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giovedì 21 novembre 2019

UTOPIA21 - NOVEMBRE 2019: IL FENOMENO URBANO: E LA COMPLESSITA’? DUBBI SUL SAGGIO DI BERTUGLIA E VAIO




Un testo ambizioso, un po’ deludente ma stimolante, sulla complessità dei fenomeni urbani, dalla rivoluzione industriale ai giorni nostri.

Sommario:
-       LE SCIENZE DEL TERRITORIO E LA COMPLESSITA’
-       L’INTERSEZIONE CON LE ALTRE SCIENZE UMANE
-       CONFRONTI CON L’ECONOMIA E LA POLITOLOGIA
-       LA TRASFORMAZIONE DELLA CITTA’, DALLA RIVOLUZIONE INDUSTRIALE
-       GLI APPROFONDIMENTI STORICI SU ROMA…
-       … E SU TORINO
-       CONCLUSIONE SULLA “COMPLESSITA’ ”
(in corsivo le annotazioni più personali)

per le immagini vedere il sito universauser/utopia21 


LA COMPLESSITA’

Il bel titolo, alcune recensioni favorevoli2,3 e la firma congiunta di un urbanista e di un fisico mi hanno spinto ad affrontare la lettura di questo ambizioso e corposo volume, che (anche nella prefazione di Gianfranco Dioguardi, nell’introduzione e nel risvolto di copertina) promette di rivisitare le scienze urbane sotto l’ottica della “complessità”, intesa come nuova  metodologia, trasversale a diverse discipline che studiano fenomeni complessi.
In tal senso gli Autori avevano già pubblicato congiuntamente altri testi metodologici 4,5 , mentre qui mostrano l’ambizione di attraversare nel merito, con questa impostazione, i campi disciplinari specifici relativi, in senso lato, alla città ed al territorio.

E su questo fronte mi sembra di poter dire che il risultato non è raggiunto (come più avanti cercherò di argomentare analiticamente), mentre il testo mi sembra comunque valido come grande raccolta interdisciplinare di contributi utili, come sollecitazione o come ripasso (per i più noti tra i temi e gli autori citati) alla comprensione storica del “fenomeno urbano”.

Che l’urbanistica si collochi all’intersezione di tanti saperi diversi, d’altronde, si sapeva da tempo, e lo aveva ben evidenziato lo stesso Le Corbusier (che negli ultimi decenni è stato anche giustamente criticato, come gran parte del “movimento moderno” – il che avviene anche nel testo in esame - per la parzialità del suo approccio alla progettazione), affermando che “l’urbanistica è una chiave”, come da schema in copertina dell’omonimo volume6.



FIGURA 1 – Copertina del testo di Le Corbusier, 1955-1966

Gli Autori si smarcano da ogni pretesa di modellizzazione matematica dei fenomeni sociali e territoriali, ed in particolare dai tentativi americani degli anni ’60 di ricondurre l’insieme dei processi socio-territoriali ad un'unica matrice computazionale complessiva (Ira Lowry su Pittsburgh nel 1964), che ebbero un certo seguito anche negli ambienti accademici italiani in quel periodo, ed assumono invece uno stile narrativo, che applicano sostanzialmente a 3 filoni, pur in parte intrecciati nel testo:
-       una ampia rassegna sulle scienze umane connesse: filosofia, antropologia, sociologia, economia, diritto e politologia, semiotica, paesaggistica…
-       una storia della città e dell’urbanistica a partire dalla rivoluzione industriale,
-       due approfondimenti storici e “didascalici” su Roma e su Torino, dall’Ottocento ad oggi.
Anzi a quasi-oggi, perché non vi è alcun cenno alla ascesa delle sindache a 5Stelle Raggi ed Appendino, se non nelle post-fazioni (su Roma e su Torino, rispettivamente) di Vezio De Lucia e Guido Bodrato, che arricchiscono il testo assieme a quelle del filosofo Enrico Giannetto, dell’economista Salvatore Rossi (Banca d’Italia, ora TIM) e di Edoardo Salzano (qui come redattore del Piano Paesaggistico Regionale della Sardegna del 2006).

