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P. 2^: PROPOSTE DI SOSTENIBILITA'



PARTE SECONDA: PROPOSTE DI SOSTENIBILITA’, GENERALE ED URBANA

IN ROSSO LE AGGIUNTE DOPO IL 2013

INDICE DELLA PARTE SECONDA
6 - LA DECRESCITA FELICE
7 -  L’APPROCCIO COMPLESSIVO (E ILLUMINISTA?) DEL WUPPERTAL INSTITUT

8 – IL PROGRAMMA MOVIMENTISTA DI GUIDO VIALE

9 - GREEN LIFE OVVERO L’OTTIMISMO TECNOLOGICO
10 -  LA TERZA RIVOLUZIONE INDUSTRIALE SECONDO JEREMY RIFKIN

10 BIS - LA BLUE ECONOMYI TEORIZZATA DA GUNTER PAULI
11 – SMART CITIES OVVERO I RISCHI DI UN ECCESSO DI INTELLIGENZA


6 - LA DECRESCITA FELICE

Avvicinandomi al territorio disciplinare della pianificazione, scelgo di iniziare, proprio per la sua rappresentatività anche simbolica, dalla linea più radicale, quella della “decrescita felice”, anche se si tratta più di una suggestione socio-economica che non di una proposta articolata in termini di progettazione urbana (almeno per quanto finora ho riscontrato nella pubblicistica).
La lezione tenuta a Parma da Serge Latouche nel febbraio 2011 nell’ambito di un convegno sulle “Politiche di sviluppo sostenibile per le piccole comunità urbane sfavorite”, Latouche 2011 che quindi sollecitava a pronunciarsi anche sugli aspetti territoriali della questione, conferma le sue teorie, riassunte a fianco da Paolo Ventura come “orizzonte di obiettivi di lungo periodo da conseguire progressivamente al fine di ritrovare una ’impronta ecologica’ sostenibile”:

-          “uno sviluppo urbano tale da ridurre i trasporti (privati) e rilocalizzare le attività;

-          il rilancio dell’agricoltura contadina;

-          la trasformazione degli incrementi di produttività in riduzione dei tempi di lavoro ed in crescita dell’occupazione;

-          il rilancio della produzione di “beni relazionali”;

-          la riduzione degli sprechi di energia;

-          la riduzione del ruolo della pubblicità;

-          il ri-orientamento  della ricerca tecnica e scientifica;

-          la protezione dallo scambio ineguale delle attività economiche minori tramite “monete locali” e “monete complementari”.

In questo elenco – tranne forse sull’ultimo punto, più originale e più nebuloso - credo possano riconoscersi in larga misura anche tutti i sostenitori delle più tradizionali concezioni dello sviluppo sostenibile (es. carta di Aalborg del 1994, e Aalborg commitments del 2004) : si sbagliano, perché questo insieme di misure comporta necessariamente la decrescita?

Dove sta la specificità della proposta della decrescita felice, recentemente ribattezzata “dell’abbondanza frugale” (andando oltre la formulazione piuttosto autarchico-solipsista e passatista esposta da Maurizio Pallante - Pallante 2011)?

Latouche articola la “strategia” essenzialmente in due ambiti:

-          quello africano, o terzo-mondista, dove in sostanza non si ha nulla da perdere e tutto da guadagnare in una rapida “fuori-uscita dallo sviluppo”, anche approfittando dell’attuale crisi come favorevole occasione

-          quello euro-occidentale in cui più è difficile la disintossicazione dai falsi bisogni e dove quindi si ipotizza un lungo percorso verso la de-mercificazione, da un lato tramite la battaglia culturale per cambiare l’immaginario collettivo, e da un altro lato tramite la sperimentazione di  “alleanze” con “le imprese miste”, gli alter-mondisti e i sostenitori dell’economia solidale.

