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domenica 10 luglio 2022

UTOPIA21 - LUGLIO 2022: MANZINI: PROSSIMITA’ E CURA PER LA CITTA’ DELLE DISTANZE

 

MANZINI: PROSSIMITA’ E CURA

PER LA CITTA’ DELLE DISTANZE

di Aldo Vecchi

 

Il testo di Ezio Manzini “Abitare la prossimità – idee per la città dei 15 minuti” unisce il rigore teorico con la esemplificazione pratica della “innovazione sociale”: ma solleva grandi interrogativi (non solo miei)

 

Sommario:

-       i contenuti del libro

-       il dibattito alla “Casa della Cultura” di Milano

-       alcune mie ulteriori annotazioni

 

 

I CONTENUTI DEL LIBRO

 

Il testo di Ezio Manzini 1, semplice ma profondo, si incontra con il dibattito in corso sulla “città dei 15 minuti”, ma ‘venendo da lontano e guardando lontano’.

Il peculiare percorso dell’Autore, ingegnere e architetto, docente (emerito) al Politecnico di Milano ed altrove, che – partendo dalla tecnologia dei materiali – ha attraversato il disegno industriale, indagandone la sostenibilità ambientale ed approdando al “design dei servizi” ed al dialogo con le comunità innovative, può aiutare a spiegare il punto di vista ‘rifondativo’ con cui affronta i temi della città contemporanea, pur nutrendosi debitamente della bibliografia disciplinare di sociologi ed urbanisti.

Il testo procede in parallelo su due binari:

-       da un lato una analisi - di rigore ‘cartesiano’ - sui concetti generali di “prossimità”, “funzionale” e “relazionale” (geografica, sociale, cognitiva, organizzativa, istituzionale), e di “cura”, sanitaria e sociale, sullo sfondo degli spazi urbani contemporanei ed anche delle comunicazioni virtuali (queste poi approfondite in un “box” ed in un capitolo autonomo di Ivana Pais, che mette in luce le ambiguità relative alle ‘piattaforme’ telematiche);

-       d’altro lato la concretezza di esempi specifici di riqualificazione dei servizi e delle relazioni umane a scala locale, tra Barcellona e Milano, tra Parigi e l’Inghilterra (Southwark), formalizzate come “schede” (di cui due firmate da altri autori): esempi che sorreggono, sottraendola all’utopia, una proposta finale di metodo, “progettare in prossimità e per la prossimità”, da applicare sia agli spazi fisici – a partire dagli spazi collettivi – sia alle relazioni interpersonali e sociali.

 

Riassumo brevemente alcuni caratteri di tali esperienze di “innovazione sociale” assunte da Manzini come emblematiche:

-       le “Superilles” di Barcellona consistono innanzitutto in una riorganizzazione del traffico veicolare, aggregando a 9 a 9 gli isolati del ‘Plan Cerda’ e facendo scorrere solo all’esterno i percorsi a lunga distanza; con partecipazione popolare sul riuso degli spazi stradali ‘liberati’ dalle auto; e come base fisica per un decentramento sistematico dei servizi urbani e sociali (affiancati anche dai “Radars”, volontari di riferimento assistenziale);

-       Parigi tenta, in una situazione assai più complessa, di radicare lo slogan dei “15 minuti” in nuove istituzioni locali, tra cui le ‘portinerie di vicinato’ e i cortili delle scuole aperte al quartiere;

-       “Circle” di Southwark è una rete di assistenza per anziani e persone sole fondata sulla cooperazione, fallita e poi rifondata con un maggior sostegno pubblico; abbastanza simile è l’esperienza milanese di WeMi, che – con il sostegno di una fondazione bancaria - tende a intrecciare i servizi telematici civici con una rete di presidi decentrati (esercizi commerciali e/o sedi di associazioni)

-       “NoLo”, ovvero Nord Loreto, è un insieme di iniziative locali, stratificate a partire da una banale “pagina di Facebook”, per cercare una nuova identità solidale in un quartiere milanese come via Padova e dintorni, prossimo alle aree centrali, ma stigmatizzato come difficile per la sua eterogeneità multi-etnica;

-       Fondazione Housing Sociale, sempre a Milano, e sempre con sostengo da fondazioni bancarie, precostituisce in modalità virtuale legami orizzontali tra inquilini ed assegnatari di un intervento di edilizia residenziale fin da prima della fase di cantiere (imitata in questo anche da una società immobiliare privata: con successo anche nella crescita dei prezzi…).

 

L’assunto di fondo di Manzini è che:

-       la razionalità economicista della modernità, puntando su economie di scala e grandi strutture monofunzionali, ha prodotto la “città delle distanze”, che l’utente deve continuamente e nevroticamente percorrere per ricucire i separati brandelli della propria vita (lavoro, istruzione, riposo, cura, svago); processo che nel contempo ha inevitabilmente sventrato i vecchi equilibri delle prossimità locali (borghi, quartieri);

-       l’innovazione telematica (spinta dalla recente esperienza pandemica) tende a superare in parte tali separazioni, proponendo uno schema “tutto a casa e da casa”,

una “non-città” in cui il singolo individuo nella sua singola cella abitativa fornisce lavoro e acquista merci e servizi (facendo correre i dati sulle reti ed i corrieri ed i rider sulle strade); assimilando a questo schema anche i servizi pubblici, impersonali e lontani; il tutto accelerato nell’esperienza pandemica;

-       l’alternativa possibile è una nuova “città delle prossimità”, dove si ricostruiscano a scala locale le relazioni necessarie a soddisfare i bisogni di cura ed utili per migliorare la qualità della vita, utilizzando a tal fine anche gli strumenti informatici e le ‘piattaforme’; mentre “non si può tornare indietro” alla vecchia prossimità.

 

Il terreno di scontro tra tali scenari divergenti è attraversato da altre polarità concettuali, non solo di tipo ‘spaziale’, tra locale e globale, tra reti brevi e reti lunghe, tra decentramento e concentrazione, ma anche relative ai soggetti sociali e alle loro organizzazioni, tra ‘comunità’ e ‘società’, tra ‘beni comuni’ e ‘beni pubblici’, tra iniziative ‘dal basso’ e programmazione ‘dall’alto’.

In particolare l’Autore è interessato al difficile passaggio tra la fase nascente delle nuove forme di iniziativa sociale, fondata sulla generosità dei volontari, e la loro possibile ‘istituzionalizzazione’, necessaria per la sopravvivenza organizzativa, a fronte del variabile ricambio delle persone disponibili.

