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venerdì 5 aprile 2019

UTOPIA21 - MARZO 2019: LA “STORIA ECONOMICA DELLA FELICITÀ” (O QUANTO MENO DEL BENESSERE) DI EMANUELE FELICE




Un saggio ambizioso e discutibile, e perciò utile, che da un lato riassume in breve, ma non affrettatamente, la storia economica e sociale dell’umanità, dal paleolitico ad oggi, e dall’altro cerca di impostare la questione del benessere e della felicità nel mondo contemporaneo.

Riassunto:
-       quando eravamo cacciatori e raccoglitori
-       i risvolti amari della rivoluzione agricola: gerarchie, fatica carestie, guerre, epidemie
-       la complessa maturazione verso la svolta della rivoluzione industriale e la possibilità teorica di soddisfare i bisogni materiali di tutta l’umanità
-       le promesse non mantenute dalla liberaldemocrazia e dal socialismo reale (e ancor meno dal nazifascismo), riguardo all’uguaglianza e alla felicità
-       le problematiche attuali, tra edonismo consumista e speranze di una “rivoluzione etica”
(in corsivo i commenti più personali del recensore)

Emanuele Felice (docente di Economia a Pescara e commentatore di “Repubblica”) affronta in questo testo1 la problematica della “felicità” (a partire dal benessere materiale) nella lunga storia dell’Homo sapiens, a partire dalla “rivoluzione cognitiva” che lo distingue dagli altri primati, fino alla dialettica dei nostri giorni, “tra etica e piacere”.

La rassegna storica si fonda principalmente su un’ampia bibliografia e su ricerche altrui, soprattutto di Diamond2,3 (già da me recensito) 4,5 e Hararì6 (i cui scritti sul futuro sono già stati considerati da Fulvio Fagiani7), e – come schematicamente riepilogato dallo stesso Felice sia nell’introduzione che nelle conclusioni – contempla essenzialmente tre fasi:
-       il paleolitico dei cacciatori e raccoglitori, che sembra apparire, anche per le tracce di mitizzazione che ha lasciato nelle narrazioni delle successive epoche storiche, un periodo di relativo equilibrio tra popolamento e risorse, anche grazie al prevalente o possibile nomadismo, e quindi un periodo di vite umane (o poco più che animalesche) sì brevi, precarie ed avventurose, ma con bassa natalità ed in qualche misura “felici” nel loro rapporto diretto con un ambiente ostile (l’archeologia conferma, attraverso i resti dei corpi umani, le tracce di una condizione di salute migliore di quella media dei successivi popoli neolitici, le cui carenze e malattie derivano dal diverso ciclo vitale ed anche dalla frequentazione diretta delle specie animali addomesticate) ;
-       la “trappola del neolitico” (secondo l’interpretazione di Hararì), che incontrando nell’allevamento e nell’agricoltura  sia la possibilità che la necessità di un progressivo incremento demografico – pur mitigato da carestie, guerre ed epidemie – spinge le tribù umane  a costituire strutture sociali sempre più complesse, fondate sulla distribuzione diseguale delle immani fatiche del lavoro, assegnato per lo più agli schiavi, e della riproduzione, caricata sulle donne in ruolo subordinato, mentre al vertice  della società si insediano maschi guerrieri, sacerdoti ed anche – più tardi – letterati e pensatori: da questi vengono le prime riflessioni sulla felicità, che viene collocata per lo più nell’aldilà (oltre-tomba che nelle religioni monoteiste del Mediterraneo diviene un organico sistema di premio o punizione, Paradiso/Inferno, con i cristiani perfezionamenti del Limbo e del Purgatorio) oppure nella fuga individuale verso la meditazione senza passioni (buddismo e altre religioni e filosofie orientali, ma anche le correnti epicuree del mondo greco e romano);
-       la rivoluzione industriale, con le sue premesse e connessioni da un lato con l’evoluzione del pensiero moderno occidentale (dall’Umanesimo all’Illuminismo, attraverso la Riforma protestante e il progresso scientifico) e dall’altro con la dominazione coloniale e capitalista dell’Europa (e poi degli U.S.A.) sul resto del mondo: malgrado dosi massicce, anche qui, di guerre ed epidemie, si instaura per la prima volta nella storia della specie umana la possibilità concreta di evitare le carestie e di disporre delle risorse per soddisfare i bisogni materiali, senza però assicurarne una equa distribuzione, anzi accentuando le disuguaglianze, sia all’interno di gran parte degli Stati, sia nella gerarchia tra Stati ricchi e Stati poveri (disparità quest’ultima in parte ridotta, o meglio modificata, dalla recente globalizzazione, con l’emersione di nuove potenze economiche, soprattutto in Asia orientale).

La vicenda nel suo insieme è abbastanza nota, soprattutto ai nostri lettori (vedi anche recensioni su Deaton8, Mokir9, P.Prodi10, Graeber11, Acemoglu&Robinson12, Arrighi13), meritano di alcuni rilievi, a mio avviso, i seguenti elementi:
-       la ricerca del benessere collettivo (e finanche di quello privato) e della felicità su questa terra è in generale esclusa dall’Autore per quasi tutto il corso della “rivoluzione agricola”: anche il pensiero di Agostino da Ippona sulla “Città di Dio” è relegato da Felice nell’aldilà, senza cogliere la dimensione comunitaria della speranza nella vita terrena dei cristiani. Il testo non fa alcun cenno ai tentativi di regimi agro-egualitari in Cina e in India ai tempi del nostro Medio Evo (di cui parla invece Graeber,11,15). Per Felice è rilevante l’eccezione, al solo livello del pensiero, di Aristotele e seguaci e poi dello stoicismo (con il merito degli stoici di essere anche più cosmopoliti). Felice sottolinea, a differenza del successivo ciclo del pensiero umanistico/illuminista, l’impossibilità nel mondo antico di un raccordo con il progresso pratico e tecnologico, che non era nelle attenzioni della classe dirigente greco-romana. A mio avviso l’Autore sottovaluta però un po’ troppo le valenze sociali della realtà materiale di quel mondo, riconoscendo qualche merito solo per “gli acquedotti”: mentre io ritengo che l’insieme delle opere civili “di urbanizzazione” nella evoluzione della città antica (non solo acquedotti, ma fognature, strade&ponti, fori, terme, teatri ed anfiteatri, ecc., servizi che verranno in gran parte a mancare nella città medievale), e la stessa ricerca della bellezza nella città, rappresentino la ricerca di un progresso orientato al bene pubblico ed un insieme di servizi fruibili – pur in una società classista e schiavista – non da parte della sola aristocrazia (come nelle precedenti civiltà “palaziali”), bensì dalla stessa “plebe”; parimenti la complessità degli impianti produttivi e commerciali, riscontrabili ad esempio in scavi come quelli di Ostia oppure di Baelo Claudia (tra Gibilterra e Cadice), testimonia di una economia dinamica, molto più di quanto non dicano le testimonianze letterarie dell’epoca (per il noto disprezzo delle élites classiche verso le attività materiali, disprezzo che però non escludeva la loro preferenza per ville lussuose e confortevoli, e  che non può cancellare ai nostri occhi i concreti avanzamenti tecnologici del mondo antico);
-       il cauto ed incipiente sdoganamento nel secondo Medio Evo cristiano dell’interesse per l’economia e per “l’economia dell’interesse” (inteso come tasso di remunerazione dei prestiti, pur ancora in odore di eresia), ben prima della Riforma protestante e del Calvinismo, è ben focalizzato da Felice con riferimento alla “accumulazione primaria” dei monasteri cistercensi16 (per effetto del ritorno ad un rigore benedettino sul lavoro manuale degli stessi monaci, senza delega ai servi, e quindi dell’impiego diretto di un elevato “capitale umano”; e contestualmente per l’afflusso delle donazioni, attirate dalla incisività della stessa riforma religiosa) ed alla originalità dei nuovi ordini mendicanti, derivanti dalle figure parallele di Valdo e di Francesco, ambedue figli apostati di famiglie mercantili  (il primo però estromesso e perseguitato dalla Chiesa ufficiale, il secondo invece accolto seppure un po’ imbrigliato); i conventi francescani, operanti in ambito urbano, finiscono per doversi confrontare con il problema della accumulazione ed impiego del denaro, per le loro finalità filantropiche, sia nella gestione in proprio delle donazioni, sia nella guida delle anime dei nuovi “benestanti” e benefattori (e qui ci si ricollega alla ricerca di Paolo Prodi10,17 – richiamato anche da Felice sulla evoluzione dei manuali dei confessori e sul ruolo specifico del francescano Bernardino da Siena sulla questione dell’usura: Prodi conferisce però più importanza all’autonomia sociale dei mercanti che non all’intraprendenza degli stessi Conventi).

