danno dei bilanci degli altri stati); a maggioranza delibera anche la Banca Centrale Europea, sopperendo in parte con la politica monetaria alle incapacità dei Governi nell’imporre adeguate tassazioni (Piketty si mostrava preoccupato a lungo termine, già nel 2019, per la continua crescita del debito delle Banche Centrali, e non poteva ancora sapere cosa sta succedendo ora con la Pandemia);

-       l’estensione delle disuguaglianze alle questioni ambientali, che però mi sembra che Piketty limiti alla – pur rilevante – problematica del cambio climatico e delle emissioni di CO2, senza affrontare le altre dinamiche (intrinseche alla crescita iper-capitalista), quali l’accaparramento ed inquinamento delle risorse naturali e la perdita di bio-diversità; in altra parte del testo l’Autore accenna – di passaggio – alla scorrettezza concettuale del “prodotto interno lordo”, che non considera le contestuali perdite di “capitale naturale”, ma senza sviluppare a fondo tale riflessione, che – se si assegnasse alle risorse naturali un prezzo adeguato – ridurrebbe a ben poca cosa l’effettiva umana creazione di nuove ricchezze.

 

 

L’ANALISI SOCIOLOGICA DEI FLUSSI ELETTORALI

 

Nella quarta e ultima parte del volume, Piketty, affrontando le contraddizioni del presente ed esplicitando le sue proposte per una ”società giusta”, si occupa largamente degli andamenti elettorali nei principali stati democratici, basando le sue valutazioni sui rapporti tra ideologie e disuguaglianze soprattutto sulle indagini demoscopiche post-elettorali, che rivelano le sovrapposizioni tra le preferenze elettorali appena manifestate e le condizioni socio-economiche di validi campioni statistici dell’elettorato, indicandone livello di reddito e professionale, caratterizzazioni etniche e religiose, ecc. (con maggior e minor precisione spostandosi nei luoghi e nei tempi, tempi comunque successivi alla seconda guerra mondiale e con inizio nei soli paesi anglosassoni).

La disponibilità di siffatti dati quantitativi è un invito a nozze per Piketty, che può quindi combinarli con i suoi abituali “decili e centili di reddito e di ricchezza” (anche se il testo è ricco altresì di riferimenti a romanzi, film e narrazioni politiche).

 

Tralasciando – per brevità di recensione – di riferire dettagliatamente sul lungo e complesso caso dei comportamenti elettorali in U.S.A.[K] (con la conversione – in un secolo - dei Democratici da partito sudista/segregazionista a forza moderatamente egualitaria nel secondo Novecento, e poi viceversa con l’insediamento dei Repubblicani sia tra i nostalgici sudisti sia tra gli operai scontenti dell’identificazione dei Democratici con i “laureati” e con  l’establishment – quest’ultimo per altro molto a suo agio anche con i Repubblicani…-) ed altri, mi pare che il caso più paradigmatico illustrato da Piketty sia quello della Francia, soprattutto nel passaggio delle presidenziali del 2017, in cui l’incrocio tra le questioni “sociali” e le questioni “nazionali ed etniche” ha di fatto determinato la suddivisione dell’elettorato in “quattro blocchi”, che l’Autore ha così denominato:

-       “internazionalista egualitario”, con le sinistre di Mélenchon e Hamon, moderatamente favorevole agli immigrati (solo il 32% dei suoi elettori ritiene che gli immigrati siano “troppi”, contro una media nazionale del 56%, ed una punta del 91% all’estrema destra) e affezionato alla ridistribuzione del benessere – oggettivamente con istruzione medio-alta e però redditi medio-bassi;

-       “internazionalista inegualitario”, guidato dall’attuale presidente Macron, oggettivamente con istruzione alta e redditi e patrimoni elevati (emblematica per Piketty è la scelta del 2018 di abbattere l’imposta patrimoniale “sulla  fortuna”  e le aliquote sugli alti redditi, finanziata di fatto dall’aumento della tassazione “ecologica” sui carburanti, che ha innescato la protesta dei cosiddetti “gilet gialli”);

-       “nativista inegualitario”, con candidato Fillon, rappresentante del tradizionale centro-destra (borghese e cattolico), orientato contro l’immigrazione e con una base elettorale abbastanza istruita e piuttosto ricca;