 

 

IL DIBATTITO ALLA “CASA DELLA CULTURA” DI MILANO

 

Il testo di Manzini è stato scelto dal professor Riboldazzi per il primo dibattito della stagione 2022 di “Città Bene Comune”, alla Casa della Cultura di Milano, ed è stato sottoposto ad un attento esame, già nella presentazione scritta del suddetto Curatore, sia dai tre “discussant” invitati, gli urbanisti Alessandro Balducci e Maurizio Tira, e la sociologa Sonia Stefanizzi.2,3

Trascurando qui gli elogi (che poco aggiungono a quanto da me già esposto) riepilogherei come segue, nell’insieme, le principali critiche emerse (senza scendere nei dettagli, perché il testo introduttivo di Riboldazzi e l’intera video-registrazione del dibattito sono disponibili on-line):

-       sopravvalutazione delle ‘situazioni di nicchia’ positive in un contesto strutturalmente tendente all’atomizzazione sociale e alla formazione sì di nuove comunità, ma chiuse ed identitarie, e spesso conflittuali,

-       rischio di coprire con la cooperazione volontaria, ma non per tutti, i vuoti del welfare pubblico, che invece devono comunque garantire universalmente i diritti ai vari servizi; e nel contempo sottovalutazione di quanto di buono possono fare i pubblici poteri;

-       rischio di favorire, in caso di successo delle comunità solidali, effetti indesiderati sia di esclusione sociale sia di “gentrification”, con aumento dei valori immobiliari ed espulsione dei soggetti meno abbienti,

-       più in generale la schematicità delle ipotesi di nuove prossimità locali (’15 minuti’) nella complessità dei territori metropolitani (a partire dalle reti della mobilità).

Il dibattito del 3 maggio – con il ritorno dei relatori e del pubblico ‘in presenza’ – ha registrato anche alcuni interventi degli astanti, tra cui mi è sembrato acuto quello di Arturo Lanzani, che ha rilevato come alla retorica dei ’15 minuti’ corrisponda una reale priorità degli investimenti per la mobilità collettiva che privilegia invece i collegamenti veloci tra le diverse aree metropolitane, configurando un ben diverso assetto delle relazioni ‘urbane’.

 

Il professor Manzini ha validamente replicato, assumendo come valide tutte le critiche, ma rivendicando la positività della ricerca dei nuclei di socialità alternativa, come fondamentale possibile base per modificare le tendenze maggioritarie in atto, facendosi carico di tutti i rischi segnalati; e soprattutto rifiutando qualunque logica “peggiorista”, quando risulti possibile conseguire miglioramenti anche solo parziali e locali.

 

 

ALCUNE MIE ULTERIORI ANNOTAZIONI

 

Condividendo (con lo stesso Manzini, d’altronde, a quanto risulta dal dibattito) gran parte delle critiche sopra riassunte, mi permetto di specificare alcuni ulteriori rilievi:

-       nella trattazione a tutto tondo della “prossimità” non figura alcun cenno al concetto cristiano di “prossimo”, recentemente rinverdito con efficacia da Papa Francesco, che ha posto la parabola del Buon Samaritano a fondamento della sua enciclica “Fratelli tutti”: pur constatando la prevalente secolarizzazione della società italiana, soprattutto nelle grandi città, mi sembra però che il retaggio antropologico della cultura cristiana sia un fenomeno non trascurabile, anche da un’angolatura laica e che nei quartieri (ed a maggior ragione nei centri minori delle provincie) meriti di essere indagato quanto la dimensione religiosa (e concretamente  gli oratori, l’associazionismo, le attività caritative) costituisca tuttora elemento di socializzazione, ed in particolare come e quanto – in relazione ai messaggi di ritorno al vangelo da parte di Papa Bergoglio – tali esperienze si connotino come inclusive di quei “prossimi” un po’ remoti (come il Samaritano), perché separati dagli steccati confessionali (islamici in primis) e/o dagli stigmi sociali (gli “ultimi” di vario tipo); studiando nel contempo il comportamento (identitario od inclusivo) delle comunità religiose ed etniche estranee al tradizionale tessuto sociale ‘italico-post-cristiano’;

-       nel testo si afferma più volte che “non si può tornare indietro” rispetto agli antichi assetti della prossimità di vicinato, ma non viene mai approfondito il ‘perché’, cui accennano invece gli altri partecipanti al dibattito, con Riboldazzi che sostiene (riferendosi anche alle nuove comunità): “Le comunità circoscritte, quelle dove tutti si conoscono, dove c’è chi si accorge di te, dei tuoi bisogni, o quelle dove, --- sono anche quelle dove il controllo sociale è più facile. Dove l’autodeterminazione e le libertà individuali sono maggiormente condizionabili, comprimibili.” A mio avviso questa riflessione è importante, perché a sconvolgere il vecchio modo di vivere (dove pure le condizioni di lavoro imponevano pesanti movimenti di pendolarità o di ‘transumanza’) non è stata solo la meccanizzazione dei trasporti ed in particolare la motorizzazione privata, ma anche fenomeni, molecolari e nel contempo di massa, sia di ricerca di nuove forme di benessere, sia di rifiuto degli angusti confini del ‘controllo sociale’, tipici dei paesi, ma anche dei quartieri periferici più coesi; il che costituisce una base materiale del liberismo, ma non esclude la ricerca di nuove socialità: ben conoscendo però le pulsioni soggettive che sono in gioco;

-       un’altra affermazione indimostrata, a fianco del condivisibile giudizio che le forme di assistenza umanizzate e personalizzate (meglio ancora se responsabilizzanti in ambiti di cooperazione)  sono nettamente migliori di quelle burocratiche e impersonali, è che le tendenze demografiche e socio-economiche rendano comunque impossibile un welfare capillare ed universale a carico della spesa pubblica (come invece rivendicato da Riboldazzi): a fronte di oggettive e crescenti difficoltà, a mio avviso invece occorre considerare, con le reciproche interferenze:

o   la possibile inversione di tendenza sulla natalità, già sperimentata da altre nazioni europee, da combinare con una più saggia gestione delle immigrazioni,

o   il possibile capovolgimento delle politiche fiscali (vedi le proposte di Atkinson, Piketty, Oxfam e Forum Disuguaglianze 4), purtroppo non ancora ri-sperimentate dopo il ‘trentennio glorioso’ 1945-1975,

o   la necessaria e possibile flessibilità delle età lavorative (congedi genitoriali, educazione permanente, vecchiaia più attiva) connessa allo spostamento progressivo del lavoro dalle attività di produzione di  merci e servizi commerciali (ove subentra pesantemente l’automazione) alle attività di servizio alle persone (dove l’automazione è più difficile e meno gradita dagli utenti); il che può incontrarsi con lo sviluppo del ‘terzo settore’ (perché mi sembra meglio retribuire volontari motivati, magari già ‘ritirati dal lavoro’, che non assistere con sussidi disoccupati  e pensionati inattivi).

