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lunedì 31 agosto 2015

SUGLI 8-REFERENDUM-8 PROPOSTI DA CIVATI

Nel merito mi trovo d'accordo solo sui quesiti n° 1 (capilista bloccati e candidature multiple nell'Italicum)-3+4(trivelle)-6(de-mansionamento nel job act), perché altre cose a mio avviso vanno cambiate diversamente (grandi opere), o solo in parte (job act) o non così (scuola), ed in generale cercando di non buttare il bambino assieme all'acqua sporca.

Politicamente i referendum proposti da un piccolo gruppo sono un azzardo, forse anche potenzialmente vincente, ma con grossi rischi che il fallimento o nella fase di raccolta firme o - peggio - nella fase di voto (mancato quorum oppure sconfitta) abbiano pesanti ripercussioni negative (non solo sulle sorti del Civatismo), ancor peggio del pur vituperato "stato di cose presenti" (vedi precedenti tentativi di migliorare da sinistra lo statuto dei lavoratori, abrogandone la soglia minima dei 15 dipendenti, che ha finito per santificarla).
Nel dubbio, mi astengo da questa campagna per la raccolta firme (e mi sembra finora di essere in larga e sinistra compagnia).


A chi mi ha obiettato “ma i radicali si muovevano senza preoccuparsi di essere minoranza”, rispondo innanzitutto:
- ed infatti che fine han fatto i radicali
- e quanto lo strumento del referendum sia stato da essi sfiancato, fino a renderlo inutilizzabile per qualche decennio.
Più seriamente, i radicali erano pochi, ma "trasversali" (contemplavano anche le "doppie tessere") ed erano ben compenetrati nel mondo laico-socialista di quegli anni.
Inoltre su temi tipo "diritti civili" era  pensabile sia di scalare maggioranze silenziose, sia di guadagnare comunque in visibilità su temi ritenuti marginali.


Qui ed ora invece occorrerebbe una riflessione seria sul vuoto strategico a sinistra di Renzi e sul disastro dell'area liste Tsipras (Syriza sta molto meglio ...), cui l'aggiunta del nuovo movimento
"Possibile", con l'apporto dello 0,x del PD, mi pare non dia contributi risolutivi (come già osservavo sull'evanescente mozione congressuale di Civati, una sorta di renzismo in radice quadrata, cambiato di segno); mentre apprezzo il punto di vista più sociale ed a lungo termine di Landini e di Rodotà.
Può essere questa campagna referendaria la scossa che cambia in meglio?


Può darsi, ma non ne sono convinto, a partire dal merito dei quesiti (come già detto) e dal metodo unilaterale del "partiam partiam" dei soli Civatiani, in agosto per giunta.
Ed in caso di sconfitta a pagare sarà tutta la sinistra, su temi comunque già visibilissimi (tranne forse le micidiali trivelle petrolifere, su cui però si stanno già muovendo anche diverse regioni)




MENTRE RENZI SBANDA NELLA SVOLTA SULLE TASSE PER LA CASA, C’E’ SPERANZA DI ALTERNATIVA?

A fronte dei ribaditi proclami di Renzi sul taglio delle tasse a partire da IMU/TASI su tutte le prime case (non pienamente replicati dai ministri né dai parlamentari filo-renziani), l’opposizione interna al PD ha espresso pacati ragionamenti alternativi e complementari, ben raccontati dall’ex-capogruppo alla Camera Roberto Speranza in un articolo su “Il Foglio” del 20 agosto (c’è da chiedersi, per inciso, se tale pubblicazione è casuale oppure la sinistra-dem è ormai costretta ad utilizzare “il Foglio” anziché “l’Unità” per manifestare i propri pensieri).

Speranza ben motiva le altre priorità in materia di fisco (lavoro, imprese, elusione fiscale delle multinazionali) ed alcuni aspetti di inefficacia della promessa soppressione della TASI su tutte le prime case rispetto alla crisi edilizia (Speranza suggerisce invece saggiamente l’annullamento delle imposte di registro)  e di iniquità sociale in favore dei ricchi proprietari di case di elevato valore.

