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giovedì 19 gennaio 2017

L’ANTROPOLOGIA, “CONTRO L’URBANISTICA” DI FRANCO LA CECLA


“Contro l’urbanistica. La cultura delle città” dell’antropologo Franco La Cecla è un agile libretto (150 pagg. nel formato tascabile della collana “Le Vele” dell’editore Einaudi – Torino 2015), che coinvolge anche temi molto importanti, forse più grandi del testo stesso, nel senso che richiederebbero un maggior approfondimento, critico e bibliografico (e non solo dotte citazioni volanti).

All’inizio del testo, che è intervallato da piacevoli resoconti di viaggio in diverse città del globo (invero non sempre pertinenti alle parti più strettamente saggistiche), La Cecla prende spunto dai movimenti delle masse che in anni recenti hanno occupato piazze e parchi, in Egitto, Turchia, Hong Kong (e U.S.A., con una qualche sopravvalutazione, a mio avviso, del movimento Occupy Wall Street), per evidenziarne la “corporeità”, in contrasto con i teorici di una realtà sociale ormai solo virtuale e “smart”.

L’argomento più rilevante, esplicitato nei capitoli centrali del libro (che allora forse andava intitolato ”Contro l’urbanesimo”, se non sembrasse nostalgia di Bottai), è però quello della crescita tendenziale degli insediamenti urbani, che l’organizzazione dell’ONU HABITAT presenta come inevitabile ed auspicabile, fonte di universale prosperità, mentre l’Autore, anche sulla scorta dei divergenti rapporti di altri organismi internazionali (e più in generale appoggiandosi, senza svilupparlo, al pensiero alternativo di correnti come TERRA MADRE), non ritiene invece:

-          né ineluttabile, perché incentivato dalle politiche di sostegno all’agricoltura capitalistica monocolturale che espelle di continuo i piccoli agricoltori dalle campagne (espulsione accentuata dai mutamenti climatici indotti dallo stesso sviluppo agri-intensivo ed urbano-centrico),

-          né positivo, perché l’incremento della popolazione inurbata, nella maggior parte delle aree metropolitane, va solo ad ingrossare gli “slums”  e la povertà di massa (La Cecla accenna all’eccezione di Singapore, che immagino dirigista ed ecologica, ma da La Cecla di più non è dato di sapere).

Nella sua urbano-clastia, La Cecla sbeffeggia le teorie e le consulenze di Richard Florida sulla cresta dell’onda delle “classi creative”, secondo La Cecla   travolte inesorabilmente dalla crisi iniziata nel 2007, e stigmatizza più in generale tutta la competizione verso il “marketing urbano” delle “città mondiali”, sul modello drogato di Barcellona/Olimpiadi   (e qui secondo me va ascoltato solo in parte, perché guardando a Torino/Olimpiadi ed a Milano/Expo, pur nutrendo molti dubbi sul rapporto costi-benefici, caricando sui costi non solo gli investimenti, ma anche l’innegabile consumo di suolo agricolo o forestale, resta da valutare un indubbio salto di quantità e di qualità permanente riguardo ai flussi turistici acquisito, nel bene e nel male, dalle due città).

Inoltre La Cecla si spinge a censurare gli studi di Saskia Sassens, a suo avviso troppo spinti verso la previsione di una tendenziale prevalenza delle metropoli, anche se in realtà la Sassens ne ipotizza il successo in contrapposizione al declino degli Stati nazionali, e richiama l’attenzione alle nuove disuguaglianze ed alle aree di povertà interne alle metropoli, in sostanziale consonanza con le argomentazioni dello stesso La Cecla.  

Perché comunque è proprio nella vitalità degli slums, ed in generale nelle componenti corporali ed informali del vivere urbano (ad esempio elogiando il cibo di strada, la cui qualità è garantita dall’immediato giudizio dell’utenza popolare – argomento a mio avviso non scevro da un certo liberismo -), che La Cecla vede i materiali di una vera cultura delle città, contro le mortificazioni dei regolamenti di igiene e polizia e contro le colpevoli acquiescenze degli urbanisti verso gli interessi del capitale immobiliare.

Non illuminata dalla capacità di ascolto e dalla curiosità girellona degli antropologi, l’urbanistica, che è l’esplicito bersaglio del testo di La Cecla, si sforza invano di interpretare la realtà urbana, usando statistiche, grafici e paradigmi astratti; e – quando è costretta ad esperire la “partecipazione” – la stinge in modalità edulcorate ed inautentiche, dimenticando le lezioni di Jane Jacobs e i meriti storici di alcuni precursori (in Italia: Doglio, De Carlo) e non seguendo l’esempio di “Architecture for Humanity”, organizzazione non profit di progettisti al servizio dei bisogni delle comunità locali, finanziata mediante lasciti e donazioni di fondazioni filantropiche (non importa se emanazioni di imprese multinazionali).