 

aldovecchi@hotmail.it

Fonti:

1.    Ezio Manzini – ABITARE LA PROSSIMITÀ. IDEE PER LA CITTÀ DEI 15 MINUTI – EGEA, Milano 2021

2.    Renzo Riboldazzi - ABITARE LA PROSSIMITÀ (MA NON TROPPO) - Introduzione all'incontro e commento al libro di Ezio Manzini https://www.casadellacultura.it/1327/abitare-la-prossimit-agrave-ma-non-troppo-

3.    INCONTRO ALLA CASA DELLA CULTURA DI MILANO PER “CITTA’ BENE COMUNE” – 3 maggio 2022 https://www.youtube.com/watch?v=yW3JKYdIWEA

4.    Aldo Vecchi – DISUGUAGLIANZE – Quaderno n° 16 di Utopia 21, novembre 2020

https://drive.google.com/file/d/1cID_Kyxo-J-CxwdIcNiaJr_vXmEXuEWk/view?usp=sharing

 

UTOPIA21 - LUGLIO 2022: LA CITTA' DEI 15 MINUTI

 LA CITTA’ DEI 15 MINUTI

di Aldo Vecchi

 

 

Un tentativo di sintetizzare il dibattito in corso, post-pandemia, sulla riorganizzazione della città in unità locali di prossimità; con un occhio anche agli altri elementi del confronto in atto tra urbanisti e dintorni

 PER LE FIGURE VEDI www.universauser.it/utopia21.html

 

Sommario:

-       premessa

-       “Urbanistica Informazioni” n° 300:

o   A – l’impostazione storica e problematica

o   B – due interventi divergenti, Pietro Garau e Maurizio Carta

o   C – racconti relativi a città italiane

-       i quartieri ‘autosufficienti’ censiti da “UCTAT”

-       alcune ulteriori considerazioni

appendice: dove va il dibattito tra gli urbanisti, aggiornamento

 

PREMESSA

 

Nel multiforme dibattito urbanistico post-Pandemia, di cui riferisco qualche scampolo in APPENDICE, la discussione sulla “città a 15 minuti” ha in qualche misura polarizzato l’attenzione (abbandonando l’attrazione per il ‘ritorno ai borghi’ [1]), anche perché attraversa altri singoli temi di evidente attualità: trasporti pubblici e mobilità privata – accessibilità e vivibilità – digitalizzazione, ‘smart working’ e ‘coworking’ – salute e servizi – abitazioni e tempi di vita…

Mentre ho scelto di enucleare in un separato articolo (sempre su questo numero di Utopia21) la mia recensione del libro di Ezio Manzini “Abitare la prossimità – idee per la città

dei 15 minuti” 1, in questo testo mi appoggio principalmente alla lettura del n° 300 di Urbanistica Informazioni (novembre-dicembre 2021)2, che ha dedicato un apposito “Focus” a “IL PROGETTO DELLA CITTA’ DEI 15 MINUTI”, a cura di Elena Marchigiani: un “Focus” che si presenta complesso e non-lineare, così come gli argomenti che affronta. [2]

 

“URBANISTICA INFORMAZIONI” N° 300:

A)   L’IMPOSTAZIONE STORICA E PROBLEMATICA

 

Nell’articolo introduttivo, Elena Marchigiani “propone una presa di distanza dalle interpretazioni della città dei 15 minuti come un modello automaticamente in grado di migliorare le prestazioni urbane” e inserisce la proposta di Carlos Moreno (2016), poi rilanciata e popolarizzata dalla Sindaca di Parigi Hidalgo nel suo programma di secondo mandato “Paris in commun” (e fatta propria da “C40” - rete mondiale di metropoli tra cui Milano - e raccomandata dalla stessa organizzazione UN-Habitat dell’O.N.U.) in una prospettiva storica, da Cerdà nella Spagna di metà ottocento a Howard (Inghilterra, 1902), da Perry (1920) alle New-Towns inglesi (prima e dopo la seconda guerra mondiale), dal New Urbanism (USA, dal 1980) a Rogers (proposte per il governo inglese di Blair - 1999), passando anche per i quartieri INA-Casa del secondo dopoguerra italiano e per gli “standard” della legge Ponte (1967-68): tali radici storiche (Italia esclusa) sono più ampliamente e criticamente indagate nell’articolo di Giorgio Piccinato, di cui riferisco più avanti.

La formulazione di Moreno, come riassunta da Marchigiani, contempla un “nuovo crono-urbanismo”, con la riorganizzazione di una città policentrica fondata sui principi di Proximité, Mixité, Densité e Ubiquité e sulla combinazione tra mobilità privata ciclo-pedonale e trasporto pubblico, per offrire universalmente – entro i termini temporali di un quarto d’ora - l’accesso alle dotazioni necessarie al vivere civile: schema che ha trovato un crescente successo a fronte delle dure esperienze della Pandemia Covid-19 nelle modalità dell’abitare, del lavorare, del curarsi e del distribuire cibo e altre merci.

Marchigiani da un lato mette in evidenza come la proposta non si limiti alla mera riproposizione di vecchie ricette sui quartieri autosufficienti, in un contesto profondamente cambiato, e d’altro lato enuncia i rischi di una mitigazione superficiale delle criticità urbane, ove non si proceda ad un piano complessivo per l’intera città, che affronti questioni strutturali quali le nuove forme del lavoro, la politica della casa e la ri-progettazione dei servizi e degli spazi collettivi.

 

Il contributo di Silvia Rossetti, Michela Tiboni e Michele Zazzi riprende il recupero della tradizione storica in materia di decentramento in relazione con densità/”mixité”/ciclo-pedonalità, rammentando tra l’altro che una impostazione simile stava già nella manualistica di Vincenzo Columbo (1966) e segnalando gli sviluppi da parte del CeSCAM dell’Università di Brescia, e allarga il ventaglio dei casi virtuosi (tra cui Parigi e Milano) alla metropoli di Melbourne ed al suo piano 2017-2050: affermando che i saperi tecnici necessari sono già disponibili, evidenzia le carenze nella “pratica urbanistica” e nella difficoltà di rilevare i movimenti effettivi e le oscillazioni nelle tendenze degli utenti, fattori che influiscono sul successo o insuccesso delle politiche di decentramento nella offerta dei servizi, che non può mai essere operazione meccanica, a fronte della complessa articolazione delle realtà urbane.

 

L’approfondimento storico di Giorgio Piccinato connette la ricerca di “quartieri armoniosi” alle critiche alla realtà urbana, già presenti nel mondo antico e acutizzate a fronte degli sviluppi delle “città moderne”; critiche che sconfinarono spesso nelle utopie, fino all’anarchismo.

