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mercoledì 21 novembre 2018

UTOPIA21 - NOVEMBRE 2018: IL LUNGO XX SECOLO DI GIOVANNI ARRIGHI



La narrazione dialettica di cinque secoli di capitalismo mondiale, dal predominio finanziario genovese a quelli olandese e poi britannico, per meglio comprendere il Novecento, lungo periodo ad egemonia statunitense, e formulare alcune ipotesi sulle potenze emergenti dell’Asia (il racconto si interrompe nel 2009 per la morte dell’Autore).

Riassunto: la “nazione genovese” (pur sconfitta sul territorio) inventa la moderna finanza internazionale, all’ombra dell’impero spagnolo (e dell’argento delle Indie Occidentali); i nascenti Paesi Bassi sperimentano nuovi strumenti di governo del commerci e delle risorse coloniali; la monarchia e la borghesia britannica soppiantano gli olandesi come centro del capitalismo e dell’imperialismo mondiale; la grande accumulazione di risorse e nuove forme di organizzazione della produzione, della guerra e della finanza assicurano agli USA l’egemonia globale nell’ultimo lungo secolo, ma si aprono nuove contraddizioni, in particolare sul versante del Pacifico.   
in corsivo i commenti personali del recensore

Laddove Hobsbawn vedeva il Novecento come secolo “breve”, focalizzando l’attenzione sulle vicende politico-sociali, ed individuandone pertanto l’inizio con la prima guerra mondiale e la rivoluzione di ottobre, ed il termine con la caduta del muro di Berlino e la dissoluzione del “socialismo reale”, lo sguardo multidisciplinare di Giovanni Arrighi in “Il lungo XX secolo – denaro, potere e le origini del nostro tempo” identifica il Novecento come la fase di accumulazione capitalistica ad egemonia USA, con prodromi ancora nel XIX secolo e sentori crepuscolari a cavallo tra il XX ed il XXI.
Il fluido e poderoso racconto di Arrighi (economista italiano, 1937-2009, emigrato dapprima nell’Africa post-coloniale e poi negli Stati Uniti, con un importante intermezzo a cavallo del ’68 a Trento ed a Cosenza, nonché come animatore del “Gruppo Gramsci”) colloca il dominio statunitense nell’ambito di una successione di cicli di accumulazione finanziaria e di potere lunga cinque secoli, quanto la storia dell’odierno capitalismo, a partire dal tardo medioevo ed attraverso le seguenti fasi, che riassumo schematicamente come segue, in parte con parole mie:
-           Periodo della “nazione genovese” (dal Cinquecento all’inizio del Seicento), che – malgrado la sconfitta ed il ridimensionamento della repubblica di Genova nel confronto con Venezia e nell’esito del conflitto totale (ma non privo di fasi cooperative) tra le città-stato italiane (tra cui primeggiarono anche Firenze e Milano) ed i loro ceti mercantili – inventando la moderna finanza, imparando dagli errori e dai fallimenti dei banchieri fiorentini e acquisendo la capacità di lucrare sui prestiti agli stati; in particolare con i prestiti al nascente impero spagnolo, trasformò le risorse accumulate con il commercio attraverso il Mediterraneo, ormai calante, in strumento di egemonia delle famiglie genovesi (anche in esilio) sul nascente mercato finanziario mondiale, a partire dalle “fiere di cambio” e attraverso il monopolio dell’argento che fluiva dalle Americhe all’impero spagnolo;
-           Periodo olandese (fino a metà Settecento), caratterizzato dall’intreccio tra la capacità di intermediazione finanziaria (mutuata dai genovesi ed iniziata anche con i loro stessi capitali), ma anche commerciale (con i magazzini globali nei porti olandesi), ed una organizzazione politica e militare pubblico-privata con ascendenze nel modello veneziano (le Compagnie delle Indie), pragmatica e “spietata”, perché efficacemente orientata al profitto anziché a miti astratti di comando e proselitismo qual era quella degli imperi iberici, dagli olandesi direttamente sfidati ed in parte soppiantati, dal mare del Nord agli oceani;
-           Periodo britannico (fino all’inizio del Novecento), derivante da un lungo periodo di incubazione, dopo le sconfitte (e i conseguenti indebitamenti) dei Tudor sui fronti continentali, attraverso l’accorta politica  e la fortuna marinara&piratesca di Elisabetta I e sir Francis Drake, con stabilità monetaria e precoce industrializzazione, che ha portato a cavallo del periodo napoleonico a valorizzare la posizione insulare ai margini dell’Europa e le basi coloniali in tutto il mondo (malgrado l’indipendenza degli Stati Uniti d’America, rimasti comunque a lungo terra di investimenti britannici) per impostare un nuovo sistema complessivo di dominio commerciale, industriale, finanziario e diplomatico (ed anche militare, per quanto necessario) imperniato sulla City, il libero scambio, la conversione aurea della moneta, il Parlamento e la collaborazione delle borghesie delle altre nazioni “liberali” (e bianche), con una molteplicità di imprese flessibili (ed un uso strumentale e temporaneo dei monopoli delle Compagnie),  surclassando infine i rivali olandesi (parziali finanziatori della stessa City);
-           Periodo americano, fondato sulla crescita di un enorme mercato interno, affacciato su due oceani, e sulla organizzazione di grandi compagnie (anche sul modello delle industrie tedesche, protette dallo Stato bismarckiano nella vana rincorsa verso la supremazia britannica), divenute poi transnazionali ed in grado quindi di inglobare i costi delle transazioni con l’estero; gli U.S.A., dapprima finanziati da Londra, ne divengono finanziatori per le immani spese britanniche nella 1^ guerra mondiale (e poi nella 2^) e subentrano alla Gran Bretagna nel ruolo di egemonia sul “mondo libero” in relazione alle vicende politico-militari delle suddette guerre mondiali (che li coinvolgono senza scalfirne il territorio), della decolonizzazione e della “guerra fredda” contro l’impero socialista-sovietico, in un quadro di liberismo parziale (mischiato al protezionismo) e di definitivo abbandono della convertibilità aurea della moneta.
  