-       “nativista egualitario”, con le liste della destra sovranista  di Marine LePen e DupontAignan, fortemente anti-immigrati (ed anti-Europa), che ha recentemente assunto posizioni a favore della soppressa tassa “sulla fortuna” (per derivando da formazioni storicamente anti-tasse, come il Poujadismo, dove esordì LePen padre): l’elettorato, poco scolarizzato e con bassi redditi, presenta però ricchezze patrimoniali leggermente più elevate;

-       (Piketty segnala anche un quinto blocco, gli astensionisti, pari al 22% degli elettori potenziali, con istruzione e redditi nettamente bassi e patrimonio ancor più basso, ma reticenti a pronunciarsi sui temi dell’immigrazione come della ridistribuzione della ricchezza).

 

Secondo Piketty tale quadri-partizione (instabile per il futuro) costituisce l’approdo (temporaneo) “di un lungo processo di destrutturazione del sistema di divisione in classi e delle categorie sinistra/destra, tipiche del periodo 1950-80”: a questo punto secondo l’Autore sono possibili diverse “biforcazioni”, tra cui quella più temuta da lui (ed ovviamente anche da me) è quella della “trappola del social-nativismo”, e cioè che le forze sovraniste imparino a rappresentare anche le istanze di uguaglianza sociale, come tatticamente ha iniziato a fare il Front National di Marine LePen, schiacciando le sinistre su posizioni elitarie, ed incapaci di districarsi sulle questioni di identità etnica e nazionale e del processo dell’unificazione europea.

 

 

LE PROPOSTE PER UNA SOCIETA’ GIUSTA

 

Mentre francamente non ho ben capito le proposte di Piketty sulla questione migratoria (oltre ad indicarne la pericolosa ingovernabilità e ad auspicarne la soluzione tramite nuovi più equi rapporti trasnazionali), la parte finale del libro è chiarissima sulle sue proposte in materia fiscale, economica e federal-europeista, che di seguito brevemente riassumo (tralasciando i dettagli, di aliquote, procedure, ecc., che ai miei occhi appaiono abbastanza ‘prematuri’)

-       generalizzare – con opportune gradualità (e con esenzione per le micro-imprese) - la partecipazione, tendenzialmente maggioritaria, dei lavoratori negli organi di governo aziendale ed incentivare ogni forma di auto-gestione;

-       concentrare la tassazione – estinguendo le imposte sui consumi (salvo una tassa sull’emissione di CO2, che però Piketty vorrebbe anch’essa “progressiva” sui consumi più intensi) – sui seguenti pilastri (con una preliminare trasparenza statistica e fiscale, che attualmente è carente per comprensibili motivi):

o   tassazione fortemente progressiva sui redditi (di tutti i tipi, compresi quelli da capitale), anche per finanziare un reddito di base a tutti i cittadini sprovvisti;

o   tassazione permanente e parimenti progressiva sui patrimoni (di tutti i tipi, e non solo immobiliari; Piketty evidenzia che con le attuali tecnologie, basterebbe obbligare gli intermediari finanziari a comunicare i dati per costituire un catasto di tutte le ricchezze finanziarie nel globo, emarginando e svuotando i “paradisi fiscali”);

o   tassazione progressiva sulle successioni ereditarie, in particolare finalizzata a conferire a tutti i “giovani adulti”, ovvero al compimento del 25° anno, una dote patrimoniale (dell’ordine dei 100.000 € per i paesi occidentali [L], ma da ridurre notevolmente se estesa al “terzo mondo”), da utilizzare eventualmente anche per un recupero di deficit formativi;

-       rafforzare il welfare, in particolare nel campo dell’istruzione, con il contrasto alla povertà educativa e l’ingresso dei giovani meno abbienti anche nelle scuole più prestigiose (mediante “quote” simili a quelle sperimentate in India in favore delle ex-caste più basse);

-       avviare un vero federalismo europeo, superando – ad esempio tramite cooperazioni rafforzate tra i principali paesi dell’Euro, ed in particolare costituendo un Assemblea mista tra parlamentari europei e parlamentari nazionali di tali paesi (anche qui con ricchezza, o forse eccesso, di dettagli, quasi che tal riforma fosse immediatamente assumibile)– la regola dell’unanimità tra governi per le decisioni fiscali e sociali, offrendo quindi un supporto internazionale alle scelte socio-economiche di cui sopra – più avanti generalizzabile nel mondo, un po’ per imitazione, un po’ per un uso ‘progressista’ dei trattati commerciali bilaterali (con i quali moderare la globalizzazione delle merci e limitare la iper-mobilità dei capitali).