Per contenere questa recensione in una lunghezza ragionevole, non ritengo opportuno riassumere l’intero contenuto del testo  bensì soffermarmi sugli elementi di forza e su quelli – a mio avviso - di debolezza.


L’INTERSEZIONE CON LE ALTRE SCIENZE UMANE

La poderosa panoramica sui fronti della sociologia, antropologia e filosofia mi sembra esauriente (con poche assenze significative, ad esempio Maffesoli e le sue moderne tribù elettive, più o meno nomadi [A]), sia dove riporta le teorie descrittive della realtà sociale e percettiva (es. Simmel e la scuola di Chicago, Weber, Wirth, Foucault, Soja, Augé, Bauman, Lynch, Norberg-Schulz, Certau, ecc.), perché la città è costituita innanzitutto dalle persone che la abitano e la usano, sia dove include il soggetto della conoscenza nel campo della “complessità”, sottolineando quanto sia pertanto complessa la visione di fenomeni complessi da parte di soggetti complessi (Husserl, Merlau-Ponty).

Estrapolo da questi percorsi Lefebre ed Heidegger:

-       Henry Lefebre (ed Harvey suo profeta7) perché mi pare molto apprezzato dagli Autori (che ne riprendono alcuni assunti in altre parti del testo), più di quanto a mio avviso meriti (pur riconoscendogli l’invenzione del “diritto alla città”), sia quando teorizza, come antagonismo alla città capitalistica la “festa quotidiana”, ovvero una creatività anarcoide (e un poco edonista?) senza critica e rifondazione del lavoro (ovvero senza autocoscienza dei lavoratori sfruttati e senza consapevolezza del lavoro necessario), sia quando esalta, come contro-altare alla città capitalistica segregata, subordinata al valore di scambio, una mitica “città-opera” dell’ancient régime: dove si consumavano sistematici soprusi classisti ai danni dei ceti subalterni (relegati magari nelle soffitte, invece che in periferia) e dei ceti rurali esclusi, per tacere dello status incerto e spesso disperato dei vagabondi (o hobos) di allora, che dalle campagne cercavano rifugio presso la città del “valore d’uso” (secondo Lefevre).

-       Martin Heidegger, perché la sua visione del  Costruire-Abitare-Pensare è ripresa ed ampliata nel saggio in post-fazione di Giannetto, la cui indubbia solidità concettuale mi lascia però qualche dubbio storico-sociale: secondo Giannetto, la svolta del neo-litico, che  porta la specie umana ad assoggettare stabilmente le altre specie, ed in particolare ad allevare animali per sfruttarne il lavoro e per cibarsi delle loro carni, innesca sensi di colpa che vengono esorcizzati tramite i riti sacrificali nel tempio; il tempio e la città attorno ad esso (ed infine senza di esso, ma passando attraverso il cristianesimo che sublima il sacrificio nella figura di Gesù, sacrificato per altro dal potere fariseo proprio perché si opponeva ai sacrifici di animali nel tempio[B]) divengono strumenti di rimozione della colpa, fino alla moderna città totalmente artificiale, che ha dimenticato l’origine naturale di cibi e carni.   
Heidegger si confronta con questo ‘Abitare nell’artificio’, indicando nell’Arte e nella Poesia i soli modi perché l’uomo moderno possa tornare a conoscere la natura.
I miei dubbi su questa ricostruzione antropologica riguardano soprattutto i confini tra ciò che è città e ciò che non lo è, perché fino a pochissimi decenni addietro gli animali da lavoro e da carne erano ben presenti nei cortili di gran parte delle realtà urbane europee, tolte forse solo le grandi città, e quindi la maggioranza degli abitanti (oltre alla popolazione più specificamente rurale) si trovava priva di questo scudo artificioso per rimuovere i sensi di colpa carnivori (e facilitata a conoscere la natura, anche senza ricorrere all’arte ed alla poesia).