 La proposta, comunque poco articolata riguardo alla operatività concreta per le città occidentali, risulta più chiara nella sua parte analitica e critica sugli eccessi del consumismo e sui paradossi della “crescita” del PIL e francamente ancora piuttosto oscura nei suoi sviluppi propositivi, perché non spiega quali soggetti, muovendosi dalle proprie idee oppure anche dai propri interessi, possano riuscire a conseguire un progressivo consenso maggioritario, nelle aree attualmente sviluppate, in favore della “decrescita felice”, né tanto meno quali siano le possibili tappe intermedie, ragionevolmente equilibrate, di tale processo.

E neppure ipotizza esplicitamente che la sottrazione delle aree terzo-mondiali più sfruttate dal circuito dello sviluppo possa accentuarne la crisi producendo squilibri forse drammatici, ma potenzialmente a lieto fine.

In assenza di una esplicita teorizzazione di possibili fasi di rotture catastrofiche dell’attuale sistema sviluppista, da gestire con segno alternativo, oppure direttamente rivoluzionarie, ne risulta una sorta di “riformismo estremista”, ma con un orizzonte senza tempo, e soprattutto senza specificazioni riguardo alle modalità felici di accettazione della decrescita da parte dei popoli più “sviluppati”, se non attraverso l’auspicio di uno spontaneo mutamento dei paradigmi culturali dalla competizione alla collaborazione.

Nel più recente saggio “Per un’abbondanza frugale”  Latouche 2012, Latouche cerca – con risultati a mio avviso poco risolutivi - di dimostrare la compatibilità della decrescita sia con il capitalismo che con la democrazia, e l’inutilità di una ricerca dei “soggetti sociali protagonisti”, affidandosi invece alla sola crescita culturale degli “individui”.

7 -  L’APPROCCIO COMPLESSIVO (E ILLUMINISTA?) DEL WUPPERTAL INSTITUT

Orientamenti comparabili figurano nei saggi  del Wuppertal Institut a cura di Wolfgang Sachs e collaboratori  Sachs e Santarius 2007 Sachs e Morosini 2011, commissionati in Germania da organismi ambientalisti e religiosi, e promossi in Italia da “Terra Futura”, cui aderiscono tra gli altri ACLI, CISL, Caritas e ARCI.

Sachs &C non si occupano dettagliatamente delle città (indicate come meta obbligata dei contadini espulsi dalle campagne a causa dell’agricoltura monoculturale orientata alle esportazioni e/o dall’impoverimento delle risorse naturali determinato da dighe e attività estrattive ed industriali inquinanti), pur individuando significative articolazione locali delle strategie proposte:

-  politiche urbane ecologiche  in materia di energia, trasporti, approvvigionamenti di materie e gestione  dei rifiuti,

-          enti locali come possibile soggetto di nuovi equilibri ecologici,

-          “regionalizzazione” degli scambi economici come necessario temperamento agli eccessi della globalizzazione (anche con la sperimentazione di ‘monete locali’ – vedi precedente peragrafo),

-          cooperazione locale in materia di acquisti, impiego del risparmio, gestione dei beni comuni, scambi non mercantili di tempo di vita ed iniziative dal basso.

Sachs &C affrontano con sistematicità ed equilibrio tutti gli aspetti della sostenibilità ambientale, economica e sociale nella biosfera di oggi e di domani, ed in particolare:

-          i limiti, non ancora conosciuti e non rigidi, ma ineluttabili, delle risorse disponibili e rigenerabili

-          le differenze crescenti di benessere, non solo tra gli stati, ma tra i diversi gruppi sociali all’interno degli stati

-          gli effetti perversi degli scambi commerciali “alla pari” tra economie  e società intrinsecamente differenti

ed individuano un orizzonte, necessario e forse possibile, di convergenza dei livelli di pressione ambientale tra paesi ricchi e paesi poveri su un livello medio virtuoso (con difficile ricerca di standard di sostenibilità, quali ad esempio 2.000 km annui di mobilità individuale oppure 2.000 Watt annui di consumo energetico pro-capite), da conseguire combinando

-          innovazione tecnologica,

-          efficienza anti-sprechi

-          e soprattutto “sufficienza” (cioè sobrietà) dei consumi,

o   non solo da parte delle minoranze privilegiate dei paesi ricchi,

o   ma anche da parte

§  dei ceti emergenti dei paesi in via di sviluppo, la cui imitazione dei livelli occidentali di opulenza avrebbe effetti pesanti sugli equilibri ecologici e  sociali,

§  della massa dei consumatori dei paesi sviluppati, proponendo in sostanza una riduzione degli orari di lavoro ed in parallelo anche dei salari medi.