Più scontati invece mi sono sembrati i racconti sui passaggi e rimbalzi nelle nuove scoperte nei lunghi Medio-Evi di Occidente ed Oriente attraverso la civiltà mussulmana, sui diversi influssi delle grandi pestilenze (soprattutto nel Trecento) tra Europa Occidentale ed Orientale (a Ovest il calo demografico rafforza le posizioni contrattuali dei ceti subalterni e  dissolve la servitù della gleba; l’opposto avviene ad Est), sui rapporti tra Riforma e Controriforma ed il nascente capitalismo (soprattutto nella triangolazione teologica tra Lutero, Zwingli e Calvino), sulla Rivoluzione Scientifica del Seicento e la “Società delle Lettere” del Settecento (con interpretazione molto vicina a quella di Mokyr9,17), su esplorazioni, malattie, colonie e schiavismo (con il culmine del Congo di proprietà personale di re Leopoldo del Belgio, a fine ‘800, la cui organizzazione impone ritmi intensi alla raccolta del lattice per gomma, passando per le armi gli indigeni poco produttivi, e razionando le munizioni alle truppe di colore a ciò preposte: per garantire di non averle sprecate o dirottate per la caccia, gli esecutori devono consegnare per ogni proiettile sparato la mano mozzata della vittima…).

Arrivando verso l’età contemporanea l’Autore evidenzia soprattutto l’incapacità delle società moderne di assicurare il benessere per tutti, che ora sarebbe tecnicamente possibile in termini teorici (vedi ad esempio Bregman18), e quindi il divario tra la dimensione etica od ideologica e l’esercizio effettivo del potere, politico ed economico, che va in direzione opposta, in una misura che la potenziale disponibilità delle risorse rende scandalosa.  

Di questo divario il testo si occupa con riferimento alla storia del Novecento, non solo smentendo le promesse implicite nelle ideologie liberali e democratiche, ma anche esaminando le parabole contrapposte e parallele della Rivoluzione Sovietica (dall’utopia del comunismo – di chiara derivazione illuminista e giacobina, aggiornata con lo storicismo determinista di Marx - alla distopia del “socialismo reale”) e del Nazismo, cui l’Autore (a mio avviso correttamente) riconosce un profilo teorico (per quanto aberrante), derivante anch’esso dal pensiero moderno in termini di evoluzionismo e selezione eugenetica (la supremazia razzista dei migliori; Darwin in salsa Nietzsche, con un tocco di romanticismo degenerato sugli eroi e la “bella morte”): dimenticando però a mio avviso di catalogare il contiguo Fascismo (cioè un nazionalismo militarista e autoritario di massa, non sempre né necessariamente razzista) come tentazione ricorrente e specifica di reazione ‘moderna’ alla crisi delle liberal-democrazie.

Dopo di che l’Autore enuncia - ma a mio avviso non approfondisce adeguatamente  - sia il nesso tra rivoluzione industriale e saccheggio delle risorse fossili del pianeta (saccheggio che ha reso possibile “la grande fuga” – vedi Deaton, citato anche da Felice dalla miseria delle società agricole, ma di cui da ora ci si presenta da pagare l’intero conto complessivo, divisibile in pochissime rate) sia il problema insoluto delle diseguaglianze, pur temperato, come sopra si accennava dalla fuoriuscita di Cina ed altri paesi dal sotto-sviluppo, ma acuito dal volano delle migrazioni, che la stessa crescita delle disuguaglianze alimenta (come il testo d’altronde ben illustra).

Felice si rende ben conto che tra i motori ideologici e pratici dello sviluppo un ruolo centrale è svolto dalla spinta all’arricchimento individuale, che da religione austera dell’imprenditore virtuoso, secondo le ipotesi di Adam Smith, alimenta ai vertici la continua accumulazione del capitalismo finanziario e dilaga tra le masse (non solo dei paesi ricchi) sotto la forma di diffuso edonismo consumista (anche nella specie del consumo di sostanze gratificanti, legali come il Prozac, od illegali come la maggior parte delle droghe); il tutto arginato sempre di meno dalle religioni tradizionali (almeno in Occidente).

A queste tendenze individualiste ed edoniste, Felice contrappone la convinzione sua e di altri intellettuali (che si rifanno in parte alla tradizione della “economia civile” di Genovesi, Muratori e Filangeri; talora innervata su postulati religiosi, come per Luigino Bruni), che – dato un decente benessere materiale –  la felicità vada cercata non nel possesso delle cose, ma nel sapere e nella “ricchezza delle relazioni umane”.

