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venerdì 21 gennaio 2022

UTOPIA21 - SETTEMBRE 2021: L’AUTOBIOGRAFIA DI MARIO CHINELLO

 

Alcune riflessioni ed alcune domande a partire dai due libri di memorie di un operaio e poi imprenditore, immigrato dal Veneto nel Medio Novarese, sempre comunista ed a lungo amministratore locale.

 

Sommario:

-       autobiografie

-       l’infanzia in un Veneto rurale

-       il trasloco a Divignano e poi a Borgo Ticino

-       verso la maturita’

-       intervista sull’utopia comunista

 

AUTOBIOGRAFIE

Nel poco tempo che negli ultimi anni riesco a dedicare alla lettura di testi narrativi, mi è maturata una predilezione per i racconti più o meno esplicitamente autobiografici, non tanto per la presumibile (ma variabile) autenticità dei contenuti, ma per la palese motivazione degli autori, in contrapposizione alla frequente “gratuità” dei racconti di finzione e/o di ambientazione storica (preferenza che – ho scoperto – condivido con critici professionali quali Angelo Guglielmi).

Mescolando letture più remote ed altre più recenti, ho trovato spesso una capacità particolare di comunicare gli stupori ed i miti delle esperienze infantili e adolescenziali, nei ricordi di grandi scrittori, come Marcel Proust od Elias Canetti o la contemporanea Annie Ernaux (e forse in Ippolito Nievo e in Thomas Mann), ma anche nei memoriali di tre intellettuali della sinistra comunista, come Rossana Rossanda, Pietro Ingrao e Luciana Castellina, di ulteriore interesse perché – pur più giovani dei miei genitori, e di diverso ambiente – hanno attraversato vicende comparabili a quanto appreso nel mio vissuto familiare e poi la storia della sinistra italiana che ha poi coinvolto anche la  mia generazione.

 

L’INFANZIA IN UN VENETO RURALE

Gli stupori e i miti infantili/adolescenziali li ho incontrati anche nella lettura del primo volume delle memorie di Mario Chinello “Ciò che non ho voluto” 1, pubblicato nel 2015: per commentarlo ho però atteso la pubblicazione del 2° volume “Rosso di sera” 2 (2021), non solo per considerare la panoramica di assieme, ma anche per prudenza, presumendo di comparire anch’io in qualche anfratto della sua storia successiva (mi occupavo a vario titolo dell’urbanistica comunale di Borgo Ticino dal 1970 al 1980, quando Mario era Assessore, con il Sindaco Vinicio Silva 3) e per assicurarmi quindi di non sfigurare… Al di là di questi timori, il 2° Volume mi incuriosiva in particolare perché le vicende dell’Autore si intersecano non solo in parte con la mia traiettoria personale (anch’io con parziali ascendenze venete, cresciuto – e però anche nato - nel medio novarese, però più giovane e più “cittadino”) ma con le storie, personali e collettive, nelle fabbriche e nella sinistra, tra Arona ed il Varesotto, di cui mi sono occupato in precedenti interviste pubblicate su Utopia21 4.

Non è facile riassumere chi è l’Autore (infatti per raccontarlo nei 2 volumi l’Autore stesso  ha impiegato più di 500 pagine): pescando (liberamente ed interpolando) dal risvolto di copertina “nato … in provincia di Venezia nel 1942, si è trasferito in Piemonte con la famiglia dieci anni dopo, risiedendo dapprima a Divignano e successivamente a Borgo Ticino, dove tuttora abita. La sua esperienza scolastica si interrompe con le elementari…” [ma il suo rammarico in proposito si è tradotto in un vigoroso autodidattismo]; “Fin da giovane ha praticato vari sport, soprattutto il ciclismo che condivideva con la passione politica …sempre schierato a Sinistra”. [Operaio meccanico, poi capo-squadra ed infine piccolo imprenditore nel ramo dei serramenti metallici, è stato Assessore e poi], “.. Sindaco del Comune di Borgo Ticino dal 1988 al 1997” [nonché Presidente o Promotore di altre entità associative e/o istituzionali, dalla Scuola alla Assistenza Sociale e Sanità].