In particolare tra i teorici “anti-urbani” agli albori della modernità, Piccinato richiama i fisiocratici – che a metà Settecento esaltavano i valori reali dell’agricoltura contro al concentrazione del “lusso” nelle città -  e Jefferson, in quanto pensatore e legislatore nei nascenti Stati Uniti d’America, sostenitore dell’individualismo rurale (come base di una democrazia agraria) in contrapposizione alla “massa urbana”, che cercò di arginare con le sue griglie ortogonali per strade e territori.

Più noti, ma – secondo Piccinato – sopravvalutati rispetto all’effettivo peso storico, alcuni tra i successivi teorizzatori e sperimentatori di utopie sociali applicate al territorio, da Fourier, che ancorava il progetto dei falansteri alla ricerca scientifica dell’epoca, a Owen, pacifista e libertario, fondatore in Scozia di New Lanark, cui Piccinato affianca altri promotori ottocenteschi di comunità autosufficienti, per lo più semi-rurali, tra Francia, Inghilterra e Stati Uniti (Godin, Buckingam, Richardson, Bellamy, Morgan, Ripley); ai quali Marx ed Engels contestano la incomprensione del conflitto di classe.

La consapevolezza del conflitto sociale e l’accettazione della produzione industriale accomuna invece, all’inizio del Novecento, da un lato l’elaborazione teorica dell’anarchico russo Kropotkin, che propone comunità locali auto-produttive agro-industriali, negando però la divisione capitalistica del lavoro, e d’altro lato l’esperimento di successo del riformista inglese Howard con l’esperimento della Città-Giardino, che integra l’auto-produzione con la proprietà privata condivisa e inserisce comunità di 2.000 abitanti in “città” di 30.000, prevedendo reti di trasporto collettivo rapido per i collegamenti attraverso le ‘cinture verdi’.

Modello che sarà ripreso e sviluppato negli anni ’20 del Novecento con due insediamenti, Columbia e Radburn (nel Maryland e ne New Jersey) dallo stesso Howard e da Clarence Perry, che meglio delineò il concetto di “unità di vicinato”, residenze entro un raggio di 400 metri dalle scuole primarie.

Da questi esempi, racconta Piccinato, seguiranno, soprattutto dagli anni ’50, sia gli interventi a guida pubblica delle New Towns inglesi (ed europee), sia processi imitativi a guida privata, soprattutto negli U.S.A., con un decentramento sub-urbano fondato sulla motorizzazione privata, determinando effetti non solo positivi, ma anche ampiamente negativi, sia riguardo all’impatto ambientale delle basse densità abitative, sia riguardo alle crescenti tendenze alla separazione sociale e talora anche etnica degli insediamenti: “una struttura insediativa che della grande città enfatizza i disagi e rafforza le differenze”. 

Sintetizzando con parole mie il contributo di Giorgio Piccinato, l’idea di ‘vicinato progettuale’ nasce anti-urbana e muore sub-urbana, in un quadro di bassa densità edilizia e di scarsa ‘mixitè funzionale’; e volerla applicare alla città esistente e (più o meno) compatta e mista è tutta un’altra storia.

 

 

“URBANISTICA INFORMAZIONI” N° 300:

B)   DUE INTERVENTI DIVERGENTI, PIETRO GARAU E MAURIZIO CARTA

 

Il testo di Pietro Garau legge le proposte di Moreno (ed i revival delle esperienze di Perry) rilanciate con successo mediatico da Parigi, Barcellona e dalle città C40 come un messaggio rassicurante che copre una realtà contradditoria, dove permangono e si aggravano le disuguaglianze tipiche della città neoliberista riguardo al lavoro, alla casa e all’effettivo accesso ai servizi.

Andando a monte, per Garau anche le campagne di Jane Jacobs contro la pianificazione tecnocratica erano di fatto subalterne a fenomeni di “gentrification” in favore di ceti più abbienti, e comunque risultavano valide in condizioni socio-economiche che ormai si sono dissolte, dalla scarsità di autoveicoli all’abbondanza di bambini; condizioni oggettive che potevano produrre una sorta di “sostenibilità involontaria” anche per i migliori quartieri delle periferie novecentesche, oggi irripetibile (salvo forse per zone di espansione in altri continenti).

Secondo Garau, nell’attuale contesto di “urbanizzazione matura” delle nostre città, ed in assenza di una svolta politica e socioeconomica di tipo strutturale, rimangono insuperabili le difficoltà per attuare veramente i principi della città dei 15 minuti: come incrementare le aree verdi senza una politica di espropri? Come sorreggere i negozi che chiudono, schiacciati da centri commerciali e vendite on-line? Come ricucire le periferie materialmente frammentate dalla rigidità delle antiche destinazioni d’uso (cioè in presenza di grandi contenitori monofunzionali non scorporabili)?

 

Di tutt’altro tenore l’intervento appassionato di Maurizio Carta, che sovrappone alla sollecitazione sui “15 minuti” una sua visione di “città aumentata” come risposta (alternativa ad una nuova dispersione insediativa) rispetto all’esperienza del Covid 19, recepita come “sindemia urbana”: Addensare, Redistribuire, Ibridare, Adattare.

Carta immagina una trasformazione verso una città “dalla prossimità aumentata”, più senziente, più creativa, più intelligente, più resiliente, più collaborativa, più circolare: una serie di “più” che si concretizzino in un maggior metabolismo circolare delle funzioni, in una maggior vicinanza casa/lavoro/servizi, in una maggiore domesticità ed urbanità degli spazi pubblici.

Carta auspica una creatività del progetto urbano, che impari dalla natura un processo di innovazioni – metamorfosi – cooptazioni. E non ipotizza un mosaico di tasselli ‘dei 15 minuti’ (o peggio ‘enclave’ recintate), bensì un insieme policentrico ad intensità differenziata,  in cui i quartieri, con le  loro identità ed i loro servizi, siano nodi attrattivi di reti lunghe e corte[3], dove le percorrenze pedonali di 15’ (rammentando anche che la somma di 15’+15’ fa mezzora di movimento fisico al giorno, come consigliato per la salute umana) si intreccino con percorsi più lunghi con altri mezzi (due ruote private e trasporti pubblici), integrando i diritti anche delle popolazioni “nomadi”, come i pendolari e gli immigrati.

Gli ingredienti di questa “città arcipelago”, fluido insieme di eco-sistemi, innervata dalle “reti green&blu” saranno case più ampie e spazi per co-working, con fasce osmotiche rispetto alle “strade abitabili”, ricche di dehors e rinaturalizzate, con cine-tetro all’aperto e riuso dei contenitori dismessi per funzioni flessibili (dal co-working ai Covid-hotel…).

Una utopia, direi con parole mie, di “città porosa multispecie”, in cui in un crescendo poetico Carta prevede di “estendere funzioni”, “rimodellare forme”, “aggiornare norme”, promuovendo “ibridazione, flessibilità, contaminazione, apertura, connessione, pluralità”, che culminano nell’immagine qui riportata della “MANGROVIA”.

