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venerdì 22 aprile 2016

LA GRANDE FUGA, DI ANGUS DEATON

RECENSIONE PUBBLICATA SU "URBANISTICA INFORMAZIONI" N° 266   - MARZO/APRILE 2016

“LA GRANDE FUGA – salute, ricchezza e origini della disuguaglianza” (2013 – traduzione italiana “IL MULINO” – Bologna 2015, pagine 381) è un ampio saggio, di taglio divulgativo, scritto dall’economista Angus Deaton, con origini scozzesi e carriera a Princeton (USA), premio Nobel 2015 e per questo pluri-recensito e pervenuto alla mia attenzione.
Il libro è un grande affresco – costruito più con il commento a ricerche altrui che non mediante proprie originali elaborazioni – sulla storia mondiale del benessere (prosperità economica, salute e longevità), soprattutto a partire dalla svolta europea nell’età moderna, con approfondimenti su natalità e mortalità, sulle diseguaglianze in USA e nel mondo e soprattutto sul tema degli “aiuti” ai paesi poveri.
Parte del testo risulta indirizzata, con dovizia di esempi (iniziando dalla storia della sua famiglia) e di ragionamenti fondati sul buon senso, a convincere di elementari verità, del tipo che oggi si vive meglio e più a lungo che in passato, che si è fortunati a vivere in Occidente anziché altrove e che in generale chi ha più ricchezza ha anche più salute, e ne è contento (il tutto probabilmente in contrapposizione, non esplicitata, a chi critica lo stile di vita occidentale o ne sottolinea guasti ed alienazione); nel contempo Deaton non si mostra per nulla fiducioso in un futuro altrettanto fortunato per l’umanità, né intera né per parti.
Accanto a queste affermazioni, Deaton  approfondisce anche elementi dialettici e contradditori, quali ad esempio la correlazione non costante, nei paesi attualmente emergenti, tra incremento del reddito medio e diffusione del benessere sanitario (quando ne manchino le condizioni ambientali e/o organizzative), oppure tra PIL e percezione della “felicità” (con una attenzione tutta anglosassone, ed  a mio avviso spropositata, allo strumento dei sondaggi demoscopici – vedi anche mia recensione di Inglehart).
L’autore mette in evidenza come, nel passaggio (tardivo) dai paesi ricchi ai paesi poveri delle esperienze di prevenzione medica della mortalità infantile, si sia determinato un rapido allungamento dell’età media su scala planetaria, con il derivante boom demografico, e però senza il paventato impoverimento generalizzato per carenza di risorse alimentari (smentendo quindi le pratiche di limitazione alla natalità imposte dall’esterno o dall’alto, e constatando invece che a medio termine la natalità comunque diminuisce una volta assestato il calo della mortalità infantile), sia per l’incremento della produttività agricola, sia per la laboriosità delle nuove leve di “mancati morti infantili”; e come nel permanere delle disuguaglianze sociali tra i vari paesi e dentro di essi, grandi masse (di asiatici) siano state liberate dalla fame con il progresso economico globale degli ultimi decenni (pur nella contradditorietà di diversi percorsi, quali quelli di Cina ed india).
Mentre nei paesi ricchi gli ingenti sforzi impiegati per l’ulteriore benessere sanitario, essendo applicati agli adulti (data la marginalità residuale della mortalità infantile), comportano limitati avanzamenti statistici della “aspettativa di vita”.
Alquanto disarmante invece mi è sembrato il testo sia dove affronta le disuguaglianze interne agli USA, sia dove tenta – rinunciandovi – a tracciare una sintesi sulla povertà residua di grandi masse nel mondo, soprattutto africane.
Deaton illustra i limiti, le contraddizioni ed i paradossi dei parametri utilizzati dagli istituti pubblici per individuare ed aggiornare le “soglie di povertà” (anche in quanto oggetto di permanenti scontri politici tra gli opposti interessi dei ricchi e dei poveri) accontentandosi infine di esibire come socratica saggezza la consapevolezza di non saperne più di tanto (da un Nobel mi aspettavo francamente di più): pare comunque che – pur verificandosi la “grande fuga” di qualche miliardo di uomini dalla fame e dall’indigenza, (e soprattutto dal feroce dolore della diffusa mortalità infantile), le disuguaglianze tra i più poveri ed i più ricchi continuino ad aumentare, perché i più ricchi divengono (quasi ovunque) enormemente tali e parte degli strati sociali più bassi restano quanto meno stazionari (manca nel testo una lettura della “povertà relativa”, che è invece di uso comune tra gli istituti statistici europei).
