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giovedì 27 settembre 2018

UTOPIA21 - SETTEMBRE 2018: L’AGGIORNAMENTO 2018 DELLA RICERCA “TRA-I-LAGHI”: DEMOGRAFIA



L’AGGIORNAMENTO 2018 DELLA RICERCA “TRA-I-LAGHI”: DEMOGRAFIA.
di Anna Maria Vailati e Aldo Vecchi

Gli scriventi hanno condotto nel 2015 una ricerca estesa ad un territorio (che include i 16 comuni allora aderenti ad “Agenda21Laghi”) compreso tra Verbano e lago di Varese, da Vergiate a Laveno, lavorando principalmente sui dati dei censimenti ISTAT 2010-2011 e del rapporto ISPRA 2015 sul consumo di suolo.
La ricerca denominata “tra-i-laghi” – integralmente consultabile all’indirizzo http://www.agenda21laghi.it/vivere_tra_laghi.asp - si compone di tabelle, grafici, cartine tematiche e commenti ed elabora i principali dati statistici successivi al 2000 per tale territorio in raffronto a Provincia di Varese, Lombardia ed Italia, riguardo a demografia, lavoro, pendolarità, istruzione, abitazioni, suolo.
Le tendenze identificate non sono omogenee all’interno dell’area e lo studio delle differenze consente di ipotizzare letture sulle aggregazioni territoriali dei fenomeni di maggior o minor benessere sociale e sui rapporti con l’area metropolitana milanese/lombarda.
Nel 2016 e nel 2017 gli Autori hanno prodotto due aggiornamenti annuali sui soli dati demografici, aggiornati al 2015 e 2016 (sempre consultabile sul suddetto sito), ed ora propongono un ulteriore aggiornamento sui dati fino al 2017, con specifici raffronti rispetto al censimento del 2011 e con un nuovo approfondimento sui dati relativi agli stranieri residenti.



Sommario:
-       commento sintetico
-       tabella 1 – popolazione 2016-2017
-       tavoletta A - popolazione 2015-2016
-       tabella 2 – movimenti demografici 2017
-       tabella 3 – popolazione 2011-2017
-       tavoletta B - popolazione 2011-2016
-       tabella 4 – incidenza stranieri 2017
-       tavoletta C - incidenza stranieri 2017
-       tabella 5 – variazione stranieri 2011-2017
-       tavoletta D - variazione stranieri 2011-2017


TAVOLE E TABELLE CONSULATABILI SUI SITI DI UTOPIA21 E DI AGENDA 32 LAGHI

COMMENTO SINTETICO
Con riferimento alla ricerca “tra-i-laghi”, come già nel 2016 e nel 2017, abbiamo ritenuto di sviluppare un nuovo aggiornamento sui dati demografici, comprendente il confronto tra la popolazione residente a fine 2017 (01 gennaio 2018) e quella di fine 2016, nonché quella del censimento 2011, i movimenti demografici (nati/morti, immigrati/emigrati) relativi al 2017, nonché un approfondimento sul numero degli stranieri residenti a fine 2017 ed in raffronto al censimento 2011; il tutto applicato ai Comuni che nel 2015 erano in Agenda21Laghi ed ai territori già assunti come riferimento, confermando tutti i criteri metodologici della più ampia ricerca pubblicata nel 2015.
Il calo della popolazione a livello nazionale, in atto dal 2015, è determinato dalla diminuzione del numero dei residenti di nazionalità italiana, non più compensato a sufficienza dall’afflusso di cittadini stranieri (in un quadro complessivo di aumento delle emigrazioni (sia di italiani che di stranieri) e dai connessi fenomeni di calo delle nascite ed invecchiamento della popolazione.
Anche per la nostra area-studio di 23 Comuni (di cui 16 allora inclusi in Agenda21Laghi) il 2017 conferma la tendenza del biennio 2015-2016 alla diminuzione della popolazione, dopo il decennio 2001-2011 di generalizzato e vivace aumento (in media dell’1% annuo) ed un periodo di transizione (2012-2014) con dati alterni nei singoli comuni, ma comunque con esito finale positivo per l’area in esame (+ 0,8%).
Le variazioni differenziate alla scala dei singoli Comuni – come già rilevato negli anni precedenti – possono dipendere in parte anche dal successo oppure dall’esaurimento di specifiche iniziative immobiliari, in un quadro di insieme del mercato edilizio piuttosto stagnante.
La diminuzione complessiva per l’area, nell’ultimo anno è di circa 200 persone, ma quasi di 1.000 negli ultimi 3 anni, su un totale di 86.000 residenti, calo superiore all’1% e quindi doppio rispetto alla diminuzione media nazionale, che è circa dello 0,5%, ed a fronte di una situazione ancora positiva per l’intera Lombardia e soprattutto per il Comune di Milano, e quasi stazionaria invece per la Provincia e per il Comune di Varese; tra i Comuni esterni considerati, solo Somma Lombardo mantiene ancora un saldo positivo costante (vedi tabelle 1 e 3, tavolette A e B, nonché gli aggiornamenti per il 2015 ed il 2016).
I 160 abitanti perduti nel 2017 (vedi tabella 2), infatti, risultano come differenza tra gli oltre 400 persi per il saldo naturale negativo (numero dei morti superiore ai nati) e l’afflusso di circa 250 dal saldo migratorio (numero degli immigrati superiore al numero degli emigrati, diversamente che nel 2015).
Si conferma pertanto un allarme per la salute demografica (e socioeconomica?) dell’area, tornata sotto la popolazione totale del 2012.
Confrontando l’andamento demografico complessivo dal censimento del 2011 a fine 2017 nei singoli Comuni dell’area, si rileva una situazione frastagliata, con tendenze positive nella fascia centrale tra Ispra e Bardello/Varano B., nonché a Sesto Calende ed a Leggiuno, ed alcuni casi di maggior calo, come Vergiate, Mercallo, Ranco, Brebbia e Sangiano, tutti diminuiti di oltre il 2%, come meglio specificato nella tabella 3 e nella connessa tavoletta B.
L’approfondimento sulla incidenza della popolazione straniera (tabb. 4 e 5, tavv. C e D) conferma presenze nettamente superiori al 10% solo ad Ispra e Ranco e alcuni comuni limitrofi, dove prevalgono le origini comunitarie dei dipendenti del Centro Comunitario di Ricerca (e famiglie), mentre si attestano poco sopra il 10% a Sesto Calende e nei maggiori Comuni esterni prossimi di riferimento (Arona, Castelletto, Somma Lombardo) e Varese (Milano invece si staglia al 19% su uno sfondo regionale dell’11,5% e nazionale dell’8,5%).
Poiché solo Ispra concentra un incremento percentuale significativo tra il 2011 ed il 2017 (più 3 punti, dal 12 al 15%) ed invece la media complessiva dell’area studio risulta costante al 8,8%, si può constatare una tendenza alla diminuzione della presenza di stranieri, riscontrabile in 9 Comuni (per lo più medio-piccoli) sul totale di 23; consultando il le tabelle delle nazionalità più rappresentate (dati di dettaglio da noi però non riprodotti)  si può osservare che i Comuni con stranieri in diminuzione hanno maggioranze di marocchini o albanesi (la cui diminuzione si può probabilmente collegare alla crisi del settore edilizio), mentre non diminuiscono i Comuni con maggioranze di ucraine (in prevalenza collaboratrici familiari), oltre alla suddetta enclave comunitaria del CCR di Ispra.