 

Tali proposte di riforma nell’insieme configurano, in un tempo lungo, una radicale mutazione del capitalismo ed una concezione temporanea e sociale della proprietà (limitando drasticamente l’accumulazione delle ricchezze private), pur confermando una “economia di mercato” senza pianificazione centralizzata (il che secondo l’Autore dovrebbe assicurare una continua crescita economica, sull’esempio del trentennio 1945-75 con le sue elevate aliquote impositive).

Un assetto socio-economico che Piketty denomina “socialismo partecipato”, per conseguire il quale – per via pacifica e parlamentare - vanno altresì sviluppate due ipotesi di correzione ‘anti-plutocratica’ dei partiti e dei media:

-       sostituire al finanziamento privato dei partiti un finanziamento pubblico non automatico, ma subordinato al gradimento degli elettori (un po’ come l’italico 2x1000, ma non proporzionale ai redditi): ad ogni cittadino verrebbe assegnato un bonus fiscale in cifra fissa, devolvibile al partito preferito (importo che in assenza di preferenza rimane nelle casse dello stato);

-       affidare la proprietà dei media ad una sorta di fondazioni, in cui l’influsso dei finanziatori è attenuato da una soglia massima individuale, piuttosto bassa (un po’ come avviene nelle banche cooperative).

 

Piketty  si mostra consapevole sia dei tempi lunghi necessari per tradurre queste idee in realtà, sia delle possibili resistenze (ma esplicitamente si preoccupa solo della composizione conservatrice delle varie Corti Supreme), sia della diversità tra previsioni libresche ed effettivo compimento delle svolte storiche, attraverso crisi e “biforcazioni”, ma ripone una illuministica fiducia nell’importanza della definizione di un organico programma (come già da lui tracciato in questo volume) in quanto ideologia alternativa all’iper-capitalismo.

 

 

COMMENTO CONCLUSIVO

 

Oltre alle critiche puntuali che ho già disseminato in questa recensione, a fronte delle proposte conclusive di Piketty mi sembra doveroso segnalare che il poderoso (ed apprezzabile) volume non tratta (ma avrebbe dovuto – almeno a grandi linee - trattare):

-       delle peculiari caratteristiche, non solo finanziarie, dell’attuale ‘tecno-capitalismo’, in termini di ri-organizzazione e ri-subordinazione del lavoro, manuale ed intellettuale, e della parallela alienazione sia dei produttori che dei consumatori 15;

-       dei limiti alla crescita che sono intrinseci alla crisi ambientale della bio-sfera, non solo per il cambiamento climatico, ma per il tendenziale esaurimento delle risorse naturali e della bio-diversità 16;

-       delle suddette problematiche ambientali come elemento di ulteriore scomposizione (già in atto) dei tradizionali schieramenti politici (e posizionamenti elettorali)17, ma anche di possibile ricomposizione, necessariamente “internazionalista”, perché il sovranismo non è oggettivamente in grado di affrontare problemi globali come il cambio climatico e l’economia circolare;

-       del tragitto politico necessario per tradurre una serie di  idee in un programma politico di un qualche soggetto organizzato. Anzi: Quale soggetto, tra attuali sinistre estreme e “partiti dei laureati” socialdemocratici? Con quale ruolo per i nuovi movimenti e per le tematiche ecologiste?

-       del conseguente percorso per raggiungere un consenso maggioritario, non solo vincente alle elezioni, ma come sostanziale egemonia sociale, capace di contrastare i prevedibili “bassi colpi” degli interessi colpiti (ben oltre i conservatori nelle Corti Supreme);

-       della crisi del linguaggio politico tradizionale delle sinistre, compreso il linguaggio di Piketty, chiarissimo per i “progressisti laureati”, ma forse non altrettanto per i Gilet Gialli (ad esempio);