CONFRONTI CON L’ECONOMIA E LA POLITOLOGIA

Meno soddisfacenti mi sembrano invece le incursioni sul campo dell’economia e della politologia:

-       riguardo all’economia:
o    malgrado il dialogo con Salvatore Rossi, che nella sua post-fazione, a conclusione di una analisi economica sulle città post-industriali in quanto produttrici di “servizi ad alta intensità di conoscenza”, ne legge i rischi “marginalizzanti” perché il capitalismo post-industriale (non “più predatorio di quello fordista”) “è stato finora ancor meno regolato” (anche per “la sua natura sovranazionale”), ma le ritiene “più vivibili, più pulite e più sicure di quelle del capitalismo fordista” e non ne esclude un possibile controllo, gli Autori invece nel capitolo 5.5 mostrano di recepire senza riserve l’ipotesi più catastrofista di Saskia Sassen, che assimila nel concetto di “città globali”, polarizzate tra ceti super-ricchi e ceti subalterni marginali (dopo l’espulsione dei ceti medi), tutte le principali metropoli, senza considerare le differenze che le residue, ma non debellate, politiche socialdemocratiche di difesa del welfare determinano nelle metropoli continentali europee, da Parigi a Berlino, da Vienna a Stoccolma (ed in parte direi anche a Milano);
o   la corretta considerazione sul peso crescente della “finanziarizzazione” del ciclo edilizio e della speculazione immobiliare nelle operazioni di riqualificazione delle aree metropolitane più appetibili, porta gli Autori, nel capitolo 5.2, a teorizzare l’esistenza, a fianco della “rendita fondiaria assoluta” (cioè il divario tra prezzo del suolo agricolo e prezzo del suolo urbano) e della “rendita fondiaria differenziale” (in funzione della localizzazione delle aree edificabili), di una nuova “rendita pura” (connessa pare alla diversità delle destinazioni d’uso, nonché alla gestione finanziaria delle operazioni di trasformazione), che invece è di fatto solo una nuova forma della “rendita differenziale”, la  quale sempre ha lucrato anche sulle destinazioni d’uso degli immobili [C]. 

-       riguardo alla politologia, il testo si appoggia soprattutto su Junger Habermas e sulla sua proposta di una democrazia deliberativa in cui il confronto si fa beneducato ed asettico, dimenticando le radici materiali e antropologiche dei conflitti politici, e su Isaiah Berlin, che discetta di libertà negative e libertà positive in termini sostanzialmente liberali, per approdare poi ad un auspicio di superamento dei limiti della democrazia rappresentativa e del funzionalismo modernista, in nome della comprensione della complessità: malgrado interessanti riflessioni sulle esperienze di “progettazione partecipata” di Giancarlo De Carlo nei lontani anni ’60 e poi di altri (tra cui Marianella Sclavi: ma gli esempi potrebbero essere anche più numerosi) e sulla maturazione dei concetti di bene pubblico e di bene comune nella prassi urbanistica e nella evoluzione del paesaggismo, mancano mi pare molti tasselli per costruire una critica alla democrazia liberale, che valorizzi i conflitti sociali senza abbandonare i valori “costituzionali”, lungo i percorsi tracciati ad esempio, con il dubbio ma senza perdere il rigore dei principi, da Norberto Bobbio o da Stefano Rodotà (oppure anche da Danilo Dolci e da Aldo Capitini); e manca ogni cenno alla degenerazione populista e sovranista che caratterizza invece negli ultimi anni l’esercizio della democrazia in vaste parti del mondo. 


LA TRASFORMAZIONE DELLA CITTA’, DALLA RIVOLUZIONE INDUSTRIALE

La parte più propriamente storica del testo mi ha lasciato in più punti perplesso,

-       sia negli aspetti di metodo, per l’andamento un po’ ‘elicoidale’ della narrazione delle vicende (ad esempio inseguendo il filone utopico e poi le città giardino fino alle “new towns” del secondo Novecento, per poi risalire alle trasformazioni urbane connesse alla prima rivoluzione industriale, e poi da lì ridiscendere) e per una certa sovrapposizione tra storia delle idee (e critica delle idee) e storia della realtà (e critica della realtà); ad esempio, a Vienna tra le 2 Guerre mondiali, la socialdemocrazia riuscì a realizzare abitazioni popolari per 200.000 persone su 2 milioni di abitanti residenti nella metropoli, ed è certo importante analizzarne le teorie e la qualità dei progetti: ma questo enorme sforzo costruttivo è sufficiente per sorreggere la definizione di “Vienna Rossa”, trascurando una valutazione complessiva sulla evoluzione urbana in quel periodo?    