UTOPIA21 - SETTEMBRE 2018 - PSICOANALISTI SENZA UTOPIE?




Una lettura in parallelo – da parte di un non-specialista - tra le riflessioni, anche esterne alla disciplina psicoanalitica, di 3 studiosi interessati al futuro dell’umanità, dopo la caduta dei miti rivoluzionari della sinistra.   


Sommario:

Premessa
Zoja
Madera
Recalcati



PREMESSA

Il divario tra i concreti problemi della difficile convivenza (degli uomini tra di loro e tra gli uomini ed il pianeta Terra) e la prevalente inconsapevolezza di tali problemi tra gli uomini stessi, ed ancor più l’illogicità del consenso di massa verso movimenti populisti e sovranisti che esplicitamente teorizzano il trasferimento di ulteriori risorse dai poveri ai ricchi (flat tax, che dilaga dagli USA all’Italia, dalla Russia ai suoi ex-Satelliti), evidenziano l’importanza di tutte le scienze che indagano sulla soggettività.

Pertanto, anche se nella mia formazione ed esperienza di urbanista e di funzionario mi sono trovato più a mio agio a contatto con discipline prossime di carattere “oggettivo”, come la storia, la sociologia, il diritto e l’economia politica,  rilevo una spinta crescente ad incuriosirmi – sempre da dilettante – anche a materie più remote come l’antropologia e la psicoanalisi: quest’ultima evidentemente per me più ostica, per cui mi limito, in questa breve rassegna, a qualche commento a testi di 3 autori (qui ordinati per età decrescente) che – pur essendo psicoanalisti e forse però proprio per alcune loro peculiarità biografiche  - hanno voluto occuparsi anche del mondo esterno alla loro disciplina, ed adottare un taglio divulgativo (pur con notevoli differenze nella accessibilità del linguaggio; per questo oscillo tra il riassunto con parole mie e l’impiego invece di ampie citazioni).




ZOJA

Utopie minimaliste

Luigi Zoja, psichiatra di scuola Junghiana e laureato dapprima in economia, in “Utopie minimaliste” 1 percorre in lungo ed in largo i temi socio-economici e politici nel passaggio dal secolo XX al XXI, dalla caduta del comunismo e di ogni mitologia rivoluzionaria alla crisi dello stato sociale, dalla globalizzazione finanziaria allo stress ambientale del pianeta terra, cercando di applicare alla storia del mondo alcune categorie di interpretazione  proprie della sua esperienza di psicanalista (junghiano): a mio avviso con risultati alterni.

I contenuti più strettamente descrittivi delle contraddizioni e disuguaglianze nel mondo contemporaneo, ed a partire dal crollo del blocco sovietico, mi sono sembrati corretti, ma non particolarmente originali.
Pregevole mi è parso il tentativo di contrapporre al liberista ed anti-solidale “Tax Freedom Day” (il giorno dell’anno in cui il contribuente ha finito di lavorare per pagare tasse e contributi) un calcolo dei pochi giorni che all’uomo occidentale bastano ogni anno per procurarsi quanto è veramente necessario; più scontate le considerazioni sul disagio dei contribuenti verso il fisco a dimensioni nazionali, anche perché le nazioni appaiono scavalcate dalla globalizzazione, a fronte di una accettazione più facile del carico fiscale in presenza di istituzioni locali forti e federate (esempio svizzero).

Più interessanti, ma discutibili, le considerazioni antropologiche e psicologiche.
Un assioma di fondo di Zoja è che “tenere un diario, annotare i propri sogni,  o comunque  cercare di conoscere meglio se stessi, col tempo finirà coll’essere anche per la società un contributo più importante che il partecipare a manifestazioni rumorose”; raggiungere “l’individuazione” (cioè in sostanza la pace con se stessi) è la premessa ad una vera empatia sociale ed ambientale, fondata più sulla “vergogna” della corresponsabilità nei mali del mondo che sull’indignazione per il male altrui.
Per altro, dice Zoja, il raggiungimento dell’individuazione non si può programmare (mi sembra che assomigli un po’ alla grazia divina calvinista).

Pur comprendendo l’importanza dei riti e dei miti (archetipi junghiani) correlati alla militanza rivoluzionaria, Zoja considera molto dannosi i comportamenti astrattamente e “alienatamente” altruisti, propri del ciclo storico comunista, e propone la ricerca di un culto più intimista e rilassato di “utopie minimaliste”; confidando che nella rassegnata resistenza passiva della “generazione indifferente” possano maturare (anziché il narcisismo egoista, che a me sembra comunque incombente) comportamenti solidali, secondo la “naturale socialità dell’uomo” cara a Jung,  ed alternativi alla omologazione consumista, incontrando anche altre culture e altri archetipi: la natura, grande madre, ufficializzata anche nelle costituzioni delle nuove democrazie andine, e la comunità dei viventi, animali e vegetali inclusi, propria delle religioni orientali.  
(Temi che Zoja ritrova nella cultura occidentale solo di recente, con Peter Singer e Paolo De Benedetti, considerando Francesco d’Assisi come un eccezione isolata: trascura invece, a mio avviso, importanti pensatori e testimoni del Novecento, cresciuti tra cristianesimo ed illuminismo, come Albert Schweizer e Aldo Capitini, quest’ultimo rilevante non solo per il vegetarianesimo e la non-violenza come strumento di lotta, ma anche per la ricerca della felicità entro il lavoro, “endoponia”, che può assomigliare alla “individuazione”, su un versante più laburista).

Proseguendo un ragionamento di Freud, Zoja contempla uno sviluppo a tappe del superamento dell’ego-centrismo occidentale attraverso Galileo e Copernico (la terra perde il centro nell’universo), Darwin (anche l’uomo appartiene al regno animale), Freud stesso (l’io razionale come parte minoritaria della psiche) per arrivare ad un pieno rispetto di tutte le specie viventi e degli equilibri dell’ecosfera.
(Si potrebbe rilevare un parallelo con il pensiero di Hannah Arendt, riepilogato su Utopia21 da Antonio G.Balistreri 2 ).
Correlato è il percorso culturale proposto attraverso:
- Thoreau e Chomsky (contro Foucault, per il socialismo libertario, senza paradigmi preconcetti ed anche  come autorealizzazione dell’individuo),
- Borges (sorprendentemente anti-nazionalista)
- Enzensberger sul minimo di civiltà (le condizioni per la convivenza civile, assicurate in ristretti luoghi del globo) e sulle contraddizioni del superfluo, che portano alla povertà di spazio  e di tempo.
Con ulteriori riflessioni di Zoja sull’attesa che divora la vita, vuoi per eccesso di pretese (ad esempio la non accettazione dell’invecchiamento), vuoi invece per carenze di garanzie (il precariato).

Mi sembra interessante la proposizione dei “diritti dell’uomo nell’ambiente” non solo come difesa dagli inquinamenti, ma come “diritti positivi” all’acqua, all’aria respirabile, al cibo, alla luce ma anche al buio ed al silenzio, al poter camminare sulla superficie terrestre senza pericoli e barriere: il tutto anche come diritto alla salute psichica (e qui però mi sarei aspettato di apprendere maggiori dati sulla concretezza del disagio e del benessere per l’umanità urbana contemporanea).  
Più debole invece mi pare la proposizione dei diritti della natura, che non solo sono indeboliti, come dice Zoja, perché gli animali non votano, ma anche (tema ignorato da Zoja) per i rischi di fondamentalismo impliciti in ogni rappresentanza della natura assunta da gruppi umani (rischi maggiori, secondo me,  di quelli insiti nelle  militanze rivoluzionarie socialiste dei precedenti due secoli; perché alla fin fine i poveri, votando, magari in modo sbagliato, possono liberarsi dei falsi rappresentanti: i criceti invece no). 