Lo sfondo dell’infanzia di Mario Chinello (con qualcosa in comune con i monologhi del più giovane Marco Paolini e qualcosa con “libera a nos a Malo” del più anziano Luigi Meneghello – sempre autobiografie –) è Campagna Lupia, un paese tra Mestre e Chioggia, dietro la Laguna di Venezia (e sotto le sue acque se non funzionano le idrovore), caratterizzato da una secolare povertà contadina, aggravata dalla recente guerra (rammenta Mario che varie componenti degli Alleati, arrivati nel 45 come liberatori ad accamparsi nel grande cortile della famiglia paterna, già utilizzata dagli invasori tedeschi, si comportava – nelle vessazioni quotidiane – peggio dei tedeschi stessi), ma alleggerita, in qualche misura dalla fede social-comunista in un futuro migliore.

Di questa fede, assai diffusa allora nella provincia di Venezia, sono paradigma alcuni aneddoti relativi alla decisiva tornata elettorale del 1948: la partecipazione del piccolo Mario – dapprima in gruppo sul cassone di un camion e poi da solo in cima ad un pilastro della Villa di Stra, fotografato su un giornale, mentre sventola la bandiera rossa – ad un comizio di Palmiro Togliatti – di cui Chinello rammenta soprattutto lo sdegno per la strage di Portella della Ginestra del 1947 - ed i seguenti, che riporto quasi per esteso in nota [1], perché non riassumibili:

Al di là di questi ed altri singoli vivaci episodi, la rievocazione della vita nel paese in quegli anni del dopoguerra – attraverso i vari rami delle famiglie materne e paterne, più o meno poveri o talora quasi-ricchi, ed i personaggi più caratteristici del vicinato – è intessuta di osservazioni sulla fatica e sulla tecnica dei vari lavori, sulla semplicità della vita e dei divertimenti, sulle rivalità ma anche sulla spontanea solidarietà (del popolo di allora), sul bilinguismo italo-veneto: mentre il piccolo Mario cresce in letture e curiosità, botte dai compagni più robusti (in attesa di potersi rifare), ed ammirazione/imitazione verso i due fratelli (e due sorelle) maggiori di lui.

 

IL TRASLOCO A DIVIGNANO E POI A BORGO TICINO

L’incanto polifonico di questo mondo[2], piccolo ma variegato, è bruscamente interrotto dalla decisione dei genitori di Mario di emigrare in Piemonte, non per un bisogno materiale di reddito, ma per un desiderio di emancipazione dall’assetto patriarcale della famiglia, imperniata sul nonno (Carlo), relativamente benestante nel contesto contadino, perché titolare del principale negozio di frutta e verdura (e pochi dolci) del paese.

Il racconto prosegue con le difficoltà di adattamento e integrazione della famiglia Chinello (prima come agricoltori, poi con un piccolo commercio per il padre, e il lavoro salariato per i figli maggiori) in un paese un po’ marginale del novarese, Divignano, caratterizzato (come anche - vedremo poi - Borgo Ticino) da decenni di emigrazione oltre Atlantico e Oltralpe e da inizi di immigrazione dal Veneto e successivamente dalla Calabria per le speranze di lavoro sia nelle cascine abbandonate sia nell’edilizia e nella crescente industrializzazione, ma non in loco (se non per il settore tessile-confezioni, con manodopera femminile) ma con pendolarità verso i centri urbani maggiori, spesso al di là del Ticino.

Di queste trasformazioni sociali il ragazzo Mario Chinello è testimone attento, sia riguardo  agli adulti  (le sue prime attività, scorrazzando in bicicletta, consistono nel far commissioni conto terzi nei paesi vicini, ad esempio per andare in farmacia) sia riguardo alle sue esperienze dirette, negli ultimi anni di scuola elementare (tra le solite botte “di benvenuto” e le gare dei ripetenti a cercare di “toccare” le parti intime delle compagne) e poi nei primi anni del lavoro dipendente, come operaio ad Arona ed a Somma Lombardo.