Sachs &C approfondiscono in particolare le contraddizioni del diritto internazionale, tra i principi fondatori dell’ONU sui diritti dell’uomo (1948) e gli sviluppi ambientalisti della Conferenza di Rio (1992 e seguenti fino ed oltre Kioto - 1997), da un lato, e l’insieme degli accordi commerciali, dal GATT al WTO, dal lato opposto; tali trattati - pur riportando nelle premesse alcuni riconoscimenti sui diritti dei popoli e delle persone - definiscono un sistema giuridico ed operativo rigidamente liberista e di fatto impermeabile alle ragioni di tutela delle comunità locali, dei loro prodotti e dei loro saperi, con effetti spesso distruttivi delle basi di sopravvivenza delle formazioni sociali più deboli, e di impoverimento dei paesi più poveri. 

Gli autori sembravano riporre nel 2005 specifiche speranze nell’Europa, in quanto originaria ‘patria del cosmopolitismo’ e per gli sprazzi di autonomia dall’egemonia USA, manifestati ad esempio contro la guerra in Irak ed in favore degli accordi sul clima; nel 2010 appaiono più pessimisti, in considerazione dei comportamenti egoistici che anche l’Europa continua a manifestare nei rapporti di scambio commerciale con i paesi poveri, a partire dal settore agro-alimentare.

Sachs &C articolano le loro proposte operative, da rendere tendenzialmente compatibili con una economia di mercato ricondotta ‘a ragione’  sia ‘dall’alto’, con nuove norme (nazionali ed internazionali), incentivi e politiche di persuasione, sia ‘dal basso’, con suggerimenti per iniziative a livello locale ed anche per un diverso comportamento soggettivo dei singoli cittadini, in quanto consumatori e risparmiatori, bricoleurs e potenziali ciclisti.


Ma nei loro testi, permeati da appelli kantiani alla giustizia e ad un “nuovo cosmopolitismo”, l’analisi sui soggetti sociali e politici  che – nei diversi contesti nazionali - potrebbero essere protagonisti delle svolte invocate, si riduce all’appello ad una “Nuova Internazionale”, ovvero il collegamento - innanzitutto  via Internet - tra molteplici minoranze illuminate, che sperimentano comportamenti virtuosi in campo agricolo oppure energetico oppure tecnologico (ed anche nella finanza equa e solidale) e in tal modo maturano le risposte per illuminare e influenzare le parti restanti e resistenti delle diverse società nazionali, incalzandole in particolare man mano che vengono al pettine i nodi della crisi di esaurimento delle risorse, del clima e dell’attuale modello di sviluppo.

Diverso sarebbe il mio giudizio se tali proposte fossero fatte proprie pienamente da forze politiche di massa in grado di contendere il governo nei principali paesi europei; di mezzo ci sono ancora enormi problemi di egemonia e di orientamento culturale e antropologico dei segmenti sociali potenzialmente coinvolgibili (vedi paragrafo 4 sulla sociologia post-moderna): se appare possibile  diffondere modelli di consumo più bio-compatibili, equi e solidali, assai più difficile mi sembra promuovere in occidente un progetto generale di  austerità, fondato sulla riduzione di salari ed orari di lavoro..

Poco sviluppata mi sembra anche l’attenzione alla crisi socio-economica e finanziaria in atto, ben indagata quale effetto dello sviluppo industrialista e finanziario, liberista e neocolonialista, ma non altrettanto esaminata come possibile crogiolo di mutamenti drammatici, non necessariamente nella positiva direzione auspicata.