In questa periodizzazione Arrighi, sulla scorta di fondamentali ricerche storiche di Fernand Braudel (anche e soprattutto sui criteri per la stessa “periodizzazione”) e di impulsi del suo collega in ricerche socio-economiche “africane” Immanuel Wallerstein e di Beverly Silver, nonché attingendo a numerosi studi di autori anglosassoni contemporanei (ma non trascurando i contributi più datati di Marx, Weber, Pirenne, Polanyi, Gramsci, ecc.) mette in evidenza:
-           come ad una fase “centrale” di massimo impiego diretto dei capitali nelle attività commerciali/produttive specifiche di ciascun ciclo di accumulazione, segua – a partire da una prima “crisi di avvertimento”, che ha a che fare con la “caduta tendenziale del saggio di profitto”, ovvero con la concorrenza eccessiva e la saturazione dei mercati maturi - una fase “autunnale” di massimo splendore “culturale” e però di turbolenza economica, che sfocia in una elevata volatilità dei capitali, una ricorrente “finanziarizzazione”, che di fatto finisce per favorire i poteri nascenti di nuovi soggetti e di nuovi paradigmi politico-economico-finanziari;
-           come la durata temporale dei cicli capitalistici in esame sia andata accorciandosi e come si siano sviluppate inclusioni ed antinomie nelle rispettive modalità organizzative (ad esempio i britannici sconfiggono gli olandesi copiandone solo in parte i modelli, ma recuperando anche alcune flessibilità tipiche dei genovesi, e così via);
-           quanto la crisi dell’espansione post-bellica maturata negli anni ’70, con lo shock petrolifero e la sconfitta in Vietnam, ed il successivo rilancio neo-liberista ed iper-finanziario dell’egemonia USA assomigli ai momenti “autunnali” dei precedenti cicli (ed in particolare alle fasi di crisi del secondo ottocento e successivo splendore apparente della “Belle époque”).
L’egemonia dei soggetti vincenti di ciascun periodo non implica evidentemente un dominio assoluto sulle altre realtà geo-politiche, che Arrighi legge come interdipendenti e connesse a vari livelli in un unico “sistema-mondo”, anche nei secoli in cui non era ancora così massicciamente evidente la “globalizzazione”; anzi è proprio la capacità di volgere in proprio favore l’insieme dei rapporti sia di subordinazione sia di scambio con le altre nazioni, comprese le potenze minori, che conferisce un ruolo egemone ai poli di rilievo mondiale.  
Arrighi non propone assolutamente considerazioni meccaniche e deterministiche per prevedere il futuro sulla base dell’esperienza passata, ma – limitandosi a formulare alcune ipotesi alternative sulle tendenze in atto - fornisce strumenti di interpretazione molto utili sul presente, con analisi molto dettagliate sui rapporti tra economia statunitense e “tigri asiatiche” (Giappone, Corea del Sud, Hong-Kong, Taiwan), purtroppo limitate sul versante della Cina e sulla valutazione della ulteriore crisi finanziaria iniziata nel 2008 a causa della prematura scomparsa dell’Autore nell’anno 2009, data a cui risale l’epilogo del testo, impostato nelle sue parti principali nel 1994.
Per motivi di spazio non riassumo qui le parti più aperte, problematiche e forse meno mature del testo di Arrighi, relative alla seconda metà del Novecento ed all’inizio di questo secolo, che ritengo comunque molto stimolanti, soprattutto laddove delinea un ruolo, forse subalterno e però per alcuni aspetti anche decisivo, ai conflitti di classe ed alla “resistenza” degli sfruttati, nonché dove intravvede tra le possibili variabili discriminanti per ulteriori cicli di egemonia globale (in alternativa ad un altrettanto possibile caos) la capacità di “internalizzare” nei cicli economici, dopo i costi di produzione, commercializzazione e finanziarizzazione (quanto avvenuto dal Cinquecento ad oggi), anche i costi di “riproduzione” non solo della forza-lavoro ma dell’insieme umano e ambientale del mondo intero.
Alcuni critici di sinistra hanno imputato ad Arrighi una sottovalutazione programmatica dei conflitti sociali, in coerenza ad una sua esperienza e visione “terzo-mondista” (ad esempio nei suoi precedenti studi sulla proletarizzazione senza sviluppo delle periferie del mondo capitalista ed in generale nell’assegnazione di un ruolo parziale all’industria ed ai rapporti di produzione).
A mio avviso lo sforzo di comprensione inter-disciplinare di Arrighi è già molto vasto ed una attenzione di altri autori sulle lotte sociali potrebbe integrare la sua lettura di questa storia di mezzo millennio di capitalismo, probabilmente senza smentirla.
Come afferma anche Mario Pianta nella prefazione al testo edito in Italia nel 2014, indicando anche altre significative direzioni di ulteriore ricerca a partire dalle acquisizioni ed intuizioni di Arrighi (il quale a sua volta dichiara la voluta parzialità di questo studio, finalizzato a individuare il nodo centrale dei cicli storici recenti, rispetto alla complessità dei fenomeni socio-economici da lui stesso esaminati in altre ricerche).
Così come tale lettura mi sembra conciliabile con altre ricerche da altri punti di vista parziali, da me recentemente apprezzate, quali quelle di Luciano Gallino2,8 e di Paolo Leon 3,8 (sul finanz-capitalismo di oggi, ma senza i precedenti storici pluri-secolari), di Thomas Piketty4,8 (sulla accumulazione del capitale dal Settecento, ma con poca attenzione alle dinamiche ed alle transazioni internazionali), di Paolo Prodi5,8 (sulla genesi dei mercati dal Medioevo, nella emancipazione dai poteri religioso e politico); mi sembra inoltre un utile correttivo ai contributi ancor più parziali (e da me meno apprezzati), ma comunque originali ed utili, di Graeber6,8 sul debito nei secoli e di Acemoglu&Robinson7,8 sui governi “estrattivi” e la benefiche distruzioni creatrici del capitalismo.   
Fonti:
1.    Giovanni Arrighi “IL LUNGO XX SECOLO – DENARO, POTERE E LE ORIGINI DEL NOSTRO TEMPO” – Il Saggiatore, Milano 2014
2.    Luciano Gallino  “FINANZCAPITALISMO” – Einaudi, Torino 2008
3.    Paolo Leon “IL CAPITALISMO E LO STATO” – Castelvecchi editore, Roma 2014
4.    Thomas Piketty “IL CAPITALE NEL XXI SECOLO” – Bompiani, Milano 2014
5.    Paolo Prodi - “SETTIMO NON RUBARE. Furto e mercato nella storia dell’Occidente”– Il Mulino 2009 e Paolo Prodi “IL TRAMONTO DELLA RIVOLUZIONE” - Il Mulino, Bologna 2015
6.    David Graeber  “DEBITO - I PRIMI 5000 ANNI” – Il Saggiatore, Milano 2012
7.    Daron Acemoglu e James A. Robinson - “PERCHE’ LE NAZIONI FALLISCONO - Alle origini di potenza, prosperità, e povertà” – Il Saggiatore, Milano 2014
8.    Recensioni sui precedenti testi in questo blog, in appositi POST e nella pagina ULTERIORI LETTURE, e/o su “UTOPIA21” https://www.universauser.it/utopia21.html , Quaderno n°2 RECENSIONI, sul numero 5 di settembre 2018 per Prodi/”7° Non rubare” e sul Quaderno n° 4, capitolo 3, per “Finanz-capitalismo” di Gallino



UTOPIA21 - NOVEMBRE 2018: INGLEHART E LA POST-MODERNITA’


Un classico della sociologia, costruito attraverso sistematiche campagne di rilevamento delle opinioni socio-culturali e politiche in diversi Paesi, nel passaggio attraverso lo sviluppo industriale e post-industriale, ritornato di attualità (ed aggiornato) alla luce delle attuali spinte populiste.  

Riassunto: il metodo di indagine, interviste ripetute di anno in anno in molti Paesi e riscontri socioeconomici, nel secondo Novecento; correlazioni di fondo tra stadio di sviluppo materiale e assunzioni di mentalità prima “moderne” (ad esempio socialdemocratiche) e poi post-moderne (ad esempio radical-verdi), in materia non solo di politica, ma di famiglia, diritti, lavoro, ecc.; vischiosità generazionali ed eccezioni geo-politiche; la controversa peculiarità del fattore religioso; oltre Marx e Weber: oltre la contrapposizione destra/sinistra? Anticipazioni sulla nuova ricerca pubblicata nel 2018, in aggiornamento rispetto a quella uscita nel 1996.
in corsivo i commenti personali del recensore

Si può considerare ormai un testo classico “La società postmoderna”1 di Ronald Inglehart, sociologo del Michigan (nato nel 1934) e coordinatore a livello internazionale delle campagne di indagini demoscopiche “World Values Surveys”, svolte ripetutamente con domande identiche (o quasi) in 43 paesi; un classico della sociologia politica che torna di attualità di fronte all’espansione dei populismi (vedi mio articolo in questo numero di “Utopia21”).

In particolare il testo descrive ed analizza gli esiti dei rilevamenti del 1981 e del 1990, affiancandoli ad alcuni risultati – per il solo campo dell’Europa comunitaria – del cosiddetto “Eurobarometro” e ad altre ricerche più puntuali.
Anche se le valutazioni di Inglehart e collaboratori sono intrecciate con la lettura di altri dati statistici “oggettivi” (ad esempio la crescita del PIL, la demografia, i rivolgimenti politico-istituzionali), la materia prima dello studio è costituita dalle “opinioni” della popolazione, rilevate tramite questionari a campione, ed in particolare dai valori medi a livello nazionale (e talora a livello locale) delle diverse risposte, confrontate con quelle delle altre nazioni e nel divenire temporale, in parte anche prima del 1981 e dopo il 1990.
Ma non dopo il 1996, data della ricerca, la quale pertanto ha potuto misurarsi solo con alcune recessioni cicliche del secondo ‘900 in singole aree geografiche, e non con il tema della grande recessione successiva al 2007: a ciò ha sopperito la recente pubblicazione (per ora in inglese)2 di un nuovo ciclo operativo della grande ricerca del Wordl Values Survey.

La fede di Inglehart e degli altri ricercatori nelle opinioni  e nelle “medie” risulta priva di qualsivoglia forma di dubbio, riserva o “istruzione per l’uso”: per esempio tra gli indicatori assunti figura la risposta a quesiti circa l’adesione degli intervistati ad organismi di volontariato, senza che vi sia alcun riscontro sul dato oggettivo delle iscrizioni effettive a tali  associazioni; in generale non si dà peso alla preoccupazione circa l’attendibilità delle risposte e circa le distorsioni tipiche che alcuni sondaggi comportano; le medie nazionali – ammette Inglehart - rischiano di rafforzare stereotipi e luoghi comuni, ma il rischio viene accettato senza specifici rimedi (quali ad esempio la rilevazione dell’ampiezza degli scostamenti a ventaglio nel campionamento dei dati in una nazione, rispetto alla media nazionale risultante): pare che la raffinatezza degli algoritmi di calcolo appaghi i ricercatori riguardo alla scientificità del loro lavoro, come spesso accade negli ambiti specialistici.
(Accettando il criterio delle medie nazionali, appare alquanto affascinante la ricomposizione della costellazione dei risultati nelle illustrazioni tabellari, ovvero nello spazio cartesiano delle matrici dei dati: le nazioni formano nuove arcipelaghi ed i continenti sperimentano nuove derive nei quadranti delle opinioni).

