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martedì 28 luglio 2020

UN RICORDO PERSONALE DEL PROFESSOR LODOVICO MENEGHETTI


A fronte della scomparsa del professor Lodovico Meneghetti, mi ha colpito – rispetto alla sua importanza come architetto, come urbanista, come docente e come intellettuale - la scarsa eco sulla stampa generalista (brevi necrologi solo su “Il Giorno”, sulla pagina novarese de “La Stampa” e sul settimanale diocesano novarese) e lo spazio piuttosto limitato anche tra gli ex-colleghi ed allievi su FaceBook (tra cui Emilio Battisti e Fabrizio Bottini), con molti brevi saluti o “mi piace”: vedi un estratto delle “schermate” in Appendice a questo testo).
Spero di più dalle riviste di settore, a partire da quelle dell’I.N.U. (anche se probabilmente sono molti i colleghi urbanisti che nei decenni Meneghetti ha mandato a quel paese…).

Poiché la biografia ed il profilo complessivo di Meneghetti sono abbastanza bene tratteggiati su Wikipedia https://it.wikipedia.org/wiki/Lodovico_Meneghetti , mi è sembrato opportuno scrivere una breve memoria del tutto personale, da scambiare con gli interlocutori che eventualmente la riterranno interessante.

Nel 67-68 ero iscritto al primo anno della Facoltà di Architettura del Politecnico di Milano, e ad un certo punto, dopo aver assaggiato brevemente i corsi tradizionali, anche noi “matricole” (che – talora con fatica – avevamo appena scelto l’indirizzo di studi universitario) ci trovammo davanti all’imprevista scelta del “gruppo di ricerca” da frequentare dentro la “sperimentazione” che rivoluzionava l’impostazione didattica.
In vetrina c’era l’intera facoltà (docenti scientifici e/o reazionari esclusi) con la presentazione dei diversi programmi, spesso fumosi e improvvisati o comunque difficili da capire per i neofiti, ancor più spaesati (in specie se provenienti dai paesi di provincia) nel capire i sottostanti sistemi di potere ed i possibili percorsi di qualificazione personale: la maggioranza dei miei compagni di corso, per prudenza, si ancorò ai docenti che comunque sarebbero capitati al primo anno, ovvero Gregotti (per gli studenti con cognomi dalla A alla L) e Pollini (dalla M alla Z); una minoranza più spericolata (me compreso) si buttò invece all’avventura.
Attratto dall’urbanistica, dopo una breve fascinazione per la proposta di Silvano Tintori (distinto e colto, già allora parlava di “territorio antropizzato” e mostrava sensibilità ambientaliste) e forse temendo troppa incertezza nell’iscriversi a Campos Venuti o De Carlo (invitati ad insegnare direttamente dall’Assemblea)[A], trovai molto convincente la proposta del gruppo Bottoni-D’Angiolini-Meneghetti (più Vercelloni e Redaelli) che – benedetta dal “Libro Bianco” degli studenti in una precedente occupazione della facoltà[B] – prometteva una solida indagine sui fattori strutturali degli insediamenti, esaminando popolazione (investimenti) e reddito, flussi di traffico e trasformazioni del suolo (“tendenza insediativa”), in particolare nelle regioni del Triangolo Industriale.
Se il professor Piero Bottoni, già anziano, era soprattutto il “padre nobile” del gruppo, che ogni tanto rammentava i CIAM e LeCorbusier [C], e Lucio Stellario d’Angiolini l’ideologo supremo della “coerenza regionale” (con un incrocio “lombardiano” tra rivoluzione tecnocratico-operaista e ammirazione – a forza di studiarlo - verso lo stesso capitalismo “schumpeteriano” e verso l’industrialismo comunque, alla faccia “delle contesse di Italia Nostra”), Meneghetti - allora assistente e poi incaricato di Topografia – era indubbiamente il più appariscente del gruppo sulla scena assembleare, sia per gli attributi fisici, come lo sguardo sulfureo e la voce  a bassa tonalità (tra Ugo Tognazzi e Sandro Ciotti, ma con accento novarese), sia per la verve polemica e per  il profilo culturale da “cavaliere solitario”, nelle battaglie urbanistiche locali – come Consigliere/Assessore e come urbanista - (ed allora anche con la scelta dell’università a tempo pieno), e però con un retroterra complesso, tra il jazz e le arti visive, e l’esperienza (chiusa proprio allora) della progettazione a tutto campo con Gregotti e Stoppino; o con la teorizzazione – in una occasionale pausa pranzo, all’ingresso degli “Istituti” - che “era giusto non avere figli”.