Mi sembrano argomenti importanti e di potenziale incidenza sulle opinioni della base elettorale tradizionale del centro-sinistra, argomenti su cui sarebbe interessante vedere all’opera l’opposizione interna del PD non solo in parlamento, ma anche tra gli iscritti e simpatizzanti del PD, che Renzi sta coinvolgendo in questa rincorsa la programma berlusconiano sulla casa, senza che mai siano stati consultati in proposito (il tema non figurava nelle piattaforme di primarie e congresso).

La svolta programmatica mi sembra decisiva per dissipare la residua credibilità progressista del PD, come lo sono stati i risvolti peggiori della riforma del lavoro (con la bocciatura finale da parte del Governo degli emendamenti che Cesare Damiano era riuscito a far passare nella commissione parlamentare; in assenza però di iniziative politiche tra gli iscritti e gli elettori).

E certamente può coinvolgere i cittadini molto di più delle tecnicalità cui può apparire ridotto lo scontro in atto sulla riforma costituzionale (e molto di più della scivolosa questione delle preferenze nella legge elettorale ”Italicum”), anche se in realtà sono in gioco importanti nodi di equilibrio democratico (la elezione degli organi di garanzia – Presidente della repubblica, Corte Costituzionale, Consiglio Superiore della Magistratura), ancor più che la mera elezione o nomina degli stessi Senatori.

Per questo ritengo utile rammentare che l’iniquità della (iper-)ventilata soppressione della TASI non si esaurisce nella moralistica constatazione che molti ricchi verrebbero inutilmente premiati (compresi molti evasori di IRPEF ed altre imposte, che almeno sugli immobili – quelli non-abusivi - meno riescono a scappare), ma si annida alla radice nella discriminazione (a mio avviso anche anti-costituzionale) verso:
- gli inquilini (anche quelli ricchi) che – per qualunque motivo – non possiedono la casa in cui abitano, e che già oggi, diversamente dai proprietari di prima casa, non si vedono riconosciuto alcuna deduzione fiscale per il canone di affitto che pagano (deduzione che sarebbe utile anche come “contrasto fiscale” rispetto agli affitti in nero, imboscati dai padroni di casa), né sistematici sussidi in favore degli inquilini poveri;
- gli sfrattati ed i senza-casa (gli ultimi di questo mondo, prossimi ai profughi ed ai poveri del resto del mondo), che in Italia ricevono qualche aiuto differenziato dai comuni e dalla benemerita carità cristiana (temo pochi aiuti  invece da carità laiche e socialiste), ma non sono riconosciuti come portatori del fondamentale “diritto alla casa”.
La fissazione di una equa soglia di esenzione dalla TASI (unita al recupero della abbandonata riforma del catasto) potrebbe essere la misura per un equivalente soglia di esenzione per la deduzione di quota parte degli affitti dall’IRPEF e per il sostegno al pagamento degli affitti per i non abbienti: finanziando in tutto o i parte tali provvedimenti in favore del DIRITTO ALLA CASA PER TUTTI con il mantenimento delle quote di  TASI per le prime case sopra-soglia.

Anche ai fini del rilancio dell’edilizia (risparmiandoci magari un ulteriore consumo di suolo), oltre alle proposte di Speranza &C. sulle imposte di registro ed affini, sarebbe necessario un programma specifico di recupero dei fabbricati esistenti, dalle industrie dismesse ai quartieri fatiscenti, fino ai singoli alloggi privati sfitti e da riqualificare, su cui potrebbero influire opportune facilitazioni fiscali (sull’IMU delle case locate e non sulla TASI delle prime case).

E se si tratta di “aiutare le famiglie”, perché non provvedere invece semplicemente ad un vigoroso aumento delle detrazioni fiscali per i figli  carico (e degli assegni famigliari per i più poveri)?

NB: chi scrive paga volentieri la TASI sulla prima casa, ed al momento non ha figli a  carico

sabato 15 agosto 2015

MIGRAZIONI E LAVORI, NELLA RICERCA DI CAMILLA GAIASCHI

“La geografia dei nuovi lavori. Chi va, chi torna, chi viene” è  il titolo di un e-book di 94 pagine, edito nel 2015 dalla Fondazione Giangiacomo Feltrinelli di  Milano, che raccoglie un’agile ed efficace ricerca condotta dalla giovane sociologa/giornalista Camilla Gaiaschi.

