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mercoledì 24 gennaio 2018

UTOPIA21 - GENNAIO 2018: SOPRALLUOGHI - BESANÇON: UN TRAM DALLA PERIFERIA, POI ALLA CITTADELLA VAUBAN





NOTA: PER LE IMMAGINI VEDI universauser.it\utopia21
Sostiamo 24 ore a Besançon, scegliendo un albergo economico in periferia, estraneo alle abituali catene francesi, e che risulta essere probabilmente un residence per studenti e/o professori della vicina facoltà di farmacia, ancora vuoto a fine estate.

Il nucleo antico (non uso le parole ”centro storico” perché il compianto professor Virgilio Vercelloni ci diffidava, rammentando che ognuno di noi, in qualunque momento, è  comunque “storico”), meritevole di visita assieme alla “Cittadella Vauban” che lo sovrasta, dista più di 6 chilometri.

Però c’è lì vicino la fermata di un moderno tram, frequente, veloce ed efficiente (a partire dalle biglietterie automatiche di facile uso).

                            

Ci sembra una buona occasione – senza lo stress della guida dell’auto in una città sconosciuta, il discernimento della segnaletica, i litigi con il navigatore e la ricerca di un parcheggio – per guardare con calma come si presenta questa estesa periferia, come si rapporta con il centro.

Ne ricaviamo una impressione (necessariamente superficiale) ma decisamente positiva; facilitata dall’assenza di grandi centri commerciali (e annessi immensi parcheggi), che sappiamo vicini, ma che non sono lungo questo tracciato.

                   

Raccordati da aree verdi e pubbliche, con una buona e semplice sistemazione del suolo, si susseguono poli universitari e ospedalieri, nuclei di edilizia popolare di vari periodi del secondo novecento (alcuni smisurati – i “grands ensembles” degli anni 70, ma ben tenuti - altri rinnovati con discutibili soluzioni, ma con cenni di risparmio energetico),  brani di tessuto urbano a villette, ed infine le più banali, ma contenute, propaggini della città compatta.







Utenti eterogenei, con forte presenza di persone di origine magrebina oppure africana.

                       

Un ponte ci fa entrare in un bel parco ai margini del centro storico, presso l’antico ospedale settecentesco (un mio avo si dice abbia frequentato questi luoghi), poi si riattraversa la Doubs, si scorgono edifici “avveniristi” (ma non fuori scala), si lambisce un altro centro clinico/universitario ed infine il quartiere degli antichi vignaioli, fuori le mura, da cui si entra sull’omonimo ponte “de Battant” e si è arrivati sulla Grand Rue, che fa percorrere (a piedi) l’intero nucleo antico.

                    



              



Il centro antico è piuttosto esteso, e ricco di monumenti e memorie (ad esempio i fratelli Lumiere e Victor Hugo; una cattedrale con 2 absidi contrapposti ed un grande orologio astronomico) e tutte ciò che si può trovare descritto sulle guide del Touring, di Michelin e su Wikipedia, e che quindi tralascio.

Non hanno lasciato nessuna traccia invece le “fiere di cambio di Besanzone”, qui trasferite da Lione nel 1534, con cui i banchieri - Genovesi e Fiamminghi soprattutto - si scambiavano monete e lettere di credito, inventando di fatto il moderno capitalismo finanziario, come racconta Giovanni Arrighi 1: ma erano banchieri “da banco”, finita la fiera smontavano i loro banchetti, e della città usarono piazze e locande, senza lasciare cimeli murari in questo libero comune (autogestito e libero dal domino dei conti di Borgogna) devoto però alla remota autorità imperiale (mentre l’acqua della Doubs, attraverso la Saône e il Rodano, confluisce nel Mediterraneo).

Pesante impronta edificata ha lasciato piuttosto la monarchia centralista francese, appollaiando sul colle che domina la città (e l’ampia curva della Doubs che la racchiude), la grandiosa fortezza realizzata tra il 1668 e il 1683 da Sébastien Le Prestre de Vauban per Luigi XIV (ancorché inizialmente per conto degli Asburgo di Spagna), di cui possiamo tuttora ammirare (salendo con un bus-navetta) l’unitarietà e la funzionalità del progetto, e l’attuale gestione museale/multimediale (appena un po’ turbati dalla presenza, sugli spalti, di un mefitico zoo con animali equatoriali e tropicali in cattività: tigri, leopardi, struzzi...).

                        

Dalle mura, ove libere dallo zoo, si può contemplare l’ordinata estensione urbana: si ha la sensazione che con un controllo militar-amministrativo così pressante non sia possibile alcun abuso edilizio…




Da Wikipedia  ho inoltre appreso, e riassumo brevemente, la recente storia socio-economica e politica di questa città di 120.000 abitanti, vicina alla Svizzera attraverso la catena montuosa del Jura, colpita alla fine del Novecento da una drastica de-industrializzazione (tessile, orologi), ma rilanciata da una precisa scelta di sviluppo verso la ricerca bio-medica e le nano-tecnologie, in un regime di continuità amministrativa a sinistra: per quel  che può testimoniare la nostra visita turistica mordi-e fuggi, pare che il riformismo in qualche parte d’Europa funzioni ancora.




UTOPIA 21 -GENNAIO 2018: “UN ALTRO MONDO E’ POSSIBILE”, PER MARC AUGE'




Una riflessione che ripercorre in parte le precedenti elaborazioni dell’antropologo Marc Augè, cercando di intravvedere una possibile svolta positiva nelle confuse contraddizioni del presente, che diventerebbe così la “preistoria del (necessario) planetarismo”; oppure i rischi di una “utopia nera”.



Riassunto. Individui, relazioni culturali e universalismo. Crisi delle ideologie, globalizzazione e polarizzazioni sociali tra “potenti, consumatori ed esclusi”. La corrosione dei paradigmi cosmologici tradizionali e della concezione di tempo e spazio nella accelerazione tecnologica in atto. Nuovi significati dei “non-luoghi” (ma solo per i “potenti”). L’insostenibilità delle diseguaglianze e delle esclusioni. Possibilità e necessità di una svolta verso un “planetarismo consapevole” (che superi le fratture sociali e nazionali della globalizzazione), attraverso dosi massicce di istruzione e con l’ausilio specifico dell’antropologia. All’opposto i rischi di un suicidio planetario. (Le mie riserve sulla conoscenza come fine supremo dell’uomo, sulla sottovalutazione dei rapporti di produzione e sulla praticabilità di una utopia sociale partendo solo dall’incremento dell’istruzione).



Marc Augè, antropologo divenuto celebre per l’invenzione dei concetti di “non-luoghi” (aeroporti, centri commerciali, ecc.) e di “surmodernità” (eccesso di spazio, di tempi e di “ego”; dove il soggetto risulta frantumato nei diversi aspetti dell’esistenza) 1,2, ma anche di “città-mondo” (le diversità sociali profonde dentro le metropoli) e “mondo-città” (l’omologazione nei circuiti che collegano i ceti alti)3, ripercorre e rivede alcune sue elaborazioni in un saggio intitolato “Un altro mondo è possibile” 4, che pertanto non poteva passare inosservato alla redazione di “Utopia21”.

Sullo sfondo Augè tiene salda una concezione antropologica in cui tra il livello individuale e un potenziale livello “generale” sono necessariamente consistenti le relazioni culturali che legano ogni persona con “l’altro” (a partire dal contesto educativo e linguistico in cui si forma ogni essere umano) e che storicamente si sono concretizzate in termini etnici e religiosi, con frequente tendenza ad un ispessimento di questo livello culturale a danno sia delle libertà individuali che delle tendenze all’universalismo (da qui la permanenza delle contrapposizioni tra tribù e nazioni, e le conseguenti guerre, fondate spesso sul non-riconoscimento dell’umanità del nemico): non si accede  a forme di universalismo senza attraversare le proprie specificità storico-culturali (Augè richiama in particolare le persistenti gerarchie tra uomo e donna, nonché  i limiti dell’Illuminismo Occidentale, in quanto coesistente – o addirittura complice - con il Colonialismo).

Augé avanza inoltre l’ipotesi che “la conoscenza … sia l’obiettivo ultimo dell’esistenza umana”, riassorbendo l’obiettivo della ‘felicità (di tutti)’ formulato dall’Illuminismo, perché la felicità consisterebbe nella “simultanea coscienza di sé e degli altri” (tali ragionamenti mi sembrano astratti e – mentre lusingano le mie aspirazioni da ‘intellettuale pensionato’ - non mi pare che assomiglino affatto al circostante mondo, mentre la definizione illuminista di ‘ricerca della felicità’, di per sé, benché ambigua, può ben rappresentare le tendenze dell’uomo occidentale, includendo dall’edonismo consumista ai più alti idealismi, anche religiosi, ed escludendo però le religiosità di tipo trascendentale e settario, oggi così presenti nel mondo, come ad esempio l’islamismo radicale, che si fondano su tutt’altre pulsioni, vitali e mortali, quali l’affermazione di una determinata verità). 