Nelle alterne vicende della Facoltà e della Sperimentazione (occupazione, esami annullati e ripetuti, defenestrazione dell’amatissimo preside Carlo De Carli ed arrivo dell’abilissimo preside Paolo Portoghesi), mi ritrovai così a partecipare per due anni alle attività del gruppo Bottoni, ed in particolare – mi pare – ad imparare qualcosa, innanzitutto da D’Angiolini e da Meneghetti:
-          qualcosa di negativo, anche, come una certa aggressività polemica fondata sulla presunzione del sapere tecnico/politico (ma erano cattivi maestri indubbiamente anche molti leaders studenteschi), oppure cos’è un sistema di relazioni personali di potere (soprattutto D’Angiolini[D]);
-          molto di positivo, riguardo ad esempio
o   allo studio intenso e selettivo dei dati statistici[E], ma anche di informazioni eterodosse (e anche di parte “padronale”),
o   all’apertura interdisciplinare, soprattutto verso l’economia (“Mondo economico” era lettura obbligata), la demografia (leggendo Livi Bacci), la geografia (ascoltando di persona – ma non sempre capendolo – Lucio Gambi): i problemi prima degli steccati disciplinari,
o   all’analisi delle forze sociali in campo (non solo padroni e operai,  ma anche “dove vanno i piedi dei consumatori”), a livello territoriale, sia macro che micro, che determinano il divenire dei luoghi, spesso più dei “piani urbanistici” (e certo più delle “buone intenzioni”),
o   ad una attenzione non rituale alla lotta di classe, nelle sue varie forme (compresa l’acculturazione, le rimesse degli emigranti, il lavoro femminile domestico e a domicilio…),
o   all’uso “politico” degli strumenti tecnici e giuridici, di cui essere, per quanto possibile, padroni e non schiavi,
o   all’importanza della gestione/applicazione dei piani urbanistici, rispetto alla mera fase di progettazione degli stessi (da qui la teoria meneghettiane[F] dell’”urbanista condotto”, che ho poi personalmente declinato e sperimentato – iniziando pericolosamente sulla scia piemontese di Astengo - come “tecnico comunale”),
o   alla non-separazione tra “urbanistica” e “architettura” (ma anche tra “struttura” e “sovra-struttura”: necessario però ricordarsi la differenza tra questi poli dialettici).

Poi presi un’altra strada didattica (e politica)[G] – anche se ci fu chi, forse, frequentò lo stesso gruppo per tutti e 5 gli anni di corso -; con altri professori (e compagni) imparai altre cose (e iniziai a disimpararne altre).
Però nello scontro sul commissariamento della Facoltà, successivo all’occupazione con i baraccati di via Tibaldi, nel 1971 (con defenestrazione anche dell’abilissimo – ma troppo audace – preside Portoghesi) ci trovammo alla fin fine a bloccare le (nostre) lauree, finché nell’aprile del 1973 il commissario Beguinot si defilò (parzialmente), ma l’assemblea impose che venissero esaminati per primi i gruppi di laureandi con docenti sospesi: tra questi, in parallelo, c’era un nostro super-gruppo con diverse tesine disciplinari, ma accomunate dal docente sospeso, Giacomo Scarpini (che presentammo – anzi solo le compagne parlarono e presentarono - come una sorta di “oggetto di tesi”), e c’era un gruppo di laureandi più classicamente studiosi, con relatore proprio Lodovico Meneghetti.

Negli anni ’90, quando ero tecnico comunale a Sesto Calende, suggerii Meneghetti come membro della Giuria per il Concorso “Piazze” e fu una bella occasione per re-incontrarlo, perfettamente in forma, e polemico come sempre: il progetto da lui caldeggiato, e vincente, è stato anche in parte attuato (pergolati esclusi).

Più tardi qualche contatto epistolare: con Anna, che per Meneghetti rimaneva “la Vailati”, sottoponemmo la ricerca “tra-i-laghi” all’attenzione del Professore; non ha invece apprezzato la rivista “Utopia21”.