-       sia per diversi aspetti di contenuto (connessi anche a quanto sopra detto sul metodo, riguardo alla generalizzazione delle categorie di giudizio): ad esempio la successione tra “città fordista”, fondata sulla grande industria, ed una successiva “città keynesiana”, fondata sui consumi (e sulla piccola industria?), mentre, almeno in Italia, si è realizzata una compiuta struttura fordista delle fabbriche (ed in parte delle realtà urbane) solo dalla metà del Novecento, in tutt’uno con la crescita “keynesiana” dei consumi di massa (senza i quali, per altro, anche nei decenni precedenti e nei paesi con più precoce sviluppo industriale, una produzione di massa con metodi fordisti si era resa possibile in parte per altrettanto precoci consumi di massa, e per l’altra parte per le produzioni belliche connesse – compresi gli ingenti ‘preparativi’ alla prima ed alla seconda guerra mondiale; un altro esempio riguarda le piccole fabbriche, che almeno in Italia [D], hanno ampiamente convissuto con le grandi aziende in tutte le fasi dello sviluppo industriale, ed hanno anche spesso generato accumulazioni di capitali rapidamente investiti nell’edilizia, senza aspettare il neo-liberismo degli anni ’80, diversamente da quanto raccontato dagli Autori.

GLI APPROFONDIMENTI STORICI SU ROMA…
La storia urbanistica di Roma è ripercorsa (nel capitolo 5.4), appoggiandosi largamente sul lavoro di Italo Insolera 9, a partire dagli ampliamenti ottocenteschi, anche precedenti alla conquista piemontese (senza trascurare però un interessante flash-back su Sisto V, che già nella Roma barocca intrecciava assi scenografici con raffinate speculazioni edilizie) evidenziando il prevalere delle logiche incrementali, che hanno continuato ad aggravare la congestione delle aree centrali, anche per il rapido snaturamento  del primo Piano Regolatore innovativo del 1909 (Sindaco Nathan, cui si deve una notevole estensione della rete tranviaria, in un quadro giolittiano di forti aziende municipalizzate: rete tranviaria successivamente amputata in favore dell’automobile), e per il fallimento dell’alternativa del “Sistema Direzionale Orientale” previsto (ma – rammenterei - con mobilità solo su gomma) dal piano faticosamente approvato nel 1965, anch’esso deformato dalle prevalenti logiche speculative.
Constatando quindi che l’unica infrastruttura moderna significativa a scala territoriale, a correzione dello schema radiocentrico delle antiche strade consolari, è l’anello (infernale) del Grande Raccordo Anulare, che connette (con le autostrade afferenti) tutte le recenti espansioni urbane – in parte troppo dense ed in parte troppo rade –, in un territorio metropolitano che invece su ferro rimane poco servito, con 2 linee metropolitane e mezza (la linea C, tuttora in stallo), oltre alle linee ferroviarie storiche (e anch’esse radiali).