Riguardo in particolare alla stratificazione  dei redditi negli USA, mi ha colpito come l’insoddisfazione di Deaton e altri per le statistiche ufficiali (immobili dagli anni ‘60 sull’indice di povertà assoluta, salvo correttivo inflazionistico,  e limitate ad interviste a campione per articolare i redditi tra i “decili” più o meno ricchi ai fini del calcolo dell’indice di Gini) sia stata in parte colmata, ma solo in anni recenti, dal giovane ricercatore francese Piketty (da noi noto per il successivo “Capitale nel XXI secolo”, vedi mia recensione), che – in collaborazione con istituti americani -, ha avuto finalmente la brillante idea di utilizzare le dichiarazioni dei redditi per scovare, all’interno del 10% più ricco, le curve di accumulazione della ricchezza delle frazioni più elevate (il centile ed il millile) (a quando il Nobel a Piketty?): accumulazione di ricchezza  e potere che – conviene Deaton - capovolge il mito americano delle “uguali opportunità” (infatti anche nelle carriere per merito e nei redditi da lavoro primeggiano  i soli figli delle élites) e può determinare un tappo alla crescita complessiva degli USA (Deaton in sostanza ritiene ineliminabili le disuguaglianze in fase di sviluppo iniziale, ma sostiene che solo la loro riduzione consenta ulteriori sviluppi socio-economici).
Il pezzo forte di Deaton è invece la critica agli aiuti ai paesi poveri; oltre ad evidenziarne la capricciosa distribuzione , a partire da statistiche errate e dal combinarsi degli interessi politici dei paesi donatori (esempio: anticomunismo ed antiterrorismo) e delle élites dei paesi beneficiari, Deaton ne esamina la generale inefficacia, con una molteplicità di esempi concreti, affermando che in ogni caso non riescono ad innescare autonomi meccanismi di crescita, ma solo talvolta ad alleviare specifiche emergenze, mentre in generale tendono  rafforzare le politiche di corruzione, rapina ed autosussistenza delle forze locali dominanti nei paesi più poveri, soprattutto nell’Africa subsahariana (con vari rimandi ad Acemoglu e Robinson, già da me recensiti).
La proposta di Deaton (che costituisce la parte più originale, anche se discutibile della “GRANDE FUGA”)  è di un taglio netto alle attuali forme di aiuto, spostando le energie su altre forme indirette (ma che incontrerebbero le stesse resistenze, all’interno dei paesi donatori), quali diverse regole per il commercio estero, incentivi internazionali alla ricerca di farmaci specifici, facilitazioni alla emigrazione con borse di studio, ecc.
Non ho una preparazione sufficiente per valutare la bontà o meno della provocazione di Deaton (condivisa invero anche da autorevoli intellettuali dei paesi “aiutati”: vedi ad esempio già nel 1993 lo scrittore di origini somale Nuruddin Farah in “Doni”), anche se ritengo apprezzabili, ma intrinsecamente deboli, quanto ad attuabilità, le sue proposte correttive.
Mi permetto però di rilevare alcuni limiti generali del suo approccio, abbastanza tipici degli accademici anglosassoni (vedi Inglehart e Acemoglu, ad esempio), che – pur criticando alcuni effetti devastanti del dominio capitalista – non ne esaminano alla radice  le cause, insite a mio avviso in fenomeni da loro non studiati, come lo scambio ineguale tra capitale e lavoro, la scala falsamente meritocratica delle retribuzioni, il permanere dell’imperialismo economico anche in era post-coloniale (rileggere Marx?).
Un breve appunto anche sulla bibliografia di Deaton,  che - tranne un breve cenno al demografo Livi Bacci, trascura totalmente gli autori italiani contemporanei (figurano solo Wilfedo Pareto e Corrado Gini); mentre nelle mie letture ho trovato grande chiarezza in autori come Paolo Prodi (sulle origini del mercato), Giovanni Arrighi (sugli sviluppi dell’accumulazione finanziaria internazionale) e Luciano Gallino (sulle recenti degenerazioni del finanz-capitalismo): tutti autori la cui bibliografia è viceversa riccamente internazionale.

E’ vero che l’Italia è provincia dell’Impero Americano, ma a mio parere anche taluni accademici anglosassoni rischiano altrettanto provincialismo. 

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