Soprattutto in Italia, dove si manifesta resistenza ad introdurre lo strumento nord-europeo della Valutazione di Impatto Sociale, che verrebbe disciolta nella più generica valutazione ambientale (La Cecla, pur cogliendo giustamente una certa strumentalità rutinaria nelle applicazioni della Valutazione Ambientale Strategica per i Piani ed i Programmi,  non si misura con la vigente normativa sulla VAS, che ben ne delinea anche le componenti sociale ed economica e la fondamentale chiave partecipativa, e da ultimo gli obblighi di terzietà nel procedimento, rispetto agli autori dei piani).

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Non ritengo necessario espormi troppo nella difesa degli urbanisti italiani, anche perché ha già in buona parte provveduto autorevolmente Federico Oliva (già presidente dell’Istituto Nazionale di Urbanistica ed ora direttore della rivista “Urbanistica”) sul n° 263 del 2015 di “Urbanistica Informazioni, con l’articolo “Per l’urbanistica”, distinguendo anche riguardo alle effettive responsabilità storiche dei progettisti nella formazione delle “periferie operaie”.

Per parte mia, pur dichiarandomi positivamente stimolato dalle osservazioni e provocazioni di La Cecla, mi sentirei di testimoniare però:

- che esperienze di “committenza alternativa” sono praticabili anche al di fuori del modello “Emergency” di “AFH”: ad esempio lavorando come tecnici negli enti locali, alle dirette dipendenze dei rappresentanti dei cittadini, come mi è capitato di fare nei trascorsi decenni (ma anche nel mondo cooperativo);

- che quasi tutti i contenuti critici ed alternativi di La Cecla li ho potuti conoscere da tempo, oltre che talora sul campo, proprio sulle riviste dell’INU (se gli urbanisti spesso razzolano male, quanto a prediche almeno mi sembrano parecchio aggiornati); 

- che anche La Cecla (come già Guy Standing e David Harvey), mi sembra cadere nella “prova locale”, cioè laddove anch’io, come altri lettori, pur con modesti occhi non specialistici, ho potuto osservare gli stessi fenomeni descritti dall’Autore; mi riferisco alla descrizione di Milano, in coda al capitolo 8, che per La Cecla è vivace solo nei luoghi dei nuovi immigrati (via Padova, via Paolo Sarpi) e per il resto solo insieme di luoghi di shopping devitalizzato (e per giunta con i marciapiedi in asfalto): a me invece negli ultimi anni è parso che milanesi e turisti vivano con una certa soddisfazione, non sempre mercantile, la molteplicità degli spazi e dei percorsi pedonali (e delle panche e sedili pubblici, e dei dehors di bar e ristoranti) che si sono aggiunti al tradizionale asse Castello-Duomo-S.Babila, e cioè ad esempio, quanto meno, da un lato la Darsena/PortaTicinese e dall’altro, malgrado la discutibilità delle torri con e senza alberi sui balconi di piazza Aulenti, il tracciato Garibaldi-Como-Isola.

(nota: a pag. 98 La Cecla afferma perentoriamente che “Milano non ha mai avuto un piano regolatore un progetto pubblico per il suo futuro”; ciò non è vero, e a mio avviso sarebbe più utile conoscerli,  i Piani passati e presenti di Milano, per criticarne meglio la discutibile trasformazione).

1 commento:

  1. PERVENUTO VIA E-MAIL
    La Cecla; con lui ho praticato "illo tempore" CaBau, autocostruzione ed altro, " il potere di abitare", esperienza interessante. Postillò anche sulla architettura, maledefinendola, del resto scrivendone un libricino. Io mi sono limitato a dire che è morta, anche se Gregotti vuole a tutti i costi evitarlo. Sulla urbanistica, che affronterò pari passo, non modifico la mia "sentenza": morta anch'essa.Purtroppo, parlando e legiferando a tutti i livelli, da INU a CNA CNPP, da governo centrale e governi locali, si usa la rigenerazione come se fosse un bocca a bocca sull'annegato.Fantastico, anche ai cadaveri si può dare un nome. Rimangono le realtà ed io non sono all'altezza della situazione da piccolo artigiano della conoscenza quale sono. Non ho capito La Cecla, alla fine della sua arringa sull'architettura perchè corra a "difendere" Renzo Piano. Considerando le sue, di La cecla, origini; innanzitutto perchè è in discussione l'attribuzione stessa di architettura, come Piano del resto ha sempre affermato: architetto sì, ma inventore, costruttore e chissà che cosa altro dopo il senatore. Non vorrei che alla sua morte, che spetta a tutti ovviamente, lo si voglia fare anche beato. Ma la questione architettura, così come ne ho avuti insegnamenti, rimane; è la tecnologia la nuova divinità alla quale in molti rivolgono preghiere, non ultime le Poste in uno spot pubblicitario. Per ora i robot non ci sono ancora, ma la stampante 3D si. Quando incontrerò La Cecla, porrò il curioso quesito; nel frattempo guardo e quando mi capita uso la tecnologia come una matita ben temperata consapevole che anche il "mozzicone" può essere usato sino all'ultimo mentre gli edifici ad alta valenza tecnologica no. Mi spiace per i devoti.
    ciao
    M.F.

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