L’assunto di fondo della ricerca consiste nella individuazione di un percorso “tipico” (e quindi addirittura prevedibile, per il futuro delle nazioni ancora sotto-sviluppate) nel processo di sviluppo economico delle singole nazioni, evidenziando che – salvo eccezioni, spiegate soprattutto con l’incertezza determinata da rivolgimenti politico-istituzionali (ad esempio Sud Africa ed Est Europa) - :
-           nel passaggio dall’economia di sopravvivenza al decollo industriale si rilevano mutamenti nel sistema di pensiero, correlati al venir meno della preoccupazione basilare per la sussistenza, con l’abbandono delle ideologie tradizionali (in materia di religione, famiglia, autorità) e l’instaurazione di criteri “legal-razionali”, ma molto legati agli aspetti materiali dell’esistenza e con una prevalenza di componenti autoritario-burocratici;
-           con il successivo raggiungimento di livelli diffusi di benessere materiale e quindi con il calare della “utilità marginale” della maggior ricchezza, insorgono invece valori cosiddetti “post-materialisti” o postmoderni, come l’attenzione alla libertà individuale (propria e altrui), all’ambiente ed alla qualità della vita, e l’insofferenza verso lo statalismo e l’eccesso di burocrazia (ed anche verso i partiti di massa): tra questi valori si afferma una qualche  rivalutazione della famiglia e della religione, ma  non in termini di riproposizione della cultura tradizionale; altra cosa è la rinascita dei fondamentalismi religiosi, che Inglehart vede come reazioni marginali alla progressiva secolarizzazione, forti solo in contesti ancora privi di una effettiva modernizzazione (tesi discutibile, ed in effetti contrastata da altri e diversissimi autori, da Samuel P. Huntington a Ulrich Beck, e rivisitata dallo stesso Inglehart in una successiva ricerca del 2007, non tradotta in italiano);
-           i mutamenti nel sistema di opinioni non sono lineari, ma subentrano con i ricambi generazionali, perché l’assetto ideologico delle persone si “cristallizza” per lo più all’età della formazione e poi tende a conservarsi con limitati aggiornamenti.

Altro aspetto ampiamente indagato è la natura delle correlazioni tra cultura e sviluppo, con una interpretazione che tende a superare la contrapposizione tra Marx (la struttura determina la sovrastruttura) e Weber (lo sviluppo capitalistico come prodotto dell’etica calvinista (o protestante?)), rilevando invece le reciproche interferenze tra progresso materiale ed evoluzione culturale, soprattutto in termini di attenzione alle propensioni culturali, quali ad esempio la motivazione individuale al successo (contrastata spesso dalle culture religiose tradizionali) come premessa rilevante per lo sviluppo socio-economico.

Anche i rapporti tra le istituzioni democratiche ed il necessario substrato culturale di lungo periodo (ad esempio gli indicatori della fiducia nel prossimo e della partecipazione ad associazioni), in relazione con lo sviluppo economico, sono studiati come interrelazioni aperte e non univoche (ad esempio risulta difficile la democrazia senza benessere, mentre è possibile il progresso economico senza democrazia).

Mi sono sembrati molto interessanti (anche in relazione al testo di Marco Revelli “Finale di partito” 3), ma non del tutto convincenti, gli sviluppi della ricerca sui valori post-materialisti in campo politico, con le seguenti affermazioni principali:
-           l’apprezzamento per la democrazia sarebbe comunque in crescita, pur in presenza di disaffezione al voto ed alla vita dei grandi partiti, perché nel frattempo aumenta l’attivismo e la partecipazione ad iniziative di tipo diretto
-           l’ecologismo (con agli antipodi i localismi xenofobi di reazione alla modernità) si porrebbe come un nuovo asse discriminante, “ortogonale” alla tradizionale polarizzazione destra/sinistra.

L’analisi, riferita soprattutto all’Europa Occidentale (perché negli USA il bipartitismo formalmente tiene di più, anche per il sistema elettorale iper-maggioritario), coglie abbastanza bene la problematica specifica delle leadership dei partiti di sinistra, costretti a non correre troppo avanti, verso i giovani ed i nuovi ceti medi “post-materialisti” (problematiche di genere, ambientalismo, democrazia diretta), per il rischio di perdere i contatti con l’elettorato tradizionale dei lavoratori manuali più anziani, attratto anche dai populismi xenofobi.

Tuttavia mi sembra che la lettura di Inglehart sulla storia della sinistra europea sia troppo schematica, per esempio per l’accento da lui posto sulla tematica della “proprietà pubblica di mezzi di produzione”, che in realtà si è estinta abbastanza presto nelle sinistre europee, durante i primi decenni post-bellici, e per la difficoltà a spiegare come comunque il “quadrante” tra sinistra e nuovo polo “post-materialista” sia assai più fecondamente frequentato (vedi quanto meno in Germania e Francia) del contiguo quadrante tra destra e nuovo polo (forse l’asse non è così “ortogonale”?).
Peculiare l’errore storico, a pag.118, circa i post-comunisti italiani: Inglehart attribuisce il passaggio dalla sconfitta del 1994 al successo del 1996 ad un mutamento programmatico del PdS, mentre a mio avviso – a parità di evoluzione programmatica - vi fu soprattutto la formazione di un sistema di alleanze (in verità assai fragile) più consono alla legge elettorale maggioritaria, in una fase di temporaneo indebolimento dei legami Lega/Berlusconi sul fronte di destra.

Di specifico interesse mi è parsa, inoltre, la digressione iniziale sulla compresenza e divergenza tra il fenomeno effettivo della “post-modernità” (vedi quanto sopra riassunto come “post-materialismo”) e le ideologie dei pensatori post-moderni – Lyotard, Derrida -  che Inglehart espone nel cap. I, mostrando di non ritenerli effettivamente rappresentativi della realtà in esame.

Riguardo alle riflessioni cui è giunto Inglehart attraverso il nuovo ciclo di interviste ed a fronte delle recenti svolte politiche, improntate al “populismo”, penso che sia utile riprodurre di seguito alcune risposte dello stesso Inglehart ad una recente intervista curata da Giancarlo Bosetti 4:
«Il sentimento che la sopravvivenza propria e della propria prole sia diventata insicura conduce a rafforzare la solidarietà etnocentrica contro gli outsider e la solidarietà interna a sostegno di leader autoritari. Per la maggior parte della propria esistenza le condizioni di scarsità estrema hanno spinto a serrare i ranghi nella battaglia per sopravvivere. L’evoluzione ha sviluppato un "riflesso autoritario" per il quale la insicurezza innesca il sostegno a leader forti, rifiuto degli altri, rigido conformismo. E all’opposto alti livelli di sicurezza aprono spazi alla libera scelta individuale e a maggiore apertura verso outsider e nuove idee».
«Oggi è in corso un’autentica sfida per la democrazia, che si è finora diffusa a un gran numero di paesi. Le condizioni di insicurezza portano la gente a desiderare l’uomo forte al potere che la protegga da stranieri pericolosi, ma questa tendenza xenofobico-autoritaria non è un trend globale, riguarda le società industriali avanzate, l’Europa e il Nordamerica. È qui dove è più forte. Non riguarda la Cina, che non conosce una grande ondata di xenofobia, e neppure l’India, che ha seri problemi ma diversi».

«È vero che non abbiamo la Grande Depressione, ma la cosa determinante non è il tasso di crescita, ma il fatto che esso stia raggiungendo un punto in cui non è più vero che ciascuno possa assumere la sopravvivenza come un dato garantito, mentre la crescente prosperità è quel che sta plasmando Cina e India. Paesi come l’Italia, la Svezia, la Germania e gli Stati Uniti hanno bisogno di una soluzione politica del loro problema, di qualcosa paragonabile alla drastica svolta degli anni Trenta quando grandi risorse sono state riallocate per creare posti di lavoro sicuri».

