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giovedì 21 maggio 2015

L’UTOPIA ANTI-EROICA DI LUIGI ZOJA

Ho letto “UTOPIE MINIMALISTE – UN MONDO DESIDERABILE ANCHE SENZA EROI” di Luigi Zoja (ChiareLettere, Milano 2013, pagine 232) a seguito dell’intervista e segnalazione nel programma televisivo “Scala Mercalli”, dell’omonimo metereologo ed ecologista Luca Mercalli.
Programma che ho trovato gradevole e non gridato (come invece le Gabanelli e gli Jacona della medesima fascia oraria su RaiTre) e spero quindi che sia risultato credibile ed efficace anche verso spettatori non pregiudizialmente ecologisti.
Nel taglio giustamente divulgativo, ma abbastanza approfondito, del programma di Mercalli non ho trovato molti spunti per ulteriori letture (se non già indotte da precedenti interventi di Mercalli presso FabioFazio), ma mi ha incuriosito la presentazione del testo di Zoja, sia per il gradualismo proposto, sia per l’approccio psicologico ed antropologico.

Luigi Zoja, psichiatra di scuola Junghiana e laureato dapprima in economia, percorre in lungo ed in largo i temi socio-economici e politici nel passaggio dal secolo XX al XXI, dalla caduta del comunismo e di ogni mitologia rivoluzionaria alla crisi dello stato sociale, dalla globalizzazione finanziaria allo stress ambientale del pianeta terra, cercando di applicare alla storia del mondo alcune categorie di interpretazione  proprie della sua esperienza di psicanalista (junghiano): a mio avviso con risultati alterni.

I contenuti più strettamente descrittivi delle contraddizioni e disuguaglianze nel  mondo contemporaneo, ed a partire dal crollo del blocco sovietico, mi sono sembrati corretti, ma non particolarmente originali.
Pregevole mi è parso il tentativo di contrapporre al liberista ed anti-solidale “Tax Freedom Day” (il giorno dell’anno in cui il contribuente ha finito di lavorare per pagare tasse e contributi) un calcolo dei pochi giorni che all’uomo occidentale bastano ogni anno per procurarsi quanto è veramente necessario; più scontate le considerazioni sul disagio fiscale verso le odierne nazioni, scavalcate dalla globalizzazione, a fronte di una accettazione più facile del carico fiscale con istituzioni locali forti e federate (esempio svizzero).

Più interessanti, ma discutibili, le considerazioni antropologiche e psicologiche.
Un assioma di fondo di Zoja (pag. 206) è che “tenere un diario, annotare i propri sogni,  o comunque  cercare di conoscere meglio se stessi, col tempo finirà coll’essere anche per la società un contributo più importante che il partecipare a manifestazioni rumorose”; raggiungere “l’individuazione” (cioè in sostanza la pace con se stessi) è la premessa ad una vera empatia sociale ed ambientale, fondata più sulla “vergogna” della corresponsabilità nei mali del mondo che sull’indignazione per il male altrui.
Per altro, dice Zoja, il raggiungimento dell’individuazione non si può programmarlo (mi sembra che assomigli un po’ alla grazia divina calvinista).

Pur comprendendo l’importanza dei riti e dei miti (archetipi junghiani) correlati alla militanza rivoluzionaria, Zoja considera molto dannosi i comportamenti astrattamente e “alienatamente” altruisti, propri del ciclo storico comunista, e propone la ricerca di un culto più intimista e rilassato di “utopie minimaliste”; confidando che nella rassegnata resistenza passiva della “generazione indifferente” possano maturare (anziché il narcisismo egoista, che a me sembra comunque incombente) comportamenti solidali, secondo la “naturale socialità dell’uomo” cara a Jung,  ed alternativi alla omologazione consumista, incontrando anche altre culture e altri archetipi: la natura, grande madre, ufficializzata anche nelle costituzioni delle nuove democrazie andine, e la comunità dei viventi, animali e vegetali inclusi, propria delle religioni orientali.   
(Temi che Zoja ritrova nella cultura occidentale solo di recente, con Peter Singer e Paolo De Benedetti, considerando Francesco d’Assisi come un eccezione isolata: trascura invece importanti pensatori e testimoni del Novecento, cresciuti tra cristianesimo ed illuminismo, come Albert Schweizer e Aldo Capitini, quest’ultimo rilevante non solo per il vegetarianesimo e la non-violenza come strumento di lotta, ma anche per la ricerca della felicità entro il lavoro, “endoponia”, che può assomigliare alla “individuazione”, su un versante più laburista).

