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martedì 28 luglio 2020

UN RICORDO PERSONALE DEL PROFESSOR LODOVICO MENEGHETTI


A fronte della scomparsa del professor Lodovico Meneghetti, mi ha colpito – rispetto alla sua importanza come architetto, come urbanista, come docente e come intellettuale - la scarsa eco sulla stampa generalista (brevi necrologi solo su “Il Giorno”, sulla pagina novarese de “La Stampa” e sul settimanale diocesano novarese) e lo spazio piuttosto limitato anche tra gli ex-colleghi ed allievi su FaceBook (tra cui Emilio Battisti e Fabrizio Bottini), con molti brevi saluti o “mi piace”: vedi un estratto delle “schermate” in Appendice a questo testo).
Spero di più dalle riviste di settore, a partire da quelle dell’I.N.U. (anche se probabilmente sono molti i colleghi urbanisti che nei decenni Meneghetti ha mandato a quel paese…).

Poiché la biografia ed il profilo complessivo di Meneghetti sono abbastanza bene tratteggiati su Wikipedia https://it.wikipedia.org/wiki/Lodovico_Meneghetti , mi è sembrato opportuno scrivere una breve memoria del tutto personale, da scambiare con gli interlocutori che eventualmente la riterranno interessante.

Nel 67-68 ero iscritto al primo anno della Facoltà di Architettura del Politecnico di Milano, e ad un certo punto, dopo aver assaggiato brevemente i corsi tradizionali, anche noi “matricole” (che – talora con fatica – avevamo appena scelto l’indirizzo di studi universitario) ci trovammo davanti all’imprevista scelta del “gruppo di ricerca” da frequentare dentro la “sperimentazione” che rivoluzionava l’impostazione didattica.
In vetrina c’era l’intera facoltà (docenti scientifici e/o reazionari esclusi) con la presentazione dei diversi programmi, spesso fumosi e improvvisati o comunque difficili da capire per i neofiti, ancor più spaesati (in specie se provenienti dai paesi di provincia) nel capire i sottostanti sistemi di potere ed i possibili percorsi di qualificazione personale: la maggioranza dei miei compagni di corso, per prudenza, si ancorò ai docenti che comunque sarebbero capitati al primo anno, ovvero Gregotti (per gli studenti con cognomi dalla A alla L) e Pollini (dalla M alla Z); una minoranza più spericolata (me compreso) si buttò invece all’avventura.
Attratto dall’urbanistica, dopo una breve fascinazione per la proposta di Silvano Tintori (distinto e colto, già allora parlava di “territorio antropizzato” e mostrava sensibilità ambientaliste) e forse temendo troppa incertezza nell’iscriversi a Campos Venuti o De Carlo (invitati ad insegnare direttamente dall’Assemblea)[A], trovai molto convincente la proposta del gruppo Bottoni-D’Angiolini-Meneghetti (più Vercelloni e Redaelli) che – benedetta dal “Libro Bianco” degli studenti in una precedente occupazione della facoltà[B] – prometteva una solida indagine sui fattori strutturali degli insediamenti, esaminando popolazione (investimenti) e reddito, flussi di traffico e trasformazioni del suolo (“tendenza insediativa”), in particolare nelle regioni del Triangolo Industriale.
Se il professor Piero Bottoni, già anziano, era soprattutto il “padre nobile” del gruppo, che ogni tanto rammentava i CIAM e LeCorbusier [C], e Lucio Stellario d’Angiolini l’ideologo supremo della “coerenza regionale” (con un incrocio “lombardiano” tra rivoluzione tecnocratico-operaista e ammirazione – a forza di studiarlo - verso lo stesso capitalismo “schumpeteriano” e verso l’industrialismo comunque, alla faccia “delle contesse di Italia Nostra”), Meneghetti - allora assistente e poi incaricato di Topografia – era indubbiamente il più appariscente del gruppo sulla scena assembleare, sia per gli attributi fisici, come lo sguardo sulfureo e la voce  a bassa tonalità (tra Ugo Tognazzi e Sandro Ciotti, ma con accento novarese), sia per la verve polemica e per  il profilo culturale da “cavaliere solitario”, nelle battaglie urbanistiche locali – come Consigliere/Assessore e come urbanista - (ed allora anche con la scelta dell’università a tempo pieno), e però con un retroterra complesso, tra il jazz e le arti visive, e l’esperienza (chiusa proprio allora) della progettazione a tutto campo con Gregotti e Stoppino; o con la teorizzazione – in una occasionale pausa pranzo, all’ingresso degli “Istituti” - che “era giusto non avere figli”.