Non mi ha convinto affatto la sua semplificazione sulle “generazioni”: la “generazione impegnata”, dal dopoguerra agli anni 70, che lottava contro le disuguaglianze in un periodo in cui il capitalismo, mitigato dalla socialdemocrazia, consentiva il massimo di relativa uguaglianza, e la successiva “generazione indifferente”, che non lotta più, mentre le disuguaglianze nei paesi sviluppati tornano ad espandersi ai massimi livelli.
Avendo appartenuto alla prima, rammento benissimo che la componente “impegnata” riuscì, chiassosamente e capillarmente, a conquistare una centralità politica e mediatica: ma era una componente minoritaria dell’universo statistico dei giovani di allora (ad esempio – come già ho ricordato in “68” 3 , sono certo che la maggioranza dei miei compagni di liceo non ha mai preso parte ad alcuna manifestazione), e mi sembra scorretto confondere la parte con il tutto, trascurando i conflitti interni alle generazioni.

Non mi convince nemmeno il paradigma di Che Guevara come padre irresponsabile sia verso i suoi figli naturali che verso i suoi figli politici, anche se appare efficace la descrizione della parabola discendente del militante rivoluzionario frustrato (e non eroicamente caduto), che diviene incapace di leggere la realtà e di abbandonare strumenti concettuali ormai fallimentari e controproducenti: tutte queste critiche mi sembrano efficaci applicandole a chi ha scelto una militanza volontaria, molto meno per tutti coloro che hanno lottato, e lottano, semplicemente prendendo coscienza della loro oggettiva condizione subalterna e di sfruttamento (ed a cui manca il tempo forse per sfogarsi sul suddetto lettino dello psicanalista).

Per finire, anche se è chiaro il fallimento del comunismo nel tentativo di realizzare un uomo nuovo (da Stalin a Pol Pot) ed anche l’effetto controproducente dell’estremismo rivoluzionario (Che Guevara), occorre forse chiedersi se le mitigazioni di tipo socialdemocratico al capitalismo nel periodo 1945-75 (nei soli paesi sviluppati) sarebbero state possibili senza che aleggiasse altrove lo “spettro del comunismo”; ed infatti con il declino e poi il crollo del blocco sovietico abbiamo assistito ad un rilancio del liberismo finanziario selvaggio.
D’altro canto la strada di migliorare l’uomo per migliorare il mondo, pur in chiave diversa dalla “individuazione” junghiana, è stata a lungo predicata dal cattolicesimo democratico (quando la Chiesa ha perso il potere temporale e la pretesa di insegnare ad obbedire ai sovrani cattolici), ma non mi sembra con grandi risultati sociali, almeno all’interno dei paesi ricchi.
Forse anche il riformismo, per essere efficace, ha bisogno di qualche dose di utopia non troppo minimalista e di una dimensione collettiva ed in qualche misura militante, a partire dagli interessi concreti dei soggetti sociali (probabilmente a partire dai paesi poveri, e sperabilmente in armonia con la grande-madre-terra).
Inoltre la giusta attenzione alla psicologia individuale non può trascurare quel mondo a se che costituisce la psicologia delle masse ed influisce sui comportamenti collettivi (da Gustave Le Bon ad Elias Canetti).







MADERA

Sconfitta e utopia. Identità e feticismo attraverso Marx e Nietzsche

Romano Madera (intellettuale di origine varesina, inizialmente giovane cattolico, a seguito del 68 militante del Gruppo Gramsci, successivamente filosofo – ora professore emerito - ed anche psichiatra di scuola junghiana), all’interno di un testo4 più ampio, complesso e difficile, su cui mi riservo di tornare, riproduce un suo breve saggio del 2011,  “IL CODICE GENETICO DELLA CIVILTA’ DELL’ACCUMULAZIONE NELLE SCOPERTE DI MARX”, dove riconosce in Marx una scoperta fondamentale, profetica rispetto alla situazione sociale del suo tempo: il “feticismo” della merce.
Secondo Madera, il nocciolo della teoria marxiana, relativo al rapporto tra lavoro salariato e capitale, ma comprensivo dell’intera economia politica, consiste nel sovrapporsi delle contraddizioni tra valore d’uso e valore di scambio, tra lavoro privato e lavoro sociale, tra lavoro concreto e lavoro astratto, e – per finire – tra la mercificazione delle persone e la “personificazione” delle merci, tipica del moderno consumismo (mentre il capitalismo nella sua fase sorgente, si era avvalso delle preesistenti ideologie del lavoro e del risparmio).
Sino ad arrivare effettivamente oggi, con la globalizzazione dei mercati, alla monetizzazione di beni ambientali ed immateriali o virtuali ed all’assoggettamento alla logica capitalistica di funzioni intellettuali un tempo autonome, di carattere direzionale oppure creativo, dello spettacolo e del tempo libero.
Il lavoro, parcellizzato e dequalificato (salvo segmenti privilegiati, ma sottoposti alla pressione di orari senza limiti oppure di erogare prestazioni non pagate), cade in balia di forze incontrollabili, con parallela atomizzazione delle relazioni sociali e private, e diffondersi dell’egotismo e del narcisismo, con un dilagare del desiderio che trova limiti solo nell’impossibilità materiale di appagamento (il che mi sembra assomigli alla descrizione della “società liquida” da parte di Zygmunt Bauman5,6, autore però non citato nella ricca bibliografia di Madera, che spazia invece da Debord a Marcuse, da Severino ad Heidegger, da Musil a Derrida, da Nietzsche a Foucault, da Lasch a Ehrenberg ed altri a me francamente sconosciuti).
Anche alla luce della sua esperienza professionale, Madera rileva una “ruolizzazione parcellizzante”, che sottrae ai rapporti del lavoro con la natura e con i bisogni, e rende i lavoratori/consumatori, subordinati, “terminali incorporati nel megautoma universale che minaccia la natura stessa”, mentre – malgrado la retorica dei diritti universali – gli ultimi della terra restano esclusi dall’accesso a beni fondamentali, quali l’acqua, il cibo, la salute.

Ma – qui si apre la critica specifica di Madera a Marx – il Marx ‘del Capitale’ (schematizzando), preconizza una classe operaia tutta interna alle leggi produttive capitalistiche e portata a riprodursi in condizioni di “eccedenza” quantitativa rispetto al numero dei posti di lavoro, riproponendo pertanto la concorrenza tra i lavoratori stessi, che costituisce il punto di forza primo del capitale nell’assoggettare la merce-lavoro; mentre il Marx ‘del Manifesto’ (sempre schematizzando) ipotizza una “coscienza enorme” affinché la classe operaia riacquisti il controllo del ciclo produttivo, sottraendosi al “feticismo”.
La storia – secondo Madera – ha abbondantemente dimostrato che il ‘Marx del Manifesto’ aveva torto e che “l’analisi marxiana, depurata dalle purtroppo vane speranza dialettiche di Marx, insegna a capire perché il capitale sia insuperabile, e proprio per il suo carattere feticistico, dalle rivendicazioni economico-politiche dei lavoratori”, riassorbibili anche perché l’immaginario dei lavoratori è pesantemente condizionato dall’ideologia capitalistica (nessuno ipotizza più una società radicalmente diversa).
La conclusione di Madera è che la rivoluzione non si può fare contro il capitale, né la si è fatta con “Il Capitale”, e che – come dice nel sotto-titolo del saggio - la teoria marxiana si è rivelata “una diagnosi straordinaria, una prognosi mediocre ed una terapia inconsistente”; anzi la critica “scientifica” dell’economia politica e la nobile speranza della rivoluzione (analogamente alle promesse irrealizzabili di Prometeo) si sono configurate, involontariamente, come una “utopia”; sconfitta, sul piano delle ideologie, da quella stessa ‘religione del Dio-denaro’ che l’analisi marxiana aveva denunciato e demistificato.

