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venerdì 19 marzo 2021

UTOPIA21, MARZO 2021 - LA FABBRICA DELLA FELICITA’ VISTA DA WILLIAM DAVIES

Il testo del sociologo inglese delinea un blocco di potere, economico-politico-culturale, interessato a occuparsi del grado di “felicità” individuale di lavoratori, consumatori e cittadini, escludendone la partecipazione soggettiva (e le eventuali velleità di discutere i presupposti gerarchici della società contemporanea).

 

Sommario:

-       premessa

-       fondamenti storici

-       risvolti attuali

-       margini alternativi

-       alcune osservazioni

 

 

PREMESSA

 

“La fabbrica della felicità”1, edito nel 2015, affronta la realtà contemporanea (e crescente) della gestione attiva del benessere psicologico (individuale) da parte di imprese ed istituzioni, soprattutto nel mondo anglosassone, con sistematici flash-back sulla evoluzione di tale tendenza negli ultimi due secoli, attraverso diverse scuole e discipline (ancora e quasi solo nel mondo anglosassone).

 

Con l’ambizione, soprattutto nel capitolo conclusivo, di de-costruire tale complesso culturale e tecnocratico, svelandone i blandi riferimenti filosofici e le solide motivazioni socio-politiche, e cercando di contrapporre uno schema alternativo, di pensiero e di ricerca.

 

Nel panorama contemporaneo, in particolare dopo la crisi finanziaria del 2008, Davies evidenzia inizialmente:

-       l’emergere di narrazioni e di pratiche di meditazione e di auto-cura per i manager, dal Forum di Davos in giù, come rimedio e prevenzione dello stress per gli stessi dirigenti, (l’Autore riferisce che c’è anche chi ha teorizzato come la crisi del 2008 – non potendo sbagliarsi la logica dei mercati – fosse effetto di peculiari squilibri ormonali di alcune figure di vertice…) ed anche come nuovo strumento di gestione del “capitale umano” delle aziende;

-       l’espandersi di classificazioni patologiche e di trattamenti psicologici e farmacologici per gli strati più sofferenti della forza lavoro, sia occupata che disoccupata, per arginare i costi crescenti sia della disaffezione lavorativa sia del welfare (in particolare Davies racconta l’accanimento delle agenzie – anche private – incaricate di ri-motivare i disoccupati in Gran Bretagna, mirando a proclamarli comunque “idonei”, come abbiamo imparato anche da efficaci film di Ken Loach).

 

Nel suo procedere, il testo si occupa anche della trasformazione di tutte queste attenzioni psicologiche:

-       in iniziative commerciali per collocare nuovi prodotti, dai farmaci ai software salutistici e sportivi, oltre che per sorreggere agenzie di consulenza, accademie e singoli “guru” di gran moda,

-       ma soprattutto nella sorveglianza e nell’indirizzamento della massa dei cittadini-consumatori, in particolare – ma non solo - attraverso i social-media e le gratificazioni che possono offrire, tra amicizie e “like”.

 

 

FONDAMENTI STORICI

 

La carrellata storica è spesso contrassegnata da gustosi aneddoti (probabilmente talora alquanto detrattivi) – ed include, tra gli altri:

-       Jeremy Bentham (GB, 1748-1832), tra i precursori raccontati nel libro forse il più filosofo (anche se non era compiutamente tale), che fondò l’utilitarismo, cioè una visione in cui l’uomo è dominato dal binomio piacere/dolore, come teoria per una gestione “scientifica” della società nel suo insieme, a partire dal mercato (che già ottimizza gli scambi tra gli individui), puntando su ogni quantificazione possibile con gli strumenti dell’epoca, e esplicita sfiducia verso il “linguaggio verbale” (cioè non matematico);

-       Gustav T. Fechner (1801-1887), fisiologo di Lipsia, che intuì la componente “energia” nel flusso funzionale del cervello e si applicò a quantificare le percezioni;

-       Williams Jevons (GB, 1835-1882), economista di formazione religiosa, che approfondì l’equivalenza tra “piacere” e “denaro” nell’ottica del consumatore, spostando su di esso l’attenzione degli altri economisti (finora attenti soprattutto al ciclo produttivo); il suo allievo Edgeworth immaginò addirittura l’invenzione di un “edonimetro”;

-       Wilhelm Hundt (1832-1920), biologo tedesco, che avviò sperimentazioni psicotecniche su colleghi e allievi, inventando tra l’altro il “tachistoscopio” (misura delle reazioni di fronte ad immagini rapide), ma nella sua “metafisica” non aveva pretesa di banalizzarne l’uso a scopi pubblicitari, come invece successivamente diversi suoi seguaci americani;