Il testo alterna felicemente (pur con qualche refuso di troppo) l’analisi e la comparazione di dati quantitativi da diverse fonti, riferimenti bibliografici ad altre autorevoli ricerche sociologiche e brevi e spigliati racconti “giornalistici”, mirati sui casi concreti di diversi migranti coinvolti nei diversi flussi esaminati dal libro.  
Nelle Conclusioni, da pag. 83 a pag. 88, la stessa Autrice riassume con molta chiarezza il testo, che mi sforzerò di riassumere ulteriormente:

La prima parte (“da”) esamina i nuovi flussi di emigrazione degli italiani verso l’estero, evidenziando che si tratta in prevalenze di giovani, istruiti, sia maschi che femmine, provenienti dal Centro-Nord, motivati dalla ricerca di un lavoro migliore (ma anche disposti a mansioni umili nella fase di ricerca) e diretti  per lo più verso le aree metropolitane più dinamiche e/o ospitali, tra cui Londra, Berlino, Parigi, Barcellona, ma anche Dubai e Shangai; si muovono attraverso reti amicali oppure attraverso approcci individuali al web, od ancora, almeno inizialmente, al seguito di imprese italiane esportatrici.
A fianco di queste correnti più innovative e caratteristiche di questo inizio di secolo, con accelerazione negli anni di crisi dal 2007, si affianca il rinverdire di flussi più tradizionali di migranti a basso livello di istruzione, in prevalenza dalle regioni del Sud.
Le quantificazioni ufficiali degli emigranti iscritti come “residenti all’estero” (nell’ordine di quasi 100.000 all’anno) risultano sotto-stimate, fino ad un raddoppio del flusso effettivo, perché la facilità dei trasporti e la temporaneità degli impieghi spingono spesso a mantenere vivi i legami con le famiglie e le città di origine ed inalterate le iscrizioni anagrafiche. 

La seconda parte (“a”) si occupa degli immigrati, i cui flussi di arrivo sono decisamente diminuiti dopo il 2010, mentre è aumentato il numero degli stranieri che lasciano l’Italia o per tornare al paese di origine oppure per trasferirsi in altri paesi europei, più floridi e/o accoglienti; la crisi inoltre ha indotto una crescente mobilità degli immigrati all’interno dei confini italiani, per inseguire le occasioni di lavoro e non perdere i permessi di soggiorno, accettando anche de-mansionamenti e altre forme di peggioramento contrattuale (ad esempio trasferendosi dalle industrie del Nord al bracciantato stagionale nell’agricoltura del Sud).
(Il testo non affronta la recente ondata di sbarchi di profughi e migranti irregolari, orientati per altro tendenzialmente verso il Nord Europa).

La terza parte (“in”) osserva la ripresa delle migrazioni interne, soprattutto dal Sud al Nord (anzi al Nord-Est), già in atto dagli anni Novanta, ed ora in accelerazione (ancora vicino ai 100.000/anno) , sia tra i lavoratori qualificati (in parte già insediati al Centro-Nord come studenti universitari fuori-sede) sia per le mansioni medio-basse; anche qui sia maschi che femmine, anche senza la tradizionale subalternità della “moglie che segue il marito”.
Le mete di questi immigrati, per lo più giovani e single, sono soprattutto le città del Centro-Nord, che hanno ripreso ad aumentare la popolazione, anche se nel contempo continua l’esodo  verso i rispettivi hinterland, soprattutto per le famiglie con figli; tra queste città le più attrattive risultano essere – oltre a Milano e Torino – Bologna e altri centri emiliani, ed il Triveneto, con Trento in evidenza.