 

 

Figura 1 – schema concettuale della “città-mangrovia”, secondo Maurizio Carta

 

 

“URBANISTICA INFORMAZIONI” N° 300:

C – RACCONTI RELATIVI A CITTA’ ITALIANE

 

Pur includendo contributi di sicuro interesse specifico, mi sembra che la rassegna dei casi italiani non risponda pienamente alle esigenze di comprendere il passato e di interpretare le tendenze in atto.

 

Riguardano in prevalenza il passato i testi di Mariavaleria Mininni su Matera e di Paolo Galuzzi (che è anche il nuovo direttore di “Urbanistica”, dopo Federico Oliva) su Ivrea:

-       il primo tende a difendere i “lasciti del moderno” che offrirono residenze alternative agli abitanti dei “Sassi”, negli anni ’50-’60, ma ne mette in evidenza i pregi ‘per negativo’, rispetto alle saldature casuali tra tali episodi di edilizia pubblica (saldature che costituiscono una sorta di ‘non città’, frutto di un ‘non piano’), senza una valutazione oggettiva del successo o insuccesso di quei quartieri moderni allora ed oggi; ad esempio, personalmente ho compiuto nel lontano 1972 un sopralluogo alla Martella (insediamento che oggi so restaurato nell’ambito di “Matera capitale della cultura”), e mi sembrò in sostanziale abbandono, pur brillando in loco una lapide auto-celebrativa del regime democristiano; e sarei stato curioso di saperne di più

 

-       il secondo inizia con una lunga (e condivisibile) contestazione alla volubilità del dibattito urbanistico, che oggi corre dietro ai “15 minuti” come in passato ad altre meteore “senza generare un reale avanzamento concreto della ricerca disciplinare e e delle pratiche conseguenti”. Tuttavia Galuzzi conviene che la vicenda pandemica abbia rimesso in gioco valori quali la prossimità e la “comunità” e pertanto propone un approfondimento sui valori comunitari specifici dell’esperienza olivettiana, mettendone in evidenza, nel contesto storico degli anni ’50, le profonde connessioni con il territorio di Ivrea e Canavese, con la dimensione sociale di quella impresa industriale e con le modalità di partecipazione decentrata nei “72 centri comunitari” distribuiti nei 118 comuni del circondario: a questo proposito l’Autore esalta l’attenzione di Adriano Olivetti per i “corpi intermedi”  (a mio avviso trascurando gli aspetti consociativi del comunitarismo olivettiano, consoni alle ambiguità interclassiste del suo “Movimento” politico “Comunità”, come mi sono permesso di sottolineare in altra occasione 4).

Galuzzi illustra anche le intersezioni tra questa progettualità sociale/territoriale di Olivetti e gli interventi di architettura moderna promossi dall’azienda, sia nel “decumano” di via Jervis (fabbrica e uffici, servizi per i dipendenti, residenze) sia decentrati nei quartieri residenziali: manca anche qui, a mio avviso, una valutazione sulla efficacia qualitativa, nel tempo, di tali episodi (come visitatore sporadico del Canavese, francamente, non ho riscontrato nelle periferie e nei paesi una qualità urbana superiore a quella di altri contesti piemontesi confrontabili, mentre via Jervis mi sembra più un catalogo di architetture che non un significativo pezzo di città alternativa).

 

 

 

Figura 2: planimetria “turistica” dell’area di corso Jervis ad Ivrea

 

Gli ammaestramenti che Galuzzi ritiene di poter trarre da questa riflessione storica, pur nella piena consapevolezza della distanza drastica tra le situazioni sociali, sono presentate in (blanda) contrapposizione ai ragionamenti di Ezio Manzini – assunto come epigono ‘buono’ dei ’15 minuti – sulla prossimità e sulla promozione indiretta di nuove comunità, in prevalenza effimere ed ottative (vedi mia recensione su questo numero di Utopia21): Galuzzi, richiamando Aldo Bonomi, ritiene invece possibile “tessere reti  tra soggetti e territori … ridando senso e significato al luogo” ed al “capitale sociale …. bene relazionale riproducibile attraverso l’uso, laddove le capacità di evoluzione, resilienza e durata delle istanze di comunità sono consegnate in forma aperta e riflessiva a nuovi soggetti intermedi”.

Si confrontano invece con il presente (e con il futuro) gli articoli di Bertrando Bonfantini sul nuovo Piano di Governo del Territorio di Milano e di Chiara Manaresi sul nuovo Piano Urbanistico Generale di Bologna: articoli ambedue centrati sulle complesse costruzioni dei suddetti strumenti urbanistici (che meriterebbero altrettanti articoli di commento specifico) e solo tangenzialmente attinenti alle problematiche dei ’15 minuti’, che ovviamente intersecano l’intero scibile urbanistico, ed in particolare i progetti di rigenerazione urbana.

Comune alle due città è il bisogno, in questa fase storica, di “denominare” i luoghi:

-       Milano individua (descrittivamente, più che operativamente) ben 88 “Nuclei di Identità Locale” – già delineati nel Piano dei Servizi del 2012 – (ad esempio: Portello, Pagano, Sarpi), a fronte di solo 9 “municipi” (ed in precedenza di 20 “zone”);

-       Bologna riconosce, anche progettualmente (per le azioni di “ricucitura”), 24 “Areali” (ad esempio Malpighi, Galvani, Murri), numero non dissimile da quello originario dei “quartieri” del precoce decentramento amministrativo (15 nel 1960 e 18 nel ’66: ora accorpati in 6 municipi).

Diverso è però l’approccio progettuale dei Piani: il PUG di Bologna risulta strettamente ancorato ai possibili miglioramenti locali di un tessuto urbano consolidato; miglioramenti sociali ed ambientali che possano essere concretamente conseguiti e valutati (e all’Autrice dell’articolo appaiono consoni agli obiettivi dei “15 minuti”); il PGT di Milano enuncia più genericamente (o propagandisticamente?) i nuovi principi della “prossimità” e della “sostenibilità” in un quadro normativo più complesso e più fluido, esposto agli effetti variabili delle grandi trasformazioni ancora possibili (a partire dagli scali ferroviari).