Nel passaggio dal Novecento ai nostri giorni, Augè in “Un altro mondo è possibile” coglie quali elementi fondamentali di svolta:

-          la crisi delle ideologie, ultima delle quali la “fine della storia” disciolta in una prevalenza incontrastata della liberal-democrazia (Fukuyama), cui Augè contrappone l’incontestabile successo di paesi sviluppati capitalisticamente senza democrazia all’occidentale (Cina) e l’evidenza delle spinte ribellistiche e terroristiche di matrice religiosa;

-          la effettiva globalizzazione, dei mercati e dei consumi, che ha superato i precedenti tentativi di “mondializzazione” fondati sull’egemonia coloniale o post-coloniale di alcuni stati, ma che si fonda sulle disuguaglianze, tuttora anche mediante le frontiere, con una stratificazione sociale (globale) tra “potenti” al vertice, “consumatori” nel mezzo ed “esclusi” alla base (denunciando in particolare lo scandalo - inaccettabile ma accettato - dei senza-casa nel cuore delle metropoli più ricche, aggravato dalla tendenza dei “consumatori” a non voler vedere ciò che si ha paura di diventare) e anche qui (sulle 3 “classi”) mi sentirei di appuntare una domanda critica, perché non ho capito dove Augè releghi il processo di produzione dei beni e servizi consumati da potenti&consumatori: ad oggi mi pare che coinvolga ancora una buona parte degli stessi consumatori, ma non senza un permanere – in forme nuove - delle contraddizioni tra “potenti” e lavoratori: vedi in questi giorni Uber, Amazon, Ikea, Ryanair);

-          la rapida corrosione dei riferimenti antropologici spazio-temporali e cosmologici tradizionali ad opera del progresso scientifico nei campi dell’infinitamente piccolo e dell’infinitamente grande, e della connessa e continua innovazione tecnologica, che promette (ma non a tutti) accelerate esperienze di Istantaneità ed Ubiquità (rendendo relativa anche la distinzione tra luoghi e non-luoghi: per i “potenti” potrebbero divenire “luoghi” i contesti artificiali in cui i “potenti” stessi si muovono di continente in continente, escludendone i ceti subalterni), e che diffonde comunicazione pervasiva (TV, Internet), distruggendo nel contempo le relazioni effettive ed affettive (solitudine dell’individuo, alienazione mediatica).

Attraverso la riflessione su ricerche proprie e di altri antropologi e pensatori del passato e del presente (da Durkheim a Lévi-Strauss, da Foucault a Sartre, da Clifford Geertz a Bruno Latour, da Marc Abélès a Michel Agier, da Marcel Gauchet a Jean Pierre Vernant), sconfinando su argomenti quali il colonialismo, le esplorazioni spaziali, l’organizzazione della scienza, gli organismi multi-culturali, i rapporti inter-generazionali, le religioni (ad esempio il giudeo-cristianesimo come “religione dell’uscita dalla religione” ovvero come culla involontaria della laicità – Gauchet - , ma anche il cristianesimo alle sue origini come affossatore della possibile laicità derivante dal politeismo greco-romano – Vernant -), le migrazioni (l’Autore rammenta gli errori della “Francia negli anni settanta, in occasione dei ricongiungimenti famigliari, quando si è trascurata l’esigenza di adattare la scuola ai nuovi arrivati”) , il terrorismo, ecc. Augé perviene alla conclusione che una svolta è necessaria e possibile.

(Rilevo però che l’Autore evita invece ogni riferimento a studiosi di altre discipline umanistiche, ancorché convergenti con parti importanti delle sue analisi, come ad esempio Bauman5, Maffesoli6, Castells7, Gallino8).

Di fronte a tale quadro problematico, Marc Augé intravvede “lampi di coscienza” verso un orizzonte positivo e possibile, un “planetarismo” reso consapevole, attraverso l’istruzione e la sperimentazione scientifica, dei  problemi comuni dell’umanità (con qualche cenno ai risvolti ecologici), planetarismo diverso dalla globalizzazione perché capace di trasformare le barriere in varchi (e ciascun uomo in un “libero abitante del pianeta Terra”), e di cui la globalizzazione in atto costituirebbe una confusa ”preistoria”; e però anche, contestualmente, il rischio opposto di precipitare, accumulando ancora disuguaglianze ed esclusione, consumismo ed alienazione, ignoranza e violenze, verso la “utopia nera” di un suicidio (anch’esso) planetario.

Augé pone alla base della sua “utopia possibile” una dose massiccia di istruzione (universalista) per tutti (e perciò universale) (al che riprendo la mia critica: perché non anche e contestualmente il lavoro per tutti, anche ed in particolare di fronte all’annunciata accelerazione dei processi di automazione?), ma ponendo al vertice del sapere la disciplina antropologica, in quanto capace (più della psicologia e delle sociologia, con cui si confronta) di cogliere e valorizzare la diversità non solo tra le culture, ma anche tra gli individui.

Conclude infatti, con la parafrasi di Sartre, da “L’esistenzialismo è un umanismo”, affermando che “l’antropologia è un umanismo”.

Mi permetto pertanto di riassumere il mio commento (parafrasando Rosa Luxemburg, “socialismo o barbarie”), rilevando che per l’ultimo Marc Augé l’alternativa si pone tra ‘antropologia o barbarie’.

“Un altro mondo è possibile” mi è sembrato affascinante (anche per la sua vertiginosa brevità di 57 pagine), ma meno convincente rispetto alle precedenti ‘scoperte’ di Augé; convengo infatti sulla sua lettura della profonda crisi antropologica dell’umanità, meno nella sicurezza ‘avventista’ verso una svolta, di cui il testo non dimostra a fondo la necessità (in termini di maturazione storica) né tanto meno la possibilità concreta e non solo utopica: quanto riesce a contare la vocazione pedagogica dell’antropologia? Da dove cominciare, constatando che il riflusso sovranista e xenofobo di larghe masse di cittadini occidentali riguarda persone mediamente scolarizzate? Allora ci vuole una diversa istruzione: come promuovere questa nuova e profonda istruzione per tutti, sostanzialmente laica e pluralista?

Assediati dal ‘pensiero unico’ che sostiene l’impossibilità di qualsivoglia alternativa (T.I.N.A.= there is no alternative), siamo in effetti un po’ affamati di utopie e ci potrebbe entusiasmare un maestro del pensiero già a noi simpatico e per giunta francese, che afferma finalmente che “Un altro mondo è possibile”: ma forse occorrono utopie un poco più realizzabili.

Fonti:

1.    Marc Augé “NONLUOGHI. INTRODUZIONE A UNA ANTROPOLOGIA DELLA SURMODERNITÀ” - Elèuthera, Milano 1996

2.    Marc Augé “L'ANTROPOLOGIA DEL MONDO CONTEMPORANEO” - Elèuthera, Milano 2005

3.    Marc Augé “TRA I CONFINI. CITTÀ, LUOGHI, INTERAZIONI” -  Bruno Mondadori, Milano 2007

4.    Marc Augé “UN ALTRO MONDO È POSSIBILE”- Torino, Codice edizioni, 2017

5.    Zygmunt Bauman “VITA LIQUIDA” - Laterza, Bari 2006

6.    Michel Maffesoli “IL TEMPO DELLE TRIBÙ. IL DECLINO DELL'INDIVIDUALISMO NELLE SOCIETÀ POSTMODERNE” - Guerini e Associati, Milano 2004

7.    Manuel Castells “LA NASCITA DELLA SOCIETÀ IN RETE” - UBE Paperback, Milano 2002

8.    Luciano Gallino “FINANZ-CAPITALISMO. LA CIVILTÀ DEL DENARO IN CRISI” – Einaudi, Torino 2013

UTOPIA21 - GENNAIO 2018: IL TERZO SPIRITO DEL CAPITALISMO, INDAGATO DA BOLTANSKI E CHIAPELLO



Un saggio di grande importanza per interpretare i mutamenti sociali degli ultimi decenni, non solo in Francia, con attenzione sia all’evoluzione del pensiero dominante dentro e fuori le aziende, sia alle modificazioni, molecolari e profonde, nelle strutture economiche. 



Riassunto – La formazione di un “terzo spirito del capitalismo” dentro alla svolta neo-liberista di fine Novecento (dopo il “primo spirito” dell’industrializzazione nascente ed il “secondo spirito” del taylorismo/fordismo). La ricerca degli Autori attraverso la letteratura di formazione per i manager e l’analisi delle trasformazioni dei cicli produttivi. Il ruolo della “critica sociale” e quello della “critica artistica” al capitalismo. Accoglimento e assorbimento parziali delle diverse critiche nel capitalismo che si trasforma e trova nuove “giustificazioni” per il necessario consenso sociale. L’interpretazione del “mondo connessionista” e la possibilità di un aggiornamento della critica in una “città per progetti”, contro la deriva individualista. In corsivo i commenti personali del recensore



Il saggio dei sociologi francesi Luc Boltanski ed Eve Chiapello “IL SECONDO SPIRITO DEL CAPITALISMO”1 mira a focalizzare la profonda trasformazione delle società capitalistiche nell’era della globalizzazione, concentrandosi soprattutto sulla Francia, nel confronto tra apogeo del Fordismo-Taylorismo (ed anche dirigismo e concertazione), nel 2° dopoguerra, e la fase di riorganizzazione neo-liberista successiva alla crisi del ’68 e degli anni Settanta.