Gli Autori elogiano le prime Giunte di Sinistra degli anni 70, da Argan a Petroselli, sia per innovazioni quali le “Estati romane” dell’assessore Nicolini, sia per l’attenzione alle periferie  e alle borgate disseminate nell’Agro Romano, comprese quelle di origine abusiva: ma quella stagione politica non produsse comunque un nuovo Piano né un diverso assetto degli insediamenti né dei trasporti.
Anche se Bertuglia&Vaio attribuiscono invece molta importanza al progetto del Parco dei Fori e della via Appia, avviato in quegli anni ed elaborato da Benevolo ed altri (tra cui Gregotti), con la significativa collaborazione del Sovrintendente LaRegina, progetto che prevedeva l’unificazione in un solo parco urbano di pregiate aree archeologiche oggi suddivise: in particolare il Foro Romano separato dai Fori Imperiali per l’ingombrante presenza della colata di cemento ed asfalto della “via dei Fori Imperiali”, lo stradone celebrativo improvvisato ed imposto da Mussolini per collegare il Colosseo con piazza Venezia e svolgervi le parate politiche e militari del regime fascista.
Il successivo ridimensionamento del progetto, a partire da un dietro-front della Sovrintendenza, che ha ritenuto di vincolare anche lo stradone mussoliniano come testimonianza storica, ed il suo sostanziale affossamento da parte delle successive amministrazioni (tornate al centro-sinistra di Rutelli e poi di Veltroni dagli anni 90 al 2008) è visto dagli Autori come un grave arretramento culturale [E], senza una autonoma valutazione sulla concreta fattibilità di quel progetto: non mi riferisco all’ipotesi di rivolgere il piccone demolitore contro lo stradone dello stesso Duce picconatore[F], ma a quella di aprire tutte le aree archeologiche centrali di Roma, senza recinzioni, alla fruizione pubblica permanente e non sorvegliata, a mio avviso incompatibile con la specifica delicatezza dei luoghi (ed a fronte di una opinione pubblica che, per ragioni di sicurezza in parte fondate, spesso pretende la recinzione anche per il più modesto parco di quartiere).



Figura 2 – Roma, Via dei Fori imperiali, pedonalizzata


L’approfondimento su Roma si conclude con un severo giudizio degli Autori a carico del nuovo Piano Regolatore elaborato in questo secolo sotto le Giunte di Rutelli e Veltroni, ma gestito dai sindaci successivi, Piano redatto da Oliva ed altri e da Campos Venuti, che poi si dissociò da alcune scelte procedurali in fase di approvazione.
Trascurando ogni altro aspetto, gli Autori censurano soprattutto la scelta di non cancellare le consistenti sacche di edificabilità insite nel pre-vigente Piano, ma di concentrarle nelle “nuove centralità”, esterne al Grande Raccordo Anulare, di fatto caratterizzate da insediamenti residenziali e centri commerciali, senza il nuovo terziario direzionale auspicato dal Piano e senza una diversa politica dei trasporti.
Le mie riserve su tale valutazione, probabilmente meritata dal Piano o quanto meno dalla sua attuazione, riguardano specificamente la questione dei trasporti, perché rammento le insistenti sottolineature dello stesso Campos Venuti sulla contestuale “cura del ferro” 10 che avrebbe dovuto accompagnare le nuove centralità del PRG di Roma, ponendo a carico degli operatori edilizi le opere necessarie per estendere e raccordare la rete ferroviaria e metro-tranviaria, ma non trovo nel testo di Bertuglia&Vaio su questo tema (pure da loro trattato per i tempi di Nathan e di Mussolini) alcun cenno che riferisca ai lettori la narrazione di Campos e che spieghi se era pura retorica, oppure qualcosa non ha funzionato (e perché) nella attuazione del Piano finora accumulata.
(Purtroppo sono recentemente mancati sia Federico Oliva che il suo maestro Giuseppe Campos Venuti: spero che qualcun altro dei protagonisti della formazione di quel PRG intervenga nel dibattito).  