Mi ha colpito in particolare, in questo scenario degli anni ’50, non solo la durezza della fatica nel lavoro ma anche il livello di violenza implicita, oppure esplicita, che regolava le gerarchie sociali e professionali, non solo tra padroni ed operai, ma all’interno dello stesso mondo operaio.

Nonché la fatica (e talvolta il pericolo) per gli spostamenti pendolari, a piedi e in bici (con qualunque clima) e sui mezzi di trasporto collettivi, tra cui ad esempio il pericoloso traghetto che attraversava il Ticino tra Porto Varallo Pombia e Coarezza (frazione di Somma Lombardo), dove molte operaie residenti in Piemonte lavoravano in un cotonificio.

 

L’ADOLESCENZA, TRA IL LAVORO E TANTI ALTRI INTERESSI

Tra Arona/Dormelletto e Somma Lombardo prende avvio, in diverse piccole aziende metalmeccaniche (le offerte di lavoro allora non mancavano), la carriera professionale di Mario, con una burrascosa breve parentesi alla IGNIS di Cassinetta, dove il nostro entra in rapido conflitto con il sistema gerarchico aziendale, non per insubordinazione sindacale, ma per l’impermeabilità di capi, capetti e colleghi ad ogni ipotesi di correzione dei metodi di lavoro, anche quando in favore di una maggior produttività.

Cresce nel frattempo anche la politicizzazione di Mario Chinello nelle file del Partito Comunista, allora in zona forte soprattutto a Castelletto Ticino, anche in relazione alla storia delle grandi fabbriche della vicina Lombardia (la SIAI Marchetti di Sesto Calende e Vergiate, ed ancora a Sesto la Vetreria AVIR e la Ferriera di S.Anna): ricompare nelle sue memorie la rievocazione della strage di Portella della Ginestra, in un comizio a Novara di Girolamo Li Causi (i due volumi sono interpuntati da brevi riferimenti alla storia nazionale – e anche internazionale – della lotta politica e di classe, con particolare attenzione e sdegno verso lo stragismo fascista ed il connesso “golpismo”, ma anche con chiara condanna del successivo terrorismo di sinistra; più moderati, mi pare i giudizi sul “regime democristiano”, tranne che per gli esempi locali più lampanti di malgoverno).

Gran parte della narrazione è però rivolta a tutti gli altri interessi di Mario, dalle libere letture alle amicizie, dallo sport (non solo ciclismo, dove si impegna attivamente come corridore dilettante) al ballo: nelle balere il giovane Chinello si esibisce con qualche successo anche come cantante, il che talvolta confligge con la disciplina che vorrebbe imporgli la squadra ciclistica.

Alla bicicletta è legata una impresa raccontata con accenti epici e lirici, che in qualche modo chiude l’adolescenza: il ritorno in gita ciclistica a Campagna Lupia, attraversando nella notte estiva l’operosa pianura padana che dorme, tranne le diverse persone che incontra (e con cui parla) nei paesi, a Milano, lungo le strade. 

Un altro episodio che mi è rimasto impresso è una gran rissa nella finale di un torneo di calcetto, a Pombia, con l’attiva partecipazione del locale parroco “Don Pacifico”, il quale però l’indomani si reca in penitenza al “Bar Sport” di Borgo Ticino, sede della squadra ospitata e vincitrice, offrendo biscottini e apertivi in segno di riconciliazione.

Punti di svolta nella maturazione del protagonista, ben raccontati, sono l’iniziazione al sesso (mercenario) nell’ambito della “festa dei coscritti” (però Mario sarà esentato dal servizio militare, in quanto “terzo fratello”) e l’iniziazione sentimentale, con il difficile (ma premiato) corteggiamento verso Mara, che allora lavorava nella fabbrica di fronte alle Officine Meccaniche di Dormelletto: galeotto fu il famoso cavallo Ribot, che Mario condusse Mara (ed una amica) a curiosare nella vicina tenuta Dormello-Olgiata, durante la pausa mensa: l’amica capì il risvolto romantico, e Mara divenne la compagna di tutta la vita di Mario (ma non prima di un diverbio chiarificatore con il fratello maggiore di Mara).