Mentre Bonfantini coglie l’occasione per una sostanziale presa di distanza dai miti della prossimità, anzi dalla “incontinente ascesa della prossimità”: rammenta quanto l’idea di quartiere “talvolta si sia rivelata una gabbia, un costrutto di segregazione anziché di integrazione”, fino ad “apparire sdrucciolevole in una fase storica … che ha ormai introiettato la ‘disgiunzione’ tra spazio e società …. nelle pratiche di vita dei soggetti rispetto alla varietà delle traiettorie ed eterogeneità dei luoghi in cui esse quotidianamente prendono corpo e forma nel campo urbano.” “… ambiguo e infido appare il concetto di identità…”

 

 

I QUARTERI ‘AUTOSUFFICIENTI’ CENSITI DA “UCTAT”

 

Il numero di marzo 2022 della news-letter UCTAT (Urban Curator TAT ovvero Territorio-Architettura-Tecnologia, diretta da Fabrizio Schiaffonati) propone una rassegna critica sullo stato attuale di degrado di alcuni tra i principali “quartieri autosufficienti” realizzati in Italia nel secondo Novecento, come elencati nel riquadro seguente:

 

             Le Vallette a Torino: isola di sperimentazione urbana o quartiere isolato? – Francesca Thiebat e Andrea Veglia

             Il Biscione, Le Lavatrici e La Diga: tre diversi destini – Andrea Giachetta

             Strategie di riqualificazione dell’edilizia residenziale pubblica in terraferma veneziana – Massimo Rossetti

             Quartieri in transizione. Esperienze nella città di Bologna e il quartiere Barca – Andrea Boeri

             L’edilizia residenziale pubblica in area fiorentina tra contesto nazionale e visione locale – Roberto Bologna e Andrea Sichi

             La rigenerazione dei quartieri ERP e cicli di vita del territorio peri-urbano di Napoli – Marina Rigillo e Anna Attademo

             Arghillà. Periferia. Reggio Calabria – Massimo Lauria e Marina Tornatora

             Il quartiere ZEN 2 a Palermo: un’attesa mai compiuta – Maria Luisa Germanà.

 

Il contributo che più mi interessa ai fini del dibattito sui “15 minuti” è il primo, sia perché le Vallette, a differenza di molti degli altri casi esaminati non è né una mega-struttura né un eco-mostro, bensì è costituita da edifici residenziali ‘garbati’, sia perché gli Autori si limitano alla descrizione e interpretazione del caso, senza sovrapporre ipotesi progettuali di riscatto (loro o altrui). Ne riproduco pertanto ampi stralci:

 

“Con i piani Ina Casa del dopoguerra, prima Falchera e poi Vallette, Torino sceglie di far fronte alla drammatica richiesta di abitazioni rinunciando a espandere in modo armonico il tessuto consolidato della città per tentare la via di realizzare ex-novo e in tempi rapidi quartieri indipendenti in posizione decentrata.

Il quartiere Vallette nato sotto la spinta della grande migrazione verso il nord Italia industrializzato, fu immaginato nel 1958 come zona autosufficiente della città di Torino in cui diversi comparti residenziali si integravano attraverso aree verdi, campi sportivi e strutture adibite a servizi quali: asilo nido, scuole materna, elementari e medie, chiesa, zona commerciale coperta, mercato e bar. …

Quest’isola slegata dalla città diventa occasione di cooperazione -e teatro di scontro- tra le varie anime della cultura architettonica torinese dell’epoca. Tenuti insieme dall’unico collante tecnologico dell’uso del cemento armato e dei paramenti in mattoni faccia a vista, i gruppi di progettazione tentano, ognuno nel suo “comparto”, approcci diversi che fanno riferimento a modelli culturali disparati, dalla casa rurale piemontese a tipologie di stampo inglese e scandinavo. …

Gli uni ancora agganciati a istanze tipiche del movimento moderno, gli altri, disillusi, alla ricerca di un dialogo con la storia di un luogo che prende il suo nome da una cascina seicentesca ancora presente.

Attraversando le zone residenziali, gli edifici e gli spazi esterni privati rivelano un’attenzione particolare all’ordine, alla cura e alla manutenzione da parte degli abitanti-proprietari. Addentrandosi poi nel cuore del quartiere, in cui il piano prevedeva i servizi (alcuni dei quali mai realizzati), si è colpiti da un senso di abbandono e desolazione. Lo spazio pubblico fortemente degradato si contrappone alla cura di quello privato.

L’immagine delle case in mattoni, dei prati e degli alberi fioriti si trasforma in immagine monocromatica fatta di asfalto, terra e rifiuti. Forse nelle zone degradate possiamo ritrovare traccia di quell’idea di Bronx torinese che per decenni ha marchiato Le Vallette. Ciò che resta negli occhi di una visita alle Vallette oggi, sono però le facce degli anziani che guardano le strade dalle finestre delle casette a tre piani o che prendono il sole nei giardinetti di case a schiera di stampo nordico.

Proseguendo la passeggiata architettonica (il quartiere è meta anche della recente rassegna cittadina Open House Torino) alcune locandine affisse sui muri degradati della piazza centrale e appelli del comitato di quartiere mostrano quanto sia ancora viva l’anima culturale e sociale intrinseca al quartiere che già negli anni settanta divenne teatro di sperimentazioni di metodi pedagogici innovativi anche legati a modelli architettonici, come la scuola media progettata da Gabetti, Isola e Cavallari Murat, oggi in stato di completo abbandono. Negli edifici per servizi che affacciano su piazza Montale si sono innestate nel tempo alcune realtà associative, come una Casa di Quartiere, un teatro e un oratorio.

Le Vallette, come tante periferie, sono state trascurate da quella fase di trasformazione della città che ha avuto il suo apogeo con le Olimpiadi Invernali del 2006. In una fase in cui le energie si concentravano sul centro storico, su grandi infrastrutture come l’interramento del passante ferroviario e sul ripensamento di aree ex industriali, le Vallette salgono agli onori delle cronache solo per la riqualificazione di Piazza Montale. L’intervento, inserito nel Programma triennale delle Opere pubbliche (2000-2002), prevedeva la realizzazione di un’isola pedonale destinata all’aggregazione sociale, l’inserimento di due fontane e il rifacimento dell’impianto di illuminazione. Un intervento che dopo pochi anni era già caduto in stato di degrado.

Nel 2016 si insedia la giunta Appendino, dopo una campagna elettorale imperniata sul rilancio delle periferie. Nel 2017 fa notizia la distruzione da parte di vandali, proprio in piazza Montale, delle luci d’artista installate per la prima volta lontane del centro. I due episodi dimostrano come iniziative solo “cosmetiche” siano tentativi velleitari, incapaci di affrontare la sostanza dei problemi. 

In particolar modo, il quartiere ha sofferto il mancato soddisfacimento di quel principio di autosufficienza posto alla base della sua ideazione. La grande struttura di servizi inizialmente pianificata al centro come motore sociale dell’insediamento è stata sostituita dall’edificazione di singoli edifici, assimilabili a “pezzi” che, affiancati gli uni agli altri in modo quasi casuale, ospitano funzioni pubbliche primarie restando tuttavia svuotati di senso e rappresentatività.”