Edito in Francia nel 1999 e poi in una seconda edizione (con specifica prefazione) nel 2011, è stato pubblicato in Italia solo nel 2011 (Feltrinelli) e poi nel 2013 e 2014, quando ha raggiunto, con le ricche note e la ricchissima bibliografia la lunghezza di 738 pagg. : non è pertanto facile riassumerlo e recensirlo; rimando perciò anche direttamente alla fonte, perché il capitolo “Conclusioni”, da pagg.529 a 570 dell’edizione Mimesis/2014, costituisce di fatto un valido e rapido riepilogo.



Il pregevole sfondo storico dell’opera individua, dalla rivoluzione industriale ad oggi, essenzialmente 3 fasi, tenendosi in dialettica equidistanza da Karl Marx (che anteponeva le strutture materiali, relegando l’ideologia a sovrastruttura) e da Max Weber (che invece leggeva nelle spinte ideali il motore della storia):

-       Il “primo spirito” (a cavallo del XIX secolo) rompe con l’organizzazione corporativa del lavoro e con gli assetti tradizionali della società, in nome della libertà di intrapresa e della modernizzazione, ma modella l’azienda sul potere familiare della proprietà e non disdegna il compromesso con le antiche istituzioni (Dio-patria-famiglia) per ottenere il consenso dei salariati;

-       Il “secondo spirito”, nel cuore del Novecento, fa emergere la razionalità dell’organizzazione aziendale, con una piramide (burocratizzata) di dirigenti specializzati, sempre più autonomi dalla mera proprietà, coinvolgendo i dipendenti, strettamente controllati nei ritmi e modi di lavoro parcellizzati, in una realtà o speranza di compensazioni salariali e di welfare, nell’ambito di una società tendenzialmente modellata “razionalmente” come la piramide aziendale;

-       Il “terzo spirito” sta crescendo come ideologia giustificativa dei nuovi modi di produrre valore (decentrati e delocalizzati, flessibili e temporanei, articolati su “reti” internazionali), con cui le imprese hanno superato la rigidità dei modelli fordisti e in parte riassorbito le spinte anti-autoritarie dei nuovi “quadri”, e si diffonde come esaltazione dell’autonomia creativa e dello spirito imprenditoriale, potenzialmente esteso a tutti gli attori in campo, ma in realtà escludendo chi non è abbastanza “mobile”, adeguato alle reti, disponibile ad un sostanziale auto-sfruttamento denominato come “valorizzazione del capitale umano” (che spesso include polivalenza, aggiornamento continuo, reperibilità via smartphone ‘h24’ in cambio di un normale salario, arricchito solo dalla speranza della conservazione del posto, sapendo ‘quanto freddo fà là fuori’).



In questa lettura storica, costante dell’organizzazione capitalistica risulta la ricerca di una adesione consensuale dei lavoratori e dell’intera società tramite “giustificazioni” ideologiche (“De la justification”2 era il titolo di un precedente saggio di Boltanski con Thevenot) e istituzioni o “prove” di apparente trasparenza, ricerca che lascia come residuali ed eccezionali sia le forme schiavistiche più brutali sia le parentesi di militarizzazione e fascistizzazione di stati ed imprese.

Il tema delle “prove” è ricorrente nel testo e riguarda diverse forme codificate nel tempo di regolazione dei rapporti sociali, dove la forza dei gruppi dominanti accetta di essere temperata per farsi accettare dai gruppi più deboli: dalle modalità di assunzione a quelle di licenziamento, dalla scuola pubblica alle norme ambientali e di sicurezza, dalle modalità delle vertenze sindacali alle stesse elezioni democratiche; un complesso di consuetudini e di leggi che – pur confermando e consolidando (in genere) le differenze di potere, consentono ai più deboli di invocare qualche forma di giustizia distributiva, e talvolta di farvi leva per modificare le stesse strutture sociali (salvo innescare nuove prevaricazioni creative da parte di gruppi dominanti, vecchi o nuovi).

Nel testo i processi di trasformazione sono colti nel rapporto dialettico tra gli interessi dei singoli soggetti (capitalisti in testa, in quanto detengono per l’appunto il capitale e non possono mai adagiarsi sugli allori per la presenza ed il timore di iniziative concorrenziali o comunque di perturbazioni dei regimi di monopolio di fatto temporaneamente conseguiti) e la elaborazione collettiva di nuovi assetti socio-culturali, talvolta ‘sinceri’ ed espliciti (ad esempio: occorre rimuovere le resistenze corporative oppure sindacali) e talaltra propagandistici ed edulcoranti (ad esempio: occorrono sacrifici per il bene comune); mai nella visione macchinistica di un diabolico ed occulto ‘grande vecchio’. 



E’ apprezzabile costante degli Autori quella di evitare ogni schematizzazione (come quelle cui io sono invece costretto nel riassumerli in poche cartelle), specificando che in ogni fase possono convivere diversi “spiriti”, che le transizioni non sono cesure nette, che nella dialettica delle trasformazioni ricompaiono modificati elementi in precedenza divenuti marginali o minoritari (ad esempio il peso delle relazioni personali nel “terzo spirito” fa riemergere legami tradizionali negati dalla neutralità burocratica del “secondo spirito”).



Il testo approfondisce soprattutto le condizioni e le modalità del passaggio da “secondo” a “terzo spirito”, esaminando le forme che nella seconda metà del Novecento assumono le forze critiche rispetto all’assetto capitalistico, critiche che gli Autori raggruppano in 2 filoni (derivanti già dalle vicende ottocentesche): la critica “sociale”, orientata a richiedere maggiore giustizia distributiva in termini di orari e fatica, salari e previdenze (con esiti, in Francia, soprattutto centralizzati a livello di contratti nazionali, concertazioni confederali, provvidenze statali, e con tipica rappresentanza sindacale nella CGT), e la critica “artistica”, incentrata sull’autonomia e la creatività, contro l’autoritarismo aziendale e la ripetitività del lavoro parcellizzato, la rigidità dei ruoli sociali e la burocraticità dei rapporti (da cui in particolare derivarono in Francia rivendicazioni specifiche dei “quadri”, spesso rappresentate dal sindacato CFDT ed altri).         

(Qui colgo però un qualche schematismo di Chiapello e Boltanski, che pure ammettono il vario intreccio concreto tra le “due critiche”: è esistito a mio avviso, non solo in Italia, un terzo filone critico, più esistenziale e radicale, che stava tra il rifiuto quasi luddistico dello sfruttamento da parte dei salariati stessi ed il ripudio delle ingiustizie – viste patire da altri - da parte degli intellettuali, su basi concettuali anarchiche o religiose, con sbocco nella fuga eremitica dal mondo mercificato oppure nella guerriglia terroristica, ma anche in tentativi di rielaborazione  originale della lotta di classe come nelle teorie non-violente di Aldo Capitini3 oppure in alcune esperienze di Lotta Continua4).



La parte del testo che mostra maggior originalità, con documentazione esibita forse anche con troppa meticolosità, è la ricerca compiuta dagli Autori su un ampio campione di “letteratura di formazione” per quadri e manager, con raffronto diacronico tra i testi correnti al tempo del “secondo spirito” e quelli elaborati nel trentennio successivo per il “terzo spirito”; ma a mio avviso hanno una notevole utilità, documentale e argomentativa, anche le numerose e ben articolate osservazioni, tratte da diverse fonti (statistiche, articoli, ricerche di altri autori) sulle modalità molecolari di trasformazione dei cicli produttivi negli ultimi trenta anni del Novecento, riguardo a diversi aspetti della vita aziendale (assunzioni, carriere, nuovi profili professionali, sub-appalti, de-localizzazioni, scorpori di rami aziendali e conseguenti frantumazioni contrattuali, autocontrollo nei gruppi di lavoro, gestione reticolare e “per progetti”) e della vita sociale connessa (formazione, occupazione/disoccupazione, mobilità, auto-imprenditorialità, ecc.; ed anche disagio sociale e psichico, esaminando persino le statistiche sulle ragioni di suicidio), nonché sui provvedimenti sociali dello Stato (talvolta contro-producenti rispetto alle finalità perseguite).



Parimenti analitico e documentato è il racconto riguardo a successi ed insuccessi delle diverse forme di critica, “sociale” ed “artistica” (ed anche dei reciproci conflitti tra di esse), sottolineando come da un lato parte delle critiche sono state accolte ed inglobate, ma determinando mutamenti che hanno finito per spiazzare le stesse forze critiche, rese incapaci di aggiornarsi dalla stessa natura dei cambiamenti introdotti nell’organizzazione del lavoro. Ad esempio nel ruolo dei delegati sindacali – in Francia eletti con modalità ‘elettoralistiche’ -  sempre più assorbiti a tempo pieno in compiti complessi ed infine separati di fatto dai reparti di provenienza, ormai  riorganizzati in termini sconosciuti ai delegati stessi; oppure – fuori dalle fabbriche – con l’emergere di nuove tematiche altruistiche di carattere umanitario, che assumono come oggetto i “diversi” – emarginati, immigrati, ecc. – senza più riuscire a coglierne i nessi con le condizioni occupazionali potenziali, cioè con la moderna realtà del mercato del lavoro, dove l’”esercito di riserva” si confonde con lo ‘spauracchio sociale’ del fallimento personale e crescono le situazioni di disagio psichico derivanti dall’endemico precariato.