… E SU TORINO

Dopo un bel racconto sulla (voluta) trasformazione di Torino da ex-capitale sabauda a città industriale negli ultimi decenni dell’Ottocento ed i conseguenti sviluppi della ‘città della FIAT’ nel primo Novecento, la storia urbanistica della città è così schematizzata dagli Autori nel capitolo 5.6 (mentre è dettagliatamente spiegata, con più dialettica e più sfumature, nella post-fazione di Guido Bodrato):
-       il Piano Regolatore degli anni ’50 asseconda le spinte insediative industriali e  residenziali lungo le direttrici consolidate,
-       i conflitti sociali innescati dallo sfruttamento della forza lavoro e dalle condizioni abitative dei lavoratori immigrati, soprattutto dal Sud Italia, e le prime avvisaglie delle crisi produttive portano nel 1975 alla svolta delle Giunte di sinistra, in Comune Provincia e Regione,
-       la Giunta Novelli, con l’Assessore Radicioni, elabora un nuovo Piano Regolatore, in accordo con la pianificazione regionale e comprensoriale, che prevede un diffuso riequilibrio delle funzioni produttive, residenziali e di servizio, nell’area metropolitana, difendendo la vocazione industriale e controllando la rendita immobiliare,
-       come contraccolpo delle prime inchieste su Tangentopoli (che a Torino arriva già nel1983, con l’affare Zampini, e che in prevalenza riguardano il Partito Socialista), si apre una spaccatura nel Partito Comunista, specificamente sul nuovo PRG, che viene pertanto affossato, mentre il Comune passa al “pentapartito”,
-       il nuovo Piano Regolatore, elaborato da Cagnardi e Gregotti [G], varato nell’ambito del Pentapartito e poi gestito (con una miriade di varianti)  dalle maggioranze “uliviste” Castellani, Chiamparino e Fassino, dal 1993 al 2016 (il cui emblema sono le Olimpiadi Invernali del 2006), capovolge in direzione neo-liberista e della competizione tra città, “marketing urbano”, l’assetto del Piano Radicioni, cavalca la rendita fondiaria derivante dalla riconversione delle aree industriali dismesse (trascurandone il valore archeo-industriale, ad eccezione del Lingotto, su cui però il Comune subisce l’iniziativa della FIAT, e delle Officine Grandi Riparazioni ferroviarie), concentra insediamenti ad alta densità in aree semi-centrali, quali l’asse della Spina (nuovo asse stradale sopra la linea ferroviaria interrata), con esiti negativi sia riguardo alla qualità architettonica (riconosciuti poi dallo stesso Cagnardi) che al mix funzionale (come nelle nuove centralità di Roma, solo residenza, con eccedenze speculative, e centri commerciali), con poco verde e servizi (tranne il Parco Dora, i cui meriti vanno però anche ai locali Comitati) e senza conseguire un ribaltamento degli affacci degli isolati che davano di spalle alla ferrovia[H], il che rende la Spina più simile ad una autostrada che non ad un boulevard.


Figura 3 – Torino, un’immagine della “Spina”

Non ho competenza ed esperienza sufficiente per contestare questa valutazione, ampliamente negativa, sulla Torino modificata dal Piano del 1995, anche se come turista devo confessare di aver apprezzato sia il nuovo Lingotto (a parte i parcheggi a raso anziché interrati), la Spina tra nuovo Politecnico e Officine Grandi Riparazioni (elegantemente restaurate) e più in generale la faccia vivace della Torino “Olimpica” rispetto alla tristezza della Torino degli anni ’70.
Però mi chiedo:
-       si possono confrontare due filosofie di piano (Radicioni e Cagnardi-Gregotti) senza dedicare attenzione al sistema dei trasporti (ignorato dagli Autori), che nel primo caso è stato sperimentato con insuccesso, trasformando il tradizionale (e attuale) sistema radiale di tram e autobus con un sistema “reticolare a scacchiera” (che forse funzionerebbe con le moderne “app” sugli smartphone degli utenti, fatto salvo il “digital divide” a danno di anziani, disabili, neo-immigrati, ecc.), e nel secondo caso ha tentato di intrecciare il passante ferroviario (ed i connessi servizi per i passeggeri locali, ma anche l’Alta Velocità con Milano e di lì fino a Salerno) con la nuova linea metropolitana (e un domani con la linea 2);
-       si può ipotizzare quanto il Piano Radicioni sarebbe stato attuabile a fronte della spinta oggettiva verso la de-industrializzazione (che – nel quadro politico ed economico nazionale ed internazionale – non è solo soggettivo capriccio padronale)? Ovvero: è possibile il socialismo in un solo PRG? Con ciò non intendo proporre l’abdicazione dei pubblici poteri al cospetto della rendita, ma suggerire che questa vada domata ed “estratta” in favor del pubblico dove può formarsi e non demonizzata con proclami anti-storici: cercare di rendere ‘relativa’ la rendita che mira a divenire ‘assoluta’ [I].