Tuttavia Madera non esclude che – recuperando la critica marxiana al capitalismo nell’orizzonte della vita - e valorizzando la concretezza delle biografie dei soggetti, che si trovano a disagio in questo sistema di produzione e consumo (qui viene utile l’armamentario psicanalitico, analogamente alla cura didattica a base di antropologia proposta da Marc Augé), possano svilupparsi piccole concrete “eutopie”, nicchie di superamento della logica dell’accumulazione, senza pretese di alcuna unità ecumenica, ma con la speranza di sopravvivere ad un eventuale collasso degli attuali assetti sociali.
Ovvero recuperare Marx come un “ultimo profeta di Israele” (mi chiedo se non sia il penultimo, prima di Freud) anche se al momento la salvezza non può essere per tutto il popolo ma solo – figurativamente - per il “resto di Israele” (cose che succedevano frequentemente ai profeti di Israele, perdendosi tribù defilate oppure in temporanea cattività).

Di mio aggiungerei solo un richiamo alla lettura, in parte diversa, che Boltanski e Chiapello rivolgono al “3° spirito del capitalismo”,7,8 perché è vero che riassorbe dinamicamente le diverse successive forme di critica, ma si apre anche a nuove contraddizioni, ed una attenzione potenziale al sempre più esteso esercito di lavoratori, salariati o subordinati, e talora schiavizzati, diffuso nei terzi e quarti mondi della globalizzazione, perché poco sappiamo della loro soggettività, più avvezza alle religioni tradizionali, che non al lettino dell’analista  o al sindacalismo trade-unionista, ma che potrebbe riservare qualche sorpresa allo “stato delle cose presenti”.



RECALCATI


Ritratti del desiderio

Massimo Recalcati (prima agrotecnico e filosofo, poi psicanalista lacaniano), nella introduzione a “RITRATTI DEL DESIDERIO”,9 difende la psicoanalisi dagli attacchi provenienti dalle più moderne forme di psicoterapia e di neuro-scienze, rivendicandone innanzitutto l’istanza “etica”.
Riporto il suo pensiero con larghe citazioni, stante la chiarezza del linguaggio adottato: “Se il Novecento è stato il secolo del sacrificio della singolarità, schiacciata sotto il peso inumano dell’universale ideologico della Causa, la teoria e la pratica della psicoanalisi, sin dalla sua origine, si è posta [SIC: io avrei scritto “si sono poste”] al servizio del carattere insacrificabile della singolarità. Non certo della natura borghese dell’Io e dell’individualismo liberista, ma di quella singolarità più ampia, che sconfina in zone dell’essere che eccedono la coscienza e la sua illusione (cartesiana) di padronanza. La singolarità irregolare e anarchica dell’inconscio impone infatti di ripensare innanzitutto il concetto stesso di identità”.
Il merito fondamentale di Freud è di aver scoperto che “… l’eccessivo compattamento identitario del soggetto non è una virtù da salvaguardare, ma è la vera malattia da curare. La divisione multipla interna al soggetto – tra coscienza, preconscio e di inconscio …. _ ci costringe infatti a ridisegnare la nostra idea della vita umana. L’Io non è mai padrone in casa propria: l’alterità non è innanzitutto esperienza dello straniero che viene dal di fuori, ma del nostro essere, della nostra più profonda intimità” …”Ne deriva …un’inedita concezione della malattia e della sofferenza psichica che scaturirebbe non tanto da una assenza o da una debolezza dell’Io, ma da una sua postura troppo rigida, da una mancanza di democrazia interna che vorrebbe escludere la voce dell’inconscio dal parlamento interno del soggetto”.
Recalcati prosegue esplicitando che “… il volto dello straniero che si tratta di accogliere…. “ è “quello del desiderio… E’ questo un punto nevralgico presente nel pensiero di Freud, ripreso con forza da Lacan: non solo la vita si ammala per un eccesso di solidificazione dell’identità, ma anche quando essa volta le spalle alla chiamata del desiderio, quando tradisce … la sua vocazione, il suo talento fondamentale. Questo desiderio …. non può essere normalizzato, irreggimentato, assoggettato da nessun principio, compreso quello di realtà” (e qui interrompo le lunghe citazioni per avanzare qualche dubbio: anche se probabilmente il tema della responsabilità è trattato da Recalcati in altri suoi testi, tra cui la trilogia su Telemaco, paternità e maternità, a leggere questo brano mi sembra che l’illimitata espansione del desiderio riproponga una sorta di narcisismo dell’inconscio, non meno pericoloso di quello dell’Io).
“La difesa della singolarità comporta l’opzione per un pensiero laico, anti-dogmatico, anti-fondamentalista, critico nei confronti di ogni assimilazione del singolare nelle procedure anonime dell’universale. E’ il tratto, se si vuole, irriducibilmente ‘femminista’ della psicoanalisi: la cura è cura per il particolare … Questo comporta un attrito fatale nei confronti di tutte le pratiche di normalizzazione autoritaria e di medicalizzazione disciplinare della vita. La vita del desiderio – la vita della singolarità – è sempre vita storta, difforme, deviante, bizzarra.”
Per cui … “La psicoanalisi è una teoria critica della società: il potere che impone una misura unica della felicità diviene necessariamente totalitario.”
Perché d’altronde “La psicoanalisi svela che esiste nell’uomo una tendenza pulsionale ad amare più le catene della [che non la] propria libertà, a disfarsi del proprio desiderio, a consegnarsi nelle mani di una autorità che in cambio della cessione della propria libertà, assicurerebbe la protezione della vita. E’ la dimensione ‘fascista’ della psicologia delle masse ….”
Al termine di questa appassionata ed appassionante difesa non solo della psicoanalisi, ma della essenza delle libertà individuali (ed ancor più dell’attenzione per i diversi), mi chiederei ancora, però, su cosa possa basarsi una proficua convivenza sociale: escludendo che il Potere imponga una felicità standardizzata, i soggetti riusciranno a dialogare, anche al di là dei singoli desideri, per stabilire fini e mezzi di un minimo di beni comuni? Ad esempio, se tutti giustamente coltivano talenti artistici, ci si riesce ad accordare su dei turni di corvée per procurarsi il cibo e rimuovere i rifiuti? E come la mettiamo con la divisione capitalistica del lavoro, che a modo suo i problemi pratici li ha già risolti, ma ci lascia enormi scorie di infelicità individuali e collettive? 