«L’ineguaglianza geografica è il maggiore problema di lungo termine. Paesi ricchi e paesi poveri vicini e con comunicazioni molto più facili di un tempo. Il risultato è che abbiamo livelli di emigrazione senza precedenti. Gli Stati Uniti hanno ora più gente che parla spagnolo della stessa Spagna.
Qualcosa che cambia la faccia degli Stati Uniti. Nessuna società è capace di reggere una immigrazione illimitata. La Svezia, per esempio, che ha una lunga e solida tradizione liberale e tollerante, ora con il 18% di immigrati etnicamente diversi ha dato luogo a un movimento xenofobo. Così in Danimarca, Norvegia e Olanda. Il punto è che abbiamo una capacità limitata di assorbire immigrazione prima di scatenare una reazione xenofoba che può essere molto dannosa e distruttiva».

Fonti:
1.    Ronald Inglehart “LA SOCIETÀ POSTMODERNA -  MUTAMENTO, IDEOLOGIE E VALORI IN 43 PAESI” - Roma, Editori Riuniti 1998
2.    Ronald Inglehart “CULTURAL EVOLUTION. PEOPLE’S MOTIVATIONS ARE CHANGING AND RESHAPING THE WORLD” - Cambridge University Press 2018
3.    Marco Revelli “FINALE DI PARTITO” – Einaudi, Torino 2013 da me recensito sul blog “relativamente, sì” www.aldomarcovecchi.blogspot.it
4.    Giancarlo Bosetti “RONALD INGLEHART - LA TEORIA DARWINIANA DI OGNI POPULISMO" su “La Repubblica” 08-11-2018 e su www.reset.it


UTOPIA21 - NOVEMBRE 2018: CONVERSAZIONE-INTERVISTA CON MASSIMO FOLADOR SULLE IMPRESE “RESPONSABILI” E LA REGOLA BENEDETTINA


CONVERSAZIONE-INTERVISTA CON MASSIMO FOLADOR SULLE IMPRESE “RESPONSABILI” E LA REGOLA BENEDETTINA
di Anna Maria Vailati e Aldo Vecchi

Nel libro “Storie di ordinaria economia“,(GueriniNext editore, ottobre 2017)  il professor Folador raccoglie una serie di “racconti”, già pubblicati singolarmente sul quotidiano “L’Avvenire”, riferiti ad altrettanti dialoghi con 24 tra imprenditori, manager, dirigenti, di aziende “profit e no  profit”, che  - nelle ombre della crisi -  hanno sviluppato esperienze positive su diversi fronti della innovazione, non solo tecnologica e organizzativa, ma soprattutto motivazionale e relazionale. Il testo è completato da una introduzione di Marco Girardo (responsabile delle pagine economiche del Quotidiano), che inquadra il viaggio dell’Autore nella ricerca di una “economia civile” (riallacciandosi ad un filone culturale italiano di economia attenta al sociale, dall’illuminismo a Luigi Einaudi) e da due contributi finali dei padri benedettini Ubaldo Cortoni e Cassian Folsom (priore a Norcia) dai significativi titoli “Norcia e il Capitale Spirituale” e “La Persona, l’Impresa e il Bene Comune”.
La ricerca del prof. Folador tra le imprese è nel frattempo ripresa, e viene pubblicata settimanalmente su “L’Avvenire” dall’ottobre del 2018.

Massimo Folador è fondatore e amministratore di Askesis srl (www.askesis.eu), società che si occupa di processi di cambiamento culturale e organizzativo in alcune tra le più importanti realtà imprenditoriali italiane, sia del mondo profit che del mondo no profit. E’ docente di business ethics presso la LIUC (Università Carlo Cattaneo, di Castellanza) e svolge attività di formazione e consulenza per la Business school della stessa Università. Ha pubblicato tra l’altro “L’organizzazione perfetta” (2006), “Il lavoro e la Regola” (2008), “Un’impresa possibile” (2014), tutti per GueriniNext edizioni. Dal 2006 è presidente dell’associazione “Verso il cenobio” (www.versoilcenobio.it) la cui finalità è far conoscere in ambito aziendale, e non solo, l’attualità della regola di San Benedetto.


Riassunto:
la casistica delle imprese “responsabili” e la ricerca di un filo conduttore: capitale umano, capitale relazionale, capitale fiduciario;
l’imprenditorialità specifica del terzo settore, e la crisi del welfare pubblico;
le contraddizioni delle imprese “responsabili” di alta gamma ed il rischio del “green washing”;
governance e partecipazione: prevalenza dei cambiamenti indotti dall’alto;
i limiti di riproducibilità delle esperienze più alte rispetto al ruolo dei fondatori, da Don Bosco ad Adriano Olivetti;
il modello benedettino: ricerca della consapevolezza di sé e della relazione con la comunità; gerarchia moderata e valorizzazione del lavoro; peculiarità e limiti dell’esperienza storica;
le modalità di diffusione delle esperienze “responsabili”  e gli apporti istituzionali e legislativi.


AMV) segnala un intervento di Anna Maria Vailati, AV) di Aldo Vecchi e MF) del professor Massimo Folador


AV) Con riferimento alla Sua esperienza di formatore, orientato alla valorizzazione, per l’appunto “umana”, delle cosiddette “risorse umane”, le esperienze aziendali da Lei narrate in “Storie di ordinaria economia” spaziano, dal concreto delle singole realtà, a problematiche assai vaste e diversificate, quali il welfare aziendale, il ricambio generazionale ed i rapporti proprietà/dirigenti, la qualità integrale dei processi produttivi, l’internazionalizzazione, le reti collaborative esterne, le sinergie con il territorio….: si può rintracciare in questo insieme complesso un filo conduttore?

MF)  E’ la domanda che mi sono posto io quando ho scritto la postfazione. Mentre scrivevo le storie ho approcciato due ricerche, una dell’Università di Bergamo e l’altra della Cattolica che approdavano a considerazioni analoghe sulle imprese dette innovative o generative.  Sostanzialmente il filo conduttore è in primo luogo questa attenzione che alcuni imprenditori (più che non i manager) danno alla valorizzazione delle persone, del  capitale umano; e in secondo luogo è una tendenza a collaborare, che è innata, non è forse strategica, più a macchia di leopardo che non sistemica: questi imprenditori intuiscono che c’è un capitale relazionale; il terzo punto, che io chiamavo capitale fiduciario, è la percezione che l’impresa sia un sistema complesso, che include il legame con il territorio, non inteso come ambiente fisico, ma la comunità, il Comune, la rete dei fornitori…. Molti di loro vivono questo tema di un’impresa aperta, da cui dipende il valore dell’impresa stessa: è proprio un passaggio importante, è come estendere il limite dell’impresa molto all’esterno dei cancelli.

AV) Quindi l’impresa non si ferma ai suoi confini giuridici

MF) Può essere utile richiamare la mia prima esperienza di lavoro, che fu nell’editoria alla Fabbri Bompiani Sonzogno: nell’86 l’azienda editoriale aveva all’interno quasi tutto il ciclo produttivo, con poche lavorazioni esterne; negli anni successivi si è verificata l’esternalizzazione, prima della stampa, e poi di altri funzioni, ma alla fine il ricavo era quello di prima, ma dato dall’apporto di attori diversi. Questo tipo di processi sta diventando un po’ di più una cultura specifica, dove l’imprenditore ha chiaro che il valore che riuscirà a  produrre dipende da un sistema di relazioni.
Però è difficile per una impresa curare nell’insieme i tre aspetti, i tre “capitali” di cui prima parlavo, in modo sistemico e strategico: c’è chi cura l’uno, chi cura l’altro, chi un pezzo dell’uno o dell’altro e ci sono esperienze che si intrecciano…
 
AV) In taluni casi da Lei presentati la “socialità” delle imprese è intrinseca alla stessa “ragione sociale”, o perché operanti per i servizi di pubblica utilità o perché direttamente strutturate nel cosiddetto ”terzo settore”, cioè senza fini di lucro; mi sembra  interessante osservare come anche in queste realtà (necessariamente?) si ripropongono, con alcune peculiarità, le tipiche dinamiche “imprenditoriali”

MF) Anche questo è un tema – non nuovo – ma che oggi viene finalmente affrontato con il giusto rilievo. Alcune Cooperative - ci sono esempi anche nel libro – sono nate attorno a persone con esperienze peculiari post 68, servizio civile, obiezione di coscienza, grande impegno sociale, che  hanno retto per 20-30 anni; poi si è arrivati ad una svolta ed il volontariato ha preso altre forme:  c’è la parte di volontariato che ha anche necessità di riscontri economici, c’è il rapporto con la Regione che si è complicato per la necessità di certificare gli accreditamenti, occorrono precise competenze (la qualità c’era anche prima, ma ora occorre il rispetto di standard pre-definiti), talora sono venute meno alcune donazioni e gli Enti pubblici tendono a  pagare di meno i servizi. Cosicché molte realtà si sono trovate con risorse fortemente diminuite. E allora si manifesta lento questo tentativo di dare forme più organizzate a queste cooperative che prima erano molto più spontanee; e c’è anche un terzo settore che cerca di diventare molto più impresa, al limite del profit, pur sempre all’interno di una ispirazione sociale; mentre alcune imprese private scoprono una dimensione sociale…

AV) Le realtà del “terzo settore” da Lei considerate come si pongono rispetto alla diffusa tendenza alla contrazione del settore pubblico e alla esternalizzazione di servizi per prevalenti obiettivi di taglio dei costi (spesso a carico delle retribuzioni)?

