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martedì 2 dicembre 2014

PERCHE’ LE NAZIONI FALLISCONO, SECONDO ACEMOGLU E ROBINSON

Nel lontano 1970 partecipavo ad una “Commissione Riforme” del movimento degli studenti di architettura di Milano, il cui assunto era - grosso modo - quanto anche il capitalismo “avanzato” fosse piuttosto cattivo, e non ci fosse da fidarsi delle sue “riforme”;  rammento che ai margini di quella ricerca mi rimaneva il dubbio (eretico) su perché comunque in Scandinavia si vivesse (socialmente parlando) meglio che in Italia, ma non ebbi molto tempo per coltivarlo, perché forti dosi di repressione erano alle porte e con la crisi (non solo “petrolifera”) del 72-73 il riformismo in Italia comunque non era più di moda.

Alle mie domande di allora pensavo che potesse rispondere il ponderoso e celebrato saggio degli accademici americani Daron Acemoglu (di origine turca) e James A. Robinson, edito negli USA nel 2012 ed in Italia nel 2014 (“PERCHE’ LE NAZIONI FALLISCONO - Alle origini di potenza, prosperità, e povertà” – Il Saggiatore - cartaceo € 22 - eBook €10.99), ma al termine delle oltre 400 pagine mi dichiaro abbastanza deluso.
               
Il testo è di facile lettura, in quanto povero di dati statistici e ricco invece di racconti ed aneddoti, con numerose incursioni non-cronologiche su oltre 10.000 anni di storia in tutti i continenti, (quasi in antinomia speculare con “Debito: i primi 5.000 anni” di Graeber – vedi mio post - e per me un utile ripasso per le vicende dell’emisfero nord, e informazioni prima quasi sconosciute sull’emisfero sud), ma risulta anche ripetitivo, assertivo e talora apodittico.

                La tesi degli autori (che ripeto qui anche se è già stato ben riassunta in altre recensioni: segnalo in particolare quella de “IL POST”) è che il successo economico (ed il benessere) delle nazioni non dipendono da clima&risorse, né da fattori culturali (inclusa la presunta “ignoranza dei ceti dirigenti”), bensì dalla qualità delle istituzioni politico-amministrative:
-         le istituzioni “inclusive” (ovvero pluralistiche), attraverso la certezza del diritto (in primis di proprietà privata) ed il possibile ricambio delle élites, consentono l’apertura al nuovo e il benefico processo della “distruzione creatrice” e perciò l0 sviluppo (paradigmatica l’evoluzione inglese, prima e dopo le rivoluzioni del 17° secolo);  occorre però la premessa di una discreta centralizzazione dello stato;
-         le Istituzioni “estrattive” mirano solo ad accumulare e perpetuare i privilegi delle élites, paventando le innovazioni e bloccando gli accessi a nuovi metodi di valorizzazione delle risorse (esemplari le chiusure contro l’introduzione di fabbriche e ferrovie da parte degli imperi austro-ungarico, russo ed ottomano nel primo Ottocento); con il rischio che nelle fasi di crisi succedano nuove élites altrettanto “estrattive” oppure che il territorio si frammenti in spinte centrifughe, per effetto della ricerca diffusa di poteri esclusivi (così sarebbe terminato l’impero dei Maya).
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Le prove addotte da Acemoglu e Robinson sono ampie (a partire dagli insediamenti “natufiani” che nel medio oriente del 9500 a.C. pervennero all’agricoltura previa formazione di villaggi stanziali, e non viceversa), ma non sempre convincenti; ad esempio:
-         il paese di Nogales, diviso tra USA e Messico, con crescenti divergenze nei livelli di prosperità: però dallo stesso testo risulta che ambedue le comunità sono state fondate dopo la definizione del confine (e non dividendo in 2 un preesistente insediamento), per cui diverse a mio avviso sono state anche dall’origine
-         la colonizzazione del Sud e del Nord America, la prima fondata sullo sfruttamento schiavistico degli indigeni sottomessi e sulla depredazione delle risorse naturali, la seconda invece necessariamente basata sul lavoro degli stessi coloni bianchi: Acemoglu e Robinson però trascurano il particolare del genocidio perpetrato a danno dei più riottosi indigeni “pellerossa” e isolano da questo ragionamento le loro pur ampie dissertazioni sulla deportazione degli schiavi africani
-         il relativo successo del (solo) Botswana, che - dopo l’indipendenza dal colonialismo britannico e grazie ad una qualche persistenza di preesistenti strutture tribali di tipo “inclusivo” – avrebbe raggiunto un PIL pro capite al livello di Lettonia o Ungheria, cioè assai alto se raffrontato con il disastro di gran parte del restante continente africano, ma non con il benessere di popoli ugualmente remoti, ma non assoggettati al colonialismo europeo, come ad esempio il Giappone.