-       della insufficienza dei sondaggi socio-elettorali per comprendere a fondo i risvolti antropologici delle “ideologie”, che – ad esempio - riescono a convincere un operaio a votare Berlusconi; sintomatico in proposito mi sembra il rifiuto di Piketty di usare la categoria del “populismo”, che ‘Autore tende a ridurre ad un esorcismo utilizzato dalle forze dominanti per screditare i nuovi oppositori (di destra e di sinistra), al fine di nascondere l’effettiva contesa sulla ripartizione della ricchezza; mentre secondo me la categoria “populismo” è connotata anche da specifiche forme di comunicazione, esaltate dai moderni social media, che aiutano a creare “isole di linguaggio” dove si  nasconde sì l’effettiva contesa sulla ripartizione della ricchezza, però proprio a cura delle forze populiste (di destra, ma anche di sinistra, quando ad esempio si persegue l’aumento del debito pubblico – e non  la tassazione dei patrimoni e/o dei consumi di lusso e/o energivori – per soddisfare le richieste degli esclusi)18,19,20,21,22.

 

Piketty non utilizza la parola “utopia”, e probabilmente non a caso, perché sembra piuttosto convinto del realismo delle sue concretissime proposte, mentre a mio avviso manca del realismo che è necessario nell’inquadrare le disuguaglianze sociali in un contesto più ampio, di temi e di forze; quadro più ampio rispetto al quale l’utopia è tanto più utile – a mio avviso – quanto più si è consapevoli del suo carattere utopico23.

 

aldovecchi@hotmail.it

 

Fonti:

1.    Thomas Piketty – CAPITALE E IDEOLOGIE – La Nave di Teseo, Milano 2020

2.    Thomas Piketty – IL CAPITALE NEL XXI SECOLO – Bompiani, Milano 2014

3.    Aldo Vecchi - PIKETTY: IL CAPITALE NEL XXI SECOLO (E PRECEDENTI).

su UTOPIA21, novembre 2017 - https://drive.google.com/file/d/1WZmz9PbHh5jhkCufdzqQM05Ud4MNDalq/view

4.    David Graeber – DEBITO: I PRIMI 5 MILA ANNI – Il Saggiatore, Milano 2012

5.    Aldo Vecchi - DEBITO E DEMOCRAZIA SECONDO DAVID GRAEBER – su UTOPIA21, luglio 2018 https://drive.google.com/file/d/1KNHwvYRdA-OgatgudIQMBtJt5Q3shSWl/view?usp=sharing

6.    Giovanni Arrighi - IL LUNGO XX SECOLO. DENARO, POTERE E LE ORIGINI DEL NOSTRO TEMPO – Il Saggiatore, Milano 2014

7.    Aldo Vecchi - IL LUNGO XX SECOLO DI GIOVANNI ARRIGHI – su UTOPIA21, novembre 2018 https://drive.google.com/file/d/18ZwQ9iRH2IOfuDRTcfRqaM6D5AjFASU_/view

8.    Paolo Prodi – SETTIMO NON RUBARE – FURTO E MERCATO NELLA STORIA DELL'OCCIDENTE – Il Mulino, Bologna 2009

9.    Aldo Vecchi - “PAOLO PRODI: 7° NON RUBARE” su UTOPIA21, settembre 2018 https://drive.google.com/file/d/1yhn8fOy9AWX1zXrx1LjcxtqaMJ2opsHk/view

10. Jared Diamond – ARMI, ACCIAIO, MALATTIE - BREVE STORIA DEGLI ULTIMI TREDICIMILA ANNI – Einaudi, Torino 1997

11. Aldo Vecchi - “ARMI, ACCIAIO E MALATTIE” NELLA STORIA MONDIALE DI JARED DIAMOND – su UTOPIA21, maggio 2017 https://drive.google.com/file/d/0BzaFw8WEAEgYWjV1dkNlVVlOM0k/view?usp=sharing

12. Andrea Kalajzic - ORDOLIBERALISMO ED ECONOMIA SOCIALE DI MERCATO – Quaderno n° 8 di UTOPIA21, settembre 2018 https://drive.google.com/file/d/1BJ9pizgChYG10KkPAjFrndmH6PJBNP9r/view?usp=sharing

13. Forum Disuguaglianze Diversità – 15 PROPOSTE PER LA GIUSTIZIA SOCIALE – 2019 - https://www.forumdisuguaglianzediversita.org/proposte-perla-giustiziasociale/

