Nel lontano 1970 partecipavo ad una “Commissione Riforme” del movimento
degli studenti di architettura di Milano, il cui assunto era - grosso modo -
quanto anche il capitalismo “avanzato” fosse piuttosto cattivo, e non ci fosse
da fidarsi delle sue “riforme”; rammento
che ai margini di quella ricerca mi rimaneva il dubbio (eretico) su perché
comunque in Scandinavia si vivesse (socialmente parlando) meglio che in Italia,
ma non ebbi molto tempo per coltivarlo, perché forti dosi di repressione erano
alle porte e con la crisi (non solo “petrolifera”) del 72-73 il riformismo in
Italia comunque non era più di moda.
Alle mie domande
di allora pensavo che potesse rispondere il ponderoso e celebrato saggio degli
accademici americani Daron Acemoglu (di origine turca) e James A. Robinson,
edito negli USA nel 2012 ed in Italia nel 2014 (“PERCHE’ LE NAZIONI FALLISCONO
- Alle origini di potenza, prosperità, e povertà” – Il Saggiatore - cartaceo €
22 - eBook €10.99), ma al termine delle oltre 400 pagine mi dichiaro abbastanza
deluso.
Il testo è di
facile lettura, in quanto povero di dati statistici e ricco invece di racconti
ed aneddoti, con numerose incursioni non-cronologiche su oltre 10.000 anni di
storia in tutti i continenti, (quasi in
antinomia speculare con “Debito: i primi 5.000 anni” di Graeber – vedi mio post
- e per me un utile ripasso per le vicende dell’emisfero nord, e informazioni
prima quasi sconosciute sull’emisfero sud), ma risulta anche ripetitivo,
assertivo e talora apodittico.
La
tesi degli autori (che ripeto qui anche se è già stato ben riassunta in altre
recensioni: segnalo in particolare quella de “IL POST”) è che il successo
economico (ed il benessere) delle nazioni non dipendono da clima&risorse,
né da fattori culturali (inclusa la presunta “ignoranza dei ceti dirigenti”),
bensì dalla qualità delle istituzioni politico-amministrative:
-
le istituzioni “inclusive” (ovvero
pluralistiche), attraverso la certezza del diritto (in primis di proprietà
privata) ed il possibile ricambio delle élites, consentono l’apertura al nuovo
e il benefico processo della “distruzione creatrice” e perciò l0 sviluppo
(paradigmatica l’evoluzione inglese, prima e dopo le rivoluzioni del 17°
secolo); occorre però la premessa di una
discreta centralizzazione dello stato;
-
le Istituzioni “estrattive” mirano solo ad
accumulare e perpetuare i privilegi delle élites, paventando le innovazioni e
bloccando gli accessi a nuovi metodi di valorizzazione delle risorse (esemplari
le chiusure contro l’introduzione di fabbriche e ferrovie da parte degli imperi
austro-ungarico, russo ed ottomano nel primo Ottocento); con il rischio che
nelle fasi di crisi succedano nuove élites altrettanto “estrattive” oppure che
il territorio si frammenti in spinte centrifughe, per effetto della ricerca
diffusa di poteri esclusivi (così sarebbe terminato l’impero dei Maya).
-
Le prove
addotte da Acemoglu e Robinson sono ampie (a partire dagli insediamenti
“natufiani” che nel medio oriente del 9500 a.C. pervennero all’agricoltura
previa formazione di villaggi stanziali, e non viceversa), ma non sempre
convincenti; ad esempio:
-
il paese di Nogales, diviso tra USA e Messico,
con crescenti divergenze nei livelli di prosperità: però dallo stesso testo
risulta che ambedue le comunità sono state fondate dopo la definizione del
confine (e non dividendo in 2 un preesistente insediamento), per cui diverse a
mio avviso sono state anche dall’origine
-
la colonizzazione del Sud e del Nord America, la
prima fondata sullo sfruttamento schiavistico degli indigeni sottomessi e sulla
depredazione delle risorse naturali, la seconda invece necessariamente basata
sul lavoro degli stessi coloni bianchi: Acemoglu e Robinson però trascurano il
particolare del genocidio perpetrato a danno dei più riottosi indigeni
“pellerossa” e isolano da questo ragionamento le loro pur ampie dissertazioni
sulla deportazione degli schiavi africani
-
il relativo successo del (solo) Botswana, che - dopo
l’indipendenza dal colonialismo britannico e grazie ad una qualche persistenza
di preesistenti strutture tribali di tipo “inclusivo” – avrebbe raggiunto un
PIL pro capite al livello di Lettonia o Ungheria, cioè assai alto se raffrontato
con il disastro di gran parte del restante continente africano, ma non con il
benessere di popoli ugualmente remoti, ma non assoggettati al colonialismo
europeo, come ad esempio il Giappone.