Più interessante che non la tesi centrale del libro, è – a mio avviso – il metodo di indagine sugli sviluppi storici (benché minato dalla separazione degli argomenti e dalla mancata concatenazione di fondamentali fattori a livello internazionale), che cerca di evitare ogni determinismo nella trasformazione delle istituzioni, e di assimilare invece le acquisizioni tipiche della genetica e della linguistica, e cioè la (piuttosto casuale) accelerazione delle divergenze in presenza di particolari fasi critiche (ad esempio la “Peste Nera” sul finire del Medioevo in Europa, che – riducendo drasticamente la forza-lavoro disponibile - porta in Occidente alla estinzione della servitù della gleba ed invece in Oriente ad una  sua recrudescenza).
                Ma tale raffinatezza di analisi (che contrasta con un certa grossolanità di approccio – a mio avviso – sull’esperienza del comunismo sovietico e mostra la corda nella difficoltà di interpretare l’odierno regime cinese, che secondo gli Autori non potrà svilupparsi a lungo senza profonde riforme) non può superare il peso
-         delle enormi carenze di lettura della storia complessiva del mondo da parte degli Autori, e cioè la correlazione necessaria tra il benessere degli uni (ad esempio gli anglosassoni, inclusivi a casa loro) ed il malessere degli altri (direttamente colonizzati o sfruttati per inique sperequazioni commerciali di carattere imperialistico, ad esempio dagli stessi anglosassoni, estrattivi  casa d’altri, a partire dalla vicina Irlanda) 
-         dei giudizi aprioristici e comunque non-dimostrati quali quello sulla ricchezza materiale come unica misura del benessere, oppure la necessità di proprietà privata ed incentivi economici per ogni sviluppo del progresso umano (che dovrebbe quindi essere  assente anche nei “settori pubblici” delle società avanzate, mentre mi pare che non manchi in università ospedali e centri di ricerca, anche poveri di progressioni economiche, come spesso è in Europa) od ancora sulla “distruzione creatrice”, che sempre agirebbe positivamente (mentre qualche volta distrugge valori non riproducibili, sociali oppure ambientali).    
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Non mi convince inoltre l’eccessiva autonomizzazione degli aspetti istituzionali dal retroterra socio-economico (vedi un certo Marx) e dagli stessi fattori culturali (ad esempio l’influenza dei movimenti di riforma protestante nelle divergenze istituzionali e di sviluppo tra le diverse nazioni europee – vedi un certo Weber).

                Appendice: tra le numerose recensioni, alcune encomiastiche, altre detrattive, e molte variamente dialettiche, mi hanno colpito quelle su Repubblica nell’agosto 2012, a cura di Simonetta Fiori l’una e di Francesco Domenico Moccia l’altra, che mi sono sembrate alquanto distratte:
-         la prima lamenta la mancanza di protagonisti italiani nelle storie (a parte Giulio Cesare) e di autori italiani nella bibliografia, mentre a me risulta che sia trattata ampliamente la Repubblica di Venezia e che tra gli autori (seppure di testi in inglese) figurino almeno Tabellini e Guiso-Sapienza-Zingales

-         il secondo trova il testo limitato alla fortuna delle nazioni intere e carente sulle divergenze di sviluppo interne, mentre a me pare ben evidenziato il divario tra stati del sud e del nord degli U.S.A., prima e dopo la fine dello schiavismo, nonché qualche cenno ai divari interni, ad esempio, della Sierra Leone, del Sud Africa, dell’Australia.

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