MF) Il problema è diffuso ed infatti ci sono cooperative che ormai stanno saltando; o rimangono molto piccole, con la sede nell’appartamento del fondatore, per dire, o viceversa devono dotarsi di strutture, di un minimo di capitale, di competenze. Spesso si tratta di  cooperative che nascono per dare lavoro a persone in condizioni di disagio, per cui hanno ereditato funzioni che i Comuni non potevano più fare, di minore valenza, e così  hanno conti economici molto risicati. Oppure addirittura devono far ricorso a persone ricadenti in categorie protette, per poter abbassare i costi. In questo modo però si recupera la produttività delle persone che il mercato scarterebbe.

AV) Queste cooperative fanno il contrario delle imprese che allontanano le persone disabili, monetizzandone l’onere e appaltandone la gestione al terzo settore.

MF) E’ una sorta di economia border-line, che si gioca tra Enti Pubblici, imprese e cooperative, sul filo del costo del lavoro.
Poche cooperative stanno facendo invece un salto di qualità. Per anni il settore pubblico ha appaltato alle cooperative lavori di scarsa qualità. Ma oggi lo stesso settore pubblico è in crisi di prospettive e di reperimento di risorse economiche. Alcune cooperative riescono a inserirsi in questo vuoto assumendo un ruolo progettuale, ponendosi come capofila o come suggeritori nella partecipazione a bandi europei, proponendo collaborazione a enti pubblici e ad imprese private (alle quali non fanno ombra).

AV) All’altro estremo della casistica, Le chiedo se alcune attenzioni sociali (verso i lavoratori e/o verso i fornitori e/o verso i clienti e/o verso il territorio e l’ambiente) siano sufficienti a rendere “etiche” le altre imprese, tipicamente fondate sul profitto e mirate a conquistare i mercati.
In particolare mi sembra significativo il caso delle imprese di Cucinelli (maglieria pregiata in cachemire), che risulta molto sensibile su tutti quei fronti, però inevitabilmente impone agli allevatori un determinato assetto produttivo e asseconda, o sollecita, tra i clienti, un tipo di consumi non propriamente “popolare”.
  
MF) Non è l’unico, forse è il caso più clamoroso. Tra l’altro Cucinelli ha un suo rapporto diretto con il monachesimo (padre Cassian è stato a lungo nel CdA dell’azienda). E’ comunque interessante come sa tenere i conti in ordine e nel contempo offrire condizioni di favore ai dipendenti come ai fornitori. Posizionandosi così in alto nel mercato sembrerebbe un modello poco replicabile. Invece è perseguito anche da altre imprese - di alcune ho parlato nel libro - con aspetti simili, pur in fasce di mercato un po’ inferiori, e con minori margini di redditività.
Mi ricorda l’esperienza dei “santi sociali”, come Don Bosco, che potevano riuscire perché erano anche manager. Per fare certe scelte non basta essere brave persone, ma bisogna saper fare impresa; e al tempo stesso non basta saper fare impresa, sennò tutti gli imprenditori sarebbero santi. Ci vuole un innesco tra queste due capacità. Penso tuttavia che tali scelte valgono solo se ci si pone in una prospettiva di medio-lungo periodo, il pensare a breve termine porta inevitabilmente ad altre scelte.

AV) Qualche anno fa siamo stati invitati, come architetti, a visitare una fabbrica di rubinetti di alta gamma, che vantava molti pregi ambientali e anche qualche attenzione sociale; mi chiedo (e Le chiedo) però se può essere “ecologico” fare “rubinetti d’oro” (oppure produrre la Ferrari).  Pochi giorni fa, guardando al TG la settimana della moda, vedevo l’assegnazione di premi per gli stilisti più sostenibili: ma può esserci una sostenibilità del lusso? E’ solo una campagna promozionale oppure finalmente queste tematiche raggiungono anche quel mondo, in modo forse un po’ distorto? Insomma c’è del buono in queste iniziative?

AMV) Però tu puoi fare produzione di lusso sfruttando i bambini in India oppure puoi fare la stessa cosa rispettando tutte le norme; forse è meglio “comunque”

MF) Sì, c’è questo “comunque”. Due o tre anni fa fecero una serata a Report con Cucinelli e Moncler; erano due aziende fashion entrate in borsa lo stesso anno: di Cucinelli hanno raccontato di una impresa che fa alta moda secondo certi criteri; Moncler, pur guadagnando meno, risultava spinta alla de-localizzazione senza guardare troppo per il sottile. Un'altra cosa che mi viene in mente a proposito sono due spot che ho visto al cinema, prima di un film, due spot di marchi molto noti, tutte imperniate sull’Africa, sul Sociale, sulla sostenibilità, ma in maniera molto pubblicitaria, su cui ti viene subito il dubbio che sia una finzione, che sia solo quello che viene chiamato ”green washing”. D’altra parte ti chiedi, se ne parlano tanto, qualcosa avranno pur fatto. In questo campo è difficile capire dove inizia o finisce il bene rispetto al male.

AV) Nelle imprese profit da Lei raccontate, la responsabilità sociale nasce solo dall’imprenditore (top down) o anche da spinte etiche dal basso (bottom up)? Si riscontrano modalità tipiche di modificazione negli schemi di governance aziendale?

MF) Negli ultimi tempi su questo aspetto mi ritrovo un po’ pessimista. Ne parlavamo ad un convegno all’abbazia di Viboldone, con la Badessa, madre Ignazia, che è di vista molto acuta: l’uomo è sì plasmabile, si diceva, ma se si plasma nell’insicurezza di oggi, si determina allineamento e appiattimento. Quando c’è cambiamento per iniziativa dai vertici aziendali, che perdura nel tempo, allora c’è coinvolgimento. Invece oggi vedo pochi processi di cambiamento dal basso. Nelle situazioni confuse e insicure le persone fanno passi indietro.
                                                                                                                     
AV) Anche quando c’è partecipazione, allora, è piuttosto passiva?

MF) Ho l’impressione che se non viene indotta dai vertici con energia, la partecipazione sia “poco partecipata”. Così non era anni addietro, quando si riscontrava molta più vivacità anche dal basso.

AMV) C’è anche una questione dei ruoli nella vita individuale e nella vita sociale, il lavoro si sta svalorizzando?

MF) Certamente. E non è questione di giovani o anziani, io smitizzerei questa separazione. Se c’è un po’ di attenzione ai temi sociali e ambientali, di contro c’è però molta pigrizia

AMV) Vorrei chiedere se i lavoratori delle imprese dove vi sono maggiori sensibilità positive si rendono conto della differenza rispetto alle altre situazioni più ordinarie?

MF) Anche questo è un tema grande. C’è anche poca mobilità e quindi ci sono limiti alla consapevolezza. Ad esempio in una impresa assicurativa con cui ho lavorato (e le assicurazioni sono un settore dove ancora c’è un agio economico),  a fronte di importanti innovazioni, ci sono state resistenze e polemiche, che fanno venir voglia di dire “ma provate ad andare  a lavorare nell’azienda accanto…” .
E’ questo che un po’ mi spiace nell’umano di oggi, ma anche di ieri: è che teniamo un orizzonte limitato alla propria area di benessere.

AV) Il caso delle cooperative agro-alimentari anti-mafiose della Locride, che resistono agli attacchi vandalici mettendo in conto i costi di periodiche ricostruzioni di attrezzature danneggiate dalle cosche (quasi “porgessero l’altra guancia”) e però vantano bilanci in attivo, coniugando solidarietà sociale e qualità ecologica (e che merita di essere raccontato, come nel Suo libro, ben oltre questa nostra rivista) può divenire un modello ampliabile e ripetibile (con quali strumenti e alleati: lo Stato, associazioni come Libera…?) oppure costituisce una esperienza unica e fortunata?