Sul finire del secolo capitò ad Anna di incontrare per caso Meneghetti, in trasferta a Novara per comprare da Camporelli gli omonimi “biscottini”, da riportare in treno a Milano, trovandolo assai cordiale.

Negli ultimi anni confesso di non aver seguito e condiviso tutti i suoi interventi su “Eddyburg”, perché talvolta lo trovavo un po’ rigido e ripetitivo: però si trattava sempre di un “signor punto di vista”, non proclive alle mode (un po’ sbracate) dei tempi recenti.



 








[A] Confesso la mia buffa interpretazione dell’elenco ciclostilato con i nomi dei docenti, cui era aggiunto all’ultimo, ma con un timbro, “CAMPOS VENUTI”: non conoscendo l’illustre autore di “Amministrare l’urbanistica” (solo poi acquistai la prima edizione, del giugno 1967), pensavo fosse una formula di rito, in latino maccheronico/medievale, che nelle università riservasse un posto per chi arrivava all’ultimo minuto…
[B] Negli anni successivi al ’69 mi trovai a contrappormi a tale “benedizione” datata, che Meneghetti reiteratamente sbandierava, mentre una parte degli studenti degli anni ’70 (e segnatamente noi del Collettivo Autonomo) rivendicava la libertà di rimettere in discussione i meriti dei docenti, soprattutto riguardo al riformarsi delle gerarchie accademiche (e “sub-accademiche”: i cosiddetti “mini-docenti”, cioè studenti incorporati nei nuovi meccanismi del sapere e del potere): d’altronde, già nel ’68, il “gruppo di ricerca” Bottoni autovalutò “27/30” il lavoro svolto in quei primi mesi, ma rifiutò l’assegnazione di “30/30” che i docenti avrebbero voluto per quattro studenti “più meritevoli”.
[C] Qualche anno più tardi incontrai Giovanni Astengo in quanto Presidente della Commissione per un concorso alla Regione Piemonte, in cui l’orale era ormai pro-forma perché i candidati promossi alla prova scritta (tra cui io) erano meno dei posti da assegnare, e fu un profluvio di ricordi della nave dei CIAM e di LeCorbusier che cantava “allons enfants dans la brasserie…” (birreria da cui probabilmente d’altronde la Commissione arrivava).
[D] Sia all’interno del gruppo, perché essere “Bottoniani” era più che altro una espressione geografica, localizzata in Aula V (e al 5°piano del cubo color melanzana degli Istituti), essere “D’Angioliniani” era molto di più (allora non mi pare che ci fossero i “Meneghettiani”- o forse lo ero io stesso, ma a mia insaputa…); sia nelle aggregazioni didattiche, quella con Canella e Rossi “in nome della rivoluzione d’ottobre” (?), e ancor più spregiudicata quella ulteriormente allargata a Campos Venuti ed alla banda dei 4 della “Città-Fabbrica” (Magnaghi-Perelli-Stevan-Sarfatti), in quanto “asse formativo”, commentata dallo stesso Perelli con il tango “Aggreghiamoci dal basso - con Boatti Fior del Campos” ed avversata (o favorita?) da una parte del movimento con lo slogan (mio?) “Tutti aggressivi dai Big” (Claudia Capurso mi ha di recente trasmesso, ripescandola dai suoi archivi,  l’omonima mozione del 26 novembre 1970, alquanto buffa al rileggerla oggi).
[E] Come esemplificato nel testo di Meneghetti “ASPETTI DI GEOGRAFIA DELLA POPOLAZIONE – Italia 1951-1967”, CLUP, Milano 1971.
[F] Subii infatti un tentativo di “licenziamento politico” da parte di socialisti locali, “diversi da Astengo”.
[G] In particolare perché dissentivo – piuttosto isolato, anche se forse in silente sintonia con Meneghetti e pochi altri “non-d’angioliniani”– dalla scelta, a mio avviso strumentale alla partecipazione di parte dei docenti all’omonimo concorso, del tema “Università in Calabria” (con poca coerenza “regionale” rispetto alle premesse): anche se poi con un nostro gruppo di laureandi del Collettivo Autonomo, con altre premesse, ci occupammo proprio della “questione meridionale” come tesi di laurea.

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