-       Frederick Taylor (USA, 1856-1915), ingegnere e consulente aziendale, che rivoluzionò i sistemi produttivi (anche in risposta ad una crisi da “esaurimento della forza-lavoro”, per la fatica richiesta nel ciclo produttivo a fine ‘800), innestando una gestione manageriale di tutte le fasi del processo produttivo (“tempi e metodi”);

-       John Watson (USA, 1878-1958), inizialmente studioso del comportamento degli animali, che diede veste scientifica al “comportamentismo” studiando movimenti e reazioni di soggetti NON consapevoli, offrendo un metodo “oggettivo” per la pubblicità (di cui divenne manager nella compagnia JWT, operante tra l’altro per General Motors a scala internazionale, con iniziali difficoltà di trasposizione in Europa del metodo dei sondaggi di mercato);

-       George Gallup (USA, 1901-1984), statistico, che fondò l’omonima impresa per lo svolgimento massiccio di sondaggi demoscopici (raramente “neutrali”)[1], mentre nel dopoguerra si sviluppò anche l’analisi delle nicchie di mercato con i “focus group”;

-       Elton Mayo (Australia, 1880-1949), che introdusse negli U.S.A. la cura psicologica nella gerarchia aziendale, per temperare gli eccessi del taylorismo (interessante che considerasse le tendenze socialisteggianti come nevrosi da curare…);

-       Jacob Moreno (1889-1974), allievo di Freud, rumeno/austriaco e poi statunitense, che spostò il campo di ricerca dal ‘paziente in studio’ alle ‘relazioni in strada’, proponendo studi “socio-metrici” (di difficile sviluppo fino all’avvento dei computers) per valutare la soddisfazione dell’individuo dal numero delle sue “connessioni”, ed anticipò quindi la logica degli attuali social-media;

-       Hans Seyle (1907-1982), medico austriaco e poi canadese, che individuò nella generalità dei malati, la “sindrome dell’essere malati” e quindi la dialettica complessiva tra benessere e “stress”, al di là delle singole patologie, sviluppando una teoria sugli stimoli, eccessivi oppure scarsi ed una visione armonica di “altruismo egoista”;

-       Ronald Kuhn (CH, 1912-2005) e Nathan Kline (USA, 1916-1983), psichiatri e ricercatori farmaceutici che - lungo altri percorsi – scoprirono per caso (e separatamente, nel 1958-59) i primi farmaci anti-depressivi.

 

Davies richiama inoltre l’attenzione  sulla scuola degli economisti neo-liberisti di Chicago (i cosiddetti Chicago Boys, allenati dagli anni ’30 ad un metodo di accaniti seminari di confronto), che  - in quanto appartati e periferici rispetto alla precedente egemonia keynesiana della West Coast , e anche per questo desiderosi di riscatto – presero il sopravvento come consiglieri politici nell’epoca di Reagan (ma con Milton Friedman anche prima per Pinochet), esasperando la cultura competitiva già propria della società statunitense: per loro, scrive Davies “L’ineguaglianza non era una specie di ingiustizia morale, bensì un’accurata rappresentazione della distanza tra il desiderio e il potere di soddisfarlo”.

(L’Autore evidenzia anche quanto la stessa competitività esasperata, tipicamente in campo sportivo, sia diffusamente causa di sindromi depressive).

 

Con una vicenda simile a quella dei Chicago Boys, Davies segnala il successo, a metà anni ’70, della scuola psicologica di St Louis (derivante dallo psichiatra svizzero non-freudiano Kraepelin), anch’essa appartata e negletta dalle correnti in precedenza egemoni, che – a fronte di una crisi dell’Associazione Psichiatrica Americana (anche a seguito dei movimenti libertari degli   ’60) – fornì le basi per una svolta (guidata da Robert Spitzer, pur proveniente dall’A.P.A.) imperniata su una classificazione analitica dei sintomi psichici e sull’empirismo di cure specifiche, in prevalenza farmacologiche (compiacendo così, tra l’altro, compagnie farmaceutiche ed assicurative).

 

 

RISVOLTI ATTUALI

 

Dagli sviluppi di questa storia complessa – cui secondo l’Autore hanno contribuito anche gli “psicologi umanisti”, come Maslow e Rogers, riducendo l’anticonformismo dei movimenti giovanili degli anni ’60 a ricerca della realizzazione personale – sono maturate negli ultimi decenni diverse discipline che si collocano tra scienza, neuro-scienza e pseudo-scienza, e convergono nel ricercare un controllo sui comportamenti umani resi il più possibile oggettivi e non “viziati” da ciò che pensano (o dicono) in proposito le persone oggetto di esame.

