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mercoledì 25 giugno 2014

PAOLO LEON, IL CAPITALISMO E LO STATO

Paolo Leon in “Il capitalismo e lo stato” (Roma, 2014 – Castelvecchi editore, pagg. 285 € 27,00) propone una analisi dettagliata delle trasformazioni del capitalismo e del ruolo economico-finanziario dello stato dal dopoguerra ad oggi, con i necessari richiami alle vicende della prima metà del novecento, prima e dopo la precedente “grande crisi”, quella deflagrata nel 1929.

La visione storica, articolata nelle fasi (mia schematizzazione):
-          1945-1971 “postumi del compromesso roosveltiano”
-          1971-1987 “la grande inflazione”
-          1987-2007 “globalizzazione e finanziarizzazione”
-          dal 2007 crisi e permanenza del modello global-finanziario,
serve a Leon anche per contrapporsi a tutte le teorie economiche astratte, fondate su un “equilibrio” che in realtà non esiste, mentre occorre comprendere le specificità del funzionamento del sistema capitalistico nelle sue costanti trasformazioni, da uno stato di squilibrio ad un altro stato di squilibrio (trasformazioni incessanti anche a livello molecolare, così da rendere inservibili strumenti concettualmente semplici, come la matrice dell’interscambio tra i diversi settori, ideata da Leontieff, se la si volesse utilizzare come strumento previsionale e non come semplice consuntivo; a maggior ragione scendendo alla scala delle singole imprese).

Altro tema cardine per Leon è per l’appunto quello della “scala”, e cioè l’impossibilità di proiettare le teorie aziendalistiche e micro-economiche alla scala della macro-economia, perché l’assetto complessivo dell’economia non consiste nella sommatoria dei comportamenti “razionali” delle singole imprese+consumatori, bensì coinvolge variabili specifiche, che ruotano comunque attorno al ruolo dello stato, seppur tendenzialmente costretto dall’egemonia neo-liberista ad uno spazio minimo-residuale.
Inoltre Leon, riprendendo con diversi accenti Adam Smith e Carlo Marx, batte e ribatte sulla “cecità” del singolo capitalista, i cui interessi non coincidono mai con quelli generali dello stesso capitalismo (trascurando un poco a mio avviso, i comportamenti dei conglomerati oligopolistici ed il ruolo delle associazioni categoriali degli imprenditori, nonché dello stesso stato, quando guidato da forze filo-padronali, che forse non sono sempre e del tutto ciechi in materia di macroeconomia, almeno nell’interesse loro).

Il testo costituisce un amplio manuale (direi una summa del pensiero neo-Keynesiano), che non è quindi né possibile né utile riassumere con questa recensione in tutti i suoi aspetti, ed è invece utile comunque leggere per i profani, per capire il mondo in cui viviamo (anche nei passi più ostici, come ad esempio quando spiega che è l’entità degli impieghi bancari a determinare l’entità dei depositi, e non viceversa):
- le singole fasi storiche vengono sistematicamente esaminate dall’Autore riguardo a tutte le seguenti questioni: moneta – banca – finanza – forza lavoro – spesa pubblica – import export – stato – impresa;
- dentro l’impresa Leon illustra i diversi ruoli che assumono le varie direzioni aziendali: ricerca&sviluppo-acquisti-gestione-personale-finanza-marketing ecc.;
- inoltre nel capitolo IV  analizza con precisione i “fondamenti macro-economici della micro-economia”, dai vari “moltiplicatori” alla “moneta fiduciaria”, dalla legge di Engel sull’evoluzione dei consumi alla “regola aurea” che assegnerebbe ai salari gli incrementi di produttività e che – ovviamente – costituisce una condizione di equilibrio, impossibile nel contesto della globalizzazione, ed impossibile anche perché sgradita ai capitalisti stessi.

Mi limito quindi a segnalare, oltre alle premesse generali su equilibri/squilibri e su macro/micro-economia, i seguenti elementi peculiari:
-          la lettura della fase global-finanziaria come trasferimento della supremazia dal profitto alla valorizzazione patrimoniale, comunque conseguita, e quindi della competizione tra capitalisti come sfida (senza limiti) nella accumulazione della ricchezza (e del debito), strumento di potere in se, quasi a prescindere dal possesso dei mezzi di produzione (non capisco però, in questo quadro, la mancata citazione del concetto di “finanz-capitalismo” e dell’omonimo testo scritto da Luciano Gallino nel 2008, nonché ‘assenza di “7° - Non rubare” di Paolo Prodi nella bibliografia)

-          le poco rassicuranti ed aperte pagine di conclusioni, che da un lato non escludono un eventuale resipiscenza verso un approdo keynesiano (non mi sento di condividere, in tal senso, la certezza che un maggior deficit oggi rientrerebbe automaticamente come maggior gettito fiscale domani, in questo oggi ed in questo domani) ed in alternativa prospettano, oltre alla prospettiva di un disordinato disastro anarco-capitalista, possibili scenari di compromesso autoritario tra stato e mercato, di cui l’attuale Cina costituirebbe un laboratorio sperimentale. 