Proseguendo un ragionamento di  Freud, Zoja contempla uno sviluppo a tappe del superamento dell’ego-centrismo occidentale attraverso Galileo e Copernico (la terra perde il centro nell’universo), Darwin (anche l’uomo appartiene al regno animale), Freud stesso (l’io razionale come parte minoritaria della psiche) per arrivare ad un pieno rispetto di tutte le specie viventi e degli equilibri dell’ecosfera.
Correlato è il percorso culturale proposto attraverso:
- Thoreau e Chomsky (contro Foucault, per il socialismo libertario, senza paradigmi preconcetti ed anche  come autorealizzazione dell’individuo),
- Borges (sorprendentemente anti-nazionalista)
- Enzensberger sul minimo di civiltà (le condizioni per la convivenza civile, assicurate in ristretti luoghi del globo) e sulle contraddizioni del superfluo, che portano alla povertà di spazio  e di tempo.
Con ulteriori riflessioni di Zoja sull’attesa che divora la vita, vuoi per eccesso di pretese (ad esempio la non accettazione dell’invecchiamento), vuoi invece per carenze di garanzie (il precariato).

Mi sembra interessante la proposizione dei “diritti dell’uomo dell’ambiente” non solo come difesa dagli inquinamenti, ma come “diritti positivi” all’acqua, all’aria respirabile, al cibo, alla luce ma anche al buio ed al silenzio, al poter camminare sulla superficie terrestre senza pericoli e barriere: il tutto anche come diritto alla salute psichica (e qui però mi sarei aspettato di apprendere maggiori dati sulla concretezza del disagio e del benessere per l’umanità urbana contemporanea).  
Più debole invece mi pare la proposizione dei diritti della natura, che non solo sono indeboliti, come dice Zoja, perché gli animali non votano, ma anche (tema ignorato da Zoja) per i rischi di fondamentalismo impliciti in ogni rappresentanza della natura assunta da gruppi umani (rischi maggiori, secondo me,  di quelli insiti nelle  militanze rivoluzionarie socialiste dei precedenti due secoli; perché alla fin fine i poveri, votando, magari in modo sbagliato, possono liberarsi dei falsi rappresentanti: i criceti invece no). 

Non mi ha convinto affatto la sua semplificazione sulle “generazioni”: la “generazione impegnata”, dal dopoguerra agli anni 70, che lottava contro le disuguaglianze in un periodo in cui il capitalismo, mitigato dalla socialdemocrazia, consentiva il massimo di relativa uguaglianza, e la successiva “generazione indifferente”, che non lotta più, mentre le disuguaglianze nei paesi sviluppati tornano ad espandersi ai massimi livelli.
Avendo appartenuto alla prima, rammento benissimo che la componente “impegnata” riuscì, chiassosamente e capillarmente, a conquistare una centralità politica e mediatica: ma era una componente minoritaria dell’universo statistico dei giovani di allora (ad esempio sono certo che la maggioranza dei miei compagni di liceo non ha mai preso parte ad alcuna manifestazione), e mi sembra scorretto confondere la parte con il tutto, trascurando i conflitti interni alle generazioni.

Non mi convince nemmeno il paradigma di Che Guevara come padre irresponsabile sia verso i suoi figli naturali che verso i suoi figli politici, anche se appare efficace la descrizione della parabola discendente del militante rivoluzionario frustrato (e non eroicamente caduto), che diviene incapace di leggere la realtà e di abbandonare strumenti concettuali ormai fallimentari e controproducenti: tutte queste critiche mi sembrano efficaci applicandole a chi ha scelto una militanza volontaria, molto meno per tutti coloro che hanno lottato, e lottano, semplicemente prendendo coscienza della loro oggettiva condizione subalterna e di sfruttamento (ed a cui manca il tempo forse per sfogarsi sul lettino dello psicanalista).

Per finire, anche se è chiaro il fallimento del comunismo nel tentativo di realizzare un uomo nuovo (da Stalin a Pol Pot) ed anche l’effetto controproducente dell’estremismo rivoluzionario (Che Guevara), occorre forse chiedersi se le mitigazioni di tipo socialdemocratico al capitalismo nel periodo 1945-75 (nei soli paesi sviluppati) sarebbero state possibili senza che aleggiasse altrove lo “spettro del comunismo”; ed infatti con il declino e poi il crollo del blocco sovietico abbiamo assistito ad un rilancio del liberismo finanziario selvaggio.
D’altro canto la strada di migliorare l’uomo per migliorare il mondo, pur in chiave diversa dalla “individuazione” junghiana,  è stata lungo predicata dal cattolicesimo democratico (quando la Chiesa ha perso il potere temporale e la pretesa di insegnare ad obbedire ai sovrani cattolici), ma non mi sembra con grandi risultati sociali, almeno all’interno dei paesi ricchi.

Forse anche il riformismo, per essere efficace, ha bisogno di qualche dose di utopia non troppo minimalista e di una dimensione collettiva ed in qualche misura militante, a partire dagli interessi concreti dei soggetti sociali (probabilmente a partire dai paesi poveri, e sperabilmente in armonia con la grande-madre-terra).

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