8 – IL PROGRAMMA MOVIMENTISTA DI GUIDO VIALE

Guido Viale, con diversi interventi sul quotidiano Il Manifesto, ripresi anche dal sito Eddyburg, Viale 2011 parte da una analisi radicale, e radicata nella questione ambientale, della crisi finanziaria indotta dal neo-liberismo, giudicando negativamente gli sforzi di rincorsa al pagamento del debito, sviluppati dall’attuale governo Monti.

Viale non si allinea, in modo esplicito con le ricette di abbandono dell’Euro di  Loretta Napoleoni – vedi paragrafo 5 - (anche se in passato, in Lotta Continua, Guido Viale sostenne l’insolvibilità deliberata dell’Italia come strumento di gestione politica di una  auspicata rottura semi-rivoluzionaria), afferma tuttavia che “la strada della bancarotta della finanza statale, a meno di una revisione radicale del patto di stabilità, sembra essere una tappa obbligata. Si tratta solo di vedere chi e come la gestirà”.

Contrapponendosi su “Il Manifesto” a Paolo Cacciari Cacciari 2011, si distingue anche dalla parola d’ordine della “decrescita felice” (di cui al paragrafo 6) e dichiara: “Non sono un fautore della decrescita. Trovo questo concetto povero di contenuti; inutilizzabile, se non impresentabile, nelle situazioni di crisi (quando a essere messi in forse sono redditi e posti di lavoro); ambiguo (in quanto speculare, anche se opposto, a quanto ci viene proposto dagli economisti mainstream). Non credo che le otto "R" di Latouche (rivalutare, riconcettualizzare, ristrutturare, ridistribuire, rilocalizzare, ridurre, riutilizzare, riciclare) apportino al dibattito politico molto più di un chiarimento concettuale. Però, quando si scende - se mai si scende - sulle cose da fare o proporre è molto più facile ritrovarsi d'accordo al di là delle formulazioni dottrinarie. Ma questa diffidenza non significa certo accettazione del diktat della crescita.”

Nel frattempo, in qualche modo “a prescindere” da una soluzione generale, quasi che a quel livello oggi si possa dire, come Montale sotto il fascismo, solo “ciò che noi non siamo e ciò che non vogliano” Montale 1925, Viale cerca di offrire un orizzonte complessivo ai “movimenti” (dal referendum sull’acqua ai difensori di altri “beni comuni”, come “Salviamo il Paesaggio” -vedi paragrafo 19-, dove si propugna una battaglia contro il consumo di suolo, dai Gruppi di Acquisto Solidali agli agricoltori “a Km zero), con una interpretazione più conflittuale delle ‘reti della nuova internazionale’ di Sachs&Co (vedi al precedente paragrafo 7) e del “localismo cosmopolita" proposto da Magnaghi (paragrafo 13): infatti ritiene che “mano a a mano che i processi molecolari si concretizzano, unificano e rafforzano, i movimenti vengono a confronto ed entrano in conflitto con il potere della finanza internazionale e dei governi che ne sono mandatari a livello statuale”.

Ed individua, in tale prospettiva, i seguenti 6 “pilastri”:


1.       “La conversione ecologica” come “processo di riterritorializzazione, cioè di riavvicinamento fisico ("km0") e organizzativo (riduzione dell'intermediazione affidata solo al mercato) tra produzione e consumo: processo graduale, a macchia di leopardo e, ovviamente, mai integrale. Per questo un ruolo centrale lo giocano l'impegno, i saperi e soprattutto i rapporti diretti della cittadinanza attiva, le sue associazioni, le imprese e l'imprenditoria locale effettiva o potenziale e, come punto di agglutinazione, i governi del territorio: cioè i municipi e le loro reti, riqualificati da nuove forme di democrazia partecipativa.” Con “il passaggio, ----- dal gigantismo delle strutture proprie dell'economia fondata sui combustibili fossili alle dimensioni ridotte, alla diffusione, alla differenziazione e all'interconnessione degli impianti, delle imprese e degli agglomerati urbani rese possibili dal ricorso alle fonti rinnovabili, all'efficienza energetica, a un'agricoltura e a una gestione delle risorse (e dei rifiuti), dei suoli, del territorio e della mobilità condivise e sostenibili.”