LA PROPOSTA DI REFERENDUM SUL PAREGGIO DI BILANCIO

Con scarsa notorietà finora sui mezzi di informazione, tranne l’Unità e pochi altri, un gruppo di intellettuali di impronta in prevalenza neo-keynesiana (tra cui Antonio Pedone, Riccardo Realfonzo, Massimo D’Antoni, Laura Pennacchi, Cesare Salvi ed anche Nicola Piepoli e Mario Baldassarri), hanno lanciato la raccolta di firme per un referendum abrogativo di gran parte della legge n° 243/2012 di attuazione dell’art. 81 della Costituzione (Pareggio del Bilancio), come modificato nel 2012, a grande maggioranza (governo Monti), in esito alle pressioni europee per l’applicazione del “Fiscal Compact” (che prevede un graduale ma serrato rientro dell’Italia dalle attuali proporzioni del debito pubblico (oltre il 130% del PIL) alla soglia del 60%, definita con gli accordi di Maastricht.

Non potendo proporre l’abrogazione dell’attuale versione dell’art. 81 Cost. (che non fu sottoposta a referendum confermativo perché approvata da più dei 2/3 del Parlamento), i professori richiamano l’attenzione dell’opinione pubblica sulla legge di attuazione, di cui sottolineano anche l’eccesso di zelo nella direzione della rigidità contabile, ritenendo che i tempi della cieca obbedienza ai canoni dell’austerity siano passati (insieme con la paura dello “spread” a 1000 e del conseguente “default” del bilancio statale) e che sia opportuno un profondo ripensamento nella politica economica europea, previo ampio dibattito democratico, che era mancato nella fase della suddetta modifica costituzionale.

Il tema della correzione degli eccessi di austerity è già ampliamente all’ordine del giorno, a cavallo delle elezioni europee ed in relazione al loro esito, sia al livello delle “cancellerie” che nell’opinione pubblica (benché fuorviata sotto elezioni dalla sfida tutta nazionale del mancato sorpasso di Grillo e conseguente mancata marcetta su Roma).

Le intenzioni dei promotori però vanno evidentemente ben oltre le moderate innovazioni proposte da Renzi&Padoan (ma anche da Draghi e dal Fondo Monetario internazionale) e le ancor più timide aperture del governo tedesco: sarà quindi interessante capire come si schiereranno e quanto riusciranno a pesare le disperse forze delle sinistre, interne ed esterne al PD, e se il tema verrà o meno cavalcato strumentalmente dagli altri soggetti variamente avversi all’Euro, dai 5Stelle alle opposizioni di centro-destra (Lega, Forza Italia e Fratelli d’Italia, in parte già impegnate sui pericolosi referendum populisti promossi dalla stessa Lega su immigrazione, prostituzione ed altro).

Nell’ambito della sinistra la campagna referendaria contro l’austerity potrebbe essere occasione utile per l’esercizio di una iniziativa politica “sociale” e non schiacciata sul “politicismo” elettorale delle primarie per il centro-sinistra (Vendola contro Bersani e Renzi&C. nel 2012) oppure delle elezioni in quanto tali (parlamentari del 2013 ed europee del 2014), e per rinverdire i fasti dei referendum sull’acqua e contro il nucleare di pochi anni addietro (2011, ma sembra ormai un’era remota).

Pur apprezzando tatticamente l’opportunità di una maggiore flessibilità nei bilanci dell’Europa e dei suoi Stati, mi sento però di ribadire  (come già sull’acqua, vedi NOTA) tutte le mie perplessità di fronte alla vulgata neo-keinesiana del “deficit spending”, in riferimento soprattutto alla situazione italiana ed al suo enorme debito pregresso (ma analogo ragionamento vale per i debiti di USA, Giappone, ecc.):
-          da un lato, come spesso rammenta Silvano Andriani, questi debiti (ed anche quelli del sistema finanziario privato) ad un certo punto qualcuno sarà chiamato a pagarli (es. inflazione) oppure a subirli come perdita (fallimenti e ristrutturazioni);
-          d’altro lato rilanciare lo sviluppo, senza ragionare a fondo su tutte le motivazioni della crisi, rischia di far perdere una buona occasione per rivedere le modalità della “crescita”, a fronte della scarsità relativa delle risorse naturali.