 

VERSO LA MATURITA’

Trascurando in questa recensione di riferire sulle numerose digressioni dei 2 volumi sulle vicende di parenti, vicini di casa ed amici (che però nell’insieme compongono una interessante rappresentazione sociologica della vita dei paesi in questione; e anche della morte, perché più si girano le pagine e più frequente è trovare necrologi, con larga presenza di tumori) e sulle discussioni con i compagni del PCI, con gli avversari politici e talora con alcuni preti interessati al dialogo, la maturazione di Mario Chinello (forse incompleta, perché sotto molti aspetti manifesta tuttora vivacità adolescenziali, soprattutto in sella alla bicicletta) si sviluppa su tre fronti:

-       la famiglia, con il sobrio matrimonio (in parallelo con il cognato, ma non quello del diverbio), un viaggio di nozze a Firenze – apprezzandone la enorme bellezza –, la nascita e crescita di due figli studiosi, ad un certo punto una bella casa in proprietà,  i buoni rapporti con gli anziani e i fratelli e cognati (commuovente la descrizione della vita della famiglia di Mara prima dell’emigrazione dal Polesine);

-       il lavoro, in cui Mario approda dapprima al ruolo di capo-officina nella preparazione e installazione di serramenti metallici, in una azienda di Arona, e poi – in società con il più giovane Bruno Braghini, che lo ha seguito sotto gli ultimi 2 padroni e ha anche studiato da disegnatore – alla formazione di una piccola impresa specializzata sempre in serramenti metallici, la OCSA, con sede a Borgo Ticino, dapprima in affitto e poi costruendo  la propria officina (con clientela locale, ma anche estesa alla Lombardia occidentale);

-       la politica, con la assidua militanza nel Partito Comunista, di cui Mario è a lungo il segretario di Sezione a Borgo Ticino ed attivo nella federazione di Novara,  e con l’intensa attività amministrativa, come Consigliere, Assessore e Sindaco nel suo comune e poi con altre cariche e funzioni in organismi sovracomunali ed in associazioni del volontariato (nonché come Presidente del Consiglio di Istituto del Liceo Fermi di Arona): attività finalizzata soprattutto a rispondere ai bisogni e alle aspettative della popolazione ed a sopperire alle carenze delle istituzioni pubbliche.

Nei ricordi di questi decenni di faticose trasformazioni, personali e collettive, e di vita quotidiana ‘in seno al popolo’ non mancano sapidi aneddoti, come già nel primo volume, ma la mia impressione complessiva – in funzione della materia trattata, oggettivamente più ‘prosaica’ e dalla diversa età del protagonista-narratore – è che nel secondo volume la prosa prevalga sulla poesia.

Lasciando alla lettura diretta del testo l’apprezzamento per i singoli episodi (riguardo alle esperienze professionali, ad esempio, la posa di serramenti – con in tasca “L’Unità” – per l’Arsenale Militare del Canton Ticino, oppure per un collegio di monache Canossiane, o ancora alcuni metodi spicci che il Chinello-imprenditore applica per il ‘recupero crediti’, smontando rapidamente i manufatti non pagati), si coglie nell’insieme una passione corale per il lavoro come strumento di emancipazione, individuale e collettiva, che non riguarda solo il salario e il guadagno, ma anche e soprattutto il ‘ruolo’, nell’ambito di una socialità multiforme, che nei paesi sembra perdurare a lungo, pur affievolendosi, nei decenni dal dopoguerra in qua.

In queste trasformazioni, nella nostra zona, sono molti gli operai (come Mario, ed altri personaggi dei due libri) che – benché penalizzati da una scarsa scolarizzazione – si fanno “classe dirigente”, sia perché divengono imprenditori, sia perché divengono quadri politici o sindacali o – soprattutto – validi amministratori locali (Mario quasi tutte queste diverse cose…).