Ad esempio la massa di comunicazioni verbali su Twitter viene analizzata – a prescindere dalle intenzioni esplicite degli utenti - per desumerne valutazioni sullo stato di felicità o meno di segmenti geografici o temporali della popolazione (talora con risultati degni di Max Catalano: ad esempio, c’è più felicità al sabato che al martedì, come già ci insegnava Giacomo Leopardi, senza bisogno di indagini demoscopiche).

 

In particolare questo avviene (limitandomi ad alcuni caposaldi):

-       sul fronte delle ricerche di laboratorio sul cervello e sulle reti neuronali (ad esempio con la fMRI, risonanza magnetica funzionale), nonché sulla connessa farmacologia;

-       sul fronte della analisi dei “big data”, che hanno il pregio di essere abbondanti, assai meno costosi dei sondaggi, perché forniti spontaneamente dagli stessi utenti, che sono spesso spinti da componenti narcisistiche: vedi social media, ma anche  apparecchi di misurazione costante di prestazioni corporali – sportive o salutiste -; e complessivamente le applicazioni per la domotica (internet delle cose) e la smart city, applicazioni in cui l’utente è tanto agevolato quanto costantemente monitorato.

Ed ancor di più nel perverso intreccio tra tali due fronti, con lo spionaggio occulto, tramite videocamere in luoghi pubblici e privati (ma anche dai nostri apparecchi personali) dei movimenti facciali, per trarne informazioni utili alla produzione ed al marketing.  

 

Tutto questo sforzo ideologico e organizzativo è propiziato, secondo Davies, dal convergere degli interessi (a mio avviso in parte distinti, anche se ciò non so quanto sia rilevante) del potere economico, del potere politico (ed anche – esplicitamente – di quello militare) e di quello delle élites accademiche direttamente coinvolte (considerata la dimensione dei finanziamenti così indirizzati nella spesa per la ricerca e la cultura) nell’occuparsi dello stato di benessere psichico degli individui (e quindi delle masse),

-       per alleviarne quanto possibile le possibili situazioni patologiche, a condizione che non si inneschi nessuna riflessione collettiva sulle cause profonde di tali disagi e sofferenze,

-       e per orientare quanto più possibile le tendenze di comportamento ed opinione, sia nei consumi che nelle scelte politiche.

 

 

MARGINI ALTERNATIVI

 

Soprattutto nell’ottavo ed ultimo capitolo, Davies contrappone a questa poderosa macchina del consenso alcune esperienze e tendenze alternative, tra cui, quale esempio paradigmatico, l’esperimento della fattoria Growing Well di Aldridge, nel Nord dell’Inghilterra, con un progetto di cura psichica attraverso il verde e la coltivazione, utilizzata anche dal sistema sanitario ufficiale, che però non ne ha colto la specificità di attivizzare gli ospiti (temporanei o permanenti) anche come soggetti consapevoli nella gestione della comunità e delle colture (esperienze presenti anche in Italia nelle comunità di recupero), e più in generale le scuole degli psicologi di comunità (USA anni ’60) ed oggi degli psicologi clinici e degli epidemiologi sociali, che studiano le sofferenze psichiche anche come effetto dei rapporti di lavoro (o della disoccupazione) e delle costrizioni istituzionali e sociali, a partire dalle disuguaglianze e dalle discriminazioni.

 

Orientamenti di questo genere, con un corretto spazio in favore della soggettività, sono emersi parzialmente anche in passato, dall’Illuminismo in poi, ad esempio nella conduzione di sondaggi demoscopici non pilotati, oppure nella gestione di aziende più aperte alla cooperazione, ma senza configurare un modello sociale alternativo, e spesso finendo riassorbiti come mere tecniche di alleviamento dei sistemi dominanti di controllo e di oppressione.

Così pure i tentativi di sottrarsi ai suddetti meccanismi di dominio attraverso un soggettivismo radicale, con una fuga mistica “romantica, soggettiva baldoria nei misteri della coscienza, delle libertà e delle sensazioni”, finiscono, dice Davies, per essere funzionali al sistema egemone, che soprattutto tende ad evitare l’opposizione di una critica razionale: chi detiene gli algoritmi seleziona e controlla, e lascia agli esclusi la paccottiglia emozionale, “siate empatici”.

 

Il punto nodale per sviluppare invece una possibile critica razionale, e quindi un programma alternativo, secondo Davies, sta nell’impostazione filosofica, che per l’empirismo psicotecnico dominante è per lo più implicita od oscura, e tutto sommato risale sempre all’utilitarismo di Bentham, e quindi tratta gli uomini come animali sensibili al dolore o al piacere; a tale orizzonte, l’Autore contrappone soprattutto il pensiero di Wittgenstein sul linguaggio come espressione umana irriducibile ad una neutra oggettività, mentre – anche secondo Rom Harré (filosofo neozelandese, e poi britannico, 1927-2019) – il linguaggio umano è comprensibile ed interpretabile solo nell’ascolto e nella relazione con l’esperienza di chi ascolta.