A mio avviso, nel dibattito che potrebbe  aprirsi attorno a questa campagna referendaria, dovrà trovare spazio qualche considerazione e qualche proposta nel segno di una “austerità di sinistra” (qualcosa tra Berlinguer e la “decrescita felice”), che – a partire dalla tutela e dalla redistribuzione del lavoro, a scala internazionale – riveda le motivazioni di ciascuna attività economica (cosa e come produrre, dove, per chi – come dice talvolta anche Maurizio Landini), a partire ad esempio dalle spese  militari, e cerchi di caricare i costi della necessaria ristrutturazione a coloro che in questi anni si sono arricchiti (finanza internazionale e locale) ed in Italia, specificamente (anche per rimediare ai debiti accumulati), a chi non ha mai pagato (evasione fiscale, dai grandi ai piccoli).
  

NOTA: nella campagna referendaria del 2011 l’acqua è stata esaltata come bene pubblico con accenti “sacrali”, tali da non sopportare alcuna forma di privatizzazione gestionale, con evidente asimmetria e sottovalutazione dei rischi anche più gravi che si corrono invece di fronte ai monopoli privati che spadroneggiano su beni pubblici altrettanto delicati, come l’energia, l’informazione, Internet, per non parlare della insufficiente tutela del suolo, del sottosuolo, dell’aria e dello stesso spazio celeste.

venerdì 13 giugno 2014

MENTRE RENZI IMITA GRILLO, EPURANDO I DISSIDENTI, PREFERISCO PARLARE DI BERLINGUER (CHE I DISSIDENTI, PER ALTRO, LI RADIAVA)

Pietro Folena, su l’Unità dell’11-06, critica il “Berlinguer” di Walter Veltroni perché avrebbe massimizzato la fase del “compromesso storico”, oscurando o trascurando la successiva “svolta di Salerno” ed i contenuti, più di sinistra, ed in qualche misura anche movimentisti, ecologici e femministi, degli ultimi 5 anni della segreteria Berlinguer.
Credo che l’osservazione di Folena sia fondata riguardo alla maggior simpatia che traspira dal documentario in favore degli indirizzi più ecumenici e larghintesisti del berlinguerismo, evidentemente più consoni alla sensibilità veltroniana; però mi sembra che il filmato metta in mostra onestamente, nei fatti, la fragilità intrinseca alla linea del PCI in tutte le fasi berlingueriane, prima durante e dopo i governi Andreotti di “convergenza parallela” verso l’unità nazionale:
-          prima, perché al crescere del consenso verso il PCI (meritato dalla serietà della pur moderata opposizione al monopolio governativo della DC  e dalle diffuse esperienze di buongoverno locale) non corrispondeva comunque una credibile proposta di governo, in grado di coniugare veramente il socialismo “rivoluzionario” promesso alla base tradizionale (in gran parte comunque filosovietica) con le compatibilità economiche e politico-militari da garantire sia al nuovo elettorato borghese, sia  ai poteri forti allora dominanti;
-          durante, perché la giustificata preoccupazione di evitare una contrapposizione “alla cilena” ha reso di fatto subalterno il PCI alla DC, così ri-legittimata  (e reso mina vagante il PSI),  iniziando a deludere i movimenti giovanili e sindacali;
-          dopo, perché il ritorno ad un contatto più stretto con i bisogni di strati popolari che iniziavano ad essere frammentati, sia dalle ristrutturazioni aziendali sia dall’emergere di tutti i valori soggettivi di quella che fino ad allora veniva chiamata “sovrastruttura”,  risultava privo di una prospettiva strategica, tramontata per sempre l’idea rivoluzionaria (comunque camuffata) ed a ragion veduta la sua  versione filosovietica, e sprecata – nel 75-76- la grande occasione del “sorpasso”  e dell’unità delle sinistre (aprendo però la strada ad un crescente consociativismo del PCI nel “sistema dei partiti”, che non lo ha messo al riparo dal crollo della “prima repubblica” all’inizio degli anni ’90).
Il documentario di Veltroni mi sembra abbastanza sgombro da toni agiografici, pur evidenziando nella giusta misura la grande dignità di Berlinguer come persona; anche la “pre-veggenza” di Berlinguer sulla questione morale risulta esibita senza gli eccessi che è capitato di leggere qua e là, a fronte degli ultimi scandali.