Su questo tema l’Autrice sviluppa un approfondimento, sulla correlazione tra nuove imprese innovative (“start up”) e flussi di immigrazione a mio avviso non troppo convincente in termini quantitativi ma indubbiamente interessante sul piano qualitativo.
In termini quantitativi infatti, Camilla Gaiaschi propone, a pag. 69, alcuni grafici che collocano le regioni e le provincie italiane, avendo sull’asse y l’immigrazione e sull’asse x la densità di “start-up” e tende a leggere un allineamento del conseguente “sciame di dati” lungo una retta virtuosa: ma a mio avviso tali sciami risultano troppo larghi e sgranati per confermare una attendibile legge statistica (ovvero lasciano troppi casi di notevole immigrazione con poche start-up oppure di poca immigrazione con molte start up).  
Sul fronte qualitativo, invece, l’indagine risulta interessante, soprattutto quando illustra le motivazioni di insediamento di nuove aziende creative a Bologna, tra cui le infrastrutture informatiche pubbliche, l’ambiente stimolante e l’alta velocità con Roma e con Milano, oppure quando tratteggia il “modello Trento” (istituti di ricerca, investimenti pubblici, welfare) senza tacerne le potenziali criticità (incidenza di una spesa pubblica forse non confermabile, poteri locali un po’ ingessati, ambiente provinciale al di sotto di una soglia “metropolitana”).

RIFLESSIONI DI MEZZA ESTATE SULLE RIFORME ISTITUZIONALI


RIFORME ISTITUZIONALI: SCHIERAMENTI

Il cammino del disegno di legge di riforma costituzionale, giunto alla terza lettura, ed avendo perduto la iniziale copertura politica berlusconiana, sembra profilarsi come una battaglia campale tra Renzi&C  e i resti della sinistra del PD, in cui il primo tende a forzare la mano ponendo di fatto una “questione di fiducia” su una materia che dovrebbe sfuggire alla logica governativa, ed i secondi appaiono tentati di rifarsi da una serie di umiliazioni finora subite, senza pagare il dazio né di una scissione né di eventuali elezioni anticipate (tecnicamente alquanto improbabili con l’Italicum per la sola Camera, e differito a metà 2016, ed il Senato eleggibile solo con il “Consultellum” cioè con il Porcellum ridotto a proporzionale).

In un partito “normale”, gli orientamenti della maggioranza, anche in materia di Costituzione, dovrebbero essere  abbastanza vincolanti, salvo individuali obiezioni di coscienza; ma in un partito normale non succederebbe né che il Segretario si accordi in materia costituzionale prima con il nemico storico del centro-sinistra, per poi non ascoltare neppure i più ragionevoli emendamenti proposti dalla sua minoranza, né che le Direzioni si concludano con generale consenso anche quando il Segretario improvvisa cambi di linea ad “U” rispetto alla storia del PD ed ai documenti congressuali, come avvenuto sull’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori e con la recente scellerata proposta di sopprimere la tassazione sulla prima casa, ricchi compresi (ed inquilini e senza casa esclusi da ogni attenzione, perché tanto son minoranze, e non così celebrate dai media come i gay).  

Il realismo politico, che ha suggerito a Renzi poderosi passi indietro, ad esempio, sulla RAI (pur mascherati da baldanzosi rimbalzi in avanti), potrebbe ora suggerirgli di riconoscere di fatto i resti della sinistra-dem come una sorta di “separati-in-casa”, in una fase in cui a nessuna delle due parti conviene far precipitare il divorzio, e trattare una ragionevole mediazione con Gotor anziché con i resti di Forza Italia.

Sono abbastanza convinto che la sinistra-dem (anzi la parte restante, dopo la fuori-uscita di Civati e Fassina ed il ri-allineamento al centro di Martina-Amendola-Damiano ecc.) abbozzerebbe di buon grado, anche perché, non avendo dato una seria battaglia dove poteva effettivamente mobilitare la base (come sull’art. 18), né avendo cavalcato più di tanto la resistenza (a mio avviso in prevalenza corporativa) degli insegnanti sulla buona scuola, faticherebbe a trovare consensi su materie più ostiche al semplice cittadino (come il Senato elettivo od il quorum per l’elezione del CSM, e come è stato per la battaglietta sulle preferenze).

E perché non ha maturato alcun disegno strategico, né di scissione né di alternativa, ed è così costretta a subire i lazzi di Renzi, Staino&C.

Se però Renzi mancherà di realismo, e punterà tutto sull’avventura dei voti in aula, confidando nell’erosione del dissenso Dem e nella estensione del consenso di un palude verdiniana allargata, ci sarà invece il rischio che la corda si spezzi aprendo una crisi invero non facilmente gestibile.