MF) E’ l’esperienza più importante del libro. Nasce da una intuizione di monsignor Bregantini, un pensiero cristiano e ad un tempo socialista. Per realizzarla è stata incaricata la persona giusta, con incredibile forza morale (ha famiglia, e va in giro senza scorta) e bravo a fare impresa, capace di fare molta comunicazione già sui primi piccoli effetti, e di far crescere la cosa in una spirale virtuosa, che li ha portati ad essere molto visibili, ad esempio nei programmi della RAI, ad avere l’Ambrogino d’oro.
E questo li protegge in parte anche dalla Ndrangheta, che – diversamente dalla mafia – non cerca notorietà dannose.
Oggi raggruppano 200 persone, sono 5 cooperative ed un consorzio, hanno una sede, hanno credito dalle banche, collaborano con Libera e altre realtà, in una rete articolata, ben congegnata: ad esempio hanno una linea produttiva per Yamamay, impresa che figura nel libro e che io gli ho fatto conoscere. Le istituzioni li hanno accolti, ma continuano a vederli come dei tipi strani.
C’è il rischio che la sorte dell’iniziativa resti legata alla vita del fondatore. E’ un modello che si fonda molto sul “carisma”, e il carisma personale (anche nelle imprese), non sempre è replicabile…
C’è anche un problema di carenze teoriche.
Uno degli imprenditori “responsabili” con cui collaboro, ad esempio, vorrebbe finalmente fare un libro. I miei sono solo racconti, manca ancora una saggistica con analisi approfondite su queste esperienze, difficilmente diventano modelli ripetibili, perché non sono ancora ben indagati, proprio sotto il profilo economico.

AV) Forse manca anche una domanda organizzata per sorreggere studi analitici su questo tipo di economia.

MF) Si, certo. Mi viene da pensare ancora ai Santi Sociali, che erano persone di grandi ideali, ma anche capaci di organizzare. Don Bosco pare che fosse un vero imprenditore. E le loro intraprese spesso sono sopravvissute ai fondatori, oltre il carisma personale.

AMV) Ma dietro c’era la Chiesa e anche la Chiesa è una organizzazione sopravvissuta al suo fondatore…

MF) La Chiesa infine li ha riconosciuti. Ed era anche un periodo particolare, alla fine dell’Ottocento e all’inizio del Novecento, in presenza di un forte fermento sociale.

AMV) Un periodo in cui per la Chiesa occorreva contrapporsi ai movimenti socialisti.

MF) Invece il caso di Olivetti ha visto il crollo del suo disegno dopo la sua morte, che purtroppo è avvenuta in un momento delicato, al massimo storico dell’indebitamento della ditta. Le banche, la famiglia, i nuovi manager hanno distrutto quella prospettiva (facendolo passare per un visionario)

AMV) Probabilmente non solo per come intendeva l’impresa, ma anche per quello che produceva, e che avrebbe affidato all’Italia un ruolo di avanguardia nell’informatica, disturbando l’America?

MF) Ci sono voluti trent’anni per ristabilire una corretta ri-lettura di Olivetti

AV) Al termine del Suo libro, è inserito un contributo del padre benedettino Cassian Folsom (O.S.B. del Monastero di Norcia), che ci ricollega alla rivalutazione della regola di San Benedetto, da Lei proposta (in altri Suoi testi e nelle Sue attività di formazione; ma ciò avviene anche in altri ambiti benedettini, come recentemente raccontato su “la Repubblica” da Paolo Rumiz) come valido riferimento alternativo per la gestione dei rapporti umani all’interno delle aziende; tale impostazione è affascinante, tuttavia leggendo gli esempi riportati da padre Folsom mi pongo il dubbio se tali casi estremi non siano eccessivamente paradossali per la riflessione dei comuni mortali nota A : si tratta di un percorso verso la “santità”, e quindi necessariamente elitario, oppure di una profezia (o utopia) accessibile a tutti?

MF) Ne parlavo oggi con un imprenditore ligure. Le imprese sono immerse in una complessità sociale, politica, che è esogena, e che si protrarrà nei prossimi anni, ma cui le imprese devono comunque rispondere.
E la chiave sono le persone. Solo se le persone reggono la complessità, l’impresa risponde in modo adeguato: la persona che si muove in relazione alla comunità, viene prima delle strategie, che oggi nessuno sa quali possano essere.
Per questo faccio riferimento alla figura del monaco, che sceglie di stare nell’ambito del convento e metà delle cose che fa le fa per diventare più consapevole di sé e del rapporto tra sé e il mondo, avvalendosi di questo sguardo diverso. E’ anche il pensiero del saggio cinese Lao-Tse: se il nemico è sovrastante devi concentrare le tue forze.
D’altronde l’elenco delle competenze che emergeranno nel futuro, e che cambieranno radicalmente rispetto al passato, secondo il rapporto del World Economic Forum, sono tutte quelle incentrate sulla persona: la relazione, la capacità di concentrazione, il problem solving.
Nel contempo si conviene che è la persona che dovrebbe rafforzarsi nella comunità; gli uffici, le aziende, i Comuni devono diventare più “comunità”: che è l’altro uovo di Colombo del monachesimo, e che è quello che dice Cassian.
Credo che loro, i benedettini, abbiano evidenziato due cose, che sono semplici, ma che nei momenti di difficoltà permettono alle persone ed ai convivi delle persone di reggere l’urto.
In fasi difficili si sono addirittura chiusi dentro, però hanno salvaguardato valori generali. Noi arriviamo a questo più deboli personalmente e con poca voglia di relazionarci

AMV) Siamo di fronte a modificazioni profonde e inquietanti…

MF) Ed è preoccupante la banalità dilagante, che riduce il linguaggio ad “I like”, al ritrovarsi tra simili, facendo venir meno il confronto.
Il monachesimo in sostanza dice: cercati, che qualcosa in fondo troverai, meglio se con l’aiuto di una Parola terza (così è per loro); e cercati una comunità.

AV) Il messaggio benedettino di ascolto e cura delle persone risulta valido se diretto ai capi e agli apprendisti capi od anche per i subalterni (i quali sono però costretti comunque a subire “a-priori” il potere gerarchico del ”priore”)?

MF) A quell’incontro con la Badessa di Viboldone, si esaminava la Superbia (e gli ultimi 3 vizi capitali) e si evidenziava che nella Regola di Benedetto la figura dell’abate compare solo al cap. 2 e poi in uno degli ultimi, nella versione rielaborata dopo 30 anni di esperienza.
Benedetto rivede e arricchisce il ruolo dell’Abate come buon padre di famiglia, fondato sul  buon senso: fa scendere ancora la gerarchia in favore della relazione, e lì ci sarebbe ancora molto da indagare.
Nella comunità monastica comunque c’è una gerarchia che è molto moderata da un’idea di relazione e di comunità. Quella che aveva in mente Olivetti, quando parlava di comunità organizzata.
Mentre nell’azienda molto dipende dalle persone che ci sono al vertice: ci sono aziende che sono fortemente gerarchizzate, e dove comunque la gerarchia vince e altre poco organizzate a forte relazionalità (e che poi talora si incasinano).
L’ideale è un equilibrio tra una ossatura gerarchica che comunque è necessaria ed una diffusa capacità di relazione. Il nodo sono i capi, che danno l’impronta, mentre i subalterni per lo più li seguono.

AV) La vostra didattica pertanto è rivolta ai capi. Andare a insegnare ai subalterni che il capo deve ascoltarli appare contradditorio?

MF) Sì, è rivolta soprattutto ai capi Le neuroscienze ce lo stanno dicendo, che l’uomo ha bisogno di partecipazione, si nutre di relazione (d’altronde lo diceva anche Aristotele, e poi Maslow). Dove una realtà genera relazione, poi l’uomo risponde. Se attivi la relazione, è un modo che tu hai affinché la persona cominci a cambiare velocità. Devi attivarla continuativamente in modo fiduciario. E chi può attivarla è il capo, il quadro intermedio

AV) Questa considerazione è anche un caposaldo culturale per contrapporsi all’isolamento dei fruitori di Internet

MF) Mi diceva un amico, padre di ragazzi adolescenti, che l’oratorio dove li forza ad andare ha organizzato prima un week end e poi una settimana in montagna lasciando a casa i telefonini. C’è stata dapprima una bassissima adesione, al week end, ma quelli che sono tornati hanno cominciato a dire che è stata un’esperienza bellissima, e alla successiva settimana c’è stata un’adesione enorme, scoprendo che stare assieme facendo cose è molto meglio. Se abitui le persone alla relazione, poi si accorgono che è fonte di energia, che dentro c’è un sacco di roba buona. 