Di questa “rivoluzione etica”, che l’Autore ritiene possibile (ma di cui non dimostra che sia necessaria, né come renderla effettivamente vincente), si riscontrerebbero positive conferme in una serie di tendenze di lungo periodo che accompagnano l’età moderna, pur nella turbolenza della storia recente (basti pensare alle rivoluzioni e guerre del “secolo breve”):
-       il movimento femminile e gli altri movimenti di liberazione sessuale,
-       la crescente attenzione  verso le altre specie degli esseri viventi, fino alle espressioni vegetariane, vegane ed “anti-speciste”,
-       le tendenze statistiche di lungo corso (ignorate dalla comunicazione mediatica) ad una continua de-crescita della violenza “privata” (ad esempio gli omicidi annuali ogni centomila abitanti in Europa sono scesi da 30-40 nel Medio Evo a 3,2 nel Settecento fino a soli 1,2 oggi; e calano, da soglie più alte anche negli altri continenti),
-       la stessa democrazia come regime politico formalmente instaurato negli Stati di tutto il mondo, cresciuta da una decina di casi all’inizio del Novecento fino a 125 su 195 nel 2016 (anche se su questo terreno l’Autore riscontra i recenti peggioramenti della democrazia sostanziale in casi come la Turchia e la Russia, cui aggiungerei anche gli U.S.A., non solo per Trump, ma per la sfacciata “plutocrazia” nei meccanismi pubblicitari/elettorali degli ultimi decenni); nonché il (misconosciuto) esperimento dell’unità Europea, come inedita esperienza di pacifica collaborazione.

(Per parte mia prendo atto volentieri di tali tendenze, che in parte ho considerato – ma insieme alle consistenti contro-tendenze -–  nei miei recenti articoli su non-violenza e su democrazia e populismo, ma l’insieme non mi pare dia corpo più di tanto all’auspicabile “rivoluzione etica”: il nocciolo a mio avviso – ed anche secondo altri, tra cui Marc Augé e credo pure Fulvio Fagiani -– starebbe nella presa di coscienza, da parte degli intellettuali prima e poi di consistenti quote delle masse oppresse ed illuse, della ineludibilità di un cambio di passo nell’uso delle risorse per la stessa salvezza del Pianeta Terra; da qui alla consapevolezza del nesso tra il benessere di ciascuno e quello di tutti gli altri esseri, umani e non solo; e da qui alla assunzione consensuale di una discreta austerità nei consumi e del necessario intreccio tra diritti e doveri, non perché una autocrazia lo impone, ma perché democraticamente lo si accetta. E lo si traduce in leggi, tasse, sovra-nazionalità: vasto programma!)

Nelle premesse e nella parte storica il testo risulta alquanto ambiguo sulla differenza tra benessere materiale e felicità: afferma di non voler misurare la felicità soggettiva (quella dei sondaggi di Inglehart, ad esempio16), ma di voler utilizzare parametri oggettivi (che a mio avviso di fatto sono adatti solo per misurare per l’appunto il benessere).
Ma nella parte finale cerca di sciogliere questo nodo (più in termini concettuali che quantitativi), introducendo ad esempio il “paradosso di Easterlin” (sociologo inglese di fine ‘900): “al crescere del reddito inizialmente la felicità aumenta, ma a un certo punto non più ed anzi diminuisce”.

E si confronta quindi – sia nel capitolo sull’Illuminismo, sia nelle conclusioni - con il pensiero filosofico occidentale, soprattutto dei classici della modernità, da Hobbes (secondo cui l’uomo è lupo, che solo lo Stato può domare) a Rousseau (che invece vede l’uomo buono finché la società non lo travia), da Locke (che sta nel mezzo tra queste due posizioni) a Kant (che appende i suoi “imperativi categorici” ad un superiore firmamento laico), con ulteriore attenzione a Leopardi (il cui pessimismo non appare infondato) ed a Bertrand Russel (che della felicità si è occupato in un opera minore): ma non ai filosofi del 900 (vedi ad esempio il mio riassunto da Bodei20), tranne un breve cenno a Nietzche ed a Marcuse, non agli psicanalisti e psicologi e neuro-scienziati.

Il pregio di questi ragionamenti – secondo me –  è che sono semplici e chiari, ed inseriti correttamente in un contesto storico, e quindi utili per ulteriori riflessioni; il difetto, invece, mi sembra che stia nel non contemplare gli ‘abissi dell’animo umano’ cioè la concretezza della psiche e delle sue ordinarie patologie, né le specificità storiche degli ultimi decenni, dal “riflusso” connesso al tramonto dell’utopia socialista, alla svolta tecnologica in atto, con le implicazioni che comporta in termini di destrutturazione del lavoro, alienazione diffusa, etero-direzione dei sentimenti politici delle masse (rimando su questi temi, tra gli altri ai contributi di Lelio Demichelis21,22).

Fonti:
1. Emanuele Felice “STORIA ECONOMICA DELLA FELICITA’” – Il Mulino, Bologna 2018
2. Jared Diamond “IL TERZO SCIMPANZÉ - Ascesa e caduta del primate homo sapiens” - Bollati Boringhieri, Torino 1994 e 2006
3. Aldo Vecchi “L’UOMO COME TERZO SCIMPANZE’ SECONDO JARED DIAMOND” su UTOPIA21, maggio 2017 https://drive.google.com/file/d/0BzaFw8WEAEgYNVNiUnI2S0JUVUk/view
4. Jared Diamond “ARMI, ACCIAIO E MALATTIE - Breve storia degli ultimi tredicimila anni” – Einaudi, Torino 1997
5. Aldo Vecchi “ARMI, ACCIAIO E MALATTIE, NELLA STORIA MONDIALE DI JARED DIAMOND” su UTOPIA21, maggio 2017 https://drive.google.com/file/d/0BzaFw8WEAEgYWjV1dkNlVVlOM0k/view
6. Harari “DA ANIMALI A DEI. BREVE STORIA DELL’UMANITA’” – Bompiani, Milano 2016
7. Fulvio Fagiani “IDEE E PROSPETTIVE PER LA TRANSIZIONE” su UTOPIA21, settembre 2018 https://drive.google.com/file/d/12V6iBTJQkOfM69VDbgvpbeqPzsiIphdo/view
8. Aldo Vecchi ”LA GRANDE FUGA” DI ANGUS DEATON” su UTOPIA 21, novembre 2016 http://www.universauser.it/images/LA%20GRANDE%20FUGA%20DI%20ANGUS%20DEATON.pdf
9. Fulvio Fagiani “LE ORIGINI DELL’ECONOMIA MODERNA SECONDO JOEL MOKYR” su UTOPIA21, gennaio 2019 https://drive.google.com/file/d/1WXSC4qPcPvGjjpw5S4ukBYjqCq8cym1b/view
10. Aldo Vecchi “PAOLO PRODI: 7° NON RUBARE” su UTOPIA21, settembre 2018
11. Aldo Vecchi “DEBITO E DEMOCRAZIA SECONDO DAVID GRAEBER” su UTOPIA21, luglio 2018 https://drive.google.com/file/d/1KNHwvYRdA-OgatgudIQMBtJt5Q3shSWl/view
12. Aldo Vecchi  “PERCHE’ LE NAZIONI FALLISCONO, SECONDO ACEMOGLU E ROBINSON” su UTOPIA21, gennaio 2019
13. Aldo Vecchi “IL LUNGO XX SECOLO DI GIOVANNI ARRIGHI” su UTOPIA21, no
14. David Graeber “DEBITO - I PRIMI 5000 ANNI” – Il Saggiatore, Milano 2012
15. Anna Maria Vailati e Aldo Vecchi “CONVERSAZIONE-INTERVISTA CON MASSIMO FOLADOR SULLE IMPRESE RESPONSABILI E LA REGOLA
16. Paolo Prodi “SETTIMO NON RUBARE. FURTO E MERCATO NELLA STORIA
DE
LL’OCCIDENTE” – Il Mulino, Bologna 2009
17. Joel Mokyr “ UNA CULTURA DELLA CRESCITA” - Il Mulino, Bologna 2018
18. Fulvio Fagiani “UTOPIA PER REALISTI DI RUTGER BREGMAN” su UT
19. Aldo Vecchi “INGLEHART E LA POST-MODERNITA’” su UTOPIA 21, novembre 2018 https://drive.google.com/file/d/1e23dr6OMPGRzhpDWegKWdhrz6h4DAcIt/view
20. Aldo Vecchi “INSEGUENDO L’UTOPIA, ATTRAVERSO “LA FILOSOFIA DEL NOVECENTO (E OLTRE)” DI REMO BODEI” su UTOPIA21, novembre 2017 https://drive.google.com/file/d/1TXk2scrSIH8krSyIXTBFFuWpTJXHdQbQ/view
21. Lelio Demichelis “LA GRANDE ALIENAZIONE” - Jaca Book, Milano 2018
22. Fulvio Fagiani “CONVERSAZIONE/INTERVISTA A LELIO DEMICHELIS SULL’ALIENAZIONE” su UTOPIA21, gennaio 2019 https://drive.google.com/file/d/1YDHb0asJXGgCNsWV2p5EmwASOmYTvFfg/view