 

Senza ipotizzare una sfera metafisica (ancora presente ad esempio in Fencher e in Wundt),

secondo l’Autore occorre dare importanza a ciò che le persone dicono, restituire loro la legittima interpretazione di sé stessi e la facoltà di criticare la situazione in cui si trovano, perché rimostranze e lamentele non sono di per sé sintomo di disagio psichico.

Invece di insegnare ai singoli a denominare e quantificare l’eventuale sofferenza (in una spirale di narcisismo solitario e deprimente), i ricercatori ed i terapeuti dovrebbero approcciarsi con umiltà, con “calore, gentilezza ed empatia”, usare di più l’orecchio che non gli occhi, ed estendere la ricerca delle cause del disagio oltre l’individuo e la famiglia, de-medicalizzare l’infelicità e promuovere la capacità di discutere democraticamente (anziché ad “adeguarsi” al sistema).

 

Un brevissimo cenno alle disillusioni del socialismo non distoglie Davies dal proporre anche più ampie prospettive di riforma socio-politica in senso democratico ed egualitario (quelle per l’appunto che oggi sono inibite dai meccanismi di controllo psico-sociale), tra le quali:

-       spostare le risorse pubbliche nella ricerca neuro-psichico-comunicativa dall’attuale asse “comportamentista” ad una pluralità di filoni, che non escludano le alternative socio-politiche;

-       ridurre gli orari di lavoro ed aumentare il numero degli occupati;

-       allargare le esperienze di imprese cooperative e quelle in cui si sperimenta un maggior coinvolgimento effettivo dei lavoratori [2];

-       comprimere gli spazi pubblicitari e soprattutto contrastarne le modalità subdole e subliminali.

 

 

ALCUNE OSSERVAZIONI

 

Benché il testo, di oltre 250 pagine, illustri in modo dettagliato gran parte dei complessi  argomenti (e ne ho apprezzato il taglio divulgativo, accessibile a chi – come me – non è un addetto ai lavori psicologici), poiché coinvolge collateralmente anche altre importanti questioni, mi sembra che queste siano affrontate invece in modo troppo sbrigativo, oppure troppo ristretto ad un ottica ‘anglosassone’.

 

Tra le carenze da me riscontrate segnalo soprattutto:

-       l’automazione/digitalizzazione e l’Intelligenza Artificiale come cause specifiche di alienazione nel rapporto uomo/macchina (anche nel tempo libero, ed anche a prescindere dai rapporti di lavoro gerarchizzati), nonché di crisi delle forme tradizionali di occupazione[3];

-       l’inquadramento storico sulla ‘ricerca della felicità’, sostanzialmente limitato all’Occidente (meglio se anglo-sassone) dopo l’Illuminismo [4], salvo un fugace richiamo ad Aristotele;

-       l’alternativa filosofica (e antropologica) all’utilitarismo, incentrata sul solo Wittgenstein e sulla peculiarità del linguaggio, mentre – dopo il tramonto della metafisica e delle concezioni spiritualiste sull’anima – mi sembra che siano più numerosi i pensatori (di diverse tendenze) che valorizzano comunque la specificità umanistica e l’integrità della persona, distinguendosi da un mero materialismo meccanicista; da Heidegger (e Severino) a Sartre[5], da Marcuse a Lukacs, da Mounier a Bloch, da Bauman ad Augé (a anche anglosassoni… ad esempio da Russel a Rawls);

-       il carattere “industriale” della commercializzazione del benessere psichico, che  andrebbe forse inquadrato in un più vasto contesto di analisi dell’industria culturale o addirittura di quella che Sergio Bellucci definisce “industria di senso” 6,7, sia riguardo ai condizionamenti che derivano da tutti i mezzi di comunicazione, sia riguardo al depotenziamento delle altre fonti di valori e mitologie (religione, tradizioni, politica);

-       il contesto storico politico-culturale, dove mi sembra che il testo sottovaluti la portata dei movimenti radicali degli anni ’60 e ‘70 del Novecento (in particolare in campo psichiatrico – seppur divergenti – l’anti-psichiatria e la straordinaria esperienza, concreta e rivoluzionaria – di Basaglia&C; mentre sul piano culturale più ampio manca – ad esempio – la Scuola di Francoforte [6] e l’intera Francia [7], menzionata solo per l’antico Cartesio[8]) e dei significativi retaggi ancora attivi [9], ed inoltre sottovaluti ancor di più il peso del riflusso connesso sia all’esaurirsi o alla sconfitta di tali movimenti, sia alla caduta del ‘socialismo reale’ (il cui peso psicologico ha richiamato invece l’attenzione, anche disciplinare, di autori coma Zoja, Madera e Recalcati, che hanno ritenuto di dedicarvi interi libri): caduta a mio avviso fortemente incidente, per diversi motivi, sia nell’Europa mediterranea sia nell’Europa Orientale.