Tra le difficoltà delle “due critiche”, Boltanski e Chiapello evidenziano anche fattori specifici in qualche misura esogeni rispetto alla dialettica capitale-lavoro, quali, per la “critica sociale”, il discredito ricaduto sul Partito Comunista Francese (ma anche sulla collaterale CGT) in relazione alla crisi del blocco sovietico (e dei connessi ideali di redenzione finale del proletariato, sempre rimandati ad una mitica presa del potere), e, per la “critica artistica” dal logoramento della parole d’ordine della “autenticità”, massimizzate dall’esistenzialismo di Sartre (ed anche dalla scuola di Francoforte), attraverso la elaborazione di nuovi modi di pensiero, de-strutturanti del soggetto e della originalità (Bourdieu, Deleuze, Derrida), che paradossalmente hanno finito per giustificare la resa degli intellettuali alla mercificazione della cultura e l’abbandono di precedenti posizioni più sobrie ed austere, ora giudicate come elitarie.



Al culmine della rappresentazione del “terzo spirito”, gli Autori tendono a proporre un nuovo paradigma di lettura delle contraddizioni sociali, tipico del “mondo connessionista” che tende a prevalere, in cui ciò che conta è l’accumulazione di connessioni e dove dominano le persone che riescono ad essere mobili, da un luogo ad un altro, da un progetto ad un altro, carpendo e non condividendo informazioni (se non per il minimo indispensabile al successo di singoli ”progetti”), in quanto con ciò stesso sfruttano gli altri, che in qualche misura non possono o non vogliono essere altrettanto “mobili”, gli “immobili” (o addirittura gli emarginati) di cui i “mobili e connessi” hanno però assolutamente bisogno per esprimere in pieno il loro dominio. (Paradigma brillante, sulla cui utilità e soprattutto generalizzabilità però nutro molti dubbi).



Nelle parti finali Chiapello e Boltanski formulano anche qualche proposta e qualche auspicio, temendo una deriva sempre più individualistica e socialmente destrutturante dell’assetto capitalistico globale, ma non rassegnandosi ad essa: contro il fatalismo è possibile un rilancio della critica (attraverso la sociologia, e non fondandosi su antropologie negative, secondo cui l’uomo sarebbe naturalmente e puramente egoista, come in Hobbes, ma anche in Durkheim)

Da un lato colgono alcune tendenze alla auto-limitazione del “terzo spirito” per il suo bisogno di giustificazione, da altri lati suggeriscono un rapido ammodernamento degli apparati concettuali di critica allo stato di cose presente e la coltivazione di manovre correttive, a livello di singole aziende come a livello statale ed internazionale, quali ad esempio:

-       l’attribuzione alle aziende dei costi di ricollocazione dei lavoratori temporanei, l’umanizzazione dei rapporti di lavoro attraverso la certificazione delle buon pratiche aziendali (anche verso l’ambiente), l’estensione degli istituti di sostegno al reddito e di ricerca di nuova occupazione; dalla alternativa tra “contratto di lavoro” e “contratto commerciale” (spesso con i lavoratori subalterni mascherati da auto-imprenditori) a nuovi “contratti di attività”, che includano la retribuzione di forme di ”attività” oggi non riconosciute come lavori pagati;

-       (considerando come acquisizioni positive Europa ed Euro) il ritorno a qualche modalità di controllo dei movimenti di capitali e sulla contabilità delle multi-nazionali, la Tobin-Tax contro la volatilità finanziaria a breve termine, una seria lotta all’elusione fiscale internazionale;

-       il riconoscimento degli apporti di tutti i partecipanti ai singoli “progetti;

-       la limitazione alla mercificazione dei beni comuni, della sfera privata, degli altri esseri naturali.

L’ipotesi è di cercare di imbrigliare il “terzo spirito” in una “città per progetti”, così come il “secondo spirito” aveva accettato di coesistere nella “città industriale” con lo stato sociale e le sue espressioni civiche. (Con un vezzo un po’ accademico, gli autori denominano come “città” – se ho ben capito - un sistema di relazioni sociali, esterno alle aziende, non necessariamente identificato sul territorio, e più normato dei semplici “mondi” culturali che si determinano spontaneamente nell’evolversi della società).



Fonti:

1 – Luc Boltanski e Eve Chiapello “IL NUOVO SPIRITO DEL CAPITALISMO” – Mimesis, Milano/Udine 2014

2 – Luc Boltanski e Thevenot “DE LA JUSTIFICATION: LES ÉCONOMIES DE LA GRANDEUR” – Gallimard, Paris 1991 (non tradotto in italiano)

3 – Aldo Capitini “IL POTERE DI TUTTI” - La Nuova Italia, Firenze 1969

4 - Luigi Bobbio “LOTTA CONTINUA: STORIA DI UNA ORGANIZZAZIONE RIVOLUZIONARIA” - Savelli, Roma 1979


UTOPIA21 - GENNAIO 2018: VERSO UN PAESAGGIO SOSTENIBILE?


Dopo aver affrontato in precedenti articoli su Utopia 21 – in chiave di sostenibilità ambientale - i temi dell’edilizia, del consumo di suolo e della pianificazione urbana, in questo articolo cerco di inquadrare, nello sviluppo storico italiano da metà Novecento, la problematica del paesaggio, anzi dei nessi territorio-ambiente paesaggio



Riassunto:

Territorio e paesaggio prima della 2^ guerra mondiale

Ricostruzione e sviluppo post-bellico tra illusioni illuministe e concretezza speculativa

I miti della pianificazione territoriale negli anni ’60 e ‘70

Anni 80: involuzione del riformismo (anche urbanistico); emergenze ambientali; condoni e ritorno del paesaggio

Il nuovo paesaggismo in un’Italia in grande trasformazione

La svolta europea agli inizi del XXI secolo

Criticita’ tuttora aperte


NOTA: PER LE IMMAGINI RIMANDO AL SITO universauser.it\utopia21


TERRITORIO E PAESAGGIO PRIMA DELLA 2^ GUERRA MONDIALE

Per alcuni decenni dopo la 2^ guerra mondiale, in Italia il “paesaggio” ed il “territorio” sono stati vissuti come ambiti distinti, culturalmente e amministrativamente, con una perdurante impronta delle leggi promosse dal fascismo modernizzante di Bottai:

-          nel 1939 la legge 1497, che – partendo da una concezione idealistica ed estetizzante del “paesaggio” (e non a caso da una precedente legge del 1922, promossa dal ministro Benedetto Croce) –  affidava al Ministero (allora “dell’Educazione Nazionale”) ed alle connesse Soprintendenze la tutela su alcuni luoghi, individuati tramite specifici decreti come “bellezze naturali”, in parallelo a quanto effettuato sui “Monumenti” (sulle “cose d’arte”) in base alla coeva legge 1089 (che riprendeva anch’essa precedenti prassi e testi legislativi del Regno d’Italia, per lo più successivi al 1900),

-          nel 1942 la legge 1150 che – pur in un quadro ideologico formalmente orientato “contro l’urbanesimo” – prevedeva per la prima volta un insieme organico di piani urbanistici e territoriali estesi a tutti i comuni, sotto il controllo gerarchico del Ministero dei Lavori Pubblici.1



RICOSTRUZIONE E SVILUPPO POST-BELLICO TRA ILLUSIONI ILLUMINISTE E CONCRETEZZA SPECULATIVA

Mentre la ricostruzione post-bellica e poi lo sviluppo industriale ed edilizio, che hanno trasformato larghe parti del Paese, si realizzarono con strumenti urbanistici sommari (i piani di ricostruzione) oppure tranquillamente senza alcun piano, o ancora – nelle città più grandi - attraverso piani regolatori comunali tardivi e permissivi, e spesso senza pianificazione particolareggiata (come invece prevedeva la legge del 1942), 1,2,3 solo pochi funzionari e pochi intellettuali (tra cui l’INU di Adriano Olivetti e del professor Astengo) cercarono di proporre, già negli anni ’50 – ma senza alcun risultato pratico –  la necessità dei Piani Territoriali di Coordinamento (teoricamente previsti sempre dalla legge del 1942).

                              

Figure 1 e 2: copertina ed una tavola della rivista “Metron”, n° 14 diretta da Piccinato e Ridolfi (1947, febbraio) - Fascicolo interamente dedicato al piano regionale piemontese. Testo di Marco Visentini: «Presentazione del Piano Piemontese. Giovanni Astengo - Mario Bianco - Nello Renacco - Aldo Rizzotti.