Il tirocinio di Mario Chinello come consigliere e assessore comunale iniziò affrontando – nel 1970 – situazioni di arretratezza oggi poco immaginabili “… il bilancio era scritto a matita … il resoconto dell’anno precedente non esisteva … addirittura mancavano alcune delibere, … solo annotate e mai approvate dal Consiglio Comunale” ed ai debiti fuori bilancio della precedente amministrazione si associava la carenza dei servizi, dai più elementari, come l’acqua potabile e la raccolta rifiuti, al riscaldamento delle scuole primarie (le tre aule delle medie erano ricavate tramezzandone la palestrina).

Lo slancio verso la giustizia sociale e la solidarietà (ad esempio riuscendo a far pagare anche ai benestanti l’Imposta di Famiglia) si intrecciava quindi strettamente con la modernizzazione e la ricerca di efficienza delle pubblica amministrazione, condizioni necessarie anche per il progresso delle classi subalterne.

Ed anche con l’attenzione ad una legalità sostanziale, che talvolta confligge con la legalità formale, come quando – ormai negli Anni ’90 – da Sindaco  affrontò di petto alcuni gravi e ricorrenti fenomeni di vandalismo ad opera di gruppi di giovani tra i 16 anni (incendio di cassonetti dell’immondizia) e gli oltre 20 anni (fino al ribaltamento e rottura della “croce di pietra” posta in capo al centro storico) – segno di un degrado sociale, perché, osserva l’Autore, qualche monelleria la facevamo anche noi, ma quando avevamo dieci anni al massimo –  : se in un primo caso Mario sequestrò un ragazzino, ma non riuscì a consegnarlo ai Carabinieri, perché dopo le ore 20 la Caserma non apriva i battenti (ed i 2 vigili urbani, come sempre, “non erano di turno”), nel secondo caso ne stese uno a cazzotti, ma venne denunciato dalla vittima stessa (e banda connessa), finendo però con una condanna lievissima dal saggio Pretore di Borgomanero.

 

INTERVISTA SULL’UTOPIA COMUNISTA

Le valutazioni di politica generale espresse nei 2 volumi culminano a mio avviso in un giudizio equanime (a posteriori) sullo scontro PCI-DC :  “Alla luce dei fatti, devo dire che c’erano ragioni da ambo le parti. La Democrazia Cristiana e i suoi alleati avevano capito che quel sistema politico [il socialismo reale] creava delle gerarchie intoccabili e che non sarebbero mai state democratiche, noi comunisti, che la nostra classe politica [democristiana] avrebbe sempre favorito lo sfruttamento dei lavoratori, mantenendoli lontani dal potere….” “Devo riconoscere che anche dall’altra parte del muro le cose non sono andate poi così bene…”

Poiché la strenua militanza di Mario Chinello, intessuta però con la sua carriera lavorativa in prevalenza in piccole imprese (da ultimo come imprenditore), non risulta caratterizzata in prevalenza dall’aspetto sindacale diretto, di lotta per le condizioni contrattuali aziendali, ma mi sembra piuttosto caratterizzata da manifestazioni e volantinaggi ai cancelli di altre fabbriche, e da iniziative di partito (dalla diffusione dell’Unità alle Feste dell’Unità), nonché poi dalla ricchissima esperienza amministrativa, per migliorare i servizi, il benessere e la convivenza civile, dopo la lettura delle sue memoria (che non riporta molto dei contenuti delle lunghe discussioni e chiacchierate, tra amici e compagni o con avversari politici) mi sono rimaste alcune curiosità, soprattutto sul versante utopia/realismo, che ho tradotto nelle domande della seguente intervista.

 

DOMANDA 1: Ricordando la retorica rivoluzionaria del PCI (rammento che a noi estremisti veniva detto che il PCI avrebbe fatto la vera rivoluzione, sia pure con metodi democratici), cosa pensavate veramente Voi militanti, sia del “socialismo reale”, sia della società socialista che immaginavate in Italia? (Cioè, parafrasando i Tuoi titoli “ciò che avresti voluto”, quando “il rosso” era ancora “di giorno”?)