Più
interessante che non la tesi centrale del libro, è – a mio avviso – il metodo
di indagine sugli sviluppi storici (benché minato dalla separazione degli
argomenti e dalla mancata concatenazione di fondamentali fattori a livello
internazionale), che cerca di evitare ogni determinismo nella trasformazione
delle istituzioni, e di assimilare invece le acquisizioni tipiche della
genetica e della linguistica, e cioè la (piuttosto casuale) accelerazione delle
divergenze in presenza di particolari fasi critiche (ad esempio la “Peste Nera”
sul finire del Medioevo in Europa, che – riducendo drasticamente la forza-lavoro
disponibile - porta in Occidente alla estinzione della servitù della gleba ed
invece in Oriente ad una sua
recrudescenza).
Ma
tale raffinatezza di analisi (che contrasta con un certa grossolanità di
approccio – a mio avviso – sull’esperienza del comunismo sovietico e mostra la
corda nella difficoltà di interpretare l’odierno regime cinese, che secondo gli
Autori non potrà svilupparsi a lungo senza profonde riforme) non può superare
il peso
-
delle enormi carenze di lettura della storia
complessiva del mondo da parte degli Autori, e cioè la correlazione necessaria
tra il benessere degli uni (ad esempio gli anglosassoni, inclusivi a casa loro)
ed il malessere degli altri (direttamente colonizzati o sfruttati per inique
sperequazioni commerciali di carattere imperialistico, ad esempio dagli stessi
anglosassoni, estrattivi casa d’altri, a
partire dalla vicina Irlanda)
-
dei giudizi aprioristici e comunque non-dimostrati
quali quello sulla ricchezza materiale come unica misura del benessere, oppure
la necessità di proprietà privata ed incentivi economici per ogni sviluppo del
progresso umano (che dovrebbe quindi essere
assente anche nei “settori pubblici” delle società avanzate, mentre mi
pare che non manchi in università ospedali e centri di ricerca, anche poveri di
progressioni economiche, come spesso è in Europa) od ancora sulla “distruzione
creatrice”, che sempre agirebbe positivamente (mentre qualche volta distrugge
valori non riproducibili, sociali oppure ambientali).
-
Non mi
convince inoltre l’eccessiva autonomizzazione degli aspetti istituzionali dal
retroterra socio-economico (vedi un certo Marx) e dagli stessi fattori
culturali (ad esempio l’influenza dei movimenti di riforma protestante nelle
divergenze istituzionali e di sviluppo tra le diverse nazioni europee – vedi un
certo Weber).
Appendice: tra le numerose recensioni,
alcune encomiastiche, altre detrattive, e molte variamente dialettiche, mi
hanno colpito quelle su Repubblica nell’agosto 2012, a cura di Simonetta Fiori
l’una e di Francesco Domenico Moccia l’altra, che mi sono sembrate alquanto
distratte:
-
la prima
lamenta la mancanza di protagonisti italiani nelle storie (a parte Giulio
Cesare) e di autori italiani nella bibliografia, mentre a me risulta che sia
trattata ampliamente la Repubblica di Venezia e che tra gli autori (seppure di
testi in inglese) figurino almeno Tabellini e Guiso-Sapienza-Zingales
-
il secondo
trova il testo limitato alla fortuna delle nazioni intere e carente sulle
divergenze di sviluppo interne, mentre a me pare ben evidenziato il divario tra
stati del sud e del nord degli U.S.A., prima e dopo la fine dello schiavismo,
nonché qualche cenno ai divari interni, ad esempio, della Sierra Leone, del Sud
Africa, dell’Australia.