La pianificazione sovracomunale, territoriale e socio-economica, venne poi in auge, ben inteso solo in termini teorici, negli anni ’60, a fronte della evidenza dei fenomeni più rilevanti connessi alla disordinata urbanizzazione in atto nelle periferie e della speculazione edilizia, aggressiva in parte anche verso i “centri storici” (che però si iniziò in quegli anni a difendere, anche con i vincoli monumentali e paesaggistici e anche grazie a nuovi movimenti, quali Italia Nostra).

A livello nazionale però si consumò, con la fine degli slanci del primo centro-sinistra, la sconfitta della attesa “riforma urbanistica” (legge Sullo del 1962:4,5,6 prevedeva l’esproprio preventivo, a prezzo agricolo,  di tutti i suoli edificabili; esproprio che venne invece limitato alle aree per i quartieri popolari); solo dopo la frana di Agrigento (1966) venne posto un qualche freno al disordine edilizio e urbanistico mediante la legge “Ponte” del 1967, che rese concreto l’obbligo dei piani comunali con “zone omogenee” ed alcuni criteri quantitativi minimi di distanze tra fabbricati e di spazi pubblici.



I MITI DELLA PIANIFICAZIONE TERRITORIALE NEGLI ANNI ’60 E ‘70

Il successo culturale della “pianificazione” a scala territoriale attraverso i vari Istituti Regionali di Ricerca, Piani Comprensoriali e Intercomunali (il cui ultimo epigono, a scala nazionale, tra il 1969 ed il 1971, fu il “progetto 80”7) risultò di fatto limitato a segmenti avanzati del mondo politico e culturale (e in modesta misura anche imprenditoriale) soprattutto al Centro-Nord, ma senza esiti concreti, anche nel successivo avvio delle Regioni ordinarie nel 1970 (più avanti erano solo le regioni a Statuto Speciale del Nord-Est, a partire dal Piano Provinciale del Trentino nel 1967, seguito poi da analoghi strumenti anche a Bolzano e nel Friuli/Venezia Giulia).

Le idee forti del confronto disciplinare e mediatico nella pianificazione territoriale erano sintetizzate in immagini spaziali emblematiche, come la “turbina” oppure “la città lineare” per Milano e dintorni8, l’asse attrezzato “Sistema Direzionale Orientale” per Roma (che i dintorni li ha dentro il confine dell’enorme comune)9; i grandi gesti dominavano anche l’architettura, dal serpentone del Corviale a Roma alla più tarda mega-struttura dell’Università della Calabria a Cosenza/Rende10 (passando per le vele di Scampia a Napoli e lo ZEN di Palermo).

           

Figure 3 e 4: “Secondo Schema per il Piano Intercomunale Milanese” di G. De Carlo, S. Tintori e A. Tutino (1965) ed uno schizzo per l’Università della Calabria di Gregotti e Associati (1974)



Ma lo scontro culturale e politico effettivo sul “territorio” si combatteva (anche all’interno del partito democristiano, allora dominante) tra il liberismo spicciolo di lasciar costruire villette e capannoni ad ogni proprietario sul suo terreno (nonché sui terreni agricoli accaparrati dagli speculatori), anche attraverso piani comunali ipertrofici e compiacenti,  o comunque con l’abusivismo (non solo al centro-sud, in quegli anni) – da un lato – e dall’altro lato i tentativi di imporre qualche disegno organico di trasformazione dei suoli, anche intercomunale, finalizzato ad uno sviluppo più razionale ed efficiente, con adeguati spazi per i bisogni sociali allora emergenti (case popolari, scuole, impianti sportivi) e quindi con la necessaria acquisizione dei relativi terreni (tramite esproprio oppure lottizzazioni convenzionate).  

Malgrado le prime avvisaglie di crisi anche ecologica (rapporto al club di Roma 1972 11, crisi petrolifera del 1973), questa cultura sostanzialmente “industrial-sviluppista” pervade anche le nuove leggi urbanistiche regionali di metà anni 70, che rappresentano i primi tentativi di riforma sistematica della legge 1150 del 1942 (pur dovendone confermare i principi), a partire dal centro-nord (prima la Lombardia nel 1975): tali leggi  mediamente contribuirono a migliorare la qualità dei piani comunali, fallendo invece quasi totalmente nella formazione dei piani territoriali regionali e di scala intermedia (prima comprensoriali e poi provinciali: piani provinciali di qualche efficacia, nelle regioni a statuto ordinario, si avranno infatti solo a fine secolo, dopo la riforma degli enti locali del 1993, con l’elezione diretta di Sindaci e Presidenti di Provincia).

E’ da segnalare però che in queste leggi si affacciò finalmente il tema della tutela del suolo agricolo, seppur con varia efficacia, e che contestualmente vennero decisi e realizzati i primi parchi regionali, a partire dal Parco Lombardo della Valle del Ticino (1975).

Nel biennio 77-78 si consolidò anche il quadro legislativo riformistico per l’edilizia e l’urbanistica, solamente a scala comunale, con le leggi sugli oneri di urbanizzazione e sui piani di recupero per i nuclei antichi e le zone degradate.

Sopra a queste vicende tipicamente “territoriali”, il “paesaggio” galleggiava con la sua separata normativa, dal 1974 gestita dal neonato Ministero per i Beni Culturali, che di fatto non riusciva ad impedire le trasformazioni urbanistiche, anche nelle zone vincolate, ma solo a condizionare la forma degli edifici, imponendo (a costruzioni spesso incongrue) coperture a falde, aperture ad archi, paramenti in pietra ed intonaci in tinte pastello, secondo l’interpretazione soggettiva dello “stile tradizionale” da parte dei singoli funzionari e Soprintendenti.


Figura 5 – esempio di re-invenzione in stile, anni ’60 - Arona, lungo-lago Marconi                       

(fonte dell’immagine: Google Street Vieuw)



ANNI 80: INVOLUZIONE DEL RIFORMISMO (ANCHE URBANISTICO); EMERGENZE AMBIENTALI; CONDONI E RITORNO DEL PAESAGGIO

Dagli anni ’60 agli anni ’80, mentre si indeboliva la spinta propulsiva di carattere sociale (sindacati, partiti di sinistra storici e movimenti extra-parlamentari), crescevano invece sensibilità e associazioni ambientaliste, oltre l’ottica limitata (ma pur meritoria) di Italia Nostra: WWF, FAI, LegaAmbiente, movimento dei Verdi, ecc.; datano 1986 la fondazione del Ministero dell’Ambiente  e il recepimento della Direttiva Europea sulla V.I.A. (Valutazione di Impatto Ambientale per singole opere pubbliche); 1987 il primo referendum anti-nucleare; i consigli comunali istituivano “commissioni ambientali” e nascevano gli assessorati all’ambiente di Comuni Province e Regioni; “AMBIENTE” diveniva la nuova chiave di lettura del “territorio”, ed il paesaggio rimaneva un po’ sullo sfondo.

Tuttavia, mentre sul fronte più strettamente urbanistico iniziava un ciclo di contro-riforme (non solo leggi, ma anche sentenze della Corte Costituzionale contro gli espropri ed in favore dello “ius edificandi” dei singoli proprietari)12,13, ciclo amministrato prima dal “pentapartito” di Craxi-Andreotti&C. e poi dal centro-desta di Berlusconi (attenuato ma non capovolto dai governi del centro-sinistra di Prodi-D’Alema-Amato e Prodi2), che si concretizzò nei 3 condoni edilizi del 1985-1994-2004 ed in svariate procedure di deroga ai Piani Regolatori (dai “programmi di intervento” e simili ai “piani-casa”), aiutate da una cultura architettonica che esaltava la libertà del progetto contro la burocraticità delle norme e dei piani, la schizofrenia politica del legislatore partorì nel 1985, come una sorta di contrappeso al primo “condono”, la legge “Galasso” sui vincoli paesaggistici, che istituiva:

-          parere obbligatorio delle Soprintendenze su tutti gli interventi edilizi in intere categorie di beni naturali, quali le fasce costiere di mari, laghi e fiumi, gli usi civici, le zone umide, i boschi, i vulcani, l’alta montagna, i parchi nazionali e regionali (in tale elencazione emerge una evidente vena ambientalista di interpretazione del paesaggio);

-          estensione di tale parere anche alle domande in sanatoria per abusi edilizi pregressi, ed esclusione dai condoni (almeno in teoria) per opere irregolari realizzate dopo l’apposizione dei vincoli;

-          inedificabilità transitoria, fino alla redazione di piani paesaggistici regionali, per alcune aree di rilevante interesse ambientale, individuate direttamente dal Ministero (i cosiddetti “galassini”);

-          obbligo per le Regioni di redigere i suddetti Piani Paesaggistici, per governare attivamente tutta la materia e indirizzare la gestione delle aree vincolate (eventuale ridisegno dei confini; criteri per l’espressione dei pareri, interventi attivi di riqualificazione).