CONCLUSIONE SULLA “COMPLESSITA’ ”

I giudizi degli Autori su Roma e Torino mi sembrano fondati e più che legittimi, soprattutto dove sono specificamente motivati (ancorché da me in parte non condivisi).
Mi chiedo però cosa c’entri la “complessità”?
Radicioni è forse meglio di Cagnardi perché comprende meglio la “complessità” antropologica e sociologica? (a me viene addirittura il dubbio del contrario, anche alla luce degli esiti elettorali, non solo del 1985, ma anche del 1993, Novelli perdente contro Castellani ).
Il progetto del Parco Archeologico di Benevolo è più apprezzabile sotto il profilo della “complessità” rispetto al vincolo della Sovrintendenza del 2001, che introduce le opere (ed i misfatti) del regime fascista tra gli elementi da valutare e/o conservare? (Anche qui ne dubito).
Non dubito invece che il testo di Bertuglia e Vaio, pur parlando ampiamente della complessità, rinunci poi ad utilizzare tale categoria per motivare le proprie valutazioni pro o contro determinati indirizzi progettuali, valutazioni che a mio avviso nascono invece da altri pur nobili e comprensibili (ed anche condivisibili) pre-giudizi degli Autori (ad esempio contro la rendita fondiaria e contro il neo-liberismo).


Fonti:
1.    Cristoforo Sergio Bertuglia e Franco Vaio – IL FENOMENO URBANO E LA COMPLESSITA’ – Bollati Boringhieri, Milano 2018
2.    Francesco Erbani - LA FORMULA CHE FA NASCERE UNA CITTÀ – su “La Repubblica del 11-04-2019
3.    Roberto Tadei - SI PUÒ COMPRENDERE LA COMPLESSITÀ URBANA? – in “città-bene-comune”, giugno 2019    www.casadellacultura.it/900/si-pu-ograve-comprendere-la-complessit-agrave-urbana-
4.    Cristoforo Sergio Bertuglia e Franco Vaio - NON LINEARITÀ, CAOS, COMPLESSITÀ - Bollati Boringhieri, Milano 2007
5.    Cristoforo Sergio Bertuglia e Franco Vaio - COMPLESSITÀ E MODELLI - Bollati Boringhieri, Milano 2011
6.    Le Corbusier - L'URBANISME EST UNE CLEF - Éditions Forces vives, Paris 1966
7.    Aldo Vecchi - LE CITTÀ RIBELLI RAPPRESENTATE DA DAVID HARVEY – su UTOPIA21, luglio 2017 
8.    Aldo Capitini – SEVERITA’ RELIGIOSA PER IL CONCILIO – De Donato, Bari 1966
9.    Italo Insolera - ROMA MODERNA. UN SECOLO DI STORIA URBANISTICA – Einaudi, Torino 1972
10. Giuseppe Campos Venuti – IL TRASPORTO SU FERRO PER TRASFORMARE LA CITTA’: ROMA ACONFRONTO CON LE METROPOLI EUROPEE – su “Urbanistica” n° 112 del 1999