Nelle alterne vicende della Facoltà e della Sperimentazione (occupazione, esami annullati e ripetuti, defenestrazione dell’amatissimo preside Carlo De Carli ed arrivo dell’abilissimo preside Paolo Portoghesi), mi ritrovai così a partecipare per due anni alle attività del gruppo Bottoni, ed in particolare – mi pare – ad imparare qualcosa, innanzitutto da D’Angiolini e da Meneghetti:
-          qualcosa di negativo, anche, come una certa aggressività polemica fondata sulla presunzione del sapere tecnico/politico (ma erano cattivi maestri indubbiamente anche molti leaders studenteschi), oppure cos’è un sistema di relazioni personali di potere (soprattutto D’Angiolini[D]);
-          molto di positivo, riguardo ad esempio
o   allo studio intenso e selettivo dei dati statistici[E], ma anche di informazioni eterodosse (e anche di parte “padronale”),
o   all’apertura interdisciplinare, soprattutto verso l’economia (“Mondo economico” era lettura obbligata), la demografia (leggendo Livi Bacci), la geografia (ascoltando di persona – ma non sempre capendolo – Lucio Gambi): i problemi prima degli steccati disciplinari,
o   all’analisi delle forze sociali in campo (non solo padroni e operai,  ma anche “dove vanno i piedi dei consumatori”), a livello territoriale, sia macro che micro, che determinano il divenire dei luoghi, spesso più dei “piani urbanistici” (e certo più delle “buone intenzioni”),
o   ad una attenzione non rituale alla lotta di classe, nelle sue varie forme (compresa l’acculturazione, le rimesse degli emigranti, il lavoro femminile domestico e a domicilio…),
o   all’uso “politico” degli strumenti tecnici e giuridici, di cui essere, per quanto possibile, padroni e non schiavi,
o   all’importanza della gestione/applicazione dei piani urbanistici, rispetto alla mera fase di progettazione degli stessi (da qui la teoria meneghettiane[F] dell’”urbanista condotto”, che ho poi personalmente declinato e sperimentato – iniziando pericolosamente sulla scia piemontese di Astengo - come “tecnico comunale”),
o   alla non-separazione tra “urbanistica” e “architettura” (ma anche tra “struttura” e “sovra-struttura”: necessario però ricordarsi la differenza tra questi poli dialettici).

Poi presi un’altra strada didattica (e politica)[G] – anche se ci fu chi, forse, frequentò lo stesso gruppo per tutti e 5 gli anni di corso -; con altri professori (e compagni) imparai altre cose (e iniziai a disimpararne altre).
Però nello scontro sul commissariamento della Facoltà, successivo all’occupazione con i baraccati di via Tibaldi, nel 1971 (con defenestrazione anche dell’abilissimo – ma troppo audace – preside Portoghesi) ci trovammo alla fin fine a bloccare le (nostre) lauree, finché nell’aprile del 1973 il commissario Beguinot si defilò (parzialmente), ma l’assemblea impose che venissero esaminati per primi i gruppi di laureandi con docenti sospesi: tra questi, in parallelo, c’era un nostro super-gruppo con diverse tesine disciplinari, ma accomunate dal docente sospeso, Giacomo Scarpini (che presentammo – anzi solo le compagne parlarono e presentarono - come una sorta di “oggetto di tesi”), e c’era un gruppo di laureandi più classicamente studiosi, con relatore proprio Lodovico Meneghetti.

Negli anni ’90, quando ero tecnico comunale a Sesto Calende, suggerii Meneghetti come membro della Giuria per il Concorso “Piazze” e fu una bella occasione per re-incontrarlo, perfettamente in forma, e polemico come sempre: il progetto da lui caldeggiato, e vincente, è stato anche in parte attuato (pergolati esclusi).

Più tardi qualche contatto epistolare: con Anna, che per Meneghetti rimaneva “la Vailati”, sottoponemmo la ricerca “tra-i-laghi” all’attenzione del Professore; non ha invece apprezzato la rivista “Utopia21”.

Sul finire del secolo capitò ad Anna di incontrare per caso Meneghetti, in trasferta a Novara per comprare da Camporelli gli omonimi “biscottini”, da riportare in treno a Milano, trovandolo assai cordiale.

Negli ultimi anni confesso di non aver seguito e condiviso tutti i suoi interventi su “Eddyburg”, perché talvolta lo trovavo un po’ rigido e ripetitivo: però si trattava sempre di un “signor punto di vista”, non proclive alle mode (un po’ sbracate) dei tempi recenti.