                                         

Figura 6-7 – esempio di estensione dei vincoli paesaggistici, nelcomune di Osmate (VA), tratto dal vigente Piano di Governo del Territorio



IL NUOVO PAESAGGISMO IN UN’ITALIA IN GRANDE TRASFORMAZIONE

Il miscuglio contradditorio di vincoli e condoni non ha di certo sortito l’effetto di salvare il paesaggio italiano, come si era configurato al termine del grande ciclo espansivo del dopoguerra, né di affrontare coerentemente gli ulteriori cicli espansivi nel settore edilizio (l’ultimo dal 1995 al 2005), espansioni connesse:

- al risparmio delle famiglie, spinte all’acquisto della prima casa dall’esaurimento sia del blocco degli affitti e del successivo tentativo dell’”equo canone” (1978) e dall’affievolimento degli interventi pubblici per case popolari e cooperative (ed all’acquisto di seconde case anche come bene-rifugio)

- alla crescente finanziarizzazione dell’economia, con pesanti investimenti dei profitti anche nei vari settori immobiliari   


 Figura 8 – i cicli edilizi dal dopo guerra, secondo il CRESME (Centro Ricerche Economiche e Sociali del Mercato dell’Edilizia)



Un lungo processo insediativo che ha portato alla riconfigurazione del territorio (e del paesaggio) in termini ben diversi dal riequilibrio auspicato, ad esempio, dal “Progetto ‘80” 7, ed invece con accentuazione degli squilibri a svantaggio delle zone montane e delle “zone interne”, con forte calo di popolazione (soprattutto di popolazione giovane) e di attività produttive (ma non sempre anche di attività edilizie…) e con la formazione di rilevanti fenomeni “conurbativi” non solo nelle aree metropolitane (Roma, Milano, Torino, Napoli, Padova/Venezia/Treviso, Firenze/Val d’Arno) ma anche sull’intero arco pedemontano, da Biella a Gorizia, sulla via Emilia e traverse, e poi nelle “città lineari” lungo la costa ligure, da Ventimiglia a Sestri Levante, in Versilia e lungo l’Adriatico, da Ravenna al Molise; con accanimenti insediativi costieri disordinati anche in parte delle restanti regioni meridionali; con episodi tendenziali anche nel Basso Piemonte ed in Umbria (per leggerli sommariamente è sufficiente uno sguardo di notte dal satellite, vedi foto alla pagina successiva).




                          Figura 9 – immagine notturna dell’Italia da satellite



In tale quadro, il nuovo indirizzo paesaggistico derivante dalla legge Galasso iniziò ad aiutare le forze interessate a  “salvare il salvabile”, offrendo qualche strumento di controllo e di salvaguardia in più alle amministrazioni virtuose, statali e locali, e inducendo a riflettere anche sulle possibilità di “recuperare il recuperabile”, sia con progetti di ri-naturalizzazione (esempio per le cave abbandonate), sia mediante la riqualificazione progettuale di aree urbane e peri-urbane parzialmente compromesse (esempio per le aree industriali dismesse, fenomeno che si affaccia pesantemente in Italia proprio a partire dagli anni ’80) NOTA*

Gli effetti della legge Galasso non si limitarono al successo più o meno pieno delle innovazioni legislative ed amministrative introdotte (i pochi vincoli diretti, i moltissimi pareri ed i rari dinieghi relativi agli interventi nelle aree tutelate, la faticosa elaborazione dei primi piani paesaggistici regionali – attorno al 1990 - in Liguria, Marche ed Emilia-Romagna), ma si concretizzarono anche in una crescita culturale:

-          tra i tecnici delle Soprintendenze, costretti a misurarsi con le concrete trasformazioni di larghe parti del Paese, ed i funzionari regionali, chiamati ad assumente nuove competenze e responsabilità;

-          nelle università, seppur con persistenti separatezze e rivalità disciplinari tra geografi, geologi, naturalisti, architetti paesaggisti (fino ad allora spesso confinati nella cosiddetta “arte dei giardini”) ed urbanisti-pianificatori;

-          nei tribunali e negli studi legali, dato l’inevitabile dilatarsi del contenzioso connesso alla gestione dei vincoli;

-          diffusamente nel corpo dei tecnici comunali e dei professionisti privati, spesso cooptati nelle nuove “commissioni paesaggistiche” (a fianco od in sostituzione delle tradizionali “commissioni edilizie”, schiacciate per lo più sul controllo delle norme di tipo quantitativo) per esercitare in sub-delega da alcune Regioni l’esame dei progetti in prima lettura (fermo restando il parere finale delle Soprintendenze);

-          nonché a livello dell’opinione pubblica, soprattutto nei ranghi delle associazioni ambientaliste e dei comitati locali, obbligati a scendere dalla protesta generica ed a confrontarsi nel metodo e nel merito  con l’evoluzione del “diritto paesaggistico”.



LA SVOLTA EUROPEA AGLI INIZI DEL XXI SECOLO

Gli elementi più avanzati nell’ambito di questa crescita culturale, corale ma disuguale, non erano pertanto impreparati ad accogliere le importanti innovazioni che a cavallo tra il ‘900 e l’inizio del nuovo secolo sono arrivati dall’Europa:

-          la direttiva Habitat del 1992 che  ha delineato l’obiettivo “rete natura 2000”, obbligando gli Stati aderenti ad individuare le aree sensibili per la tutela della bio-diversità (a partire dall’avi-fauna), fino a costituire “corridoi ecologici” come definiti concettualmente dallo Schema di Sviluppo dello Spazio Europeo (SSSE), approvato nel 1999;14

-          la Convenzione Europea del Paesaggio, sottoscritta a Firenze nel 2000 (ma recepita come legge nazionale con il Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio del 2004 e successivi rimaneggiamenti);15

-          la Direttiva sulla Valutazione Ambientale Strategica di Piani e Programmi, emanata nel 2001 e recepita in legge nel 2006 (prima in parte e variamente da alcune regioni).16

La Convenzione Europea del Paesaggio (CEP) ha introdotto alcuni concetti innovativi (e quasi rivoluzionari)17,18,19,20,21 rispetto all’assetto giuridico e culturale della legge 1497 del 1939:

-          il paesaggio è ciò che è percepito dagli abitanti (l’aspetto percettivo tende a divenire quindi da individuale a collettivo e deve misurarsi – tramite opportuni linguaggi - con le dimensioni simboliche e con la stratificazione storica di tali percezioni; ferma restando l’importanza della struttura oggettiva - geografica ed ecologica - dei luoghi)

-          la pianificazione va estesa a tutti i paesaggi, anche se degradati o apparentemente banali;

-          il governo del territorio non è solo tutela e salvaguardia (vincoli) ma anche nuove configurazioni paesaggistiche (progetto).

La Direttiva sulla Valutazione Ambientale Strategica (VAS) ha anticipato la procedura valutativa dai singoli interventi (come era ed è per la Valutazione di impatto Ambientale ovvero V.I.A.) ai Piani e Programmi che li precedono, definendola come processo partecipativo in grado di coinvolgere le popolazioni interessate, ed integrando le verifiche di compatibilità negli ambiti ambientale, sociale ed economico (il che può essere motivo per approdare ad un virtuoso realismo riformista, oppure per mascherare un opportunistico accodarsi alla “pubblica opinione”, senza nulla innovare).


Figura 10 –la triade Economia/Società/Ambiente nello Schema di Sviluppo dello Spazio Sociale Europeo



Poiché la CEP ed il conseguente Codice hanno previsto l’obbligo per le regioni di redigere (in collaborazione con il Ministero) nuovi Piani Paesaggistici oppure Territoriali e Paesaggistici (scelta preferita da molte regioni, che con fatica già si stavano finalmente dotando di piani territoriali, spesso più narrativi che dispositivi, in parte affiancati da più cogenti piani provinciali), e poiché anche tali piani devono essere sottoposti a Valutazione Ambientale Strategica, nell’ultimo decennio avrebbe dovuto maturare finalmente una sintesi tra i temi del Paesaggio, del Territorio e dell’Ambiente, il tutto nell’ambito di procedure decisionali orientate alla massima partecipazione popolare.

Anche se il confronto tra i funzionari e gli intellettuali specializzati (inclusi ora gli esperti in partecipazione) ha raggiunto elevati livelli culturali, la complessa macchina dei Piani Paesaggistici post CEP non ha finora raccolto grandiosi risultati, né in termini di efficienza (risultano ad oggi approvati solo lo stralcio costiero per la Sardegna ed i Piani di Toscana e Puglia del 2015),22,23,24,25,26 né in termini di effettivo coinvolgimento delle popolazioni (è facile constatare come tali argomenti non campeggino sui mezzi di comunicazioni di massa, mentre i Piani sono in elaborazione in quasi tutte le Regioni); la semi-abolizione delle Provincie ha inoltre ridotto l’operatività – già bassa - del sistema pianificatorio, e la crisi economico/finanziaria di scala internazionale ha spostato l’attenzione sulle problematiche immediate della produzione  e del welfare, con la ricerca di pericolose scorciatoie di rilancio industrialista del tipo “Sblocca-Italia”.