2.       “Per operare in questa direzione è essenziale che i governi del territorio possano disporre di "bracci operativi" : ovvero “i servizi pubblici locali, “restituiti, come disposto dal referendum del 12 giugno, a un controllo congiunto degli enti locali e della cittadinanza, cioè sottratti al diktat della privatizzazione.”, nonché al patto di stabilità, rinegoziando i debiti ai danni della “bolla finanziaria”

3.        “l'arresto del consumo di suolo” Se le strutture e i suoli inutilizzati “non vengono resi disponibili dal vincolo che lega il bene al suo proprietario occorre procede con una politica di espropri e rivendicare una legislazione che la renda praticabile.”

4.       “Il suolo urbano libero da costruzioni e quello periurbano possono essere valorizzati da un grande progetto di integrazione tra città e campagna, tra agricoltura e agglomerati residenziali. Un'integrazione che è stata il pilastro delle civiltà di tutto il mondo prima dell'avvento della globalizzazione”: “orti urbani, disseminazione dei Gas, farmer's markets, mense scolastiche e aziendali, marchi di qualità ecologica per la distribuzione, gestione dei mercati ortofrutticoli: quanto basterebbe per cambiare l'assetto dell'agricoltura periurbana e per ri-orientare l'alimentazione della cittadinanza con filiere corte”.

5.       La mobilità sostenibile (attraverso l'integrazione intermodale tra trasporto di linea e mobilità flessibile: car-pooling, car-sharing, trasporto a domanda e city-logistic per le merci) e la riconversione energetica (attraverso la diffusione degli impianti alimentati da fonti rinnovabili e la promozione dell'efficienza nelle abitazioni, nelle imprese e nei servizi) costituiscono gli ambiti fondamentali per sostenere le imprese e l'occupazione in molte delle fabbriche oggi condannate alla chiusura.”

6.       La conversione ecologica è innanzitutto una rivoluzione culturale che ha bisogno di processi di elaborazione pubblici e condivisi e di sedi dove svilupparli. ---- nelle scuole e nell'università, nell'educazione permanente, nelle istituzioni della ricerca, nel tessuto urbano, nei mezzi di informazione, sulla rete.”


Mi sembra molto interessante, pur nella indefinitezza della prospettiva politica conflittuale, la articolazione concreta delle proposte (largamente condivisibili) ed anche l’integrazione tra i comportamenti direttamente praticabili ‘dai movimenti’ e dai soggetti economici locali, il ruolo assegnato agli enti locali, e la rivendicazione di alcune leggi progressive a livello di autorità superiori (regionali-nazionali-europee? – vedi Parte Quarta).

Mi pare inoltre apprezzabile lo sforzo di raffrontarsi dialetticamente con altre posizioni, come quella della “decrescita felice”.


9 - GREEN LIFE OVVERO L’OTTIMISMO TECNOLOGICO

Con una intensa pubblicistica, riassunta nel volumetto “Green Life”, Berrini e Poggio 2010, e che ha avuto buona risonanza con la omonima mostra alla Triennale di Milano nel 2010 (e nel relativo catalogo AAVV - Berrini e Colonetti 2010), intellettuali e organismi vicini a Legambiente, svolgono una meritoria campagna di informazione sulle esperienze internazionali (soprattutto europee) più avanzate in materia di:

-          risparmio energetico nell’edilizia

-          quartieri ecologici

-          trasporti innovativi

-          politiche urbane variamente virtuose in materia ambientale.

La particolare arretratezza italiana, aggravata da una politica nazionale errabonda in materia di incentivi energetici ed incline all’improvvisazione in materia di incentivi alla rigenerazione urbana (Piani casa calati dall’alto per decreto sulle autonomie locali, in assenza di una complessiva riforma delle leggi per il governo del territorio), rende prezioso ogni suggerimento positivo, finalizzato a concretizzare ed anticipare gli obiettivi europei in materia di risparmio energetico e contenimento delle emissioni di CO2 ed altri gas climalteranti.