 

Inoltre ho l’impressione che – pur in una trattazione equilibrata – in taluni casi l’Autore tradisca troppo i suoi giudizi (pre-giudizi) ‘anti-capitalistici’: io personalmente non fatico a condividerli, ma non penso che altrettanto avvenga per la generalità dei lettori.

 

In particolare, nel meritorio percorso di demistificazione della falsa neutralità delle discipline scientifiche esaminate, mi sembra che Davies lasci poco spazio

-       sia alle contraddizioni interne al blocco socio-culturale dominante, che possono aprire occasioni per mutamenti di egemonia,

-       sia – in tale ambito - alla possibile ‘buona fede’ di settori di politici e scienziati, sinceramente interessati al benessere dei cittadini, ma di fatto coinvolti nel paradigma culturale del controllo psico-sociale, come da Davies ben delineato,

-       sia alla controvertibilità e riutilizzabilità di singoli avanzamenti scientifici (ad esempio nel campo delle neuro-scienze), che potrebbero assumere un diverso segno proprio a seguito di una battaglia culturale di de-mistificazione, come quella propugnata dallo stesso Davies.

 

Infine mi sembra interessante considerare come la ‘teoria dell’ascolto’ possa costituire anche un utile spunto critico (e per quanto mi riguarda anche in parte auto-critico)

-       sia verso la vulgata marxista di considerare gli sfruttati anche come vittima dell’egemonia culturale borghese, e quindi da redimere e liberare anche ‘a loro insaputa’,

-       sia verso la presunzione scientista che caratterizza non solo i bio-psicologi, ma anche – ad esempio – architetti e urbanisti.

 

A fronte di tali vizi del “sapere esperto” sono in atto da tempo contro-tendenze meritorie, come – in campo politico-sociale – il monito maoista di “fare inchiesta tra le masse” o agli antipodi i movimenti di auto-determinazione (dal femminismo in poi) ed - in campo urbanistico – le varie esperienze di ‘partecipazione’ a livello di quartiere (e più di recente anche istituzionale, come raccomandano le direttive europee sul paesaggio e sulle valutazioni ambientali strategiche, in qualche modo recepite ed attuate anche in Italia).

Con il rischio però del populismo, fino alle degenerazioni anti-scientifiche di no-vax e terrapiattisti (non troppo in auge in tempi di Pandemia).

 

aldovecchi@hotmail.it

 

Fonti:

1.    William Davies – L’INDUSTRIA DELLA FELICITA’ – Einaudi, Torino 2016

2.    Ronald Inglehart - LA SOCIETÀ POSTMODERNA - MUTAMENTO, IDEOLOGIE

E VALORI IN 43 PAESI - Roma, Editori Riuniti 1998

3.    Ronald Inglehart  - CULTURAL EVOLUTION. PEOPLE’S MOTIVATIONS ARE

CHANGING AND RESHAPING THE WORLD - Cambridge University Press

2018

4.    Aldo Vecchi – INGLEHART E LA POST-MODERNITÀ - su UTOPIA21 del novembre 2018

https://drive.google.com/file/d/1e23dr6OMPGRzhpDWegKWdhrz6h4DAcIt/view

5.    Fulvio Fagiani - CAPIRE IL POPULISMO. UNA RASSEGNA COMMENTATA DI RIFLESSIONI – su Utopia21 del luglio 2019 https://drive.google.com/file/d/1mCbXRn6J0LFVRZNxjWMDCT8E-_Q8960J/view.

6.    Sergio Bellucci - L'INDUSTRIA DEI SENSI – Harpo, Roma 2019

7.    Conferenza di Sergio Bellucci - "Dall’industria del senso al welfare delle relazioni” in Festival Utopia 2020: 1a parte - https://youtu.be/BuAZkdWX9no 2a parte - https://youtu.be/4ALJjyOqh9g

8.    Anna Maria Vailati e Aldo Vecchi - SUPERARE IL LAVORO SALARIATO? – SU Utopia21, gennaio 2021 https://drive.google.com/file/d/1WvDHNKBmPzcdk9JsIdG9_M6EQLH0H4bJ/view,

9.    Fulvio Fagiani - IL FUTURO DEL LAVORO TRA AUTOMAZIONE E PIATTAFORME – 1^ PARTE e 2^ PARTE – su Utopia 21, del gennaio e del marzo 2018, anche in      Quaderno n.7 ‘LA SOCIETA’ DIGITALE’ - https://drive.google.com/file/d/18zfF-qmqR75xXxNgI3gqyEfAGzeSbw_6/view