AV) La riproposizione, in un moderno contesto aziendale, di alcuni canoni della regola benedettina si fonda sulla qualità intrinseca del messaggio oppure anche sulla considerazione dei successi storici/aziendali dei monasteri benedettini (pur trattandosi comunque di esperienze minoritarie, ed in calo dopo l’Alto Medio Evo)?

MF) La cosa buffa, che ho toccato con mano, è che ai monaci dell’economia non importa nulla. Hanno condotto imprese senza documentare gli aspetti economici (diversamente dai francescani). Se ora qualche padre benedettino, come Grun in Germania, incrocia il monachesimo e l’economia è per esperienze particolari. La Regola ha detto essenzialmente “tu vuoi essere felice, ti propongo una comunità”, poi se di conseguenza c’è anche da lavorare “non farlo come disgrazia, fallo perché ha senso”. Poi da lì si è sviluppata una storia inusuale, ma forse anche inconsapevole, combinando lavoro e competenze, in autosufficienza e facendo meglio dentro i monasteri che fuori, nei tempi più bui.

AV) Forse anche perché i secoli di maggior fulgore dei benedettini sono periodi con scarsa circolazione di moneta; però il concetto di autosufficienza e di autonomia del singolo monastero viene poi contraddetto dal grande disegno dei cistercensi, che si propagano da un monastero all’altro?

MF) Prima c’era l’esperienza di Cluny, una grande struttura accentrata, fino a 800 monaci, più l’indotto; per i cistercensi invece valeva il modulo di 12 monaci, quando c’era più afflusso si andava a fondare un nuovo monastero.

AMV) Può ricordare l’esperienza delle città dell’antica Grecia, che avevano, per motivi di scarsità delle risorse agricole (ma anche per consentire il funzionamento di istituzioni assembleari), una sorta di numero chiuso, superato il quale i cadetti dovevano partire per fondare una colonia.

MF) E’ un criterio che ho incontrato anche nella crescita della Cooperativa di Iseo, di cui parlo nel libro, che ha una struttura fondata su micro-cellule e da lì la generazione di nuove unità, abbinando crescita e stabilità; può essere utile nel dibattito che si è riaperto su grande o piccola impresa.

AV) L’autonomia delle cellule ricorda anche la struttura delle organizzazioni clandestine…

MF) L’analogia delle forme organizzative è interessante

AMV) Anche la Chiesa cristiana delle origini talora doveva seguire logiche di clandestinità… 

AV) Tornando ai conventi e all’economia, il caso dei francescani è stato diverso, perché sorti più tardi e dentro le città? (secondo Paolo Prodi è stato Bernardino da Siena a sdoganare il tasso di interesse rispetto al peccato di usura, affrontando il nocciolo del capitalismo nascente)

MF) Certamente i francescani hanno sempre fatto economia, dal tardo medio Evo, con gli strumenti dell’epoca. I sermoni di San Bernardino sono dei trattati di economia. E anche oggi dai francescani emergono importanti contributi…Anche i benedettini di Dumenza, che la vostra redazione di Utopia21 conosce, e che stanno sviluppando importanti riflessioni sull’oggi, con cui collaboro, hanno chiamato alcuni francescani, che non sono tecnicamente economisti, ma capiscono le trasformazioni

AV) Non è paradossale assumere il modello monastico benedettino per la formazione del capitale umano, in quanto fondato anche sulla castità e quindi sulla non-riproduzione delle stesse forze di lavoro?
Ci sono queste comunità che perseguono la felicità, l’equilibrio con il territorio, con un influsso benefico sulla popolazione circostante, si offrono come luogo di rifugio, ma non si pongono il problema di riprodursi, se non per l’adesione di altri adulti

MF) San Benedetto eredita questa impostazione, ma in effetti nella Regola non se ne occupa, la dà per scontata

AMV) Probabilmente pesano i precedenti, la concezione del monachesimo orientale, con il purismo degli eletti ed il rifiuto della riproduzione, il rapporto tra la castità e l’Essere superiore, fino quasi ad un rifiuto della vita terrena, in un processo di rinuncia e di ascesi; il monachesimo benedettino nasce con una Chiesa cristiana già strutturata, che include questi valori. E agli albori del cristianesimo si intrecciano con l’attesa escatologica del ritorno del Messia. Le prime comunità di tipo monastico nei territori dell’impero si insediano in ville patrizie rustiche (quando il cristianesimo raggiunge il patriziato), dove si pratica la fratellanza, e che spesso hanno continuità di luogo con i successivi monasteri veri e propri.
D’altronde la castità è presente in altre religioni, ad esempio nell’induismo spesso persone che hanno condotto una normale vita familiare, ad una certa età passano ad una condotta quasi eremitica, rinunciando tra l’altro al sesso (e quindi alla riproduzione della vita), come se fossero un impedimento alla spiritualità.

AV) Però nel monachesimo occidentale, da Benedetto a padre Bianchi della comunità di Bose, c’è anche un approccio gioioso alla vita, ad esempio al cibo

MF) Subentra anche un processo di sublimazione, ad esempio dal sesso al cibo. Ci stiamo occupando del monachesimo antico, prima di Benedetto, in questo ciclo di incontri sui “vizi capitali”, approfondendo il pensiero dei monaci cristiani orientali; un pensiero che si propone la persona come luogo di energia, che si sublima verso le virtù o viceversa si deteriora se se ne fa un uso cattivo; questa energia è la sessualità, che può andare verso la lussuria o viceversa. C’è un contraltare sempre: l’ira può diventare il coraggio.
La creatività e il sesso diventano una cosa delicata e complessa da capire; la repressione può generare disagio oppure sublimarsi in bene per gli altri, in creatività artistica. 

AMV) E’ la storia della Chiesa, la svolta rispetto al mondo greco-romano, che porta a questa impostazione, a cui il monachesimo deve attenersi

AV) Rispetto al monachesimo orientale degli stiliti e degli eremiti, con Benedetto si profila come un sorta di “monachesimo deviato”, che abbandona le finalità ascetiche perché non esclude la ricerca di una felicità terrena, ma in una dimensione orizzontale e comunitaria, proponendo un benessere possibile, ma attraverso la rinuncia all’egotismo?
  
MF) Questo è un passaggio importante, anche per l’oggi, come i monaci affrontano la “filautia”. La Regola – come anche il Cristianesimo – è improntata alla rinuncia dell’egotismo in favore di un sano egoismo che però incontra la Relazione

AV) Ora tutto questo discorso del non-riprodursi della comunità forse funziona così, che avevano comunque molti adepti perché erano un luogo di rifugio, la “materia prima” arrivava perché erano in qualche modo gli “scarti” del resto della società.

AMV) Era una società in cui l’idea del peccato era una cosa pazzesca. La gente viveva a contatto con questa paura dell’Inferno, dei Mostri (ne vediamo le immagini). Anche se il Medioevo non è in realtà solo ”secoli bui”. C’era di che fuggire. Penso soprattutto ai monasteri femminili, queste povere ragazze sfuggivano a matrimoni spaventosi e trovavano l’unico luogo in cui le donne potevano avere un ruolo, come testimoniano molte grandi Badesse…

AV) Era una forma di prevenzione dal femminicidio? Anche per gli uomini la protezione delle mura del convento poteva consentire di non andare in guerra, di non assoggettarsi ai signori.

MF) Ma è vero soprattutto per le donne, potevano trovare un ruolo e paradossalmente anche una forma di libertà, nel solo rispetto della Regola.
La Badessa di Viboldone mi spiegava come l’obbedienza alla Regola è la massima libertà perché la vera libertà sta nel seguire le cose che producono felicità. In realtà tutti obbediamo a qualche cosa, se disobbediamo e perché obbediamo a qualcos’altro, ma ci sembra di essere liberi. L’accettazione di una regola un po’ costrittiva ci appare difficile. Ma loro dicono “noi crediamo che in questa regola ci sia del buono, per cui liberamente scegliamo di seguirla, e poi effettivamente pian piano ci accorgiamo di diventare un poco migliori”.

AMV) Il periodo tardoantico è pervaso da grandi paure: impero d’occidente caduto, regni che si scontrano; la Regola è semplice, fatta di poche cose. Seguire la Regola è diverso che seguire l’autorità del vescovo, che può essere anche arbitraria e diventa spesso potere temporale

Risultati immagini per abbazia di viboldone

Figura 6 – Un chiostro cistercense (Morimondo)

MF) All’inizio non capivo, poi, approfondendo, Benedetto aveva chiaro l’umano, aveva alle spalle una esperienza di santità, nella Regola ad ogni parola inserisce una piccola ricchezza. La Regola è semplice ma piena di buon senso e di umanità
E’ il contrario di quello che si fa oggi. Pensiamo a come oggi cresce un giovane, che ogni giorno se ne inventa una...