RIFORME ISTITUZIONALI: MERITO

Nel merito della riforma costituzionale in itinere e della riforma elettorale di recente approvata ho espresso più volte il mio perplesso parere.

Non sono particolarmente affezionato né al bi-cameralismo né al Senato elettivo: tuttavia la formula finora approvata, con alcuni consiglieri regionali nominati a svolgere un secondo lavoro come senatori part-time (e, se coscienziosi,  quando avranno il tempo di tornare a casa e di parlare con qualche normale cittadino?)  mi sembra pasticciata e poco efficiente, e certo non l’unico né miglior svolgimento del tema populistico “riduciamo i costi della politica”: perché non tagliare numero ed emolumenti dei Deputati? 

Il problema di fondo è  quello del riequilibrio dei poteri e della terzietà degli organi di garanzia (Presidenza della Repubblica, Corte Costituzionale, Consiglio Superiore della Magistratura), rispetto ad una Camera (e conseguente governo) eletta con un risoluto premio di maggioranza, che potrebbe spettare, in caso ballottaggio, anche ad una lista che goda in partenza del consenso di quote modeste degli elettori votanti.

Problema che si era già profilato con le precedenti versioni del maggioritario (Mattarellum e Porcellum), ma che viene esaltato sia dall’Italicum sia da qualsivoglia forma di de-potenziamento del Senato, ed a maggior ragione dalla sinergia delle due operazioni.

Gli emendamenti proposti da Gotor  (e sostenuti da una scarsa trentina di senatori eletti con il simbolo PD)

affrontano la questione, a partire dall’Italicum approvato e dal disegno di legge costituzionale ora all’esame del Senato.

Le soluzioni tecniche possono essere le più diverse.

La mia preferita, per quel che conto, e cioè nulla, sarebbe quella di riconoscere, almeno in ipotesi, il meccanismo elettorale maggioritario in Costituzione e di neutralizzarne gli effetti con una norma che dicesse: “In caso di elezione maggioritaria di un ramo del Parlamento, i deputati e/o senatori assegnati con meccanismo premiale sono privati del diritto di voto nelle sedute dedicate all’elezione degli Organi di Garanzia, il cui collegio eligente corrisponde pertanto ai soli deputati/senatori eletti con criterio proporzionale”.

In tal modo sarebbe pienamente sopportabile anche un radicale mono-cameralismo (NB: quando lo proponeva il PCI si era sempre in un quadro proporzionale), ed il conservare o re-inventare un ruolo al Senato servirebbe per altri possibili scopi, dal miglior raccordo con le autonomie locali (ma già esistono in Costituzione le apposite Conferenze Stato-Regioni e Stato-Regioni-Comuni) ad una procedura di raffreddamento nella legislazione su materie più delicate, dai diritti umani alle stesse ulteriori revisioni costituzionali.

Quello che mi preoccupa è che il tema della elezione degli organi di garanzia sembra appannaggio della sola sinistra-dem, sola oppure più o memo mal accompagnata da Calderoli od altri oppositori, e non interessi a nessuno della vasta e composita compagine renziana, DOC  e di complemento, da Zanda a Finocchiaro, allo stesso Cesare Damiano, senza pensare che con l’Italicum non sarà sempre il PD a vincere, ma potrebbero farlo anche forze diverse e potenzialmente pericolose per la Repubblica (due nomi a caso dall’attualità: Grillo e/o Salvini). 



RIFORME ISTITUZIONALI: SCENARI

Al di là del mio personale scarso gradimento, le riforme istituzionali promosse da Renzi e le innovazioni di fatto da Lui introdotte nella “Costituzione materiale”, come la ostentata fine della concertazione con le forze sociali, tendono a configurare una “Terza Repubblica” in cui molto più potere è dato all’asse Governo/maggioranza parlamentare, e molto meno agli altri soggetti, i cosiddetti “corpi intermedi”, elettivi (minoranze parlamentari, Regioni e Comuni) e non elettivi (sindacati e associazioni di categoria, burocrazia e – forse – magistratura).