 

RISPOSTA 1:  A me è sempre stato chiaro un fatto: il PCI non sarebbe mai stato un partito rivoluzionario, nel senso vero del termine. Una rivoluzione armata in Italia non l'ho mai concepita, né percepita nelle mie frequentazioni giovanili dentro gli organismi federali del partito; si pensava ad una vera rivoluzione di stampo culturale, di rifondare il sistema dando piena attuazione alla Costituzione nata dalla Resistenza. Il dibattito nel partito era assai vivace e contrastato: diversi compagni tra i più anziani, avrebbero sposato volentieri le tesi rivoluzionarie di Pajetta, Cossutta, e dello stesso Moscatelli, ma i discorsi si arenarono sul metodo e su come coinvolgere la classe operaia, che al di là di poche frange estremiste, non vedeva questa via praticabile ed utile per migliorare la loro condizione.

L'invasione della Cecoslovacchia del 1968 fu lo spartiacque definitivo, il Partito assunse una posizione netta e da quel momento in poi si avvertirono molti dissensi verso l’URSS. Otto anni dopo, Enrico Berlinguer espresse il pensiero politico del PCI, che ruppe con l’egemonia politica del PCUS e lanciò il cosiddetto “comunismo dal volto umano”.

Non fui mai un revisionista, passavo per uno dei duri nel partito, non so se con molta ragione. Il mio impegno era quello di lottare per l'emancipazione delle masse, renderle consapevoli dei loro diritti e doveri, organizzare il partito perché in ogni luogo si potesse far giungere la sua voce. Questo era un obiettivo praticabile e alla portata di tutti, se tutti avessero fatto la loro parte. A partire dagli anni Sessanta, ciò fu possibile perché con la forte immigrazione dal Veneto e poi dal nostro Meridione, soprattutto dalla Calabria, il lavoro di convincimento ideologico non mancava, e si coglievano risultati assai convincenti anche sotto l'aspetto elettorale.

Non essendo mai stato sindacalizzato da adulto, non ho vissuto il dibattito interno al movimento operaio, ho potuto giovarmi di grandi compagni che operavano nella CGIL, da loro ricevevo le notizie, le voci di conquiste e purtroppo anche di sconfitte dentro il mondo operaio.

Eravamo un partito internazionalista, questo sì! Le battaglie per sostenere la causa dei Paesi in via di sviluppo erano massicce e convinte, raccoglievamo fondi da destinare un po' ovunque: Cuba e il Sudamerica, l'Africa, il Vietnam, il Sudafrica, il Cile, la Grecia dei colonnelli, e avevamo qualche idea molto simile allo jugoslavo Tito, leader dei Paesi non allineati.

La prematura scomparsa di Berlinguer lasciò una traccia indelebile nel corpo dei militanti del partito, e fu dopo di allora che non fummo più in grado di essere egemoni nel mondo del movimento operaio ed intellettuale. Mi sarei accontentato di vedere crescere una coscienza di classe convinta, democratica e capace di creare consensi e quadri importanti per gestire la cosa pubblica, a partire dalla sanità, la scuola, lo sport e la tutela ambientale, che non sono mai stati un fiore all'occhiello del nostro Paese. Insomma, ero convinto si potesse attuare il famoso: “Socialismo dal volto umano”.

 

 

DOMANDA 2: In qual modo queste visioni dell’Est e del futuro cambiavano con le grandi svolte di quel periodo, dalla rivolta di Ungheria (e dintorni) nel 1956, al grande crocevia del ’68 (Vietnam, Cecoslovacchia, movimenti giovanili), fino al “compromesso storico” ed alla tragedia di Aldo Moro nel 1978?

 

RISPOSTA 2:  Quando a sedici anni iniziai la mia vita politica partecipando a riunioni settimanali nelle sezioni, una volta al mese in Federazione a Novara, il sentimento che girava tra i compagni adulti, era assai più vicino alle posizioni di chi vedeva ancora all'orizzonte il “sol dell’avvenir”. Nemmeno i recenti fatti dell’invasione dell’Ungheria, attuata dai paesi del Patto di Varsavia, avevano scosso il loro credo, volto a realizzare il comunismo in Italia.