CRITICITA’ TUTTORA APERTE

Se a livello teorico – pur tra le necessarie ed opportune differenziazioni politico-culturali tra diverse scuole di pensiero 23,24,26,27,28,29,30,31,32 – sembrerebbe possibile enunciare cosa si intenda oggi in Europa per “paesaggio sostenibile” o meglio per una attività di pianificazione territoriale e paesaggistica compatibile con l’ambiente  NOTA*** (e coerente con l’obiettivo del risparmio di suolo), permangono comunque criticità nella attuazione dei principi condivisi, che non riguardano solo l’efficienza delle procedure e la sollecitudine degli enti preposti, nonché il persistente campanilismo di comuni piccoli e grandi (dove prende il più moderno nome di ”marketing urbano”).

Rimando al mio ciclo di articoli su “IL DIBATTITO SULLA CRESCITA E SULLA SOSTENIBILITA’ DEI FENOMENI URBANI E METROPOLITANI”33 per rammentare quanto risulta inestricabile il rapporto città-campagna, e che quindi l’oggetto della pianificazione “paesaggistica” non è la “campagna residua”, bensì sempre anche il suddetto inestricabile rapporto (nonché le aree “peri-urbane, oggi di gran moda tra gli urbanisti, aree che a questo groviglio stanno in mezzo); al mio testo suddetto rimando anche per  segnalare che – pertanto - le “scuole di pensiero” da me ivi catalogate attraversano a pieno titolo  il campo del paesaggio (fino ad essere titolari, in varia forma, come i “territorialisti” Magnaghi e Marson, dei principali successi sopra citati a livello di piani regionali, rispettivamente per la Puglia e per la Toscana); è chiaro infatti che quando Campos&Oliva, Tonon&Consonni, oppure Lanzani o Boeri o Nonni parlano di città e di metropoli, parlano anche di campagna e di paesaggi, urbani ed extraurbani.34

Inoltre occorre considerare come il paesaggio europeo (a diversità di quello di altri continenti) sia di fatto nella sua quasi totalità costituito da territori “antropizzati”, cioè condizionati dalle attività umane, più invasive come gli insediamenti, le industrie, le infrastrutture e l’agricoltura, oppure meno invasive ma non certo irrilevanti, come pastorizia, caccia e pesca, nonché turismo e tempo libero; ciò anche nei casi estremi, come ad esempio la Valgrande, a noi fisicamente vicina, e considerata come il paradiso della “wilderness” italiana, ma che non era affatto selvaggia pochissimi decenni addietro, tra alpeggi e taglio sistematico della legna, oppure la foresta “Bialowieza Puszcza” (ai contesi confini orientali della Polonia) così ben descritta da Simon Schama35 come luogo selvatico, ma storicamente assediato da vari appetiti umani.

Per questo la concezione puramente ecologica dell’ambiente e del paesaggio come luogo di svolgimento di processi naturali che tendono ad un loro precario equilibrio (il “climax” dell’ “habitat”) è necessaria per comprenderne le persistenti dinamiche (anche in reazione agli interventi umani), ma insufficiente per governarli, a maggior ragione se ci si limita a vincoli e divieti.

Si veda ad esempio l’abbandono delle coltivazioni marginali e l’avanzata dei boschi spontanei, che è considerata benevolmente da alcuni autori, perché aumenta la “bio-potenzialità complessiva” (compensando l’erosione che a loro volta gli insediamenti esercitano sulla campagna) NOTA**, ma che a mio avviso37 (e per fortuna anche ad avviso di altri) 37,38 conduce ad un impoverimento della bio-diversità, delle identità locali, nonché della capacità alimentare dei territori.


PIANO DEL PAESAGGIO DI GOLASECCA (VA)
Figura 8 – “TENDENZE DI TRASFORMAZIONE DEL PAESAGGIO” Lo schema evidenzia le principali estensioni coltivate (contorno punteggiato in giallo) minacciate dalla pressione insediativa e dall’espansione dei boschi spontanei.

Figura 11 – immagine tratta dal Piano del Paesaggio di Golasecca (VA) – 2009-2013, di A.M. Vailati e   A.Vecchi, nel Piano di Governo del Territorio redatto con R. Ripamonti, A. Castiglioni, G. e L. Francisco



Come insegna l’esperienza, ormai lunga, dei territori classificati come “parchi naturali”, le norme calate dall’alto non riescono a conservare gli equilibri ambientali, e tantomeno a crearne di nuovi e migliori, se non si affiancano strumenti che coinvolgano attivamente la popolazione (ed in primo luogo chi coltiva la terra) e se nell’insieme non si configura una “base economica” che induca gli abitanti per l’appunto ad abitare nei luoghi in esame (restare/tornare) ed eventualmente i turisti ad affluire nella misura considerata sopportabile.

Tali strumenti, da mutuare dalle migliori storie di gestione dei parchi, e da estendere a tutti i territori&paesaggi da governare, vanno oltre l’armamentario abituale dei pianificatori e delle amministrazioni locali (analisi, norme, indici quantitativi, sanzioni: gli attrezzi per il governo dell’edilizia), ma purtroppo anche oltre le competenze e le risorse dei poteri locali (per lo meno di quelli italiani): devono includere interventi pubblici strategici, esempi virtuosi, incentivi e disincentivi economici, nonché comunque e sempre una massiccia azione culturale ed educativa.

Permangono inoltre sproporzioni di scala tra la dimensione dei piani territoriali e paesaggistici (locali o regionali) ed alcune variabili che hanno altri ordini di grandezza oppure divergente logica intrinseca:

-          i mitici “mercati” finanziari, delle merci e dei servizi, che iper-condizionano ogni schema locale, ancorché basato su una intelligente valorizzazione delle risorse endogene;

-          il cambio climatico, nelle sue dinamiche tendenziali (per l’Italia, ad esempio, siccità, tropicalizzazione, erosioni costiere) ed anche nelle auspicabili politiche correttive (basti pensare ai bio-carburanti oppure alla funzione dei vegetali nella cattura della CO2);

-          la reti infrastrutturali di rango nazionale/continentale che – quand’anche si tratti di reti “verdi” (corridoi ecologici) o reti “blu” (riassetto idrogeologico) progettati con criteri di bio-ingegneria, ed a maggior ragione se invece consistono nelle tradizionali vie di trasporto oppure energetiche, anche se soggette a Valutazione di Impatto Ambientale  - devono essere progettate con logica unitaria e quindi faticano a  dialogare con i parametri locali;

-          le attività agro-forestali, che costituiscono la materia prima del paesaggio non-costruito, ma non sono disciplinabili più di tanto “per decreto”, bensì rispondono  ad impulsi socio-economici a vari livelli, dai diktat della grande distribuzione  dell’industria agro-alimentare alle misure fiscali e  contributive nazionali ed europee (poco articolate sul territorio e sconnesse dai piani locali), dall’evoluzione dei gusti  agli sviluppi scientifici, nonché in ultima analisi al sostrato antropologico dei soggetti che concretamente coltivano (non solo imprese e vecchi e nuovi contadini, ma anche una quota di “dilettanti” della popolazione locale). (Ad esempio, leggendo in questo sito lo stimolante articolo di Marco Bertaglia39, ho provato ad ipotizzare quanto radicalmente cambierebbe l’immagine dell’Italia senza terre arate e senza risaie, perdendo i colori della “terra di Siena” e dei ”cieli di Lombardia”).

Con attenzione a quest’ultimo aspetto, appare incredibile che i recenti e per altri versi apprezzabili “Stati Generali del Paesaggio”, convocati dal Ministero dei Beni Culturali con il concorso di autorevoli intellettuali (evento raro per questo ciclo di governi), abbiano trascurato di coinvolgere e addirittura di invitare i rappresentanti delle categorie professionali dell’agricoltura.



NOTA*  nel periodo tra il 1988 e il 1991, le aree urbane dismesse in alcune grandi realtà industriali italiane risultano essere: Torino 3.696.000 mq, Milano 5.300.000 mq Sesto San Giovanni 2.000.000 mq, Genova 4.000.000 mq, La Spezia 750.000 mq, Firenze 1.500.000 mq, Arezzo 550.000 mq, Terni 250.000 mq, Napoli 2.850.000 mq, Reggio Calabria 430.000 mq Fonte: tesi di laurea magistrale presso il Politecnico di Milano di Deborah Napolitano 2014-2105, relatrice prof. Valeria Erba https://www.politesi.polimi.it/bitstream/10589/102847/1/2014_12_Napolitano.PDF



NOTA** tale ragionamento è sviluppato ad esempio nel vigente Paino Regolatore di Arona (NO), redatto da Pagliettini Associati, con la consulenza ambientale/forestale di Studio Silva (Gazzola e Busti) www.comune.arona.no.it/prgc.html



NOTA*** per il Piano del Paesaggio di Golasecca (VA) con Anna Maria Vailati avevo scritto nel 2009:

“Definire cosa sia un paesaggio, …, è un compito complesso, sia perché i confini amministrativi definiti dall’uomo non fermano la continuità dei fenomeni territoriali, sia perché ogni giorno, in ogni momento, da sempre e per sempre cambia ciò che sta attorno a noi – la stagione, l’ora, la luce, le condizioni meteo-climatiche, le attività di tutti gli esseri viventi, la stessa crosta terrestre, il firmamento… – e perché i nostri sensi percepiscono in modi che risultano diversi da quelli di altre persone e variabili con il nostro divenire e ricordare.