 

Mi pare che questo esempio dimostri non solo le carenze della progettazione (sia fisica che ‘sociale?) e della manutenzione degli spazi pubblici, ma soprattutto la difficoltà di produrre prossimità, pur in presenza di una discreta densità, quando manca strutturalmente la “mixitè”, sia di ceti sociali (da sempre, ed oggi di fasce di età; mentre talora difficile risulta la frammistione etnica), sia soprattutto di funzioni, ed in particolare di funzioni attrattive (vedi sopra Carta)

Penso che quand’anche un territorio edificato si presenti come ‘isotropo’, cioè teoricamente percorribile a parità di tempo in qualunque direzione (è questa la “ubiquité ”di Moreno?), il quartiere ‘semi-centrale’ “A” sarà socialmente più ‘periferico’ di un altro più fisicamente remoto (“B”, dove magari si localizza un corso universitario), se non c’è un buon motivo perché gli abitanti di altri quartieri desiderino di frequentarlo (mentre è probabile che gli abitanti di “A”, soprattutto se giovani e forse anche se immigrati, abbiano cento motivi per muoversi verso altri quartieri). [4]

 

 

 

 

ALCUNE ULTERIORI CONSIDERAZIONI

 

Come accenno anche nella recensione su Manzini, affiancherei pertanto il concetto di “attrattività” alla triade “Proximité, Mixité, Densité”.

Dopo di che mi sembra difficile proporre delle conclusioni per un dibattito che mi pare ancora molto aperto e ricco di utili divagazioni nei campi attigui delle scienze umane e territoriali, di riflessioni storiche e di affinamenti metodologici.

Tra i quali mi sembra fondamentale la consapevolezza (mi pare già ben diffusa tra gli Autori citati)

-       che il ritorno ai (mitici) ‘quartieri autosufficienti’ non è né praticabile né auspicabile,

-       che la complessità dei fenomeni urbani rende difficile (e talora impossibile) individuare i ‘confini’ tra i singoli ‘quartieri’, per cui raramente si sa da dove computare le distanze, siano esse da 15 minuti oppure da un’ora[5].

 

Per altro ritengo che anche posizioni apparentemente contrapposte, come quelle tra Manzini e i suoi critici (vedi recensione) o quelle di Garau versus Carta, possano trovare una sintesi solo nella sperimentazione pratica.

Se i tentativi riformisti di migliorare la situazione con il decentramento dei servizi e l’umanizzazione della mobilità e dei relativi spazi possono risultare un palliativo in assenza di mutamenti strutturali (casa, lavoro, commercio), nulla vieta di intrecciarli con lotte e politiche adeguate a tali obiettivi (il problema è: quali lotte e quali politiche).

Parimenti una visione utopica verso una città-arcipelago, più o meno ‘anfibia’ (mangrovie), può essere un utile scenario, meglio se agganciato a qualche ipotesi concreta su come avvicinarsi a tale orizzonte, con quali forze, con quali proposte intermedie.  

 

 

APPENDICE: DOVE VA IL DIBATTITO TRA GLI URBANISTI, AGGIORNAMENTO

 

Con riferimento ai miei precedenti articoli, raccolti nel “Quaderno 22” di Utopia21 3, del novembre 2020, provo a riassumere brevemente gli altri sviluppi del dibattito urbanistico italiano (oltre a quanto polarizzato sul tema dei 15 minuti), come da me percepiti negli incontri video-registrati di UrbanPromo (autunno 2021)6 e di CittàBeneComune/Casa della Cultura di Milano (primavera 2022) 8; considero la mia brevità giustificata anche dalla facile accessibilità al materiale relativo a tutti 7 suddetti incontri su YouTube. (Scusa che tenterei di avanzare anche per non aver riferito su Utopia21 di UrbanPromo 2020 e di CittàBeneComune 2021…).

 

URBAN PROMO GREEN – VENEZIA, SETTEMBRE 2021

Riepilogherei come segue i temi affrontati nel convegno “UrbanPromoGreen” (convegno in parte articolato su filoni conseguenti a quelli degli anni precedenti, su cui già ho riferito nel suddetto “Quaderno 22”: dalla mobilità sostenibile alla eliminazione delle barriere architettoniche, dalle varie sfumature del “green” alle costruzioni in legno):

-       urbanistica e salute: oltre a ragionamenti generali e specifici sugli effetti della pandemia e sulle modalità per prevenire e contrastare analoghi fenomeni, la presentazione di alcune ricerche in campo medico-scientifico sulla correlazione tra forme urbane, stili di vita e alcune patologie: ricerche promettenti, ma al momento ancora alquanto immature rispetto al desiderio degli autori di proiettarle come indicazioni progettuali generalizzabili;

-       conflitto e integrazione tra i nuovi criteri analitici e progettuali di matrice variamente ambientale (ed in particolare quelli relativi alla mitigazione e all’adattamento climatico, alla gestione del verde e alla “nature based solutions”) e i tradizionali strumenti di lettura e gestione del territorio;

-       modalità di misurazione degli effetti delle diverse politiche urbane e territoriali, anche in funzione degli investimenti previsti dal PNRR, ed in relazione agli sviluppi della digitalizzazione.

 

URBAN PROMO HOUSING SOCIALE – MILANO, OTTOBRE 2022

L’orizzonte del PNRR ha mandato in fibrillazione il tradizionale assetto del consesso, esaltando il valore degli esperimenti di inclusione sociale e di progettazione partecipata avviati in piccole nicchie negli anni scorsi (sembrerebbero propriamente i modi dovuti per coniugare le diverse finalità del PNRR, e il PNRR stesso darebbe occasione per verificarli su più larga scala) e nel contempo il timore o addirittura la consapevolezza che i tempi ristretti ed i criteri burocratici connaturati al PNRR non daranno spazio per impostarne gli investimenti allargando le esperienze più virtuose dell’Housing Sociale (fondate finora sul paziente lavoro di organismi specializzati, per lo più finanziati da fondazioni bancarie).    

 

URBAN PROMO PROGETTI PER IL PAESE – MILANO, NOVEMBRE 2021

Non avendo ancora riascoltato il convegno, riporto i contenuti ufficiali del programma:

“Nella cornice della rigenerazione urbana e del partenariato pubblico privato, sono presentati progetti e iniziative che spiccano nel panorama nazionale per il forte carattere innovativo dei loro approcci e dei loro contenuti.

I Pinqua: i progetti del Programma nazionale per la qualità dell’abitare. Tra le proposte ammesse al finanziamento statale è presentata una selezione dei progetti più interessanti e convincenti nel perseguire la riqualificazione urbana, ridurre il disagio abitativo e favorire l’inclusione sociale.