 








[A] Confesso la mia buffa interpretazione dell’elenco ciclostilato con i nomi dei docenti, cui era aggiunto all’ultimo, ma con un timbro, “CAMPOS VENUTI”: non conoscendo l’illustre autore di “Amministrare l’urbanistica” (solo poi acquistai la prima edizione, del giugno 1967), pensavo fosse una formula di rito, in latino maccheronico/medievale, che nelle università riservasse un posto per chi arrivava all’ultimo minuto…
[B] Negli anni successivi al ’69 mi trovai a contrappormi a tale “benedizione” datata, che Meneghetti reiteratamente sbandierava, mentre una parte degli studenti degli anni ’70 (e segnatamente noi del Collettivo Autonomo) rivendicava la libertà di rimettere in discussione i meriti dei docenti, soprattutto riguardo al riformarsi delle gerarchie accademiche (e “sub-accademiche”: i cosiddetti “mini-docenti”, cioè studenti incorporati nei nuovi meccanismi del sapere e del potere): d’altronde, già nel ’68, il “gruppo di ricerca” Bottoni autovalutò “27/30” il lavoro svolto in quei primi mesi, ma rifiutò l’assegnazione di “30/30” che i docenti avrebbero voluto per quattro studenti “più meritevoli”.
[C] Qualche anno più tardi incontrai Giovanni Astengo in quanto Presidente della Commissione per un concorso alla Regione Piemonte, in cui l’orale era ormai pro-forma perché i candidati promossi alla prova scritta (tra cui io) erano meno dei posti da assegnare, e fu un profluvio di ricordi della nave dei CIAM e di LeCorbusier che cantava “allons enfants dans la brasserie…” (birreria da cui probabilmente d’altronde la Commissione arrivava).
[D] Sia all’interno del gruppo, perché essere “Bottoniani” era più che altro una espressione geografica, localizzata in Aula V (e al 5°piano del cubo color melanzana degli Istituti), essere “D’Angioliniani” era molto di più (allora non mi pare che ci fossero i “Meneghettiani”- o forse lo ero io stesso, ma a mia insaputa…); sia nelle aggregazioni didattiche, quella con Canella e Rossi “in nome della rivoluzione d’ottobre” (?), e ancor più spregiudicata quella ulteriormente allargata a Campos Venuti ed alla banda dei 4 della “Città-Fabbrica” (Magnaghi-Perelli-Stevan-Sarfatti), in quanto “asse formativo”, commentata dallo stesso Perelli con il tango “Aggreghiamoci dal basso - con Boatti Fior del Campos” ed avversata (o favorita?) da una parte del movimento con lo slogan (mio?) “Tutti aggressivi dai Big” (Claudia Capurso mi ha di recente trasmesso, ripescandola dai suoi archivi,  l’omonima mozione del 26 novembre 1970, alquanto buffa al rileggerla oggi).
[E] Come esemplificato nel testo di Meneghetti “ASPETTI DI GEOGRAFIA DELLA POPOLAZIONE – Italia 1951-1967”, CLUP, Milano 1971.
[F] Subii infatti un tentativo di “licenziamento politico” da parte di socialisti locali, “diversi da Astengo”.
[G] In particolare perché dissentivo – piuttosto isolato, anche se forse in silente sintonia con Meneghetti e pochi altri “non-d’angioliniani”– dalla scelta, a mio avviso strumentale alla partecipazione di parte dei docenti all’omonimo concorso, del tema “Università in Calabria” (con poca coerenza “regionale” rispetto alle premesse): anche se poi con un nostro gruppo di laureandi del Collettivo Autonomo, con altre premesse, ci occupammo proprio della “questione meridionale” come tesi di laurea.

domenica 12 luglio 2020

UTOPIA21 - LUGLIO 2020: IL FUTURO (O IL PASSATO?) DEL CAPITALISMO, NEI DESIDERI DI PAUL COLLIER


IL FUTURO (O IL PASSATO?)
DEL CAPITALISMO,
NEI DESIDERI DI PAUL COLLIER
di Aldo Vecchi

Nel saggio di Paul Collier sul futuro del capitalismo, pur apprezzando i contenuti di singole proposte di riforma, ho riscontrato una impostazione (suo malgrado) ideologica, ancorata a pregiudizi accademici e politici, e nostalgica di perduti (o immaginari) assetti comunitari di famiglie, imprese e stati, fondati su un etica ed una solidarietà limitata al “noi”.