10.  Fulvio Fagiani - IL LAVORO TRA DIGITALIZZAZIONE E TRANSIZIONE ECOLOGICA – su Utopia21, gennaio 2020 https://drive.google.com/file/d/1yEYhHff3ABmdSlbmsGfgxwwhgtncgBBA/view

11. Fulvio Fagiani - CONVERSAZIONE-INTERVISTA CON LELIO DEMICHELIS SULL’ALIENAZIONE – su Utopia21, gennaio 2019[av1]  https://drive.google.com/file/d/1GLcgwdT1dCgxdGIP5aZzv1L2FFF5rVBg/view

12. Maurizio Ferraris - RISPOSTA SUL “CAPITALISMO DOCUMEDIALE” – su “UTOPIA21” maggio 2019 - https://drive.google.com/file/d/1zvydYKwaceoozsoQjWOJTAUffaSJ4dmD/view

13. Fulvio Fagiani e Aldo Vecchi - IL DIALOGO TRA FERRARIS E DEMICHELIS SU TECNICA E UMANITÀ – su Utopia21, settembre 2019 https://drive.google.com/file/d/1kfQ6QaOfbN_IiJCPZMlkIEikXUFzBynG/view

14.  Aldo Vecchi - CONVERSAZIONI SULLA SOCIETA’ DIGITALE – su Utopia21, gennaio 2020 https://drive.google.com/file/d/1BsdIBP6FZpJ5fg767kbjIBxxdBHAEtPN/view

15. Emanuele Felice “STORIA ECONOMICA DELLA FELICITA’” – Il Mulino, Bologna 2018.

Aldo Vecchi - LA “STORIA ECONOMICA DELLA FELICITÀ” (O QUANTO MENO DEL BENESSERE) DI EMANUELE FELICE – su Utopia21, marzo 2019 - https://drive.google.com/file/d/1838x-yKTFJ8ru-TRtkGjczuxEiacMxQ9/view


[1] Può essere interessante constatare come nel successivo sviluppo della metodologia dei sondaggi rientrino anche esperienze come le ricerche di Inglehart 2,3,4,5 e altri sul ‘grado di felicità’ di tutti i popoli del mondo, che in qualche misura rispecchiano, in campo sociologico, le presunzioni scientiste (tipicamente anglosassoni) che sono oggetto dello studio di Davies in campo psicologico.

[2] Su questi temi ci stiamo cimentando su Utopia21, come indicano tra l’altro l’articolo di Fulvio Fagiani in questo stesso numero (e gli altri contributi ivi richiamati), e quello di Anna Maria Vailati e mio nel numero di gennaio 8: dove però, auspicando la cooperazione come alternativa radicale al lavoro salariato, per ragioni di giustizia sociale e di contrasto all’alienazione, non si confidava per questo in una automatica corrispondenza tra liberazione dallo sfruttamento e superamento dell’infelicità.

[3] Temi di cui Utopia21 si è ampliamente occupata, negli scritti di Fulvio Fagiani 9,10 e nei contributi, diretti ed indiretti di Maurizio Ferraris e Lelio Demichelis 11,12,13, nonché nel resoconto dell’edizione 2019 del Festival dell’Utopia 14

[4] Vedi invece ad esempio il testo di Emanuele Felice, da me recensito nel 2019 15,16

[5] Leggo giusto il 24 febbraio su Repubblica un passo dal nuovo libro di Massimo Recalcati “Ritorno a Jean-Paul Sartre” : “Nell’epoca del trionfo scientista della valutazione quantitativa, delle neuroscienze, del paradigma cognitivo-comportamentale …. ripensare l’irriducibilità della soggettività umana che il filosofo francese ha sempre difeso è ai miei occhi un’operazione quanto mai necessaria”.

[6] Adorno, Horkheimer, Marcuse, Habermas

[7] Lévi-Strauss, Foucault, Althusser, Barthes,  Deleuze - Guattari

[8] Per quanto riguarda l’Italia, poi – se ho letto bene – figura solo, in una nota, un testo di Toni Negri

[9] Ad esempio, in campo psichiatrico, l’insegnamento tuttora fertile ed il successo letterario di Eugenio Borgna.