Progetti per far rinascere parti di città grazie al partenariato pubblico privato. Da sempre al centro della ricerca multidisciplinare e multiattoriale di Urbanpromo, il partenariato pubblico privato si concretizza in nuove iniziative in cui la qualità del progetto interagisce con l’allestimento di complessi approvvigionamenti finanziari e sofisticate costruzioni giuridiche.”

 

CITTA’ BENE COMUNE (CASA DELLA CULTURA) – MILANO MAGGIO 2022

Volendo trovare un aspetto comune ai quattro testi ed autori scelti quest’anno dal professor Renzo Riboldazzi, mi sembra che sia quello della eccentricità, non nel senso banale di stranezza, ma del porsi in qualche modo al di fuori dei binari tradizionali delle discipline:

-       di Ezio Manzini “ABITARE LA PROSSIMITA’” riferisco nella specifica recensione (altro articolo di questo numero di Utopia21), segnalandone l’approccio “diagonale” alla questione urbana, attraverso il “design di servizi“ (sviluppo estremo del design di cose);

-       di Elena Granata “PLACEMAKER. GLI INVENTORI DEI LUOGHI CHE ABITEREMO” è l’Autrice stessa (di cui già ho recensito, con più di una riserva, il precedente “BIODIVERCITY“) ad affermare come valore primario l’estraneità dei protagonisti del suo libro (donne, preti, imprenditori, …), e protagonisti nel “CREARE LUOGHI”, dalle tristi costrizioni delle discipline progettuali;

-       di Stefano Boeri “URBANIA“ eccentrico mi pare l’atteggiamento dell’Autore che - nella particolare condizione del confinamento pandemico – concepisce un diario atipico come occasione per ripensare quasi “dall’esterno” le traiettorie e le proiezioni del suo mestiere di progettista a tutto campo;

-       di Giuseppe Dematteis “GEOGRAFIA COME IMMAGINAZIONE. TRA PIACERE DELLA SCOPERTA E RICERCA DI FUTURI POSSIBILI“ appare indubbiamente programmatica l’eccentricità di una geografia ottativa e immaginativa, rispetto alla tradizionale oggettività della geografia descrittiva.

 

 

 

 

 

aldovecchi@hotmail.it

Fonti:

1.    Ezio Manzini – ABITARE LA PROSSIMITÀ. IDEE PER LA CITTÀ DEI 15 MINUTI – EGEA, Milano 2021

2.    Autori vari, a cura di Elena Marchigiani – IL PROGETTO DELLA CITTA’ DEI 15 MINUTI su “URBANISTICA INFORMAZIONI N° 300”, NOVEMBRE-DICEMBRE 2021

3.    Aldo Vecchi - IL DIBATTITO SULL’URBANISTICA (PRIMA E DOPO LA PANDEMIA) – Quaderno n° 22 di   Utopia21, novembre 2020 - https://drive.google.com/file/d/1h6JNx1bSWyh69mTCshFCdCRSJtwVtPTs/view?usp=sharing

4.    Aldo Vecchi - LAVORO PER TUTTI? – su Utopia21, marzo 2018 - https://drive.google.com/file/d/1ELg_AIlUgM_ilyG0eT9XpGal3k4fI_M-/view?usp=sharing

5.    http://www.agenda21laghi.it/vivere_tra_laghi.asp

6.    https://urbanpromo.it/2021/urbanpromo-progetto-paese/temi-milano/

7.    https://www.casadellacultura.it/viaborgogna3riccat.php?cat=Citt%C3%A0%20Bene%20Comune

 



[1] Fuga che così sintetizzavo nel maggio 2020 3: “Intervistati su “La Repubblica”, le “archistar” Massimiliano Fuksas e Stefano Boeri, hanno espresso alcune idee sul futuro post-Pandemia, che contemplano anche una possibile fuga dalla città verso le attuali “seconde case” oppure verso i borghi semi-abbandonati delle “aree interne”, fuga sorretta dal “lavoro a distanza” (e in qualche modo annunciata, prima della Pandemia, dalla super-archi-star Rem Koolhass, con la mostra ed il manifesto “Countryside””

[2] Nel cronico ritardo delle riviste dell’INU, mentre la corazzata “Urbanistica”, in carta patinata, è rimasta incagliata al N° 163, denominato “gennaio/giugno 2019”, (uscito nel giugno 2021), il più agile (e solo virtuale) incrociatore “Urbanistica Informazioni”, sotto la nuova direzione di Carolina Giaimo (che ha sostituito Francesco Sbetti, già direttore per 17 anni), ha recuperato a tappe forzate, dal n° 293-294, nominalmente di settembre/dicembre 2020, uscito nell’ottobre del 2021, al n° 302, nominalmente e realmente dell’aprile 2022. Una inattesa pioggia di articoli, che non è facile metabolizzare per il normale lettore.

 

[3] l’Autore rammenta anche l’impostazione dei trasporti pubblici di Stoccolma, che mirano a garantire a distanza pedonale l’accesso ad una fermata del sistema di trasporto, ma anche a offrire poi con questo, nel giro di un’ora l’arrivo a tutti nodi fondamentali della metropoli

[4] Pur senza creare ghettizzazioni, mi sembra che un fenomeno simile si verifichi nel territorio in cui abito (vedi ricerca “tra-i-laghi”, condotta con Anna Maria Vailati 5), che non è pienamente metropolitano, però è policentrico, fatto di paesi e cittadine, alcune più attrattive di altre, e ricche di interscambi dovuti non solo ai movimenti pendolari per studio e lavoro, ma molto anche (finché la benzina rimane sotto i 2 €…) di spostamenti facoltativi per gli acquisti e per il tempo libero: privilegiando i centri dotati di lungo-lago, di isole pedonali, di passeggiate, spazi dove camminare, ad esempio, anche più di 15’+15’ (e pur avendo speso altrettanto tempo – per lo più in auto –  per raggiungere la meta).

Forse questa realtà territoriale policentrica determina qualche effetto di ’prossimità dilatata’, che meriterebbe di essere approfondito; mentre non è da escludere che l’ideale città policentrica con molto verde ecc. assomigli a questa nostra provincia che ha sì assediato ma non distrutto il verde agro-forestale: senza raggiungere però i pesi insediativi e le densità medie sufficienti a sorreggere un sistema di trasporto pubblico “urbano” né a giustificare la localizzazione di servizi di alto livello (l’università, ancora ad esempio, come paradigma).  

 

[5] Non è da trascurare a mio avviso anche una ri-considerazione dei tempi di viaggio veicolare, che sono spesso visti come negativi pensando a singoli automobilisti (che pure invece potrebbero apprezzare queste pause di solitudine per la riflessione personale) e similmente ai passeggeri di bus e metro, mentre può assumere spesso valenze positive e socializzanti per i percorsi collettivi in ‘car pooling’ e sui treni pendolari.