UTOPIA21 - MARZO 2019: DIALOGANDO CON PIZZINATO E BONOMI (E GIOVANNINI) SULLA METAMORFOSI DELLA SOCIETA’



di Aldo Vecchi


Il “Festival dell’Utopia” di Varese, giunto nell’autunno 2018 alla 3^ edizione, si è sviluppato in parallelo con la vita di “UTOPIA21”, nella reciproca autonomia, pur avendo in comune la guida di Fulvio Fagiani, la promanazione da Auser/Universauser ed il medesimo sito informatico. Pur essendo già radicata una sostanziale transumanza di temi e proposte tra Festival e “rivista”, con questa rubrica intendiamo rendere maggiormente presenti ai lettori di “Utopia21” alcuni dibattiti svolti nei mesi precedenti nell’ambito del Festival, che nel 2018 si è articolato sui seguenti filoni:
-      Utopia tra ecologia ed economia                  
-      Utopia del ’68, utopia del XXI secolo
-      Dialoghi sull’Utopia, tra Varese e Ticino.

Sommario:
-       La tavola rotonda con Antonio Pizzinato “Dal ’68 al futuro: le trasformazioni e le utopie del lavoro” (13 novembre)
-       La conferenza di Enrico Giovannini su “Utopia sostenibile” (3 ottobre) (cenni)
-       L’intervento di Aldo Bonomi su “La società circolare” (28 novembre)
Il presente rendiconto costituisce una ricostruzione personale e parziale sui contributi dei protagonisti delle serate, omettendo gli interventi degli altri partecipanti, per i quali si rimanda alla documentazione vocale disponibile sul sito di Universauser (vedi Fonti 1,2,3,6).
In corsivo le sintesi ed i commenti più personali.


Antonio Pizzinato, da operaio della Borletti nel 1947, ha percorso nei successivi decenni una intera vita nel sindacato, ricoprendo anche la carica di Segretario Generale della CGIL dal 1986 al 1988 (è stato successivamente parlamentare ed anche Sottosegretario al Lavoro nel primo governo Prodi, 1996-1998).

Il racconto di Pizzinato 1, ricco di concretezza e ad un tempo molto chiaro nella sua visione complessiva, è partito dalle condizioni oggettive e soggettive dei lavoratori nelle fabbriche degli anni ’50 e sulle numerose e complesse linee di frattura di carattere sociale e professionale, normativo e contrattuale, che dividevano uomini/donne, impiegati/operai, anziani/giovani (e si potrebbe proseguire con le differenze di professionalità, provenienza regionale, “credo” politico). E quindi da una visione non lineare della composizione di classe nelle fase dello sviluppo fordista dell’economia italiana (anzi, del Nord Italia).

Pizzinato ha proseguito rievocando il lungo cammino verso lotte sindacali di respiro unitario, fino alle grandi conquiste degli anni ’70 (sia nella contrattazione, dall’inquadramento unico al mese di ferie, sia a livello istituzionale, dall’unificazione delle mutue nell’INPS e nel Servizio Sanitario Nazionale allo Statuto dei Lavoratori), anche come prodotto di una progressiva trasformazione delle organizzazioni sindacali (e della loro influenza su partiti e Parlamento) e quindi di una progettualità soggettiva che ha saputo adeguarsi al mutare delle situazioni e costruire unità di interessi, anche dove non c’erano.
In particolare occupandosi della vita dei lavoratori (ma anche degli altri soggetti sociali) nei suoi vari aspetti, oltre i recinti delle fabbriche (diritti, salute, casa, assistenza).

(Come dire: niente ci fu regalato, nemmeno una mitica “condizione operaia” bella e pronta da organizzare; anche se la dimensione delle grandi fabbriche di certo aiutava).

Di fronte ai poderosi regressi registrati nei successivi decenni, non solo sul terreno della riorganizzazione produttiva e finanziaria delle aziende, ma anche degli interventi legislativi sfavorevoli ai lavoratori (dal precariato all’art. 18), Pizzinato ha analizzato attentamente gli aspetti normativi, contrattuali e organizzativi che caratterizzano la divisione e la subalternità attuale dei lavoratori, dalla frammentazione dei contratti nazionali (saliti da 150 negli anni ’60 ad oltre 800 oggi, di cui molti fittizi e strumentali a logiche padronali) alla dispersione degli occupati in piccole unità produttive (oggi a Sesto S.Giovanni l’80% dei posti di lavoro è in aziende inferiori a 5 addetti), fino alle modalità di comando e controllo rese possibili dall’informatizzazione.

Ma Pizzinato ha mostrato di non disperare, appellandosi ancora alla volontà e capacità dell’azione sindacale, che sia possibile una paziente ricucitura sociale, sia localmente, andando a cercare i lavoratori dispersi sul territorio e nella “rete” e mirando a contratti territoriali di 2° livello, sia centralmente, contrapponendosi alla moltiplicazione dei contratti nazionali, attuando l’accordo interconfederale sulle regole della contrattazione, tornando ad influire positivamente sulla legislazione e sulle scelte di politica economica, contro le crescenti ed inaccettabili disuguaglianze.