 [av1]

UTOPIA21, MARZO 2021 - RECOVERY FUND E DISINFORMAZIONE

 

Un corsivo sulla buona stampa riservata alle attese verso il governo Draghi, ed al vituperio sul precedente governo Conte, in materia di PNRR, come paradigma per una più ampia preoccupazione sulla attendibilità dei media nell’Italia di oggi

Nel romanzo “Adua” di Giuseppe Tugnoli (pseudonimo di Manlio Cancogni)1 il protagonista, ufficiale e cartografo, nel mezzo dell’omonima battaglia (1896) e nel presagire la sconfitta del Regio Esercito contro gli Etiopi, si rende conto che lo Stato Maggiore emana ordini fondandosi su una mappa sbagliata, divergente da quanto da lui in precedenza rilevato sul posto.

 

Similmente accade talvolta di leggere su organi di stampa, più o meno altolocati, locali e nazionali, alcune affermazioni piuttosto lontane da quel pezzetto di verità che ciascuno di noi ha l’avventura di conoscere meglio, per motivi professionali o per casuale vicinanza all’oggetto dell’informazione.

 

Come i lettori abituali di ‘Utopia21’ hanno potuto constatare, la nostra redazione ha seguito con attenzione, risalendo alle fonti pubbliche, ufficiali ed ufficiose (italiane ed europee), la lunga e complessa gestazione del “Recovery Fund” (ovvero “Next Generation EU” ovvero Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza”), dai documenti della Commissione Europea al Comitato Colao, dalle Linee Guida alla bozza di PNRR del 6 dicembre, fino al testo approvato dal Consiglio dei Ministri il 12 gennaio, oggetto di analitici commenti nostri e dei nostri collaboratori.

Commenti nei quali non abbiamo risparmiato critiche di metodo e di merito, in tutte le fasi del percorso.

 

Pertanto mi hanno particolarmente colpito le pesanti inesattezze sullo stato di fatto del PNRR diffuse a piene mani da semplici giornalisti e da autorevoli commentatori (in particolare su “La Repubblica”, che ho più capillarmente seguito nel periodo[A]), collateralmente:

-       alla aggressiva campagna politica di Italia Viva contro il governo Conte (chiesta e ottenuta la devoluzione ad un delegato per i Servizi Segreti, il partito di Renzi rivendicava allora l’accesso al MES[B], e svariati emendamenti sul PNRR)

-       al susseguente (o forse conseguente) benevolo coro di benvenuto verso il nuovo premier Mario Draghi, che – ad esempio – anche quando tace,  tace così bene come niuno altro al mondo, senza trascurare i miracoli attesi dalla sua educazione presso un collegio di Gesuiti.

 

Non solo i commentatori più informati, ma lo stesso testo ufficiale del PNRR era ad esempio consapevole della incompletezza del documento riguardo a:

-       meccanismi di governance e monitoraggio (allora oggetto di contesa politica nella maggioranza),

-       specificazione dei risultati attesi in termini socio-economici per le singole misure del Piano,

-       articolazione dettagliata di alcune delle riforme trasversali/preliminari, pur ampiamente enunciate e motivate (Giustizia, Fisco, Lavoro, Pubblica Amministrazione).

Carenze che il governo uscente prometteva di colmare in corso d’opera, aprendo nel frattempo il confronto in Parlamento (audizioni che utilmente si sono sviluppate anche durante la crisi di governo) e quindi nel Paese (almeno per i soggetti interessati a leggere il testo, anziché a giudicarlo senza leggerlo): scelta forse discutibile perché tardiva (o prematura), che comunque non corrispondeva all’intenzione di blindare il testo e presentarlo tal quale alla Commissione Europea.

 

Mentre il nuovo ministro dell’economia Daniele Franco, nella audizione alle Commissioni Parlamentari congiunte, dichiarava il --- marzo che il PNRR ereditato dal precedente governo presenta “moltissimi elementi di solidità“, nelle settimane precedenti si è potuto leggere (anche se mi sono perso le citazioni letterali):

-       che il testo del PNRR conteneva vuoti e pagine bianche (il che era vero invece e solo per la versione ufficiosa del 6 dicembre),

-       che il PNRR mancava delle Riforme collaterali, per cui l’Europa lo avrebbe bocciato

-       che il nuovo Governo avrebbe stralciato spese eccedenti non finanziate (in realtà si trattava della parallela previsione di spese già finanziate o finanziabili con altri fondi nazionali od europei, che il PNRR del 12 gennaio proponeva di considerare nell’insieme),

-       che il nuovo Governo, invece, avrebbe programmato in parallelo le suddette spese,

-       che nel PNRR di Conte c’erano troppi sussidi e pochi investimenti, troppo pubblico e poco privato, ed il debito sicuramente sarebbe stato debito cattivo,

-       che il nuovo Governo avrebbe (lui sì!) rispettato le percentuali minime europee per la transizione energetica e per la digitalizzazione,

-       (e, per finire, che il nuovo Governo, con una task force costituita dalle persone giuste al posto giusto, e con la consulenza di McKinsey Co., avrebbe finalmente scoperto anche l’acqua calda).[C]