Togliendo di fatto quote di potere e “diritti di veto” ai poteri “deboli”, che hanno variamente condiviso la gestione  della Prima e Seconda Repubblica, e rafforzando un nuovo potere centrale dello Stato, che potrebbe così meglio confrontarsi con i vecchi e nuovi “poteri forti”, nazionali ed internazionali, ed a cui vorrei attribuire alcuni nomi, per non lasciare questo testo nella abituale ambiguità delle invettive contro poteri forti misteriosi ed innominati:

I grandi gruppi dell’industria e della finanza (FCA, Benetton e le altr multinazionali che continuano a produrre in Italia,  ENI&ENEL&Finmeccanica&C, Intesa&Unicredit, Mediobanca e Generali), al di là delle mediazioni corporative a cui si piegano nelle associazioni orizzontali, tipo Confindustria e ABI

Istituzioni Europee (Commissione Europea, BCE) e altri grandi stati Europei

USA e NATO

Cina, Russia ed altre potenze emergenti, fino al Califfato Islamico

Finanza internazionale, in tutte le sue articolazioni, dalle agenzie di rating ai grandi investitori istituzionali, dagli Emiri del Golfo alle eminenze grigie nascoste nei paradisi fiscali

Aziende (americane) che controllano i mezzi di comunicazione (Google, Microsoft, Face-book, ecc.)

(la Chiesa Cattolica?)

E senza dimenticare Mafia, Ndrangheta e Camorra…


Allora forse uno stato italiano più “forte e chiaro”, che superi il “pluralismo consociativo”  non è del tutto un male, anche per cedere eventualmente in modo trasparente più sovranità agli ambiti comunitari, resi però meno tecno-cratici con più potere al Parlamento Europeo (dove non è escluso che i popoli eleggano qualcosa di meglio delle attuali forze politiche).

La riduzione degli ambiti di mediazione dentro i tavoli istituzionali  a mio avviso non è da vedersi come necessariamente nociva per gli interessi non rappresentati nelle maggiorane governative, perché dovrebbe restare aperta la dimensione del conflitto (ed è con scioperi e manifestazioni che i sindacati hanno difeso quanto hanno potuto difendere, dagli anni ’90 ad oggi, su licenziamenti e pensioni, non certo sedendosi inermi nella “sala Verde” di palazzo Chigi, come di fatto è accaduto, ad esempio, durante i governi di Monti e di Letta).

Quello che dovrebbe massimamente preoccupare, secondo me, non è la maggior libertà di governare da parte del governo, bensì il rischio che il riassetto dei poteri da un lato attenti allo spazio del conflitto, limitando il diritto di sciopero (al di là delle patologie da correggere nei pubblici servizi) e la libertà di informazione ed espressione  e d’altro lato comprima i contrappesi istituzionali rendendo ineguale la competizione politica, in favore del governo, e difficile il ricambio delle maggioranze.

Cioè che si tolga spazio ad un sano “pluralismo dialettico”, sociale e politico.

Per questo fondamentali a mio avviso sono i criteri di nomina ed elezione degli organi di garanzia (Presidente della Repubblica, Corte Costituzionale, Consiglio Superiore della Magistratura), nonché dei vertici delle aziende pubbliche (aziende che non sono “del governo”, ma dei cittadini), dalla RAI alla Cassa Depositi e Prestiti, e poi ENI, ENEL, Finmeccanica, Poste, Ferrovie: un insieme, che – pur in parte privatizzato – può consentire una enorme influenza sull’economia, sulla vita del paese e sulle opinioni dei cittadini.

Togliere al rafforzato governo il potere esclusivo su queste nomine e affidarlo, ad esempio, al controllo di un residuo ma dignitoso Senato (di rappresentanza federale e di fatto proporzionale)  potrebbe essere un necessario complemento al disegno di riforma, in una direzione più democratica e meno accentratrice.

giovedì 6 agosto 2015

SI PUO’ SOPPORTARE UNA TALE DISOCCUPAZIONE A LUNGO TERMINE?

Dall’incrocio dei dati ISTAT sulla disoccupazione che non cala, delle previsioni FMI sulla stessa disoccupazione, che rientrerebbe solo in 20 anni, e della relazione SVIMEZ sul  Sud che peggiora, con aggiunta di appello di Saviano, il PD pare aver colto soprattutto quest’ultimo, convocando una direzione pre-ferie, sul tema del Sud.
I 2 argomenti, Sud e occupazione, sono largamente intrecciati, per cui l’iniziativa comunque non parrebbe  fuori tema.