Come già anticipato nella prima risposta, il convincimento che si potesse concretizzare la svolta comunista, via via si affievolì in seguito agli eventi storici succedutisi dal 1950 al 1970. Un ventennio che vide esaurirsi molte certezze e che, con la permanente presenza americana nella vita politica ed economica del nostro paese, si era capito che la possibilità di creare le condizioni per una via socialista in Italia (la terza via), erano precluse.

Si cercò di contrastare l'imperialismo americano con tutti i mezzi leciti possibili, le manifestazioni indette dal PCI, seguite timidamente da frange del PSI, ancora non preda del Craxismo, furono moltissime ed assai partecipate, ma i frutti furono pochi e senza influenzare oltre misura le masse popolari italiane. In quegli anni, molti giovani aderirono al PCI, ma molti altri, soprattutto studenti e intellettuali, artisti e gente di spettacolo, aderirono o simpatizzarono per i movimenti studenteschi e gli antagonisti di sinistra, vera spina nel fianco del più grande partito comunista dell'intero Occidente.

Io che ero tra i più giovani attivisti, pur cercando di capire le ragioni dei vari movimenti giovanili, tra cui spiccava Lotta Continua, ho sempre pensato che avrebbero creato più danni al movimento dei lavoratori che benefici e conquiste, purtroppo i fatti mi hanno dato ragione, perché non riuscendo a sfondare dentro le masse operaie e nella società, molti di quei bravi giovani, armati di un idealismo esasperato, finirono per buttarsi nella lotta armata. Gli esiti li conosciamo tutti. 

Dopo i tragici fatti del Cile, con l’assassinio di Allende, Berlinguer indicò la via del Compromesso Storico, una via che trovò molti ostacoli all’interno del partito, dopo oltre trent’anni di contrapposizione con la DC, si sarebbe dovuto cercare la collaborazione e partecipare a scelte che ci avevano sempre visti contrari, e che avevano il timbro della DC. Fu Aldo Moro, con il suo atteggiamento prudente da statista navigato, che riuscì a stemperare gli animi contrari e creare le condizioni per un ruolo nuovo del PCI. Lo capirono benissimo i manovratori occulti della politica italiana, con il ruolo primario dei servizi segreti deviati, dell’organizzazione di Gladio, manovrati da Gelli e dalla P2, i quali si inserirono ad arte tra le neocostituite brigate rosse, questi, lavorando su più livelli e in combutta con i movimenti estremisti di destra, fecero assassinare Aldo Moro, interrompendo così l’appena avviato Compromesso Storico. A ragion veduta, fu un duro colpo per la sinistra, tutta! Anche chi pensava di trovarsi schierato a sinistra del PCI, subì un grave contraccolpo e molti di quei giovani estremisti, in poco tempo, finirono per imbarcarsi con la destra di governo, soprattutto, con il rampante e nuovo Berlusconi.

Dopo il cosiddetto CAF: Craxi Andreotti Forlani, nulla fu più come prima, le perdite di consensi nel Paese furono una conseguenza del mancato arrivo del Partito al governo, le masse sfiduciate, secondo me sbagliando, scelsero di votare per i partiti di governo, indebolendo il PCI e vanificando molte conquiste che si erano strappate alle destre negli anni 70. Esse furono: lo Statuto dei lavoratori, 20 maggio 1970; la legge per il divorzio, 18 dicembre 1970; la legge 1044 per gli asili nido, 6 dicembre 1971; il nuovo diritto di famiglia, 19 maggio 1975; la legge sull’aborto, 22 maggio 1978; la legge di riforma sanitaria, 23 dicembre 1978. Solo per citare le più importanti e quelle che hanno avuto il pieno e combattivo supporto del PCI. Venendo meno il PCI, causa le note vicende internazionali ed anche nostrane, finì assai presto il baluardo contro le destre e il clero imperante in Italia, e adesso ci asciughiamo le lacrime.

 

 

DOMANDA 3: Le speranze dei Vostri orizzonti erano perciò più ampie degli obiettivi per cui Vi siete concretamente battuti e che in parte sono stati raggiunti (e poi anche rimangiati), come i diritti sindacali, dei salari decenti, l’istruzione, la salute e la casa per tutti (obiettivi validissimi e purtroppo abbastanza utopici, non solo dopo la guerra, ma forse ancor oggi)?