E’ lo stesso Recalcati (“la Repubblica” del 28-11-17) ad appellarsi pesantemente al ‘principio di realtà’, quando invita la sinistra a ri-leggere il Turati del 1921 (contro lo scissionismo settario del nascente partito Comunista e – profeticamente - sugli esiti della rivoluzione sovietica), nonché ad elaborare finalmente il lutto per la caduta dei miti novecenteschi, da Gramsci alla Resistenza, che alimentano un massimalismo conservatore, ostile alla concretezza del riformismo possibile.
Invita anche a individuare (con Renzi), in Obama la sinistra di oggi.
In questa dissertazione, alquanto professionale riguardo alla salute mentale della sinistra (ma esente da attenzione alla salute mentale di larga parte della popolazione immersa nelle trasformazioni sociali connesse alla globalizzazione), Recalcati giustamente propone di elaborare proposte politiche a partire dai problemi attuali.
Esclude però il ricorso all’utopia, che identifica con il passatismo della sinistra nostalgica.

Sul che dissento nettamente, perché il tramonto del “socialismo reale” e la necessaria approfondita riflessione su tale tramonto (e sulle ingombrati macerie che ha lasciato, da Putin alle tendenze ora egemoni negli ex-satelliti dell’URSS) non escludono, ma anzi implicano una ricerca radicale e senza pregiudizi sulle contraddizioni del mondo di oggi, che mi pare sia modernamente capitalista, ma non per questo debba necessariamente permanere tal quale per sempre.
Il massimalismo è improduttivo, ma di riformismo non ce n’è uno solo: senza le utopie di Cesare Beccaria o di Maria Montessori, di Gandhi o Martin Luther King, che riformismo avremmo oggi?

Sperando di sopravvivere a Trump, non credo ci sia solo Obama nei nostri orizzonti: penso ad esempio a  Carlin Petrini, a Pepe Mujica, a Papa Francesco …  

Fonti:
1.    Luigi Zoja “UTOPIE MINIMALISTE – UN MONDO PIU’ DESIDERABILE ANCHE SENZA EROI” – Chiare Lettere, Milano 2013
2.    Antonio G. Balistreri “HANNAH ARENDT. Ecc.” su UTOPIA21 di luglio 2018 https://drive.google.com/file/d/1ZFTPp_LIiWObYrSRZv2fe-YtWIprgwaA/view?usp=sharing e su questo stesso numero, settembre 2018
3.    Anna Maria Vailati e Aldo Vecchi “Sessantotto” su UTOPIA21 del maggio 2018 https://drive.google.com/file/d/19F8htY0me_Mfsd4CcFhXha7piLEq3BL_/view?usp=sharing
4.    Romano Madera “SCONFITTA E UTOPIA. IDENTITÀ E FETICISMO ATTRAVERSO MARX E NIETZCHE”  - Mimesis edizioni, Sesto San Giovanni 2018
5.    Zygmunt Bauman “MODERNITA’ LIQUIDA” – Laterza, Bari 2015
6.    su Bauman vedi anche Antonio G. Balistreri “ZIGMUNT BAUMAN INTERPRETE DEL NOSTRO TEMPO” in UTOPIA21 maggio 2017 https://drive.google.com/file/d/0BzaFw8WEAEgYcXpjMlpzYTFWQjQ/view?usp=sharing
7.    Luc Boltanski e Eve Chiapello “IL NUOVO SPIRITO DEL CAPITALISMO” – Mimesis, Milano/Udine 2014
8.    Aldo Vecchi “IL TERZO SPIRITO DEL CAPITALISMO, INDAGATO DA BOLTANSKI E CHIAPELLO” su UTOPIA21 gennaio 2018 https://drive.google.com/file/d/18rOwVEv0Uv-uYPjmBw7OdeXY4aKczbyg/view?usp=sharing e su questo blog
9.    Massimo Recalcati “RITRATTI DEL DESIDERIO” – Raffaello  Cortina Editore, Milano 2012

UTOPIA21 - SETTEMBRE 2018: EDITORIALE - GOVERNO DEL CAMBIAMENTO?


GOVERNO DEL CAMBIAMENTO?
di Aldo Vecchi e Fulvio Fagiani

Utopia21 pone attenzione prioritariamente alle prospettive di fondo, rispetto alla cronaca, e si tiene abitualmente fuori dalla mischia polemica quotidiana; ma la Redazione ritiene che il “Governo del Cambiamento” (ed il consenso di cui gode nel Paese) mettano in luce questioni di grande portata (per altro percepibili a scala mondiale), che richiedono valutazioni, anche su diversi piani di lettura, esplicitate in questo editoriale a doppia firma.

da pag. 1 a pag. 6 il testo di Aldo Vecchi
“SE QUESTO E’ IL CAMBIAMENTO”

Riassunto:
Metodi
Contenuti programmatici
Asse politico

da pag. 7 a pag. 9 il testo di Fulvio Fagiani
“LA NOTTE IN CUI TUTTE LE VACCHE SONO…GRIGIE”

Riassunto:
Il ribaltamento mezzi-fini nella politica corrente.
Nella notte tutte le vacche sono grigie.
Continuità e discontinuità.
Una visione del futuro


SE QUESTO E’ IL CAMBIAMENTO
di Aldo Vecchi
Riassunto:
Metodi
Contenuti programmatici
Asse politico

METODI

A fronte della faticosa gestazione del nuovo governo 5Stelle/Lega, molti commentatori hanno già evidenziato le anomalie di metodo rispetto al dettato costituzionale (da ultimo riguardo al rispetto del ruolo del Presidente della Repubblica nella nomina sia del Primo che degli altri Ministri); mi pare di poter sottolineare che in questi comportamenti affiorano molte analogie con le abitudini in atto nella cosiddetta Prima Repubblica per la formazione di governi di coalizione (abitudini attenuate ma non scomparse nel periodo delle leggi elettorali maggioritarie, tra il 1994 ed il 2013, cosiddetta Seconda Repubblica):

- gli accordi di governo comportavano lunghe negoziazioni preliminari sui programmi (e non solo sulle “poltrone”: un ministero del Bilancio affidato al socialista Antonio Giolitti, negli anni 60 o 70, ad esempio, implicava precise, seppure poi spesso disattese, concessioni della DC in materia di politica economica), anche se non assumevano la forma quasi privatistica del “contratto”, ma quella più sfumata delle “dichiarazioni programmatiche” (la riduzione di 7 decenni di storia repubblicana ad un mero balletto di poltrone mi sembrerebbe una inaccettabile caricatura);

- il “manuale Cencelli” per la spartizione ed il bilanciamento delle cariche parlamentari, governative e sotto-governative vigeva allora come vige oggi, perché è una oggettiva legge della politica, salvo che dagli anni ’40 ad oggi nessuno aveva promesso di trasmettere tutte le trattative in diretta streaming, mentre oggi chi lo ha promesso ha anche poi rapidamente cancellato tale dogma;

- il ventilato “comitato di conciliazione” tra gli alleati di governo per dirimere eventuali controversie, assomiglia parecchio, in sostanza, alla tradizione delle “verifiche di maggioranza” in cui i maggiorenti dei partiti sottoponevano Governi e Ministri (ma anche Sindaci e Assessori, ecc., un po’ meno dopo le leggi sull’elezione diretta dei Sindaci e dei Presidenti di Regione).

Quanto sopra a mio avviso può attenuare lo scandalo per gli strappi istituzionali (anche se vigilare è comunque opportuno da parte dell’opinione pubblica, che ad oggi però può contare sul Presidente  Mattarella), ma evidenzia quanto poco di nuovo ci sia – sotto questo profilo – nel conclamato “Governo di Cambiamento”.