Con questo appello, forse troppo ottimistico, ma certo non privo di concretezza e realismo, Pizzinato è apparso più energico di gran parte degli astanti, in gran parte esponenti del mondo sindacale e politico varesino, dal PD a sinistra, meno anziani ma forse più rassegnati.
E colpiti forse dalle osservazioni specifiche di Pizzinato anche sull’andamento piuttosto burocratico degli ultimi congressi sindacali a cui ha partecipato.
Benché la CGIL ed il suo ramo pensionati, lo SPI, non solo abbiano collaborato a questo e ad un altro incontro del Festival 2018 (la progettazione degli spazi verdi), ma siano anche sponsor complessivi dello stesso Festival, mi sentirei di rilevare che la partecipazione dei quadri politici e sindacali limitata ad eventi come il dibattito con Pizzinato, rischino di confinarlo in una dimensione celebrativa, se questo stesso pubblico risulta assente in altre occasioni di pari rilevanza mediatica, ma orientate ad altre tematiche, od anzi meglio ad altri aspetti delle stesse tematiche (seppur collocate in sezioni diverse del Festival), come gli incontri con l’ex-ministro del Lavoro ed ex-presidente dell’ISTAT Enrico Giovannini oppure il sociologo Aldo Bonomi.

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Tralascio di riassumere e commentare la conferenza di Giovannini (apertura del festival, 3 ottobre 2018), sul tema “Rischi, prospettive e proiezioni dell'attuale modello insostenibile e l'Agenda 2030 come Utopia sostenibile”, sia perché il materiale disponibile sul sito di Universauser include le “slides” di presentazione2 anziché la sola registrazione vocale3 (ed è quindi di più rapida e snella consultazione), sia perché del suo connesso testo “L’utopia sostenibile” ha già riferito ampiamente Fulvio Fagiani su “UTOPIA21” di maggio 20184.

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Aldo Bonomi, sociologo, è noto soprattutto per le sue interpretazioni dei fenomeni sociali sul territorio (in particolare lombardo e padano), dai distretti produttivi alla “città infinita”, dal capitalismo molecolare alla “società del rancore”5.

Del suo intervento6, di cui ho riorganizzato i contenuti seguendo un mio schema, non mi riesce ovviamente di riprodurre il carattere affabulatorio ed il sapiente uso di elementi aneddotici, per i quali rimando alla registrazione vocale.

Bonomi ha evidenziato lo scollamento tra le utopie (o meglio “eterotopie”) della salvezza ecologica del pianeta, e connesso riequilibrio sociale (una sorta di nuovo “sol dell’avvenire”), ben rappresentate anche nel Festival varesino dalla visione di Giovannini, e la realtà della crisi sociale e soprattutto culturale ed antropologica vissuta da larghi strati della popolazione (simbolicamente i “gilet gialli”), di cui Bonomi si è occupato nel suo ultimo libro “Il labirinto della paura”, esplorando le radici del rancore e dell’intolleranza, fino all’emergente razzismo.

Bonomi ha ricostruito i passaggi – molto accelerati in Italia - dalla società agricola alla società industriale, fino al suo culmine nella concentrazione fordista delle grandi imprese (società verticale), e poi, nel tardo Novecento, il capitalismo molecolare del decentramento nei “distretti produttivi”, dentro e fuori dalle imprese (società orizzontale, con “capannoni, villette, partite IVA e BMW”): passaggi che hanno trovato i loro interpreti e rappresentanti, in conflitti sociali tra organizzazioni delle imprese e dei lavoratori, nella cornice di uno Stato mediatore; tali strutture sociali in parte persistono, ma risultano inadeguate e deformate nella fase di trasformazione in atto verso la “società circolare”, in cui prevalgono i flussi, costituiti dalle stesse “internet company”, o “piattaforme informatiche”, dalla finanza e dalle informazioni, dalle reti delle comunicazioni e dei trasporti veloci, dal fenomeno epocale delle migrazioni.

Una metamorfosi irreversibile, di cui Bonomi ha sottolineato gli aspetti drammatici, ben oltre la transizione tecnologica che la supporta; rammentando:
-       che dentro alla circolarità “tecnica” delle incessanti innovazioni si annida una verticalità effettiva, quella dei “padroni dell’algoritmo” (con un richiamo a Lelio Demichelis7,8);
-       che il cambio di paradigma impatta in modo differenziato sul territorio, cambiando le antropologie, con i luoghi nodali dei flussi che si configurano come “smart city”, differenziandosi dai margini, le valli e le campagne, dove spesso si radicano le chiusure sociali: perché i flussi impattano diversamente sui luoghi. (Esempio di Milano come nuovo laboratorio di relazione tra molteplici soggetti: l'artigiano digitale, la cooperativa sociale, le molte espressioni culturali);  
-       che occorre superare una concezione tecnica del territorio come suolo (da organizzare/coltivare/tutelare) e comprenderlo invece come “costrutto sociale, politico e culturale”, in cui è possibile che – nell’iper-modernità – si verifichi un “rinserramento dell’abitare” (secondo Heidegger il territorio prima lo si abita e poi lo si pensa), rancoroso verso l’esterno ed il diverso.

In tale contesto Bonomi ha invitato a pensare allo stesso Festival (ed ai suoi futuri sviluppi) come un tassello di quell’immane compito di decodificare i cambiamenti verso la società circolare, costruendo un “intelletto collettivo sociale”, che unisca gli intellettuali di oggi, le Università, e se possibile gli stessi “millennials”, cioè i soggetti che stanno dentro allo stesso processo di trasformazione, per esplicitarne i conflitti e contrapporsi alla “apocalissi culturale”; esortando a continuare ad essere 'comunità di cura'.

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Sia in Pizzinato che in Bonomi si è pertanto ravvisata, pur in due letture del presente assai differenti, ma ugualmente preoccupate e problematiche, un invito a costruire, a collegare, a leggere più acutamente la realtà con la volontà del cambiamento. E l’orizzonte complessivo di questo cambiamento è ben focalizzato dal contributo di Giovannini…


Fonti:

1.    Antonio Pizzinato REGISTRAZIONE VOCALE DELL’INTERVENTO AL FESTIVAL DELL’UTOPIA, VARESE, 13-11-2018 https://drive.google.com/file/d/1FXhhIKtTChQ1FTmzciX1xVr-UiBXP4tN/view?usp=sharing
2.    Enrico Giovannini SLIDES DI PRESENTAZIONE DELL’INTERVENTO AL FESTIVAL DELL’UTOPIA, VARESE, 01-10-2018
3.    Enrico Giovannini REGISTRAZIONE VOCALE DELL’INTERVENTO AL FESTIVAL DELL’UTOPIA, VARESE, 01-10-2018 E DEL SEGUENTE DIBATTITO
4.    Fulvio Fagiani “PROGRAMMI PER LA SOSTENIBILITA’ “ su UTOPIA21, maggio 2018 https://drive.google.com/file/d/1SCkVUbP8f9MImeKMD9FZEZTy3r3dAsS8/view
5.    Aldo Bonomi “IL RANCORE. ALLE RADICI DEL MALESSERE DEL NORD” – Feltrinelli, Milano 2008
6.    Aldo Bonomi REGISTRAZIONE VOCALE DELL’INTERVENTO AL FESTIVAL DELL’UTOPIA, VARESE, 28-11-2018
7.    Lelio Demichelis “LA GRANDE ALIENAZIONE” - Jaca Book, Milano 2018
8.    Fulvio Fagiani “CONVERSAZIONE/INTERVISTA A LELIO DEMICHELIS SULL’ALIENAZIONE” su UTOPIA21, gennaio 2019 https://drive.google.com/file/d/1YDHb0asJXGgCNsWV2p5EmwASOmYTvFfg/view