Il contenuto del saggio di Paul Collier1, economista oxfordiano di lungo corso, mi è apparso interessante, perché – pur dall’interno di una cultura accademica filo-capitalista e di ‘globalizzatore pentito’ – muove da una ampia constatazione su quanto  “il capitalismo [stia] generando società divise, nelle quali molte persone conducono vite dominate dall’ansia” (e altre considerazioni sul discredito di cui oggi gode il capitalismo “in quanto avido, egoista e corrotto”), e formula delle proposte migliorative, parte delle quali risultano condivise da diversi autori (e sono probabilmente condivisibili):
-       l’inserimento nei Consigli di Amministrazione delle grandi imprese di rappresentanti dei lavoratori, dei consumatori e delle società locali (proposta questa che accomuna  Atkinson&Barca2,3, Thomas Piketty e lo stesso Matteo Renzi…)
-       la tassazione delle rendite territoriali (nelle metropoli in ascesa) e delle posizioni monopolistiche, nonché  il contrasto alla elusione fiscale internazionale;
-       una intensa e ben modulata attività di rilocalizzazione industriale per le aree in declino;
-       il ripristino di politiche per le abitazioni delle famiglie meno abbienti;
-       un cauto ricorso alla riduzione degli orari di lavoro, a limiti ai licenziamenti, nonché a minimi salariali ed a minimi pensionistici (in particolare rispetto ai limiti dell’assetto privatistico  dei fondi pensione anglosassoni);
-       la penalizzazione di professioni lautamente pagate e però in realtà inutili o nocive, come gli speculatori borsistici e gli “avvocati d’affari”;
-       una serie di attenzioni alla formazione (soprattutto a fronte della spietata selettività del sistema scolastico anglosassone), dall’età pre-scolare (sul modello francese[A]) all’istruzione tecnica para-aziendale (sul modello tedesco);
-       una insistita petizione in favore delle famiglie, verso un “maternalismo sociale”, indulgente e non-moralista e contro gli eccessi del “paternalismo sociale” (che spesso sottrae i bambini alle famiglie in difficoltà per parcheggiarli in affido)[B].

Tali formulazioni di politiche statuali riformiste[C], nella direzione di ricostruire una “famiglia etica”, una “impresa etica” ed uno “stato etico” [D], si accompagnano a più confuse proposizioni in favore di un “mondo etico”, che secondo l’Autore dovrebbero passare attraverso un Direttorio delle Grandi Potenze (poiché le attuali organizzazioni internazionali non possono funzionare per eccesso di democraticismo[E]) ed un solido freno alle migrazioni.
Migrazioni che per Collier storicamente hanno avvantaggiato solo i migranti, e non gli Stati di partenza (depauperati così di risorse umane) né quelli di arrivo (ove si va a sconvolgere il mercato del lavoro, ed anche quello delle abitazioni): affermazione questa che – oltre ad essere discutibile “eticamente”, mi sembra anche storicamente non vera, guardando ad esempio alle traiettorie di migrazioni e PIL di aree di arrivo come USA, Canada e Australia (od anche Svizzera, Lombardia…), e di aree di partenza come l’Italia nel secolo 1870-1970, e ponendo attenzione a fenomeni quali le rimesse degli emigranti ed i ritorni culturali, dai “clerici vagantes” in poi.

Per profughi e migranti Collier propone solo una razionalizzazione delle politiche di aiuti promosse dai paesi ricchi, da gestire nei territori prossimi ai focolai di crisi, per un dovere di soccorso che sta al di fuori dei patti di reciprocità solidale (ovvero: tra “noi” ci si scambia diritti e doveri, verso “gli altri”, deve bastare l’elemosina, perché è impensabile – ed anzi dannosa -  una solidarietà universalista).

Ancor meno accettabile, oltre che irrealistica, mi sembra poi l’ipotesi strumentale di Collier  per conseguire l’insieme dei risultati sopra accennati: l’Autore sogna una (auto?) riforma della politica (soprattutto britannica) finalizzata a ricostruire un centrismo moderato (meglio se bi-partisan, con in più l’abbandono del sistema elettorale maggioritario in favore del proporzionale [F]), attraverso l’abolizione del recente ricorso alla elezione diretta dei leaders di partito da parte degli iscritti (una democraticità che premia gli estremisti, addensati nella base dei partiti stessi, sostiene Collier) ed il ritorno alla designazione da parte dei parlamentari eletti (oppure in subordine – ma con scarso favore dello stesso Autore – mediante un allargamento a primarie aperte, dove peserebbero di meno gli elementi estremizzanti).

Ma ciò che mi fa maggiormente dubitare della praticabilità della via riformista proposta da Collier (al di là della attuabilità ed efficacia di alcune singole sue ricette socio-economiche) è l’impianto generale – filosofico, antropologico e sociologico – delle sue riflessioni, che è ben esplicitato – e quindi confutabile –, ma a mio avviso errato storicamente ed anche “eticamente” – e quindi da confutare -.