14. Aldo Vecchi - COME COMBATTERE LE DISUGUAGLIANZE: LE 15 PROPOSTE DEL “FORUM” – su UTOPIA21, maggio 2020 - https://drive.google.com/file/d/1udb1x44_L_Y6pCywG5ccSxK4PQEkCYot/view

15. Aldo Vecchi e Fulvio Fagiani - IL DIALOGO TRA FERRARIS E DEMICHELIS SU

TECNICA E UMANITA’ – su UTOPIA21, novembre 2019 -

https://drive.google.com/file/d/1piUV1BaaiW5qcyiSecmY9MsdBPyJGE8E/view

16. Fulvio Fagiani - LE EMERGENZE AMBIENTALI: CLIMA E BIODIVERSITÀ - Quaderno n° 13 di UTOPIA21, settembre 2019 - https://drive.google.com/file/d/1p87vwSWWYoSs77J2fQG1K6jR9CtrqBkE/view?usp=sharing

17. Aldo Vecchi - INGLEHART E LA POST-MODERNITA’” su UTOPIA 21, novembre

2018  https://drive.google.com/file/d/1e23dr6OMPGRzhpDWegKWdhrz6h4DAcIt/view

18.Aldo Vecchi - IL TERZO SPIRITO DEL CAPITALISMO, INDAGATO DA

BOLTANSKI E CHIAPELLO – su UTOPIA21, gennaio 2018 - https://drive.google.com/file/d/18rOwVEv0UvuYPjmBw7OdeXY4aKczbyg/view

19. Ferruccio Capelli – IL FUTURO ADDOSSO. L’INCERTEZZA, LA PAURA E IL

FARMACO POPULISTA – Guerini e Associati, Milano 2018

20. Fulvio Fagiani - CONVERSAZIONE-INTERVISTA CON FERRUCCIO CAPELLI, DIRETTORE DELLA CASA DELLA CULTURA DI MILANO – su UTOPIA21 – maggio 2019

https://drive.google.com/file/d/1_aaUMDL_zGS48uIm4BY-MHHkBcAjSeM/view

21. Fulvio Fagiani - CAPIRE IL POPULISMO. UNA RASSEGNA COMMENTATA DI RIFLESSIONI – su UTOPIA2, luglio 2019 - https://drive.google.com/file/d/1mCbXRn6J0LFVRZNxjWMDCT8E_Q8960J/view?usp=sharing.

22. Fulvio Fagiani –Aldo Vecchi – DEMOCRAZIE, POPULISMI ED UTOPIE - su UTOPIA21,  novembre 2019 –

https://drive.google.com/file/d/17frHnO85GX3GKyp3WaGOzNSUHiu4T1r7/view

23. Aldo Vecchi – L’ELOGIO DELL’UTOPIA DA PARTE DI ROBERTO MORDACCI – su UTOPIA21, marzo 2020 - https://drive.google.com/file/d/1FBd_mhTAYIX2_RSTLN4dGxn22FhvnaEM/view?usp=sharing.

 



[A] Il W.I.L. è un raggruppamento internazionale di ricercatori indipendenti, tra cui lo scomparso Atkinson e lo stesso Piketty; recentemente la Norvegia ha consentito a teli ricercatori di incrociare i dati fiscali nazionali con le rivelazioni dei cosiddetti Panama Papers, il che ha portato ad individuare evasori fiscali (fino al 30%), concentrati nel solo “centile” più ricco tra i contribuenti norvegesi.

[B] Mentre autori come Graeber4,5 e Arrighi6,7 (citati da Piketty), oppure Paolo Prodi8,9 e Jared Diamond10,11 (non citati) attingono largamente alle fasi precedenti della storia dell’umanità per cercare di comprendere le svolte della ‘modernità’.

[C] L’Autore segnala specificamente che dalla documentazione dell’epoca (riesaminata di recente), l’impresa portoghese guidata da Vasco de Gama verso l’Oriente (passando a sud dell’Africa) era stata pensata, alla fine del XV secolo, come prosecuzione della ‘reconquista’ anti-islamca, ed in particolare nel tentativo di raggiungere i mitici “cristiani del Prete Gianni” (ovvero i copti della valle del Nilo) per aggirare e aggredire l’Islam tra due fuochi (con conseguenti equivoci etno-geografici, nel contatto effettivo con i popoli Indiani). Le successive esplorazioni coloniali promosse dalle ‘compagnie delle indie’ (francesi, olandesi ed inglesi) furono invece da subito smaccatamente predatorie, senza infingimenti religiosi: emblematico dell’ideologia e organizzazione giuridica del colonialismo olandese, è per Piketty (ma anche per me), la saga letteraria scritta da Pramoedya Ananta Toer .