Su questo tema, da compagno di strada, variamente critico, per diversi decenni, del PCI-PDS-DS-(PD), mi permetterei di  rilevare che forse già ai tempi di Berlinguer occorreva fare qualcosa di più che denunciare le pratiche spartitorie del centro-sinistra di allora e proclamare la propria (in realtà decrescente) “diversità”: se consociativismo e lottizzazione emergevano già allora come degenerazioni di tipo “nuovo” per i comunisti, coinvolgendoli in parte, la carenza di anti-corpi risiedeva in qualche misura, a mio avviso, in degenerazioni di tipo “vecchio”, che giustificavano, in nome del Partito e della resistenza al poderoso accerchiamento delle forze padronali, diverse scorciatoie nelle modalità di finanziamento e gestione delle organizzazioni di sinistra (si legga in proposito ad esempio in “Senior Service” di Carlo Feltrinelli – Ed. Feltrinelli, 1999 - la ricostruzione storica di diversi aspetti del supporto dato da suo padre GianGiacomo al PCI del dopoguerra).  

giovedì 5 giugno 2014

LE CONSULTAZIONI DI matteo@governo.it

LE CONSULTAZIONI DI matteo@governo.it

Dopo la sbornia del successo elettorale del PD e di Renzi (su cui non torno, perché già si sono esaurientemente sbizzarriti tutti gli analisti, compresi quelli che hanno sbagliato tutte le previsioni: per parte, mia riallacciandomi al mio post “la grande paura” sottolinerei che Grillo – soprattutto con la sequenza “VinciamoNoi e poi Marcia-su-Roma e Tutti-a-casa” -  è stato il miglior propagandista possibile per il PD), qualcuno sta ponendo domande sul possibile ruolo dello stesso PD nel compito di consolidare per quanto possibile il risultato delle europee.
In particolare su “l’Unità” del 2 e del 4 giugno Michele Ciliberto e Giunio Luzzatto, testi interessanti cui rimando.
Tanto per non perdere l’abitudine critica (anche a fronte di un PD oltre il 40%, compreso il mio voto spinto dalla “grande paura”), vorrei commentare la parziale risposta del Sottosegretario DelRio alle tesi di Ciliberto, sempre su l’Unità (3 giugno):
DOMANDA La vittoria del Pd è molto figlia di Renzi. Ciliberto sul’Unità domenica però faceva notare che il premier avrà presto bisogno di un partito forte perché forti saranno le resistenze conservatrici alle riforme.
RISPOSTA «Renzi ha scelto soprattutto di restare costantemente in contatto con le persone. È questa è la metodologia che abbiamo scelto a Palazzo Chigi. Su ogni proposta di riforma chiediamo contributi e idee alla gente. Sulla pubblica amministrazione sono arrivate quasi 40mila email. Ecco un partito forte per me è un partito che ha un legame direi quotidiano con le persone, che cioè non si accontenta di chiamarle al voto o alle primarie, ma che sta mobilitato anche sulle idee e sulle proposte. Un partito cioè che non pensa tanto alla sua auto-organizzazione, ma a non perdere la sapienza che viene dal contatto con vita reale. Non ci serve un partito magari molto organizzato, pesante, ma che poi si divide in correnti che hanno lo scopo di sistemare qualcuno su qualche poltrona di qualche azienda pubblica. Il Pd deve specializzarsi nel contatto continuo con le persone e non nella divisione delle poltrone. La Cdu, un partito che sta normalmente al 40%, non è un partito di apparati, ha una struttura molto leggera»
Ne emerge che – al momento – lo strumento di consultazione della “gente” e delle “persone” è direttamente lo stesso Governo: oltre alle 40.000 e-mail sulla pubblica amministrazione e dopo la raccolta di segnalazioni sull’edilizia scolastica, ora i Sindaci sono chiamati a scrivere all’ex-collega matteo@governo.it per l’operazione sblocca-Italia; e si annuncia un analogo ascolto verso gli insegnanti (che sostituisce, forse, l’iniziativa di consultazione promessa da Renzi durante le primarie come attività di partito)
La tendenza è interessante, perché le consultazioni fatte istituzionalmente dal Governo sono potenzialmente rivolte a tutti, mentre il Partito di fatto rischia di dividere ed escludere a priori molti contatti.
Osservo però:
-          che lo Stato già dispone di strumenti professionali di indagine sociale, come l’Istat, il Censis, l’ufficio studi di Bankitalia, che hanno il pregio di essere già pagati e di essere regolati da normative di garanzia,
-          che invece le consultazioni improvvisate da “matteo@” rischiano di comportare duplicazioni di strutture e costi, inefficienze e scarsa trasparenza (ad esempio, che fine ha fatto la consultazione del governo Letta – pur priva di “scrivi ad Enrico” -  sulle modifiche costituzionali?),
-          che la questione dell’uso della rete in politica, nodale per il presente e per il futuro, merita estrema serietà, a fronte delle estremizzazioni e manipolazioni di Grillo e Casaleggio,
-          che le proposte di DelRio sul Partito “sapiente” sulla vita reale (“cognitivo” secondo Fabrizio Barca) sono totalmente indefinite (come si organizza questa capacità di inchiesta? Il partito “leggero” non ha comunque un mare di tentazioni spartitorie, che a questo punto in pochi si gestiscono con “leggerezza”, accumulando cariche pesanti?).