Collier si qualifica come pragmatico ed anti-ideologico.
Giustamente insiste sulla necessità di monitorare gli esperimenti riformisti di varia natura: ma assume come strumenti di valutazione ‘indiscutibili’ le misurazioni tipiche delle accademie anglosassoni, dai test PISA sull’apprendimento[G] (di cui non escludo l’utilità comparativa, ma di cui molti evidenziano la riduttività meccanicista rispetto alla ricchezza umana dell’apprendere), alle classifiche internazionali sulla qualità degli Atenei (quelle in cui gli Atenei anglosassoni risultano sempre e soli in testa), fino alle indagini internazionali sulla “felicità” (in esito ai quali Collier attribuisce infelicità all’Africa perché ancora piena di piccoli contadini, non subordinati ad imprese capitalistiche…).

Il suo pragmatismo inoltre è agganciato ad una precisa corrente filosofica Pragmatica, che risale a Hume ed a Adam Smith (non tanto però quello della “Ricchezza delle Nazioni”, quanto piuttosto quello della “Teoria dei sentimenti morali”), e si ritrova in C.S. Peirce[H], ed aborre non solo le ideologie fondamentaliste (tra cui il neo-liberismo che riduce i comportamenti all”uomo economico”  ed il marxismo, che per Collier coincide con il totalitarismo staliniano), ma soprattutto gli individualisti, di destra e di sinistra, e tra questi ultimi:
-       gli utilitaristi, seguaci di Bentham e Stuart  Mill, che seguono l’errata ricerca paternalista di una maggior utilità per tutti
-       i giuristi Rawlsiani, che inseguono ostinatamente i diritti delle minoranze.

Secondo Collier sono queste due correnti, insediatesi ‘abusivamente’ ai vertici dei partiti di centro-sinistra, ad aver rovinato una certa sana socialdemocrazia - fondata sulle obbligazioni solidali e sulle identità condivise – e ad aver interrotto (quasi più che non i neo-liberisti, sembrerebbe, leggendo il saggio…) il magnifico progresso sociale del periodo 1945-1970, gestito in modo convergente dalle classi dirigenti occidentali, sia di centro-sinistra che di centro-destra.

Per Collier tutti gli altri sono “ideologici”.
Tranne chi – come lui stesso ed un ristretto gruppo di accademici anglosassoni – si fonda su un approccio scientifico: in tale lettura della realtà spicca il contributo dello psicologo sociale Jonathan Haidt (newyorkese, nato nel 1963), secondo il quale i comportamenti umani non sono motivati dal mero interesse economico, bensì da un insieme di valori, tra i quali emergono (a scala mondiale) “lealtà, equità, libertà, autorità, cura del prossimo, sacralità”: “I valori dell’utilitarismo sono tutt’altro che verità universali” … “L’equità e la fedeltà … sostengono congiuntamente la norma della reciprocità, la quale collega la nostra fondamentale spinta  a ricevere stime con il senso di vergogna e di colpa che proviamo quando non adempiamo a un’obbligazione”.

Personalmente apprezzo questo tipo di ricerche che allargano la rappresentazione dell’umanità oltre i ristretti confini dell’economicismo [I], ma Collier, nella sua incrollabile certezza pragmatica, tende a racchiudere il principio di reciprocità entro ristretti confini identitari di appartenenza, familiare, locale ed al massimo nazionale, esaltando i valori comunitari della “narrazione” come costitutivi del “sistema di credenze” che orienta ogni persona, al di sopra del sapere scolastico e della razionalità individuale.

Se è positivo, a mio avviso, negare una continuità darwiniana tra il cosiddetto “gene egoista” ed i comportamenti dell’”uomo economico” (Collier rammenta che nell’evoluzione dell’Homo sapiens non risulta premiato l’individuo più avido, bensì la capacità di cooperazione tribale), la sopravvalutazione delle “relazioni” e del “noi” porta Collier a sostenere addirittura che “il ragionamento motivato può condurre al disastro”, ed a mitizzare una armonia educatrice (che forse non sono mai esistite [J])  nella “famiglia etica” e nell’”impresa etica” dei favolosi anni 45-70, quando dominava una socialdemocrazia solidale, fondata su reciprocità di diritti e doveri (erede diretta della suprema solidarietà nazionale della precedente fase bellica: una coesione tale da convincere anche i ricchi a pagare tasse con alte aliquote, perché a favore dei poveri, però connazionali) [K].

Un quadro comunitario idilliaco, purtroppo poi disturbato da femministe, immigrati e giuristi rawlsiani… Collier arriva a individuare nella rivendicazione dei genitori LGBT di menzionare nei documenti scolastici solo “genitore1 e genitore2” un attentato alla trasmissione dei valori familiari tradizionali, fondati su “padre e madre” (questa specie di gelosia dei conservatori di vario tipo verso i nuovi diritti non l’ho mai capita, perché non vedo cosa tolga alla famiglia tradizionale – e alle sue tradizionaliste narrazioni - il fatto che in altre famiglie si divorzi, abortisca, oppure si confondano ruoli e generi sessuali).