CONTENUTI PROGRAMMATICI

Riguardo ai contenuti, la maggior parte dei commentatori (tra cui gli autorevoli professori Cottarelli e Perotti) ne ha già evidenziato la probabile insostenibilità economica, che potrebbe tradursi in una insostenibilità sociale quando l’Italia cominciasse a risentire dei contraccolpi finanziari evocati dall’allegro ricorso ad un ulteriore indebitamento, anche se a breve termine potrà prevalere il consenso demagogico alle diverse promesse elettorali enunciate. Il “cambiamento” promesso è vasto, resta da vedere quanto sarà attuabile e quanto (poco?) sarà apprezzabile; perché propone alcuni rimedi agli effetti del neo-liberismo (vedi anche nel primo decreto sul Lavoro, alquanto pasticciato, ma molto propagandato), mentre ne rafforza gli elementi strutturali (disuguaglianze).

Anche se l’evidenza delle cose, dette, fatte e non-fatte, dal solo Ministro degli Interni, in queste prime settimane, qualifica a sufficienza il “Governo del Cambiamento”, ho ritenuto doveroso (anche con riferimento al mio testo di raffronto sui programmi elettorali) compiere una mia valutazione analitica sulla ‘sostenibilità ambientale’ del Contratto di Governo attraverso la lettura del testo ufficiale1 siglato dalle due forze politiche e fatto proprio dal Presidente del Consiglio, e quindi dal Parlamento.

La discriminante dell’UMANITÀ emerge a chiare lettere anche dal testo, e non solo dalla priorità mostrata dal Governo nel respingere profughi e migranti e nel criminalizzare le Organizzazioni Non Governative impegnate nei salvataggi dei naufraghi nel Mar Libico: “UMANITÀ” che non compare mai quale soggetto unitario, titolare dei problemi globali del pianeta Terra (ci sono solo “gli italiani”, oppure “i cittadini”), ed “UMANITÀ” che si esclude di provare come sentimento portante ed empatia nei confronti degli ultimi della Terra, né per accoglierli quando bussano alle nostre porte (i richiedenti asilo visti come dovere mal sopportato, da ripartire con gli altri paesi europei, migranti visti come “la minaccia dal fronte meridionale alla sicurezza della nazione”), né per “aiutarli a casa loro”, perché dei programmi di cooperazione internazionale non vi è traccia nel contratto, troppo impegnato sul benessere “dei cittadini”.
A mio avvio senza compartecipazione con l’intera umanità non esiste una vera sostenibilità ambientale, e non solo per motivi di equità, ma anche perché l’aggravamento degli squilibri internazionali alla lunga non giova né alla stabilità politica (e quindi alla sicurezza militare) né alla implementazione delle politiche ecologiche.

Altra questione fondamentale è quella delle DISUGUAGLIANZE SOCIALI, che nel Contratto sono esaminate solo verso il basso, prospettando ai disoccupati (italiani) il reddito di cittadinanza ed il sostegno nella ricerca del lavoro, il salario minimo e la riaffermazione dei diritti sociali fondamentali (istruzione e sanità; acqua pubblica; NOTA: non invece la casa, l’informazione, l’energia), ma volutamente ignorate verso l’alto, con 3 sole eccezioni:

- la ricerca di una tassazione dei colossi multinazionali del web, ma isolata da una visione complessiva sia del ruolo monopolistico e manipolatorio (sui nostri dati) da parte di tali imprese, sia del controllo fiscale su tutte le multinazionali e sul connesso problema dei ‘paradisi fiscali’;

- i privilegi della ‘casta dei politici in pensione’ (vitalizi) e dell’attigua ‘casta dei pensionati d’oro’ (la cui auspicabile eliminazione produrrà pochi quattrini, mentre il denunciarli ha fruttato milioni di voti…).

La contestuale promessa della “flat tax”, cioè dell’abbattimento delle aliquote progressive nelle imposte sui redditi,  equivale alla proclamazione della SANTITÀ DI TUTTI GLI ALTRI PRIVILEGI SOCIALI, derivanti da rendita o da profitto, dagli altissimi  stipendi dei manager e dai proventi delle speculazioni finanziarie, perché, apparentemente, non sono soldi ‘tolti ai cittadini’ (salvo promettere a parte di questi privilegiati anche convenienti forme di condono fiscale, queste sì a spese degli altri cittadini, che spero in tal caso scendano in piazza gridando “Onestà, Onestà”).
E senza lotta alle disuguaglianze, sempre a mio avviso, non c’è sostenibilità ambientale, non solo per motivi etici, ma perché il pianeta Terra non potrà sopportare a lungo l’espansione di consumi opulenti, né il sistema finanziario subire l’accumulo senza fine di ricchezze finanziarie ‘vaganti’ (soprattutto se vagano ‘off shore’).

Tralascerei, benché decisiva, la questione della COMPATIBILITÀ ECONOMICA delle promesse di governo rispetto alle risorse disponibili, perché argomento già dissezionato da molti autorevoli commentatori (forse tra questi va contemplato anche il ministro dell’Economia Tria, i cui  pacati ragionamenti sembrano estranei agli slanci della compagine del suo stesso governo: vedremo in queste settimane  chi scriverà la ‘Finanziaria’ e cosa ci scriverà dentro): ma il conflitto tra le facili promesse e la dura realtà economica non mina la sostenibilità ambientale solo sul fronte della stabilità dei prezzi e dei risparmi (a mio avviso non c’è sostenibilità ambientale senza sostenibilità socio-economica, e non possono esserci priorità ecologiche di spesa se franano le finanze pubbliche), ma anche nella prospettiva (per altro, credo, fallace) di un rilancio della crescita del PIL oltre il 3% annuo, in un paese già sviluppato, misura che renderebbe forse credibili le ipotesi di diminuzione del debito pur attraverso un temporaneo maggior ‘deficit spending’ (un keynesismo assai fuori contesto), ma minaccerebbe in sostanza la stessa compatibilità ambientale in quanto fondato su un eccesso di ‘consumi opulenti’.

E qui vengo al punto specifico del paragrafo ambientale del Patto di Governo, che risulta decorosamente scritto (con positivi accenni allo stop al consumo di suolo, ai trasporti pubblici, alla prevenzione idro-geologica – ma non a quella anti-sismica - ), però imperniandosi su un concetto di ‘ECONOMIA CIRCOLARE’ che prevede, per le risorse non rinnovabili, un obbligo di investimenti compensativi per la ricerca di risorse alternative (e rinnovabili), ma non mette in discussione il tabù della CRESCITA INFINITA (il tema della ’decrescita felice’, echeggiato dal M5Stelle dei primordi, si è estinto lungo il percorso di avvicinamento alla governabilità, ben prima di associarsi alle armate leghiste): così ai trasporti pubblici sembra affiancarsi una allegra simpatia verso i veicoli privati, purché elettrici, e gli allarmi per le problematiche di manutenzione del territorio (fragilità idro-geologica e sismica) non si coniugano con la necessità di ingenti e prioritari investimenti pubblici (od agevolati), investimenti non quantificati dal Patto, ed a mio avviso non compatibili con le promesse di tassazione non progressiva e di sostegno ai consumi privati (anche attraverso il reddito di cittadinanza).