UTOPIA21 - MARZO 2019: DIBATTITO SUL “CAPITALISMO DOCUMEDIALE”


Riflessioni a partire dal riassunto e dalla confutazione della tesi, esposta su “la Repubblica” dal filosofo Maurizio Ferraris, in merito alla sostanziale novità del capitalismo delle piattaforme, che manipola i dati personali, prodotti dagli utenti della rete (e sull’apparenza di un comunismo realizzato, con il populismo suo profeta).

Sommario:
-       premessa
-       la tesi di Ferraris sul capitale documediale
-       confutazione della tesi
-       corollari sul comunismo e sul populismo


PREMESSA

Ho avuto modo in passato di leggere Maurizio Ferraris come filosofo comprensibile (e questo è già molto), ottimo divulgatore dei pensatori classici e deciso avversario del “pensiero debole” in nome della concretezza del “nuovo realismo” (e qui lo apprezzo solo in parte, perché - rimuovendo giustamente gli eccessi “post-moderni”, secondo i quali c’è solo interpretazione e nulla sappiamo del mondo reale - si rischia però di rinunciare al dubbio critico nei confronti delle informazioni che ci pervengono).

Mi ha dunque incuriosito ed interessato il lungo saggio pubblicato in quattro puntate su Repubblica tra dicembre e febbraio, con cui ha messo in discussione capitalismo e comunismo e soprattutto i concetti stessi di merce e di sfruttamento: saggio che pare non aver suscitato nessun dibattito, né su “la Repubblica” né altrove.

Mentre nello stesso periodo è risultato assai ampio il dibattito su “la Repubblica” in merito ad élites e populismo, innescato da un altrettanto lungo testo di Alessandro Baricco (pubblicato però in una sola puntata, con po’ di gran cassa pubblicitaria sul contestuale romanzo “The Game”), dibattito tutto sommato fiacco, perché alcuni tra i migliori contributi (ad esempio Mazzucato, Urbinati, Lazar) non erano che la conferma di validi ragionamenti già espressi in precedenza, mentre altri hanno fatto da eco alla semplicistica contrapposizione tra casta e popolo, accettandola come valida rappresentazione della società di oggi.


LA TESI DI FERRARIS SUL CAPITALE DOCUMEDIALE

Il nucleo della tesi di Ferraris1 è che – mentre al secolo XIX corrispondeva il “capitalismo delle merci” ed al secolo XX il “capitalismo finanziario” – al secolo XXI corrisponde il ”capitalismo documediale” (un capitalismo che – anzi – come vedremo più avanti, assomiglia molto ad un “comunismo realizzato”).

Le informazioni, e più propriamente i dati che gli stessi utenti rilasciano utilizzando gli smartphones ed ogni altro terminale delle reti web, e che vengono capitalizzati dalle grandi centrali monopolistiche tipo FaceBook&C., sono i nuovi elementi costitutivi del “valore”.

Mentre il lavoro tende a divenire marginale, perché sempre più le merci vengono prodotte da macchine automatiche e/o stampanti 3D (azionate da banali tastiere, o touch-screen, per cui cade ogni distinzione tra lavoratori manuali ed intellettuali; agli operatori non è più richiesta forza né intelligenza, ma solo disponibilità a consumare), la massa dei lavoratori/consumatori è mobilitata attraverso i cellulari (che i consumatori stessi si affannano ad acquistare), e così in continuazione produce dati, arricchendo i padroni delle piattaforme, senza accorgersi di essere sfruttata, e rivolgendo altrove il suo residuo disagio.
Le merci sono offerte gratis, se in cambio si cedono le preziose informazioni, che valgono più del denaro, perché più ricche qualitativamente (si possono conoscere tutte le propensioni dei singoli o gruppi di utenti e non solo il dato quantitativo della loro capacità di spesa).

In questo quadro risulta fondamentale la sperequazione tra le informazioni che le piattaforme multimediali diffondono agli utenti, che sono di tipo generale e non consentono arricchimenti differenziati, e le informazioni che le piattaforme carpiscono agli utenti stessi (coinvolti dalla interattività della rete, diversamente dai precedenti mass-media unidirezionali) che invece sono individualizzate, gestibili per aggregare target pubblicitari e per pilotare flussi di consenso.  

Compito odierno della filosofia, in tutte le sue branchie, è disvelare la realtà della “rivoluzione documediale” e del nuovo plusvalore occultato nei dati: c’è anche un appello ad un “noi” – non so se filosofi o lavoratori/consumatori/utenti – per costruire un nuovo progetto contro i veri poteri forti, che non sono le banche, ma le piattaforme (FaceBook&C, Google, Apple, Microsoft, Amazon e gli omologhi cinesi, nonché le semi-sconosciute aziende che ne curano le capacità di estrazione e gestione dei dati, quali Acsion, Criteo, ecc. ).


CONFUTAZIONE DELLA TESI

Nella narrazione di Ferraris c’è molto di vero e di valido, riguardo alla pericolosità della “profilazione” degli utenti da parte delle piattaforme.  Ferraris (preceduto su questa strada da altri tra cui ad esempio Evgenij Morozov2 e Lelio Demichelis3,4, ma anche Fulvio Fagiani5) denuncia la accumulazione dei “dati” da parte delle “internet company” e la configurazione di queste come “poteri forti” (anche perché quasi sempre e necessariamente monopoliste, come dimostrato da Fulvio Fagiani5); peggio ancora se la “profilazione” entra nel gioco politico, vuoi in regimi direttamente autoritari, vuoi nel gioco sporco delle influenze elettorali e delle “fake-news”.

E concordo sulla denuncia del posizionamento strategico delle imprese sovranazionali che controllano i flussi dei dati documediali, nell’immediato per marketing e pubblicità e in prospettiva per alimentare la svolta del sistema produttivo verso l’Intelligenza Artificiale.