Poiché l’Autore appoggia spesso le sue asserzioni sulla esperienza personale e familiare sua e di cugini e parenti (rimasti poveri), mi permetterei di contrapporre qualche esperienza in parte diversa, in un’Italia degli anni ’50 che non era per nulla unificata dal sentimento nazionale, in cui gli strascichi della ‘guerra civile europea’ 1917-1945 separavano profondamente le narrazioni identitarie dei ‘rossi” e dei ‘neri’ (neri fascisti e/o neri clericali), degli operai e dei borghesi [L], ed i valori ufficialmente trasmessi dalla Chiesa e dalle Famiglie erano contraddetti, ad esempio, (prima dell’omologazione televisiva) dalle contro-narrazioni di osterie, bar (ed anche oratori); contro-narrazioni per lo più maschiliste: il successo con le donne, negli affari, nello sport.
Una dialettica complessa, che si è evoluta negli anni ’60 anche in base ai “ragionamenti motivati” del dissenso individuale e collettivo, poderoso motore di una ‘modernizzazione’ discutibile forse, ma inevitabile per l’Italia, verso una società aperta e pluralista (ed anche assai contraddittoria...).

Complessivamente invece Collier rimuove la categoria del conflitto dall’idea di progresso, che deriverebbe invece da un conservatorismo illuminato (un conservatorismo cui purtroppo sono scappate di mano la rivoluzioni inglese, americana, francese e russa, e forse la stessa rivoluzione industriale, perché il tipico imprenditore alla Adam Smith, probabilmente ha dovuto infrangere più di uno dei valori tribali a lui tramessi dalle precedenti generazioni).

E non coglie, ad esempio, nel secolo breve dal 1917 al 1989, l’importanza che lo spauracchio della rivoluzione bolscevica (malgrado i suoi orrori ed il suo finale fallimento) ha riverberato in Occidente, sia presso gli operai, più o meno socialdemocratici, ma spesso uniti nelle lotte sindacali [M] , sia presso le classi dirigenti, che hanno dovuto blandire tali masse (e assorbire tali lotte) con promesse e concessioni, smettendo di farlo appena possibile, anche grazie alla crisi e alla caduta del ‘socialismo reale’.

Inoltre non pone l’eccezionale ed irripetibile crescita “illimitata” del secondo dopoguerra in Occidente in correlazione con il saccheggio delle risorse ambientali ed umane del terzo mondo, tanto da infrangersi per l’appunto sulla crisi petrolifera degli anni ’70, che ha iniziato ad interrompere tale saccheggio.

Nel magnificare l’impresa capitalista come necessaria forma dell’organizzazione della produzione e levatrice del benessere, Collier rimprovera i “vecchi romantici che auspicano un ritorno ad una società di artigiani, contadini e comunità”: però altrettanto illusorio mi appare il suo desiderio di tornare a quel capitalismo classico, ma temperato, del periodo 1945-1970, liberandolo dal successivo “dannoso malfunzionamento”.

Convinto che “non c’è niente di intrinsecamente disonesto nel capitalismo” (affermazione su cui mi sentirei di dissentire [N]) non si chiede perché “l’ultima volta che … ha funzionato bene è stato” per l’appunto “tra il 45 e il 70” (a mio avviso, ad esempio, perché la tendenza all’accumulazione è intrinseca al capitalismo, trascende l’etica del singolo capitalista, e può trovare solo fuori di sé un argine significativo, o nell’esaurimento delle risorse – ivi compresa l’estenuata espansione del debito pubblico e privato - , o nella rivolta di qualche segmento – vecchio o nuovo – dal mondo degli sfruttati).
Ma si limita ad auspicare che – a partire dal diffuso disprezzo per l’odierno capitalismo - si ricostruiscano le condizioni “etiche” di quel periodo magico, ricostruendo un tessuto comunitario di famiglia, impresa e patria che – Collier stesso lo riconosce – il moderno capitalismo stesso ha contribuito ad erodere e dissipare: innescando però nuove contraddizioni che potrebbero divenire esplosive, ma in direzioni tutt’affatto diverse dalla nostalgica riproposizione delle armonie perdute, oppure in loro tragiche caricature, come le spinte populiste e sovraniste stanno ad indicare (nella direzione della esclusione violenta  e non della inclusione solidale).