Per finire questa carrellata sui punti nodali del Patto e della sua sostenibilità (mi riservo di commentare successivamente altri temi presenti nel Patto, ma che non a caso sono stati ignorati in Parlamento e rimangono marginali nel confronto mediatico, come democrazia diretta, scuola, università) mi sembra che la carenza più vistosa sia quella sulla VISIONE INTERNAZIONALE: nel documento l’Italia appare vessata dall’Europa (e si elencano puntigliosamente le possibili rivendicazioni, in parte anche condivisibili) e minacciata a Sud dai gommoni dei migranti; in questa chiave la Russia è solo un cliente commerciale per il ns. export agroalimentare, da liberare dalle sanzioni, ed un possibile alleato ‘contro il terrorismo’ (tranne evidentemente quello dei suoi amici governativi siriani, ceceni o egiziani).
Non si coglie nulla di quanto tragicamente sta avvenendo nel mondo, riguardo al ritorno ai nazionalismi, dalle guerre commerciali/daziarie alla nuova corsa agli armamenti, riguardo al rafforzarsi dell’autoritarismo in regimi formalmente democratici, come la Turchia e la suddetta Russia, oppure formalmente ‘comunisti’, come la grande potenza cinese, riguardo all’incancrenirsi delle tensioni in Medio Oriente (malgrado la sconfitta dell’ISIS), riguardo all’affanno delle democrazie in America Latina, per non parlare dell’Africa, e nemmeno sulla pericolosità della presidenza Trump, con particolare attenzione all’abbandono delle opzioni ambientaliste sul cambio climatico, ed anche – a mio modesto avviso -  alla permanenza di basi americane (non basi “NATO”) in Italia, al comando di un megalomane imprevedibile e fuori dalla sovranità italiana (dove va a finire il sovranismo?); nonché allo strapotere dei nuovi monopoli del web, delle imprese multinazionali e della grande finanza.

E’ rispetto a questa realtà che andrebbe definito il ruolo dell’Italia in Europa, ed il ruolo dell’Europa nel mondo (e non solo per le grandi questioni della pace, del clima, dell’energia, ma anche di conseguenza per gli indirizzi di politica industriale e di politica della ricerca), mentre mi pare abbastanza trascurabile il possibile ruolo autonomo della sola Italia in questo tipo di mondo: a che vale strappare dai partners europei uno 0,5% di deficit in deroga oppure il trasferimento di una quota di richiedenti asilo, se non si contrasta (o forse lo si auspica?) il possibile tracollo del disegno complessivo dell’Europa e del suo insostituibile posto nel mondo come faro dei diritti/del diritto e della coesistenza pacifica, dell’ambientalismo  e dell’inclusione sociale (meglio se un po’ di più di quella sopravvissuta alla crisi)?
Quale sarà la “sostenibilità ambientale” di un mondo senza una seria unità europea? Assai precaria ed improbabile, ancora a mio avviso.


ASSE POLITICO

Mi pare invece che si possa esprimere di già qualche giudizio sull’asse politico del contratto programmatico tra Lega e 5Stelle, valutando ciò che effettivamente unisce le 2 componenti, oltre alla semplice sommatoria delle rispettive istanze programmatiche (pur talora contraddittorie), che ciascuna parte cerca di far valere dalle postazioni ministeriali conquistate (Salvini agli Interni contro i migranti; Di Maio al Lavoro per il reddito di cittadinanza, ecc. ecc. ecc.).

Per una valutazione di questo genere, a mio avviso occorre risalire a monte della crisi economica dell’ultimo decennio, e cioè alle radici del declino delle democrazie parlamentari (nonché in particolare delle forze politiche socialdemocratiche) e degli stessi stati nazionali, manifestatosi sul finire del Novecento, a fronte della globalizzazione e dell’offensiva neo-liberista.

Le risposte tentate, con qualche parziale successo dagli anni ’90 fino a ieri, dal multiforme schieramento del Centro-Sinistra italiano, sono consistite da un lato nel rafforzamento delle istituzioni sovranazionali (Europa innanzitutto, ovvero una nuova sovranità condivisa e con dimensioni adeguate al mondo contemporaneo, ma anche ONU, WTO, ecc.) e dall’altro lato in una riforma del sistema politico nazionale (primarie, leggi elettorali maggioritarie, bipartitismo, aggiornamenti della Costituzione). Senza una sostanziale alternativa, ma solo parziali attenuazioni, rispetto alle politiche economiche neo-liberiste: subalternità in parte subita prima di Renzi, rivendicata ed esibita con Renzi.

Alle loro origini, i due movimenti, che ora convergono al Governo, hanno incarnato invece due divergenti possibili correttivi:
- la Lega, quando era Nord, aveva raccolto l’egoismo sociale delle provincie più ricche sotto le bandiere delle identità locali e del federalismo (non antagonistico alla ”Europa delle Regioni”, ma contrapposto a “Roma Ladrona”),
- i 5Stelle, allo stato nascente, avevano polarizzato il rancore diffuso contro “la casta” in direzione della democrazia diretta (uno-vale-uno, i portavoce a rotazione, la diretta streaming, le votazioni in rete).

Entrambe queste posizioni sono state progressivamente o repentinamente abbandonate e superate, senza un granché di spiegazioni (anche se permane un ministro senza portafoglio “alla democrazia diretta”, e talvolta circa quarantamila fedelissimi della piattaforma Rousseau vengono chiamati a ratificare le scelte dei vertici del non-partito, decidendo per conto di milioni di elettori), assumendo come elemento unificante e caratterizzante la contrapposizione allo spirito solidaristico sovranazionale, ed in particolare verso l’Europa e verso i profughi e migranti.
In particolare il cemento sovranista che unisce Lega e 5Stelle (e sull’onda dell’entusiasmo anti-europeo, attrae anche i Fratelli d’Italia) si alimenta del disagio provocato dalla crisi e lo indirizza “contro la Germania”, fomentando un vittimismo nazionalista che ricorda (spero ripetendola in farsa, e non in tragedia) la sindrome della “vittoria mutilata”, che dopo la prima guerra mondiale polarizzò l’insoddisfazione dei combattenti-e-reduci verso i complotti delle potenze dominanti (Francia, Gran Bretagna, USA).
(Dimenticando che il più grande debito pubblico d’Europa è stato accumulato nei decenni dagli stessi Italiani, votando Andreotti&C, Craxi, e da ultimo Berlusconi).

Non escludo che il declino della democrazia rappresentativa e del welfare state (sullo sfondo dei limiti ecologici del pianeta) comporti la ricerca di nuove strade (democrazia inclusiva di piccole comunità in orizzonti universalisti pacifici?); il ritorno al nazionalismo va nella direzione opposta e reazionaria: è di certo un “cambiamento”, di certo non è il mio “cambiamento”.