Ma l’impianto specifico del ragionamento di Ferraris non mi convince:

1     - perché (salvo i casi non infrequenti di spionaggio politico e manipolazione elettorale, vedi caso Cambridge Analytica/elezioni di Trump e Brexit) il valore commerciale dei dati carpiti agli utenti non è un valore in sé, vendibile sul mercato, bensì un insieme di informazioni utili in prima evidenza  per vendere merci o servizi, da parte di altre aziende capitalistiche (o delle medesime piattaforme, come nel caso di Amazon), e solo indirettamente, con ulteriori elaborazioni, tali dati valgono e varranno anche come materiale utile per formulare nuovi prodotti e servizi;

2     - perché non è vero in generale che “le merci sono offerte gratis”, tranne per l’appunto alcuni servizi immateriali (che veicolano pubblicità e/o succhiano dati), come le Televisioni Commerciali, i Motori di Ricerca e i Social Media; ma tutte le altre merci (compresi i telefonini, che lo stesso Ferraris indica come “mezzi di produzione”, ma che gli utenti stessi sono costretti a comprarsi) e gli altri servizi, con cui la maggioranza dell’umanità continua a campare ed in cui investe le sue risorse monetarie, sono a pagamento, dal cibo all’energia, dall’abitazione alla mobilità (oppure pagati con le tasse, riguardo a istruzione, sanità, sicurezza); ed è solo da questi pagamenti che si genera il valore che compensa il capitale, tuttora dedito a tali produzioni (che poi in qualche consumo a pagamento, come gli acquisti al supermercato oppure le bollette di luce e gas od ancora le TV a pagamento, si annidino ulteriori occasioni perché le aziende fornitrici estraggano dati utili dai clienti, pur continuando a farsi pagare merci e servizi, mi pare un elemento interessante, ma alquanto  marginale);

3     - perchè il plusvalore che genera il profitto su tali produzioni, materiali od immateriali, si fonda tuttora sullo sfruttamento del lavoro altrui, anche se non si tratta sempre del classico lavoratore salariato, ma di una complessa gamma di figura, dai nuovi schiavi degli abissi del “terzo mondo” (ma anche di talune periferie metropolitane, come le italiche coltivazioni di agrumi e di pomodori) ai “lavoratori autonomi” teleguidati dalle stesse piattaforme (Uber, Foodora, ecc.), dalle false o vere “partite IVA” (comunque subalterne rispetto alle grandi aziende), fino ai funzionari e consulenti più interni alle grandi strutture capitalistiche, ben pagati, ma in ogni caso subordinati agli interessi e indirizzi dei loro padroni;

4     - perché l’automazione e i connessi aumenti di produttività, pur incidendo sul volume e sulla composizione dei lavori, sono ben lungi dal determinare quella sorta di società immateriale accennata da Ferraris (dove tutti consumano non si sa cosa, forse solo “dati”, e nessuno più produce case, veicoli, cibo, energia…: vedi nelle successive figure 1 e 2 quanto cresce tuttora l’economia delle merci); ciò sia nei paesi sviluppati (dove per altro molti lavoratori saranno impegnati a progettare e costruire robot, da un lato, e “contenuti multimediali” dall’altro), sia ancor più nei paesi poveri, dove già oggi stanno nascoste enormi sacche di fatiche e di sfruttamento, dalle miniere alle discariche, passando per le famose “fabbriche”, che in Cina e nel Bangladesh, in Vietnam ed in Etiopia, per esempio, risultano tuttora alquanto affollate, e lo resteranno probabilmente per molti decenni, finché il costo orario dei robot (ammortamenti compresi) non sarà sceso sotto ai miseri salari ivi vigenti (anzi, ritengo che insistere nella tesi della “morte del lavoro” suoni come un insulto alle spalle di queste imponenti schiere di lavoratori “invisibili” agli occhi nostri)

FIGURA 1: EVOLUZIONE DELLA DOMANDA DI ACCIAIO NEL MONDO DAL 1967


FIGURA 2: EVOLUZIONE DEL TRAFFICO MARITTIMO MERCI MONDIALE DAL 1970
5     - perché la collaborazione degli utenti nel consumo di merci e servizi, dal self service in supermercati e ristoranti al montaggio dei mobili fai-da-te, dall’home banking all’autolettura dei contatori del gas, in cambio di sconti (che in certi casi di fatto non si possono rifiutare oppure nel tempo svaniscono) costituisce una discutibile evoluzione delle offerte commerciali (pur non sempre sgradita al consumatore, me compreso) e può contribuire ad aumentare i profitti ed a ridurre i posti di lavoro, ma non per questo trasforma il consumatore in lavoratore sfruttato, anche e soprattutto perché il consumatore conserva la libertà di non consumare questo o quel prodotto o tipo di prodotti, mentre il lavoratore ha necessità del salario; ancor meno sfruttato, semmai truffato, è il consumatore che cede informazioni;

6     - perché il denaro non è solo “l’informazione su quanto denaro possiedono gli utenti”, ma resta l’unica merce convertibile in ogni altra merce, ed il cuore del potere capitalistico, nel cui ciclo di valorizzazione entrano certo, come le merci ed il lavoro, ed i servizi privatizzati, anche i dati “documediali”, strumento inizialmente di marketing per il controllo dei mercati, ma anche merci essi stessi (così come merce è ogni fase intermedia del ciclo, compreso il denaro ed il lavoro: resta valido a mio avviso Sraffa con la sua “Produzione di merci a mezzo di merci”6); semmai è importante rilevare come, dopo la fine della convertibilità aurea del denaro cartaceo - ufficialmente datata 1973, ma ratificando una svolta già in precedenza maturata – e con la crescente smaterializzazione del sistema bancario, il denaro stesso si sta riducendo a “pura informazione”: resta però un “dato particolare” come resta “una merce particolare”; “merci” “monete” “informazioni” sono a mio avviso categorie contigue ed in qualche misura fungibili, ma non si annullano l’una nell’altra, mi sembra indispensabile capirne la singola peculiarità e non confonderle in una notte dove tutte le vacche sono nere.

Per tutti questi motivi, ritengo fuorviante indicare le “piattaforme” come i soli “poteri forti”, la controparte degli utenti/consumatori (anche sul piano pratico, “consumatori di tutto il mondo unitevi” non mi sembra più conseguibile che non “lavoratori ecc. unitevi”), tanto meno con la rivendicazione, avanzata da qualcuno “facciamoci pagare da FaceBook per i dati che ci ruba”, viceversa correttissima quella di De Michelis “divieto di profilazione” o quella di Morozov sul controllo pubblico e democratico dei dati; semmai rivendichiamo di poter pagare servizi informatici tipo FaceBook e Google, purché senza profilazione (e Televisioni senza pubblicità), così come paghiamo acqua ed energia, cibo e servizi.

Fondamentale mi sembra invece comprendere la nuova configurazione del capitalismo, di cui il dominio sui meta-dati è un passaggio importante e peculiare, che si innesta però sul preesistente e persistente capitalismo finanziario (FaceBook, Amazon, Google ecc. sono anche non a caso tra i maggiori protagonisti dell’accumulazione di capitale, dentro e fuori dalle borse, ma soprattutto fuori dai “confini nazionali” e dentro le aree oscure dei paradisi fiscali, quanto meno quelli legalizzati dentro l’Unione Europea, come Irlanda, Lussemburgo, ecc.).