Tuttavia, proprio perché l’Italia parte da una situazione arretrata,  sembrerebbe necessario approfondire meglio quale sia la strada migliore da seguire per la realtà italiana, verificare dove portano le esperienze straniere, capire se sia davvero possibile uno sviluppo sostenibile, oppure se si rischia di ricopiare forme attenuate di  congestione ed invivibilità.

Approfondimenti che mi pare manchino presso gli autori citati, sostituiti da una sorta di ottimismo tecnologico (che nella mostra milanese si proiettava anche acriticamente sui prodotti delle aziende sponsorizzatrici).

E’ inoltre apprezzabile, contro i teorici della “decrescita felice”, la citazione del compianto Alex Langer, che già nel 1994 sosteneva che “la conversione ecologica potrà affermarsi solo se apparirà desiderabile”: ma la conclusione di Poggio e Berrini, dopo aver correttamente sostenuto che consumi individuali e collettivi più consoni alla scarsità delle risorse non scaturiranno automaticamente dalla crisi in atto, e potranno nascere solo dal combinarsi di una battaglia culturale dal basso (per ora minoritaria)  e di coerenti politiche dall’alto (che non si intravvedono), sembra affidare le speranze di soluzione all’autogoverno delle città, collegate tra loro su scala mondiale, come già nella retorica visionaria di Peter Droege Droege 2008  e come faticosamente dalla conferenza di Rio (1992)  gli ecologisti, molte amministrazioni locali e le Agende21 tentano di fare, agendo localmente e pensando globalmente.

Manca invece l’approfondimento sulle modalità di formazione del consenso sociale necessario a rendere egemoni i comportamenti virtuosi auspicati, oppure la connessione ad una strategia conflittuale, quale quella proposta da Guido Viale (paragrafo 8).

 Il tema della austerità, o sobrietà dei consumi, che pervade variamente le posizioni di Latouche, Sachs, Viale e Green-Life (paragrafi da 6 a 9), trova antesignani illustri nel mondo classico, da Platone a Catone, per lo più legata a temi morali e sociali (conservazione delle virtù in contrapposizione a lusso e lascivia delle crescenti città) e solo in parte connessa ai limiti delle risorse agricole e della produttività della terra in Columella Ferraro 2001 : in quel mondo però era felicemente sganciato dal tema della democrazia, che non apparteneva agli aristocratici e conservatori (come Platone e Catone), in un tempo in cui comunque anche i democratici presupponevano lo schiavismo.

Il nodo austerità/democrazia è invece ben vivo ai nostri tempi, e di difficile soluzione (vedi anche le difficoltà di Berlinguer di fronte alla crisi degli anni ’70).
  

10 -  LA TERZA RIVOLUZIONE INDUSTRIALE SECONDO JEREMY RIFKIN

Nel filone dell’ottimismo tecnologico si può includere anche Jeremy Rifkin Rifkin 2003, 2011, profeta della Terza Rivoluzione Industriale (“T.R.I.”), che vede la soluzione di ogni problema nell’intreccio tra la produzione diffusa delle energie rinnovabili, il loro accumulo tramite l’idrogeno ed il loro scambio  tramite Internet (unitamente con la elettrificazione delle automobili), e coglie nell’emergere di alcune forme cooperative del nuovo sapere reticolare (es. Linux, Wikipedia) la sicura tendenza alla trasformazione dall’accumulazione capitalista (propria delle prime due rivoluzioni industriali, fondate sul carbone e sul petrolio) al decentramento democratico di tutto quanto, conoscenza, produzione, potere, dalla “T.R.I.” ad una imminente successiva età dell’oro, dove regnerà la fine del lavoro e la concordia universale (con una pacifica mutazione antropologica, simile a quella auspicata da Serge Latouche, vedi paragrafo 6).