[D] Piketty riferisce che Lincoln, prima del precipitare della Guerra di Secessione, aveva ipotizzato di indennizzare i padroni degli schiavi in U.S.A., calcolando un esborso superiore di 4 volte a quello che fu poi il debito per la guerra, il cui esito in favore dei nordisti cancellò tale prospettiva indennizzatoria (ma di fatto in cambio del tacito permanere delle discriminazioni e dello sfruttamento sistematico degli ex-schiavi neri negli Stati del Sud); mentre fu presto dimenticata dai vincitori nordisti la promessa di assegnare un podere “ed un mulo” a ciascuno degli schiavi liberati

[E] Contraddizioni del Partito Democratico, segregazionista al sud ed anti-monopolista al nord; influenza del People Party, benché sempre minoritario.

[F] Anche se Piketty, in un capitolo successivo, segnala la coincidenza tra il “glorioso trentennio” 1945-75 con il permanere di una ideologia maschilista e con il concreto confinamento delle donne in ruoli familiari subalterni, nell’insieme a mio avviso sottovaluta altre arretratezze che pesavano in quei decenni, in cui la freccia positiva del progresso (e della speranza nel progresso) coesisteva con l’eredità materiale delle disuguaglianze dei decenni (e secoli) precedenti, dal diritto del lavoro (ad esempio in Italia lo Statuto dei lavoratori viene conseguito solo verso al fine del periodo) all’autoritarismo scolastico (fino al ’68).  

[G] pare anzi che la lamentela di Piketty in merito a tale opacità, esplicitata in “Capitale e Ideologia”, stia comportando problemi di censura per la pubblicazione del suo nuovo libro in Cina, mentre “Il Capitale nel XXI secolo” era stato ben accolto dal regime cinese

[H] Come ben rilevato da Arrighi 6,7. Piketty prende sul serio la propaganda cinese contro il parlamentarismo occidentale, in quanto subordinato alle pressioni economiche e mediatiche delle lobbies (argomento invero in se meritevole a prescindere dai suggerimenti cinesi del “Global Times”), ma non indaga sulla specificità intrinseca dell’ideologia post-maoista, che – vista da lontano - mi sembra aver abbandonato Hegel e Marx per contemplare – seguendo Confucio – una sorta di corporativismo post-classista, più autoritario che totalitario; sarebbe però forse interessante confrontarlo – senza intenti offensive – con le teorie corporative sviluppate in occidente da fascismo e nazismo.

[I] A mio avviso Piketty invece non approfondisce la componente endogena della crisi degli anni ’70, per l’esaurirsi della validità di alcuni istituti keynesiani (da cui la crescita eccessiva dell’inflazione), nonché in sostanza per il potere crescente degli stessi sindacati, contemporaneo all’inaridirsi degli afflussi di risorse dai paesi ex-coloniali.

 

[J] Nei successivi capitoli sui flussi elettorali, Piketty dimostra come l’allontanamento dei lavoratori meno istruiti dal voto a sinistra (spesso spostandosi verso l’astensione) precede l’insorgere del nodo xenofobo connesso all’emancipazione dei neri negli U.S.A. ed all’immigrazione (soprattutto se musulmana) in Europa; non approfondisce però a mio avviso il percorso sociologico degli elettori di sinistra attraverso il ricambio generazionale (la mia impressione è che gran parte degli attuali “laureati di sinistra” siano anche i figli degli antichi “operai di sinistra”).

[K] Anche se i prossimi sviluppi del caso, con la sfida Biden-Trump, potrà avere effetti rilevanti per le sorti dell’intera umanità

[L] L’importo corrisponde circa a metà del patrimonio medio nei paesi sviluppati. La proposta mi sembra più credibile di quella analoga, mutuata da Atkinson da parte del Forum D&D (Fabrizio Barca &C.)13,14, che ipotizza una dote di soli 15.000 €, anticipata ai 18 anni.