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venerdì 26 giugno 2015

REDDITO MINIMO GARANTITO IN EUROPA (MA NON IN ITALIA): “CONTRO LA MISERIA” DI GIOVANNI PERAZZOLI

Il testo di Giovanni Perazzoli “CONTRO LA MISERIA – viaggio nell’Europa del nuovo welfare” (Editori Laterza,  Bari 2014, pagg. 150) costituisce una valida panoramica del welfare europeo sul fronte della  disoccupazione, con excursus storici a partire da Bismarck (Germania fine Ottocento: impostazione assicurativa-corporativa, limitata alla perdita del posto di lavoro per le singole categorie) a Beveridge (Gran Bretagna metà Novecento: universalità e permanenza dei sussidi, a sostegno di una sostanziale piena occupazione), senza dimenticare  il ruolo delle concessioni di tipo social-democratico nella sfida tra Occidente e blocco sovietico.
La rassegna di Perazzoli entra nel dettaglio delle soluzioni adottate dai principali paesi del nord-europa (Francia compresa), accomunate da alcuni capisaldi sostanzialmente costanti:
-          l’universalità e la permanenza (o ripetibilità), come già accennato, con offerta di sussidio a tutti i cittadini maggiorenni privi di reddito (a fianco di sistematiche sovvenzioni per gli studenti, non indagate dal testo);
-          l’affiancamento con altri specifici canali di sostegno, per la casa, la salute, i figli ed altri specifici bisogni;
-          l’intervento attivo di agenzie per la formazione ed il collocamento.
Pensate all’origine come intervento massiccio ma collaterale, nel contesto di tendenziale piena occupazione tipico del periodo post-bellico, tali politiche hanno subito revisioni e restrizioni nelle recenti fasi di crisi:
-          per la difficoltà a far fronte alla spesa complessiva,
-          per la minor efficacia del reddito minimo come incentivo alla ricerca del lavoro in un mercato che offre spesso sotto-salari,
-          per il crescente dissenso di tali misure a favore dei disoccupati (e peggio se immigrati) tra altri strati di lavoratori ed imprenditori impoveriti;
da qui le esperienze tedesche dei “mini-job” e quelle inglesi di rafforzamento degli obblighi ad accettare i lavori offerti; l’Autore evidenzia però la  sostanziale permanenza del sistema di welfare consolidato e la sua attuale efficacia, anche come stimolo alla affermazione individuale per i soggetti interessati, che solo marginalmente risultano rassegnati ad approfittare a lungo della condizione di assistiti.

Perazzoli richiama  anche, seppur non in modo sistematico, le diverse correnti ideologiche che attraversano la pratica del reddito minimo garantito nord-europeo, e che mi sento di riassumere come segue:
-          liberale: sostegno al lavoro “vero” e alla produttività aziendale; scommessa sull’iniziativa individuale degli assistiti; funzionalità del mercato del lavoro coniugata alla flessibilità dei lavoratori;
-          socialdemocratica: inclusione e universalità; socializzazione delle fluttuazioni settoriali; spinta indiretta alla crescita dei salari minimi per gli occupati;
-          teorici della “fine del lavoro” e sostenitori del “reddito di cittadinanza” (esteso teoricamente anche ai ricchi, salvo recuperarlo con maggiori tasse), tra Pierre Rosanvallon e Ulrich Beck (e ci aggiungerei Guy Standing), i quali in sostanza sostengono che il settore produttivo, ad alta produttività, può e deve farsi carico di tutto il resto della baracca, che comunque gli è necessaria per il consenso e per una più ampia “produttività sociale”;
oltre ovviamente ad una opinione pubblica reazionaria che semplicisticamente ritiene necessario tagliare il più possibile i sussidi “ai fannulloni”.

In contrappunto al (nord)Europa, Perazzoli tratteggia la diversa vicenda italiana, con i successivi fallimenti della commissione Aragona nel dopoguerra, della commissione Onofri (a metà anni ’90, 1° Governo Prodi) e del dossier Biagi (primi anni 2.000, governo Berlusconi) e – a mio avviso senza i necessari approfondimenti sulla concomitante assenza o carenza di reddito garantito anche in Grecia, Spagna e Portogallo e parte dell’Est-Europa – attribuisce le ragioni di tali insuccessi ad un mix di fattori sociali: il familismo, il corporativismo ed il clientelismo portano a conservare la discrezionalità  nelle erogazione dei sussidi (in opposizione alla universalità) come elemento di forza del sistema di potere (e dei partiti in particolare), alimentando fenomeni assistenziali, quali le pensioni di invalidità (anche ad alcuni validi), i lavori finti, gli aiuti per i “poveri”, la cassa integrazione da decidere di volta in volta, la permanenza dei giovani nelle famiglie di origine, fenomeni che ben si  intrecciano anche con la pratica del lavoro in nero.
Un sistema vischioso, che appare insuperabile, e che Perazzoli vorrebbe scardinare con l’universalità del reddito minimo garantito.

I MIEI DUBBI IN PROPOSITO

Per parte mia non ho dubbi sulla preferibilità del modello nord-europeo rispetto alla attuale situazione italiana, ma ho qualche dubbio sia sulla esportabilità del modello in Italia (1), sia su alcuni aspetti intrinseci del modello di welfare proposto (2-3-4):
1-      se in Italia (come in altri paesi mediterranei) gli attuali sussidi coesistono con il lavoro in nero (che nel contempo a mio avviso gonfia oltre il credibile le statistiche dei giovani che “né studiano né lavorano”), come potrebbe invece il reddito minimo garantito ed universale escludere di affiancarsi di fatto anch’esso al lavoro in nero?
2-      Il mondo delle aziende produttive deve essere considerato come un ambito superiore, dove tutti (gli inclusi) si realizzano in serenità e pace (e che può esternalizzare come tasse i costi del mantenimento degli esclusi tramite welfare)  oppure comunque genera conflitti e disagi (competitività, super-lavoro, stress) che in una più equa ripartizione del lavoro potrebbero stemperarsi a vantaggio di tutti (i già inclusi e gli includibili), sia con progressive riduzioni degli orari e contratti di solidarietà (e staffette giovani/anziani), sia internalizzando parte del welfare e cioè ponendo a carico delle aziende quote di assunzioni “sociali” (come in parte già avviene con i disabili)?
3-      le esperienze di ripartizione sociale del lavoro fuori dalle aziende, cioè nel settore pubblico e nel “terzo settore”, come i “lavori socialmente utili” ed  il servizio civile, sono da considerare “assistenzialisti”, mentre l’erogazione di sussidi universali, senza chiedere contropartite in lavoro (ed in parallela seria frequentazione di corsi formativi), non lo sarebbe
4-      stanti le difficoltà della finanza pubblica, se si trovassero le risorse per allargare progressivamente le indennità di disoccupazione, perché non coniugare questa spesa sociale con l’enorme fabbisogno arretrato di manutenzione gestione dei beni comuni (territorio, ambiente, beni culturali)?

Il tema, che ho già affrontato recensendo “Precari, la nuova classe esplosiva” di Guy Standing, è assai complesso, ed intendo ritornare ad affrontarlo, soprattutto riguardo alla separatezza tra lavoro produttivo e “beni comuni”: a mio avviso anche la produzione deve essere considerata un “bene comune” e mi pare che ci sia qualche cenno nella Costituzione (articoli 1,  42 ed altri). 

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