L’avvio della “T.R.I.”, invece, secondo Rifkin garantirà a medio termine un incremento complessivo dell’occupazione, anche nei paesi occidentali, sottraendo il settore delle energie rinnovabili alle leggi economiche  prevalenti (che a mio avviso spingono all’incremento della produttività in tutti i settori, con appropriazione da parte delle imprese e difficilmente a vantaggio del lavoro, costretto a breve termine  comunque alla subordinazione e precarietà), perché tutte o quasi le negatività dell’attuale modello di sviluppo, per Rifkin, derivano dalla natura fossile delle risorse energetiche che hanno connotato la prima e la seconda rivoluzione industriale (carbone e petrolio).

Sulla profezia della fine del lavoro, avanzata da Rifkin già nel 1995, non concordano sociologi più documentati, come Manuel Castells e gli autori da lui richiamati Castells 2002 (vedi precedente paragrafo 4).

Tra gli argomenti tipici di Rifkin vi è inoltre  l’affermazione che non c’è più distinzione tra destra e sinistra, ma la spiegazione di tale assioma consiste soprattutto in aneddoti, come ad esempio il fatto che il sindaco di Roma Alemanno ha assegnato allo stesso Rifkin una consulenza sul futuro della città eterna, mentre il leader laburista inglese Milliband lo ha ricevuto sbrigativamente e sgarbatamente.

Poco utili sono a mio avviso le proiezioni futuribili di Rifkin e associati sullo specifico urbano (ad esempio master plan per la biosfera di Roma al 2050), che mischiano opzioni già note sui fabbricati eco-energetici e sull’agricoltura peri-urbana, con improbabili riconversioni di quartieri ed aree commerciali dismesse in orti urbani, mantenendone però in piedi a scopo ornamentale le sole facciate lungo le strade.

10 BIS - LA BLUE ECONOMY TEORIZZATA DA GUNTER PAULI



Un'altra variante dell’ottimismo tecnologico è la “Blue Economy” proposta dall’economista belga Gunter Pauli, segnalato da “Left” del 28-12-2013, e di cui ho trovato il testo “Blue Economy/nuovo rapporto al club di Roma: 10 anni, 100 innovazioni, 100 milioni di posti di lavoro“ Edizioni Ambiente -2010 (vedi mio blog,  PAGINA 2, PARAGRAFO 9) in ampi estratti sul sito ambientalista di Gianni Girotto (attualmente senatore M5S).

Al di là dell’ottimismo complessivo e del tono propagandistico (ben leggibili nel titolo), e delle puntuali ed interessanti singole “ricette” scientifiche indirizzate alla innovazione tecnologica in disparati settori della produzione e del consumo,  mi sembra rilevante l’assunto centrale, molto “ecologico” ed assai più ampio della mera rivoluzione energetica di Rifkin (VEDI PARAGRAFO 10), ovvero, come enunciato nell’introduzione, “far sì che i nostri sistemi produttivi siano in grado di imitare al meglio ciò che la natura ha lungamente sperimen­tato in miliardi di anni di evoluzione”.

Tale proposta di una scienza “mimetica” guarda, più che al comportamento delle singole specie (che a mio avviso spesso agiscono egoisticamente, ed infatti talvolta si estinguono, oppure distruggono altri inquilini del pianeta) alle dinamiche complessive della biosfera, ovvero al “sistema di flussi di nutrienti”, al “metabolismo altamente efficace della natura ----- in cui il concetto stesso di rifiuto non esiste(perché il rifiuto degli uni divine il nutrimento degli altri, e così via attraverso la catena ecologica).

Ne conseguono, secondo Pauli,  i seguenti indirizzi (rilevo però che - come spesso avviene - non risultano accompagnati da indicazioni socio-politiche sulle vie per conseguire il consenso per tali tipi di decisioni) :

“1.La crescita della popolazione e del capitale deve essere rallentata, e infi­ne arrestata, da decisioni umane prese alla luce delle difficoltà future, e non da retroazione derivante da limiti esterni già superati.