 

RISPOSTA 3: Le speranze dei nostri orizzonti…pur essendo sempre all'opposizione, non furono del tutto disattese, senza la nostra forza organizzata e senza le mille battaglie intraprese, anche le citate conquiste non sarebbero maturate, quindi, non è stato tutto fallimentare, anzi. Certo, ci sono molte cose che si sarebbero potute fare, però ci voleva la forza dei numeri ed anche delle idee.

Fin dagli anni Ottanta avvertii un disamoramento nei confronti della politica, che se per gli altri era normale (lì contavano i soldi ed il potere fine a stesso) per noi fu letale. L'avvento del berlusconismo ha sconvolto la politica italiana, anche quella della destra democratica, creando condizioni di assoluto disinteresse per la cosa pubblica, e un indottrinamento mediatico che ancora sta imperando.

La trasformazione produttiva e la delocalizzazione all'estero di grandi fabbriche, hanno contribuito alla polverizzazione del mondo produttivo, e le nuove forze progressiste, post PCI, si stanno dimostrando incapaci a gestire i cambiamenti. La mia storia sta per giungere al termine, quella politica lo è già da qualche anno; non ho molti rimpianti, credo di avere fatto la mia parte ed anche quella di molti altri, che invece hanno scelto di stare ai margini della vita politica e istituzionale, o che addirittura sono saliti sul carro dei vincitori (almeno per adesso), rinnegando il loro passato ed i sacrifici di milioni di militanti veri. Se vogliamo, questo è  - dal punto di vista politico - il mio grande dispiacere.

 

 

 

Fonti:

1.    Mario Chinello – CIO’ CHE NON HO VOLUTO – Eos editrice, Romentino 2015

2.    Mario Chinello – ROSSO DI SERA – Pubblicato dall’autore, 2021

3.    https://www.noipartigiani.it/silva-vinicio/

Aldo Vecchi - INTERVISTE SUL  MOVIMENTO OPERAIO (IN AREA INSUBRICA) - Quaderno n° 30 di Utopia21, settembre 2021


[1] “La nonna [Pasqua] e la nuora Maria si misero alla testa di un nutrito numero di donne; salirono su un carro di quelli piatti, trainato da due buoi, fissarono quattro bandiere rosse del PCI agli angoli … e cantando a squarciagola “Bandiera Rossa” e “L’Inno dei Lavoratori” si avviarono verso il seggio… Già che c’erano, senza alcuna autorizzazione e al di fuori di ogni regola sui comizi…, percorsero avanti e indietro tutta la via principale, sotto lo sguardo attonito dei democristiani e dei destrorsi, con il gaudio di tutta la sinistra e di noi ragazzini, che cantavamo insieme a loro. Arrivate al seggio, scesero dal carro con le bandiere svolazzanti in mano e, senza trovare alcuna resistenza, entrarono per votare. Si fecero consegnare la scheda e, a turno, ognuna votò di fronte a tutti. Dopo averla fatta svolazzare sotto gli occhi dei presenti, la piegarono diligentemente e la infilarono nell’urna”

“Nelle stesse ore in cui nonna Pasqua faceva la rivoluzionaria ai seggi elettorali, la nonna Pina era invece chiusa in camera con la porta serrata a chiave e le finestre con i “belconi” inchiodati dall’esterno. Il nonno l’aveva chiusa … e ci rimase fino alla fine delle votazioni! …[invocando invano il marito] … “Carlo àsseme andare a votar, che votarò par ti” e lui di rimando “Tàsi che te sì imbriaga de incenso e te voti per chei sachi de carbon”, … per lui i sacchi di carbone erano i preti sempre rigorosamente vestiti con gli abiti talare lungo e nero”.

 

[2] Un compagno della Facoltà di Architettura di Milano, originario del basso Piave e poco più giovane di Mario Chinello ci raccontava la sua infanzia e adolescenza in un ambiente simile alla “cucina del castello di Fratta” (vedi Ippolito Nievo): e che la modernità iniziava solo dal Cavalcavia di Mestre

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