[A] NOTA A : benché di nomadismo si parli nel testo, da un lato raccontando degli “hobos”, lavoratori spesso vagabondi – volontariamente oppure no - negli U.S.A. a cavallo degli anni della depressione, tra le due guerre mondiali, oppure dei “flaneurs metropolitani” come Baudelaire e Benjamin o del piacere di “perdersi” nei margini della città (a dispetto di esattori ed agronomi) secondo La Cecla. Raffronti in cui si rischia di dimenticare – a mio avviso - la profonda diversità delle condizioni materiali poste alla base di tali comportamenti (forse gli “hobos” avrebbero apprezzato la stabilità connessa all’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori, in vigore in Italia tra Brodolini e Renzi,  se mai lo avessero potuto assaggiare).
[B] NOTA B : mi pare una interpretazione estensiva dell’episodio evangelico in cui Gesù Cristo “scaccia i mercanti dal tempio”;  a mio avviso la solidarietà di classe tra mercanti, farisei e scribi potrebbe bastare per motivare la persecuzione verso Gesù, anche senza coinvolgere la questione del sacrifico animale, di cui c’è esile traccia in Marco e Matteo in quanto “rovesciò le tavole dei cambiamonete e le sedie dei venditori di colombi” (nulla in Luca) e più ampia in Giovanni (“scacciò le pecore e i buoi”), retrodatando però l’episodio ad una visita al Tempio ben precedente alla Passione, il che allungherebbe i tempi della vendetta farisea. Segnalo anche che per Aldo Capitini, autore a me caro, non-violento ma anche vegetariano, l’episodio sarebbe “inventato” 8, perché in contrasto con il carattere mite di Gesù e della sua predicazione.
[C] NOTA C – La rendita differenziale si sarebbe insinuata probabilmente anche nelle pieghe della Riforma Sullo (esproprio preventivo delle aree fabbricabili, promessa e poi cancellata dai Governi di Centro-Sinistra degli anni ’60), assai rimpianta dagli Autori, con i quali concordo sul giudizio storico-politico su quella fase, meno sulle virtù salvifiche di quella riforma nella concreta situazione italiana.
[D] NOTA D – giudizio suffragato anche dalla testimonianza diretta, a seguito di un’infanzia da me vissuta vicino ai futuri “distretti” novaresi del rubinetto e del casalingo, che c’erano già di fatto negli anni ’50, anche se all’ombra di alcune – non molte - grandi fabbriche, operanti però in altri settori. 
[E] NOTA E – La visione troppo unilaterale degli Autori sulla questione Fori raggiunge un massimo riproducendo una lamentela a posteriori dello stesso Benevolo, secondo cui i progettisti furono “vittime di una selezione al rovescio… anche Gregotti ha lavorato poco in Italia … Io sono credo l’unico ordinario che sia stato bocciato tre volte consecutive a un concorso universitario”
[F] NOTA F - Stradone che il Sindaco Marino, nel suo mandato accorciato tra il 2013 ed il 2015, è riuscito almeno a pedonalizzare, pur lasciandolo in asfaltaccio, dimostrando quindi che la chiusura agli autoveicoli non penalizza più di tanto il traffico comunque congestionato presso il centro di Roma.
[G] NOTA G – Si tratta dello stesso architetto Vittorio Gregotti, nota archi-star internazionale, che nella nota E figura a Roma, secondo Benevolo, come vittima dei complotti neo-liberisti… Malgrado i quali Gregotti ha progettato lo ZEN di Palermo, l’università della Calabria, il quartiere Cannaregio a Venezia, l’intera operazione Bicocca a Milano (operazione di certo non sgradita al finanz-capitalismo), solo citando quel che mi viene in mente al momento; con tutto il rispetto dovuto a tutto il resto del pensiero e delle opere di Leonardo Benevolo
[H] NOTA H - Nel saggio di Bodrato si apprendono altre cose interessanti, in particolare sulle varianti correttive al PRG prima del 1975, con Astengo assessore in Comune con il centro-sinistra (nel 75 passerà alla Regione), sull’importanza dei “piani strategici” (concertati con gli attori economici e sociali) nella gestione con varianti del PRG Cagnardi-Gregotti, ed infine  sulle affinità tra il nuovo Assessore Montanari (Giunta 5Stelle della Sindaca Appendino eletta nel 2016) e il Piano Radicioni (e con Radicioni stesso) nel frenare il modello delle “Spine” e cercare di rivalutare le periferie; nonché sull’importanza degli investimenti per le Autostrade, negli anni 50-60 ed invece per le Università, negli ultimi decenni
[I] NOTA I – I diversi modi di affrontare la rendita sono ad esempio palesi oggi a Milano, nel confronto sul riuso degli scali ferroviari dismessi, dove Sergio Brenna ed altri propongono pesanti correzioni alle quantità in gioco, privilegiando il ‘verde orizzontale’ rispetto al solo ‘verde verticale’ con cui Stefano Boeri tenta di abbellire le scelte della Giunta (e delle Ferrovie), in un quadro dove le densità fondiarie ed i grattacieli salgono sempre più su…

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