Altro che convergenza politica al centro mediante qualche alchimia sulla nomina dei leaders dei partiti britannici (vedi sopra)…

Proiettato nella sua ‘retro-topia’ edulcorata, l’Autore poco si preoccupa delle effettive tendenze future della complessa e conflittuale società dominata da questo capitalismo, dedicando brevi cenni alla digitalizzazione ed automazione (nella sua convinzione che i posti di lavoro perduti si ricostruiscano in altri settori) ed ai problemi climatici ed ambientali (con le potenziali crisi socio-economiche di cui la pandemia coronavirus costituisce un poderoso assaggio): senza comprendere che tale mutamento di contesto rende impossibile il ritorno ad un passato localista ed identitario.



Fonti:
1.    Paul Collier – IL FUTURO DEL CAPITALISMO – Laterza, Bari-Roma 2020
2.    Forum Disuguaglianze Diversità – 15 PROPOSTE PER LA GIUSTIZIA SOCIALE – 2019 - https://www.forumdisuguaglianzediversita.org/proposte-per-la-giustiziasociale/
3.    Aldo Vecchi - COME COMBATTERE LE DISUGUAGLIANZE: LE 15 PROPOSTE DEL “FORUM” – su UTOPIA21, maggio 2020 - https://drive.google.com/file/d/1udb1x44_L_Y6pCywG5ccSxK4PQEkCYot/view.
4.    David Graeber – DEBITO: I PRIMI 5.000 ANNI – il Saggiatore – Milano 2012
5.    Aldo Vecchi “DEBITO E DEMOCRAZIA SECONDO DAVID GRAEBER” su UTOPIA21, luglio 2018 https://drive.google.com/file/d/1KNHwvYRdAOgatgudIQMBtJt5Q3shSWl/view
6.    Emanuele Felice - STORIA ECONOMICA DELLA FELICITA’ – Il Mulino, Bologna 2018
7.    Aldo Vecchi - LA “STORIA ECONOMICA DELLA FELICITÀ” (O QUANTO MENO DEL BENESSERE) DI EMANUELE FELICE – su UTOPIA21, marzo 2019 - https://drive.google.com/file/d/1838x-yKTFJ8ru-TRtkGjczuxEiacMxQ9/view.
8.    Paolo Prodi - 7° NON RUBARE – il Mulino, Bologna 2009
9.    Aldo Vecchi “PAOLO PRODI: 7° NON RUBARE” su UTOPIA21, settembre 2018 https://drive.google.com/file/d/1yhn8fOy9AWX1zXrx1LjcxtqaMJ2opsHk/view
10. Aldo Vecchi e Fulvio Fagiani - IL DIALOGO TRA FERRARIS E DEMICHELIS SU TECNICA E UMANITA’ – su UTOPIA21, novembre 2019 - https://drive.google.com/file/d/1piUV1BaaiW5qcyiSecmY9MsdBPyJGE8E/view.
11. Karl Marx – LAVORO SALARIATO E CAPITALE – Editori Riuniti, Roma 1960
12. Paolo Leon - IL CAPITALISMO E LO STATO – Castelvecchi editore, Roma, 2014
13. Aldo Vecchi - IL “TESTAMENTO” DI PAOLO LEON SUL CAPITALISMO E LO STATO- su UTOPIA21, gennaio 20’19 - https://drive.google.com/file/d/1sQV6xQqlv0AyibwQDjMxWI5AESKVT7_S/view.