Fonti:
1.                                                             https://www.ilfattoquotidiano.it/2018/05/18/governo-m5s-lega-il-contratto-di-governo-versione-definitiva-del-testo/4364587/
LA NOTTE IN CUI TUTTE LE VACCHE SONO…GRIGIE
di Fulvio Fagiani

Riassunto:

Il ribaltamento mezzi-fini nella politica corrente.
Nella notte tutte le vacche sono grigie.
Continuità e discontinuità.
Una visione del futuro



Integro le puntuali osservazioni di Aldo Vecchi con le mie, che muovono dal piano di lettura che mi è più congeniale, quelle del lungo termine, grande assente dal discorso pubblico odierno.
Parto da una domanda che molti si pongono: perché la politica, intesa come prerogativa di ogni cittadino partecipe del destino della polis, ha abbandonato da anni l’ambizione di interpretare e progettare la società futura ed è progressivamente scivolata verso una forma spettacolare, molto simile ad una partita di calcio in cui ventidue si scontrano sul campo, ricorrendo volentieri ad interventi fallosi e violenti, e gli altri affollano le curve dello stadio avendo a disposizione un’unica scelta: tifare per l’una o per l’altra squadra, ricorrendo a loro volta al repertorio di insulti, aggressione e odio tipico degli ultras?
Questa forma peculiare di spettacolo calca svariati palcoscenici, dalle ‘shitstorm’ dei social, ai talk show televisivi e alle discussioni, sempre più rare per la verità, nei luoghi della vita quotidiana.
Il linguaggio, non sorprende, è molto povero, infarcito di slogan ripetuti fino allo sfinimento, i contenuti non hanno alcun riferimento a visioni d’insieme, ma sono puri espedienti retorici per incoraggiare la formazione di cui si porta la maglietta o si sventola la bandiera.
In piena assonanza la politica esercitata dai professionisti è ridotta a pura ricerca del consenso, in lotta perenne con la coerenza sia di logica interna che, soprattutto, di corrispondenza con i fatti, volta ad un obiettivo predominante che è l’autopromozione di questo o quel gruppo dirigente (con tutte le riserve nell’usare il termine ‘dirigente’).
Avendo ribaltato fini e mezzi, perché il partito o la corrente o l’occasionale leader, da mezzo è diventato fine, non stupisce che quando si affaccia al governo questa politica abbia scarsa somiglianza con la fatica del governare e si riduca ad un’inesausta campagna di comunicazione con dosi sempre più insopportabili di propaganda.
Io penso che una delle cause consista nel processo storico che - con gli eventi della fine del secolo scorso, la caduta dei regimi comunisti, la liberalizzazione dei movimenti di capitale e la conseguente finanziarizzazione dell’economia, l’incontrastata affermazione dell’ideologia e delle pratiche neoliberiste e l’eclisse della socialdemocrazia - ha condotto al pensiero unico: siamo tutti diversi ma pensiamo, più o meno, le stesse cose.
Siamo entrati nelle notte in cui tutte le vacche sono grigie.
Quasi tutte uguali perché il pensiero unico non ammette deviazioni: la buona vita è perseguibile solo con una crescente disponibilità di beni materiali, l’orizzonte unico della società è la crescita economica come che sia, che può essere conseguita grazie agli indiscutibili comandamenti scritti nelle Tavole della Legge: precarizzazione del lavoro, riduzione delle tasse, mani libere per le imprese, bando a qualunque intervento pubblico sia nel dirigere le vicende economiche che in politiche redistributive.
Le vacche, però, non sono tutte nere, ma hanno diverse gradazioni e sfumature di grigio (finora).
Così c’è chi asseconda e promuove l’erezione di muri, il consolidamento dei confini, la rottura delle solidarietà internazionali e l’irrisione delle istituzioni sovranazionali, e chi, invece, mantiene ancora una fiducia nella solidarietà internazionale e nelle architetture sovranazionali, chi vuole i respingimenti e chi predica l’accoglienza, chi inclina per comminare la pena di morte senza processo purché entro le mura di casa, e chi è ancora affezionato al monopolio statale della violenza e ad una società governata dal diritto, chi irride alla cultura, intrinsecamente salottiera e radical-chic, e chi non si vergogna ancora di leggere qualche libro.
Fino al paradosso del governo anti-establishment di Donald Trump, dove si è ministri solo se possessori di patrimoni miliardari.
Non sono affatto indifferente alle gradazioni di grigio, tutt’altro: tra le alternative che ho illustrato sono ben convinto delle seconde e di quanto siano costitutive di una società vivibile.
Ma la continuità con presupposti indiscutibili di ogni consorzio civile e del sorgere stesso della società moderna, come il diritto, la triade della Rivoluzione francese (ricordo ai distratti che c’è anche la fraternitè), la diffusione e l’incoraggiamento della cultura, non deve nasconderci che in molti altri campi abbiamo bisogno di profonde discontinuità, o, detto in altri termini, nessuno dei governi, del cambiamento o meno, neanche lontanamente si  è mostrato all’altezza del compito, né probabilmente lo ha mai avuto presente.
Significa avere una stella polare che orienti il cammino, attorno ai temi di cui ragioniamo fin dal primo numero di UTOPIA21:
·         Le emergenze ambientali, dal clima alla perdita di biodiversità, dalle risorse vitali come acqua, suolo e cibo al consumo delle risorse1, come sono definiti dagli accordi internazionali (COP21 di Parigi piuttosto che SDG – Obiettivi dello sviluppo sostenibile) o dalla comunità scientifica (confini planetari);
·         La disuguaglianza tra paesi ricchi e paesi poveri, e tra ricchi e poveri all’interno dei paesi;
·         La prospettiva di una società capace di auto-limitazione, se proprio ci fa paura il termine decrescita2;
·         La dimensione inestricabilmente planetaria dei problemi che dobbiamo fronteggiare;
·         Le questioni della transizione e della governance di fenomeni globali, di cui ci occupiamo estesamente in questo numero.
Solo entro questa cornice è possibile collocare, capire e provare ad affrontare i singoli problemi e cucire una visione d’insieme del futuro (un’Utopia) che orienti il cammino e le scelte di più breve periodo.
Possiamo chiamare questo percorso l’elaborazione culturale che precede logicamente qualunque costruzione politica: senza di essa la politica brancola nel buio e si riduce, come è appunto oggi, a mera occupazione del potere, assecondamento degli interessi dei più forti e alimentazione delle paure e del rancore degli strati più deboli della società.
Per questo ho sempre guardato con molto sospetto alle retoriche del “cambiamento” che imperversano in ogni campagna elettorale e si accavallano l’una sull’altra, dove tutto cambia perché nulla cambi, dove un linguaggio sempre più degradato e omologato banalizza la realtà, la rappresenta in forme distorte e la occulta, per approdare a improbabili parole d’ordine, regolarmente sconfessate dalle effettive azioni di governo.
Non si pensi che questa concentrazione sulla visione ci lasci impotenti di fronte alle sfide dell’attualità, come sognatori destinati ad essere travolti dal corso dei fatti.
Anche in UTOPIA21, che pure è dedita espressamente all’elaborazione della componente culturale e ‘di sfondo’, non abbiamo mancato di avanzare proposte praticabili nel breve-medio periodo, dal consumo di suolo all’agricoltura sostenibile, dalla macroeconomia (spostamento della spesa globale dai consumi agli investimenti, investimenti pazienti e rigenerativi nelle grandi infrastrutture dell’energia, della mobilità sostenibile, dei dati, nel territorio e negli edifici, nuovo protagonismo del pubblico) alla formazione.
Con questo doppio binario, di lavoro sul piano culturale per l’elaborazione della prospettiva e di progettazioni e sperimentazioni concrete, possiamo sperare di dare il nostro modesto contributo per passare finalmente dalla notte delle vacche grigie ad un luminoso mattino di vacche multicolori.



Fonti.

1.    Quaderno di UTOPIA21 n.1 – Le emergenze ambientali -
2.    Quaderno di UTOPIA21 n.6 – Crescita o decrescita -