La questione del controllo sui dati ha una sua specificità, ma non può e non deve soppiantare le altre vertenze sociali ancora possibili tra capitale e lavoro, tra sfruttati e sfruttatori: nelle aziende, nei territori, nei bilanci degli stati, nelle contese internazionali su commercio, fisco, monopoli (in cui a mio avviso solo una scala europea può consentire qualche argine alla prepotenza delle aziende multinazionali, che siano o meno di natura “documediale”).


COROLLARI SUL COMUNISMO E SUL POPULISMO

Non so se solo per amore del paradosso, o perché proprio ci crede, Maurizio Ferraris affianca il suo disvelamento della verità documediale con una serie di affermazioni –per altro solo accennate - che nell’insieme dipingono lo stato delle cose presenti come molto simile al “comunismo realizzato”:
il controllo dal basso sui mezzi di produzione: gli utenti produttori di dati documediali posseggono il loro smartphone;
la fine dell’alienazione: grazie alla connessione permanente tutto sappiamo e non c’è distinzione tra tempo di lavoro e tempo libero;
la fine della divisione del lavoro: tendenzialmente tutto digitale;
la fine delle classi: permarrebbero solo differenze di reddito, seppur crescenti;
la fine dello stato: molte prerogative sono passate ad altri soggetti (per lo più privati), vedi censimenti, poste, moneta e talora anche la forza;
l’internazionalizzazione: sostituita dalla globalizzazione;
la dittatura del proletariato: costituita dal populismo.

A me sembra tutta una rappresentazione caricaturale, che non aiuta a comprendere l’effettiva assimilazione di elementi socialisti da parte del capitalismo nella sua lunga evoluzione attraverso il Novecento, per superare le proprie crisi e per contrapporsi al “socialismo reale”, sia tramite coscienti mediazioni con il sindacalismo socialdemocratico, sia come esito di ristrutturazioni maturate oggettivamente nella competizione “schumpeteriana” tra aziende e tra stati.
Proprio in ossequio al criterio hegel-marxiano “tesi-antitesi-sintesi” il capitalismo di oggi è assai diverso da quello ottocentesco ed ha assorbito qualcosa dai suoi storici antagonisti: il processo ed i suoi esiti son ben indagati, tra l’altro da Boltanski e Chiapello7,8, come anche da Piketty9,10; ma il vincitore è chiaramente il capitalismo e non il suo opposto.
Ed i risvolti in termini di alienazione, ad esempio, oppure di divisione in classi, sono forse un po’ diversi dalle battute di Ferraris: vedi per l’alienazione Demichelis, e per le classi ancora Piketty.

Non mi dilungo pertanto oltre nelle confutazioni alle singole affermazioni di Ferraris, se non per l’argomento del populismo, che trova uno sviluppo più argomentato nel saggio in esame.

Secondo Ferraris le formazioni populiste sono sostanzialmente in balia delle preferenze degli elettori, espresse dai sondaggi e dai social media (“oclocrazia” ovvero governo della plebe: questa sarebbe la moderna “dittatura del proletariato”), e sempre meglio conosciute grazie allo spionaggio documediale, fino a divenire governi parcellizzati ed irresponsabili.
Viceversa secondo Ferraris il fascismo è un regime autoritario “con progettualità immensa e catastrofica e incurante delle idee dei governati”.

Credo che in queste valutazioni vi siano gravi errori storici (e purtroppo anche di prospettiva):

-       sul Novecento, perché fascismo e nazismo seppero ben convogliare il consenso delle masse, conoscendole (pur in una fase di forte crisi sociali e di polarizzazioni ideologiche), sia per conquistare il potere (anche attraverso elezioni, inizialmente non meno libere rispetto alla media del tempo), sia per conservarlo, attraverso la propaganda, ma non solo (vedi ad esempio la conversione del fascismo alla opportunità del Concordato con la Chiesa Cattolica); consenso che avrebbero a lungo conservato se la guerra, invece di perderla, l’avessero vinta;

-       su questo inizio di secolo, perché fenomeni elettorali quali il Berlusconismo, il Trumpismo, la Brexit, Bolsonaro in Brasile, ed in misura minore anche i nuovi populismi italiani ed europei, sono avvenuti tramite dosi massicce di propaganda multimediale di tipo vecchio (TV) e nuovo (web), vellicando sì i sentimenti di larghe fasce di elettori, ma non certo in mero inseguimento dei loro “profili”, bensì anche per cercare di realizzare “progettualità immense” (speriamo non altrettanto catastrofiche): non mi viene di identificare con la “plebe” né Casaleggio (padre e figlio), né Grilllo, né Salvini (anche se gli ultimi due sanno valorizzare i propri lati plebei).


Fonti
1.    Maurizio Ferraris ARTICOLI SU “LA REPUBBLICA” in data 28dic2018, 8gen19, 29gen19, 01feb19
2.    Evgeny Morozov “L' INGENUITÀ DELLA RETE. IL LATO OSCURO DELLA LIBERTÀ DI INTERNET” -  Codice, Torino 2018
3.    Lelio Demichelis “LA GRANDE ALIENAZIONE” - Jaca Book, Milano 2018
4.    Fulvio Fagiani “CONVERSAZIONE/INTERVISTA A LELIO DEMICHELIS SULL’ALIENAZIONE” su UTOPIA21, gennaio 2019 https://drive.google.com/file/d/1YDHb0asJXGgCNsWV2p5EmwASOmYTvFfg/view
5.    Fulvio Fagiani “LE PIATTAFORME COME MODELLO DI IMPRESA” su UTOPIA21, luglio 2018 https://drive.google.com/file/d/18kw3-ZL6MTur94O6AsRiwJpWij5kw-88/view
6.    Pietro Sraffa “PRODUZIONE DI MERCI A MEZZO DI MERCI” – Einaudi, Torino 1960 - 1999
7.    Luc Boltanski e Eve Chiapello “IL NUOVO SPIRITO DEL CAPITALISMO” – Mimesis, Milano/Udine 2014
8.    Aldo Vecchi “IL TERZO SPIRITO DEL CAPITALISMO, INDAGATO DA BOLTANSKI E CHIAPELLO” su UTOPIA21, gennaio 2018 https://drive.google.com/file/d/18rOwVEv0Uv-uYPjmBw7OdeXY4aKczbyg/view
9.    Thomas Piketty “IL CAPITALE NEL XXI SECOLO” – Bompiani, Milano 2014
10. Aldo Vecchi “PIKETTY: IL CAPITALE NEL XXI SECOLO (E PRECEDENTI)” su UTOPIA21, novembre 2017 https://drive.google.com/file/d/1N-8cYVuTAiCes4_S2UV9pBxm0f20SbMH/view