 

Un coro pressoché unanime ed impressionante, che fa sorgere il sospetto di una convergenza tra la sciatteria professionale (e talora la piaggeria) di molti giornalisti e la voluta orchestrazione di una manovra condivisa da Editori&Direttori degli stessi giornali con altri segmenti del potere politico ed economico: non so se il governo Conte-2 (di cui non ero un appassionato sostenitore, pur apprezzandone l’evoluzione rispetto al Conte-1) fosse un bersaglio meritevole di tanto accanimento, ma i toni mi ricordano vagamente quelli verso “gli straccioni” che “hanno sporcato i portili e le porte”, nella canzone Contessa di Paolo Pietrangeli (preciso però che non ho cointeressenze nell’”Industria di Aldo”)[D].

 

La riflessione più generale che mi sentirei di fare, al termine di questo sfogo, è sul ruolo dei media e sulla responsabilità dei giornalisti, in un mondo in cui giustamente ci preoccupiamo per le ‘fake news’ che corrono ‘in seno al popolo’, spesso promosse da centrali più o meno occulte, nazionali ed estere, e quindi dovremmo aspettarci un correttivo – e non aggravanti - negli organi di comunicazione professionali.

aldovecchi@hotmail.it

 

Fonti:

1. Giuseppe Tugnoli – ADUA – Rizzoli, Milano 1978



[A] Ho provato a compensare con “Domani”, ma – malgrado i precisi interventi di Fabrizio Barca  - sullo specifico del PNRR ho trovato anche qui genericità e pressapochismo, dal Direttore in giù.

[B] IL MES, Fondo europeo cosiddetto Salva Stati, disponibile dopo la Pandemia Covid-9 per spese sanitarie straordinarie (senza le abituai condizioni-capestro per la restituzione), di fatto non utilizzato da nessuno dei 27 paesi dell’Unione Europea; nel confezionare la bozza del PNRR il ministro dell’Economia Gualtieri, a fine 2020, aveva specificato che a quel punto si trattava di un debito aggiuntivo, quando già si propendeva a utilizzare solo parte dei prestiti potenziali del Next Generation EU come nuovi debiti, impiegando la restante parte come sostituzione di debiti comunque già previsti dalla Legge di Stabilità: indirizzo che pare pienamente confermato dal governo Draghi, senza alcun strepito da parte renziana.

(Altra cosa sarebbe stato usare il MES in funzione anti-Covid ed anti-ciclica nell’estate del 2020 (scelta allora impedita dal rifiuto pregiudiziale del MoVimento 5Stelle).

[C] Più paludato l’autorevole duo accademico Boeri-Perotti: in un primo articolo ha giustamente ricordato che investire per gli asili-nido comporta anche assicurare le risorse per la successiva gestione, segnalando pertanto come troppo elevata la percentuale di copertura del servizio promessa dal PNRR: senza preoccuparsi però di controllare che nel PNRR stesso (versioe12 gennaio) era addirittura ancora più alta (il che avrebbe reso più efficace, ma anche più preciso, il rilievo polemico).

In un secondo articolo, Tito Boeri e Roberto Perotti  contestano complessivamente l’orizzonte keynesiano del programma di prestiti europei NGEU, suggerendo di limitarsi ad utilizzare i contributi a fondo perso (88 miliardi su 200 circa) come – dicono – fanno Spagna e Portogallo; si tratta di un legittimo punto di vista, che i due professori sorreggono con una diffusa sfiducia verso la capacità dei governi italiani di utilizzare gli eventuali prestiti NGEU come “sostitutivi” di debiti comunque previsti; è anche questa è una legittima opinione, che però nell’articolo viene vivificata attribuendo al PNRR Conte/Gualtieri una valutazione di indebitamento pre-PNRR di ben 50 miliardi nel digitale (“Quando mai prima del NGEU si era parlato seriamente di spendere 50 miliardi nel digitale?”), mentre nella tabella a pag. 23 del PNRR tale importo è chiaramente specificato in 10,1 miliardi di €, ammontando a 46,18 miliardi di € (compresi i nuovi apporti del NGEU) l’intera “Missione 1 - DIGITALIZZAZIONE, INNOVAZIONE, COMPETITIVITA' E CULTURA”.

 

[D] “Che roba contessa, all’industria di Aldo

han fatto uno sciopero quei quattro ignoranti;

volevano avere i salari aumentati,

gridavano, pensi, di esser sfruttati.

 

E quando è arrivata la polizia

quei pazzi straccioni han gridato più forte,

di sangue han sporcato il cortile e le porte,

chissà quanto tempo ci vorrà per pulire…”.