[A] Probabilmente a Collier sfuggono le eccellenze di Reggio Emilia, perché in generale il suo testo ignora l’Italia (unico accenno è a Beppe Grillo, menzionato in un elenco di leaders populisti, sotto-elenco “uomini di spettacolo”, insieme a Donald Trump).
[B] Collier (che, ignorando le eccellenze reggiane, ignora anche il fenomeno Bibbiano) attribuisce notevole rilevanza al fenomeno delle maternità precoci; consultando l’ultima statistica emanata dall’UNFPA (agenzia ONU per la pianificazione familiare) ho riscontrato in effetti che nel periodo 2011-2017 le maternità tra i 15 ed i 19 anni, pari al 44 per 1.000 a scala mondiale (oltre il 100 x 1.000 nei paesi più poveri), oscillano nei paesi più sviluppati attorno al 14 x 1.000, ma con una differenza significativa tra i paesi anglosassoni (USA 20, GB 14) ed i paesi dell’Europa Occidentale continentale (Germania e Spagna 8, Francia e Italia 5). 
[C] Come spesso accade per gli accademici anglosassoni (compreso lo stesso David Graeber), talune riforme molto semplici, ma più radicali, come il divieto dei licenziamenti individuali immotivati oppure l’istruzione superiore gratuita, non figurano nel campo delle possibilità.
[D] Attribuirei quanto meno al Traduttore, se non all’Autore, di non aver sciolto l’ambiguità semantica rispetto al significato che l’espressione “stato etico” ha assunto nella nostra lingua, a partire da Hegel e poi da Gentile, in contrapposizione allo “stato liberale”, e non certo nella direzione proposta da Collier, di uno stato fondato su una equità dei rapporti sociali.
[E] Nella rassegna degli insuccessi delle organizzazioni internazionali negli ultimi decenni, l’Autore – che tra l’altro classifica la NATO degli anni 50-60 come esempio virtuoso di fraterna cooperazione tra uguali (no comment) – non si occupa per nulla della “Conferenza delle Parti” sulla questione climatica, che – anche se non ha purtroppo ancora raggiunto i risultati auspicabili - a me sembra che comunque abbia delineato un percorso corretto di contemperazione collaborativa tra interessi assai diversi, pur sviluppandosi – come in tal caso è indispensabile – in ambito mondiale: Assai discutibili e contradditorie mi sembrano anche le poche e sparse considerazioni di Collier sull’Unione Europea, su cui non mi soffermo.
[F] Collier dichiara di apprezzare la moderazione forzata dei governi di coalizione imposti da leggi elettorali proporzionali, quali quelle vigenti nei Paesi Bassi ed in Scandinavia; in altra parte del testo, però contraddittoriamente elogia le politiche di Macron, la cui moderazione scaturisce invece da un sistema maggioritario a doppio turno.
[G] In altra parte del testo l’Autore mostra di apprezzare anche la formazione fondata che su qualità “non cognitive”, riferita però alle figure tecniche operative, esemplificate dagli istituti tecnici superiori tedeschi.
[H] Charles Sanders Peirce, matematico e filosofo statunitense, 1839-1914)
[I] Ad esempio quelle, non lontane nella loro essenza ma assai divergenti nelle conclusioni, di David Graeber4,5; oppure il filone italiano dell’”economia civile”, da Antonio Genovesi nel ‘700 ad oggi con Zamagni-Bruni-Becchetti ed altri.6,7
[J] D’altronde lo stesso Collier da’ atto che nelle famiglie tradizionali “alcuni aspetti … equivalevano a una deprimente patina che nascondeva rapporti di potere e abusi”
[K] Non intendo sottovalutare le preoccupazioni sollevate da Collier riguardo al peso delle differenze etnico-linguistiche (in particolare a fronte dei fenomeni migratori) ed alla necessità educativa e sociale di far corrispondere i doveri ai diritti: ma mi piace pensarle come necessarie articolazioni di un ragionamento limpidamente solidale, alla scala del mondo intero.
[L] A questi miei ricordi corrispondono riscontri corposi nella letteratura, “bassa” come in Guareschi, od “alta”, come in Bianciardi, Cassola, Lajolo, Morselli, ma anche nelle impietose autobiografie di Christa Wolf oppure di Annie Ernaux, od ancora nella narrativa “borghese” contemporanea spagnola, da Cercas a Marias.
[M] Guidate anche da dirigenti marxisti, ma non per questo totalitari, da Giuseppe Di Vittorio a BrunoTrentin.
[N] I filosofi greci non si ponevano il problema dell’onestà dello schiavismo; Paolo Prodi8,9 racconta molto bene quanto sia cambiato il concetto di “onestà” nell’Europa Cristiana dal medioevo in poi riguardo al prestito di danaro con interesse; nel mondo attuale in molti paesi è considerata tuttora “onesta” la pena di morte; gli anti-specisti cercano di aprire la strada ad una consapevolezza della disonestà del subordinare, uccidere e mangiare gli altri animali. E dove e da quanto tempo le donne hanno un’anima, il diritto di voto, il diritto (teorico!) alla parità stipendiale?
In questa complessa dinamica storica mi sembra assurdo postulare l’assoluta “onestà” del capitalismo, che – seppur etico il più possibile, e ammesso che produca articoli non dannosi all’ambiente e alla società (e tralasciando il complesso argomento della Alienazione)10- presuppone finora sempre comunque (come dimenticano tutti gli ‘interclassisti’, ben diffusi – ad esempio, nelle aree politiche del PD e dei 5Stelle):
-          che l’imprenditore ricavi il profitto dallo sfruttamento del lavoro salariato (per quanto “giusta” sia la mercede),11
-          che il successo dell’impresa comporti un minor successo (ma anche la tendenziale rovina) dei concorrenti, nonché in qualche misura dei fornitori e dei clienti, 12,13
-          che nel mercato del lavoro agisca un differenziale tra il valore di una mansione e quella di un’altra (limitando a eccezioni i casi in cui il merito è riconosciuto in termini non monetari).
Il vero problema è che non è stato ancora collaudato un sistema alternativo in grado di funzionare a grande scala: ben vengano dunque nel frattempo tutte le esplorazioni sul possibile temperamento “etico” dello stesso capitalismo.