Pertanto il paesaggio è definibile solo con un approccio che colga le diversità e le trasformazioni, con analisi volte a approfondire sistemi dinamici ed interrelati.

Nel campo delle discipline scientifiche, in qualche misura sintetizzate dalle teorie della “ecologia del paesaggio”, l’evoluzione dei sistemi territoriali, ambientali e paesaggistici è interpretata come un insieme di processi che – interagendo - tendono a convergere verso precari equilibri ecologici, in tali dinamiche, però, risulta difficile inquadrare l’intervento umano.

Le scienze umane, nei vari tentativi di razionalizzare la dialettica dei comportamenti dei soggetti sociali nei confronti dell’ambiente e del paesaggio, pervengono a prendere atto da un lato di una elevata antropizzazione del territorio operata “dall’uomo come attore” e dall’altro di una artificializzazione spinta non solo degli scenari paesaggistici fisici, ma dell’intero panorama culturale dell’uomo contemporaneo, per il quale le immagini reali sono pervasivamente contaminate ed esaltate dalle immagini virtuali.”  










Figura 12: il paesaggio delle Langhe in una interpretazione di Tullio Pericoli





Fonti:



1. Marco Romano “L’URBANISTICA ITALIANA NEL PERIODO DELLO SVILUPPO – 1942-1980” – Marsilio, Padova 1980

2. Marcello Fabbri “L’URBANISTICA ITALIANA DAL DOPOGEURRA AD OGGI – STORIA, IDEOLOGIA, IMMAGINI” – De Donato, Bari 1983

3. Marcello Mamoli e Giorgio Trebbi “STORIA DELL’URBANISTICA. L’EUROPA DEL SECONDO DOPOGUERRA” – Laterza, Bari 1988

4. Nicola Tranfaglia “DALLA CRISI DEL CENTRISMO AL “COMPROMESSO STORICO” in “LA TRASFORMAZIONE DELL’ITALIA. SVILUPPI E SQUILIBRI” in  “STORIA DELL’ITALIA REPUBBLICANA”  vol. II - Einaudi, Torino1995

5. Giuseppe Tamburano “STORIA E CRITICA DEL CENTRO SINISTRA” - Feltrinelli, Milano 1971

6. Guido Crainz “STORIA DEL MIRACOLO ITALIANO, CULTURE, IDENTITÀ, TRASFORMAZIONI FRA ANNI CINQUANTA E SESSANTA” – Donzelli, Roma, 1996

7. Cristina Renzoni “IL PROGETTO '80. UN'IDEA DI PAESE NELL'ITALIA DEGLI ANNI SESSANTA” - Alinea editrice , Firenze 2012

8.   per la storia del Piano Intercomunale Milanese vedi www.pim.mi.it

9. per il Sistema Direzionale Orientale di Roma, vedi l’omonima voce di www.wikipedia.it

10. Sonia Calzoni (foto di Paolo Rosselli) “UNIVERSITÀ DELLA CALABRIA A RENDE DI GREGOTTI ASSOCIATI (CONCORSO 1974-COSTRUZIONE DAL 1977)” su “ABITARE” dicembre 2013 www.abitare.it

11. Dennis Meadows, Donella H. Meadows, Jørgen Randers, William W. Behrens III “RAPPORTO SUI LIMITI DELLO SVILUPPO” - commissionato al MIT dal Club di Roma, fu pubblicato nel 1972 da Donella H. Meadows

12. Giuseppe Campos Venuti “URBANISTICA INCOSTITUZIONALE”  – Marsilio, Padova 1968

13. Giuseppe Campos Venuti, Michele Martuscelli, Stefano Rodotà “URBANISTICA. INCOSTITUZIONALE n.2” - Edizioni delle autonomie, Roma 1980

14. testo dello SCHEMA DI SVILUPPO DELLO SPAZIO EUROPEO www.mit.gov.it/mit/media/interreg/ssse/frsssall.htm

15. C.E.P.:  www.convenzioneeuropeapaesaggio.beniculturali.it/

16. Valutazione Ambientale Strategica: www.minambiente.it/.../DIRETTIVA_2001_42_CE_DEL_PARLAMENTO_EUROPE.

17. Roberto Gambino “LA CONVENZIONE EUROPEA DEL PAESAGGIO (CEP): DALL’OSSERVAZIONE ALL’ATTUAZIONE” Inu edizioni ottobre 2015 www.inu.it/?dl_id=5693

18. Alberto Clementi “INTERPRETAZIONI DI PAESAGGIO: CONVENZIONE EUROPEA E INNOVAZIONI DI METODO.” Volume 14 of Babele / Meltemi, Roma 2002

19. Angelo Marino “CONVENZIONE EUROPEA DEL PAESAGGIO E ALFABETI ECOLOGICI”: https://www.filosofiatv.org/.../156_CONVENZIONE%20EUROPEA%20DEL%20PA..

20. Monica Sassatelli “LA CONVENZIONE EUROPEA DEL PAESAGGIO: PAESAGGI QUOTIDIANI E IDENTITÀ EUROPEA”: 


21. AA.VV., a cura di Attilia Peano e Claudia Cassatella “ATLANTI DEL PAESAGGIO IN EUROPA” su “URBANISTICA” n° 138 del 2009

22. Angioletta Voghera “L’ITALIA NEL QUADRO INTERNAZIONALE” su “URBANISTICA” n° 150-151 del 2013

23. a cura di Alberto Magnaghi, con scritti di Luciano De Bonis, Maria Rita Gisotti, Riccardo Masoni “LA PIANIFICAZIONE PAESAGGISTICA IN ITALIA STATO DELL’ARTE E INNOVAZIONI” - Firenze University Press, 2016 www.fupress.com/archivio/pdf/3318_10109.pdf

24. Anna Marson “LA STRUTTURA DEL PAESAGGIO. UNA SPERIMENTAZIONE MULTIDISCIPLINARE PER IL PIANO DELLA TOSCANA” - Laterza, Bari 2016

25. Piero Bevilacqua “IL PIANO E IL PAESAGGIO” www.eddyburg.it/2016/09/il-piano-e-il-paesaggio.html

26. AA.VV. a cura di Mariavaleria Mininni “LA SFICA DEL PIANO PAESAGGISTICO PER UNA NUOVA IDEA DI SVILUPPO SOCIALE SOSTENIBILE” su “URBANISTICA” n° 147 del 2011, sul Piano Paesaggistico della Puglia

27. Valerio Romani “IL PAESAGGIO. PERCORSI DI STUDIO” – FrancoAngeli, Milano 2008

28. Raffaele Milani “IL PAESAGGIO E’ UN’AVVENTURA. INVITO AL PIACERE DI VIAGGIARE E DI GUARDARE” – Feltrinelli, Milano 2015

29. Maurizio Vitta “IL PAESAGGIO. UNA STORIA TRA NATURA E ARCHITETTURA” – Einaudi, Torino 2005

30. Annalisa Maniglio Calcagno “ARCHITETTURA DEL PAESAGGIO. EVOLUZIONE STORICA” – FrancoAngeli, Milano 1983

31. Eugenio Turri “IL PAESAGGIO COME TEATRO: DAL TERRITORIO VISSUTO AL TERRITORIO RAPPRESENTATO” – Marsilio, Padova 1998

32. Vincenzo Ariu “PAESAGGI E GLOBALIZZAZIONE”, su “URBANISTICA INFORMAZIONI” N° 272 del 2017

33. Aldo Vecchi “IL DIBATTITO SULLA CRESCITA E SULLA SOSTENIBILITA’ DEI FENOMENI URBANI E METROPOLITANI” su questo sito “UTOPIA 21” anno 2017, in  https://universauser.it/utopia21.html

34. Roberta Ingaramo “IL PROGETTO D’ARCHITETTURA PER IL PAESAGGIO URBANO” su “URBANISTICA” N° 1501-151 DEL 2013

35. Simon Schama “PAESAGGIO E MEMORIA” - Mondadori, Milano 1997

36. Aldo Vecchi “PIANE DEL LENZA E DI ONEDA: LE PREALPI NEL PARCO” su “PARCO TICINO” n°2/2001 del Giugno 2001, riprodotto nel blog “relativamente, sì” alla PAGINA “altri miei testi pubblicati” in www.aldomarcovecchi.blogspot

37. Luigi Bignami “CI SONO TROPPI ALBERI, MA NON E’UNA BUONA NOTIZIA” in Varesefocus n° 5 del settembre 2016

38. Gianluca Cedolin “LOMBARDIA, RADDOPPIANO I BOSCHI MA NESSUNO LI CURA” su Repubblica/Milano 15 dicembre 2017 (intervista a Elisabetta Parravicini, presidente dell’ERSAF, in merito al “Rapporto annuale” di tale Ente alla Regione Lombardia)

39. Marco Bertaglia “AGROECOLOGIA: L’AGRICOLTURA POSSIBILE PER UN PIANETA SOSTENIBILE” su “UTOPIA21” settembre 2017 in  https://universauser.it/utopia21.html