Però mi sembra che sul tema dell’occupazione la linea di Renzi mostri una sostanziale inadeguatezza alla gravità del problema, perché totalmente subordinata all’assioma della crescita, e cioè alla convinzione (ideologica) che solo la ripresa economica può creare posti di lavoro effettivi, e ogni altra strada porti a sterili e dannose forme di assistenzialismo.
Con il corollario di valutare come positiva ogni forma di “sviluppo industriale” (comprese ad esempio le trivellazioni per la ricerca di gas e petrolio, che sono invece risorse preziosissime da non dissipare a breve termine, provocando nel contempo danni irrimediabili al territorio, al paesaggio e al turismo, e probabilmente anche alla salute e sicurezza dei cittadini), senza una selettiva “politica industriale” che individui i settori più benefici per il futuro e per la convivenza sociale; e con l’aberrazione di  proporre come incentivi allo sviluppo economico anche promesse di detassazione molto indirettamente connesse alla crescita, quali quelle sulla prima casa (come già dimostrato dal 2009 al 2011 e nel 2013), oltre che intrinsecamente ingiuste, come ho altrove argomentato (e di certo tornerò a ribadire).

Tra i commenti ai rapporti di ISTAT, SVIMEZ e FMI, Walter Passerini su “La Stampa” ha esposto anche un breve resoconto sul sostanziale (e poco conosciuto) fallimento dell’iniziativa europea (e Lettiana) “Garanzia Giovani”, che avrebbe dovuto agganciare quei 2.500.000 che né studiano né lavorano, ed invece ne ha contattati solo 700.000, proponendo qualcosa di utile (stages, corsi, colloqui, ecc. e persino qualche assunzione) ad una modesta minoranza.
A mio avviso una seria riflessione su tale esperienza potrebbe essere utile per capirne i limiti e gli errori.
Il 1.800.000 non raggiunto è contento così (e magari fa lavoro nero)? Oppure abbandona la scuola non è raggiungibile da “Garanzia giovani” per totale sfiducia? Oppure erano e sono inadeguati gli strumenti organizzativi messi in campo? E sui 700.000 raggiunti si sa qualcosa di più di prima? Quanto sta costando l’intera operazione?

Domande che pongo per partire dal concreto e non da una contrapposta ideologia, che punti sulla spesa pubblica e sui lavori socialmente utili, rievocando Roosvelt in un continente ed in una fase storica che ne rende assai difficile la riproposizione.

Perché, ammesso che i segnali di ripresa economica avvistati da Confindustria e da altri osservatori, ed esaltati dal Governo, siano consistenti e reggano a possibili nuove e vecchie bufere internazionali (Cina, Grecia, Ucraina, Libia, Medio Oriente), le stime del FMI non sono infondate, ed indicano la seria possibilità di una crescita senza nuova occupazione, connessa ai  continui (ed ineluttabili) incrementi di produttività insiti nella competizione internazionale.

E’ accettabile una prospettiva di disoccupazione di massa di lunga durata?
Ed allora mi sembra che sia necessario incentivare e sperimentare ogni possibile strumento, vecchio e nuovo, per aumentare l’occupazione (e prima o affianco ad essa una buona scolarità) in un tale contesto di produttività crescente, spendendo meglio le risorse pubbliche disponibili (e senza sprecarle, ad esempio, per togliere le tasse sulle case dei ricchi): avviare un grande programma di borse di studio, rilanciare il servizio civile (obbligatorio, come suggeriscono Serra, Urbinati e – purtroppo – Salvini?), agevolare la staffetta giovani/anziani, favorire serie forme di part time e di mirata riduzione degli orari di lavoro (sulla scia dei “contratti di solidarietà”), e disincentivare invece gli straordinari, rendere permanente le agevolazioni per le nuove partite IVA (che invece scadranno al 31 dicembre).

E altre proposte (avanzate dai sindacati, ma anche da ambienti imprenditoriali).

Non sarebbe il caso di metterle al centro dell’attenzione?