2. I flussi di energia e di materiali devono essere ridotti aumentando l’ef­ficienza del capitale. In altri termini, occorre ridurre l’impronta ecologica e ciò può avvenire in vari modi: dematerializzazione (utilizzare meno ener­gia e meno materiali per ottenere il medesimo prodotto), maggiore equità (ridistribuire i benefici dell’uso di energia e di materiali a favore dei pove­ri), cambiamenti nel modo di vivere (abbassare la domanda o dirottare i consumi verso beni e servizi meno dannosi per l’ambiente fisico).

3. Sorgenti e serbatoi devono essere salvaguardati e, ove possibile, risanati.

4. I segnali devono essere migliorati e le reazioni accelerate; la società deve guardare più lontano e agire sulla base di costi e benefici a lungo termine.

5. L’erosione deve essere prevenuta e, dove sia già in atto, occorre rallen­tarla e invertirne il corso.”

Mi sembra una prospettiva affascinante, che trascura però:

-          il conteggio dei flussi occupazionali, tra nuovi posti di lvoro che si creano e quelli che necessariamente si distruggono

-          l’assetto necessariamente instabile degli equilibri eco-sistemici, che non esclude affatto le catastrofi, anche in assenza di specie particolarmente perturbative quali l’uomo (ed altri prima di loro, come i dinosauri)

-          la duplice valenza dell’uomo come specie invasiva e pensante, capace quindi forse di sviluppare i precetti di Pauli, ma anche di seguire facilmente altri e forse “più falsi” profeti, che pongono l’attenzione sugli interessi egoistici a breve termine di singoli ristretti gruppi entro la più vasta umanità, oppure su punti di vita comunque divergenti (basti pensare al rapporto tra religioni e natalità).

11 – SMART CITIES OVVERO I RISCHI DI UN ECCESSO DI INTELLIGENZA

Un’altra versione dell’ottimismo tecnologico è quella che punta sulle tecnologie informatiche, soprattutto sulla conoscenza interattiva in tempo reale tra diversi attori su una pluralità di indicatori, resi disponibili dallo stesso sviluppo tecnologico (ad esempio la localizzazione e l’utilizzo dei telefoni cellulari oppure la localizzazione dinamica di veicoli tramite GPS), per prospettare una gestione più consapevole e virtuosa dei comportamenti e dei consumi urbani.

Tra queste spicca la spettacolarità delle simulazioni effettuate dal SENSEable City Lab del Masschusetts Institute of Technology, diretto da Carlo Ratti, di cui dà conto Urbanistica Informazioni n°238/2011, con un servizio sulle applicazioni a Roma, Singapore ed in Olanda (CurrentCity), e con una presentazione critica di Daniela De Leo AAVV-DeLeo 2011, che mi sembra ampiamente condivisibile:    

-          “Si tratta di progetti attraversati dal ‘mito dell’instantaneità’ e dalla convinzione che una maggior disponibilità di dati consente di decidere insieme oltre che meglio ----

una straordinaria dose di ottimismo e fiducia nelle possibilità dell’innovazione tecnologica di garantire un futuro migliore e più sostenibile alle città del mondo, che non sembra , però, confortata dai trend attuali ----

le innovazioni tecnologiche, da sole non sono affatto sufficienti a cambiare lo stato attuale delle cose o a potenziare la partecipazione dei cittadini alle scelte politiche pubbliche ---

la forte valorizzazione estetica delle rappresentazioni dei dati digitali finiscono con il ricondurre gli abitanti al ruolo (passivo) di spettatori, oltre che di fornitori di dati su consumi e comportamenti.”


Di mio aggiungo solo che una città “’smart’ è indubbiamente meglio di una città ‘non-smart’, ma che la raccolta di immensi apporti di dati istantanei assomiglia alquanto al paradosso ‘borgesiano’ della carta geografica in scala 1:1, che impedisce di fatto una effettiva conoscenza del territorio rappresentato Borges 1984.

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