AMV) Quando noi eravamo bambini e ragazzi le regole da seguire, a partire dalla famiglia erano chiare, anche poche, ma non c’erano dubbi.

MF) Se pensiamo a come erano acuti i conflitti anche dentro la Chiesa, in quei secoli, la scelta del monachesimo era anche quella di dire “dandoci una regola noi almeno litighiamo di meno”

AMV) La situazione poi peggiora nell’epoca delle Commende, nelle degenerazioni degli Ordini?  

MF) E’ da valutare questo meccanismo delle “degenerazioni”, che spingono a nuove riforme.
Il percorso dovrebbe essere quello persona-comunità-Regola-competenze, ma vediamo proprio con i Cistercensi che si allontanano da Cluny per starsene a “Ca-di-Dio” e nella povertà assoluta, ed invece in cento anni conquistano l’Europa, e a un certo punto si arricchiscono e qualcuno poi si domanda se stanno deviando dalla retta via; e così si ha la ripartenza, con le riforme e nuovi ordini.
Perché la storia del monachesimo non è lineare, ma comprende questi cicli, pauperisti che poi si imbattono con la ricchezza e si “imborghesiscono”, depravano, e allora si cerca un nuovo ritorno alle origini.
E però dimostra che l’organizzazione fondata sul circuito persona-comunità-Regola-competenze, un modo giusto di far circolare le risorse, produce ricchezza. E questo ci interessa anche per l’economia di oggi.

AV) Non so bene come si sia evoluta nella storia del monachesimo benedettino, ma dentro alle pieghe della Regola si insinua ad un certo punto anche una divisione classista del lavoro, tra i monaci, i conversi ed i servi? (se ne coglie una versione esasperata ne “I Viceré” di De Roberto: ma siamo in pieno Ottocento)

MF) Distorcendo la concezione del lavoro di Benedetto, che - anche a detta di antropologi e sociologi - è il primo nella storia dell’Occidente che lo nobilita, in quel suo inciso “guarda che se Tu sei un uomo di fede, allora lavora, ma non per mero dovere, guarda che è roba buona”, capovolgendo quanto vissuto fino ad allora, quando il lavoro era solo la fatica degli schiavi.
Ma al fondo l’umanità è fragile. Sartre, l’esistenzialismo, Camus mi fanno tenerezza, perché non tengono conto di questa fragilità umana.

AMV) D’altronde falliscono tutte le teorie che postulano che l’uomo sia buono e non fanno i conti con la realtà

AV) Con il disorientamento di oggi, forse chiudersi in una comunità, con le sue belle regole, può avere nuovamente un fascino

MF) C’è questo libro di Rod Dreher, un americano, “L’opzione Benedetto”, dove si teorizza che le comunità monastiche avrebbero avuto successo perché erano enclaves chiuse; ma in realtà i monasteri erano porosi, le grandi abbazie erano dei borghi. Anche oggi il tema non è chiudiamoci

AV) Intendevo “sottraiamoci alla confusione”

MF) Non è barricandoci che si risolve. A parte che probabilmente non è possibile. Questo libro, equivocando l’esperienza monastica, propone la chiusura: non è nello spirito cristiano,

AMV) Però un po’ c’è nello spirito del monachesimo; raccogliamo le nostre forze, e solo poi confrontiamoci con l’esterno

MF) Conoscendo tante comunità, vedo che le comunità che si chiudono involvono. Quelle che evolvono mantengono l’identità, ma si aprono. Vedi i monaci di Dumenza: fisicamente si sono quasi isolati, ma lo vedi che sono in dialogo. Altri si ritraggono e si accartocciano. Oggi c’è l’impressione che tutti comunichino, e in realtà non dialogano con nessuno C’è contatto, ma non c’è relazione.

AV) Domandone finale: alcuni economisti, come Becchetti o Magatti, criticando gli assetti presenti, sembrano puntare molto sul ruolo sociale delle “imprese responsabili”. Lei pensa che possa delinearsi una società migliore attraverso la (sola) diffusione di un insieme di esempi virtuosi? C’è modo di rendere etico il contesto di mercato, oltre la singola impresa? L’auspicabile estensione di esperienze evolutive rimane affidata alla spontaneità oppure sono possibili stimoli istituzionali? Inoltre: sono comunque indispensabili anche i classici (ma usurati) strumenti di politica economica generali? (C’è facoltà di non rispondere…)

MF) Non mi pronuncio ancora sulla manovra di questo Governo, sono in attesa: forse c’è qualcosa che non capisco. L’economia avrebbe bisogno di scelte. Il precedente governo qualcosa aveva fatto. Ad esempio la legge sulle “società benefit” NOTA B, con l’Italia prima in Europa su questo fronte. Aiuterebbero ad esempio de-fiscalizzazioni…
Ma al momento rimangono fenomeni marginali. Qualcosa di positivo c’è, ad esempio la legge 231 del 2001 (sulla responsabilità penale dei soggetti giuridici), o anche l’obbligo dei report di sostenibilità per le imprese quotate o per le cooperative. Però mi sembrano norme o indirizzi che non hanno ancora iniziato a generare cultura; la sensibilità resta in capo alle imprese e quindi agli imprenditori. Bisognerebbe invece che si muovessero i “corpi intermedi”. Mentre vedo indietro sia Confindustria che Confartigianato. Le imprese “virtuose” sono ancora piuttosto isolate, devono arrangiarsi da sole.
Un altro aspetto che Becchetti sottolinea è quello del consumatore, se aumentasse il suo discernimento, potrebbe influenzare molto di più le aziende. Un pochettino sta accadendo, non so quanto. Un consumatore più maturo rende più mature anche le imprese; molte imprese cominciano ad essere sensibili ai “voti” dei consumatori.
Su questo forse c’è un effetto benefico dei social.
L’Italia, che appare sempre un po’ in ritardo, però forse è tra i primi paesi ad aver raccordato alcuni elementi, come le Benefit Corporation, il terzo settore, le cooperative… Ci sono nuovi elementi su cui in Italia ci si sta muovendo. Adesso occorre vedere da un lato cosa farà il nuovo governo, dall’altro se queste norme rimarranno sulla carta o diverranno cultura, innescheranno dei processi: per ora siamo solo agli inizi.

AV) Per ora sono solo ”nicchie normative”, che non pervadono l’assetto complessivo del mercato?

MF) Per esempio il Decreto legislativo 231, “legge sull’etica”, noi l’abbiamo seguita a lungo, perché era veramente ben congegnata, ma è stata mal interpretata, mal accolta, divenuta ostaggio degli studi legali, come adempimento burocratico da disbrigare; alla fine è risultata una opportunità sprecata.
Il mondo anglosassone è orientato alla norma, l’etica contrattuale nasce lì; il bene comune è la sfida, per creare bene comune tra me e te occorre normarlo.
L’etica è la virtù, ma deve essere suffragata dalla norma.
In Italia c’è un po’ di legge morale, ma è “strattonata”: bisognerebbe in primo luogo renderla più cultura e in secondo luogo supportarla con una normativa adeguata.
Però c’è anche in giro un sacco di brava gente, c’è un fermento positivo, che – ad esempio – non ti aspetteresti al vertice di tante imprese.
L’Italia è un po’ un guazzabuglio, un tessuto positivo ci sarebbe, ma poi ci disperdiamo in mille rivoli: abbiamo il peggio ma anche gli anticorpi.
In alcuni zone prevalgono gli uni a scapito degli altri, e viceversa.
Io comunque preferisco lavorare in questa realtà rispetto ad esperienze che ho fatto in Nord Europa. Altrove, e soprattutto nelle multinazionali (anche nelle filiali italiane) prevalgono schemi procedurali pesanti e abbastanza impermeabili alle istanze socio-ambientali di cui abbiamo parlato

AMV) Una cosa che vorrei capire: le imprese normali come vedono quelle “responsabili”, impegnate nel sociale nell’ambiente?

MF) Ho l’impressione che ci sia una sorta di “switch”: o capisci o non capisci. A quelli che potremmo definire “non-etici” (a parte i ladri), anche imprese serie, non gli passa nemmeno per la testa di porsi questi problemi: non li vedono. Vedi il caso Olivetti. Li considerano strani.
Anche se gli dici che gli imprenditori “etici” hanno fatto profitti, non gli interessa.
Ci sono carenze culturali e ideologiche, a partire dalle Università.



NOTA A: un eremita che distrugge il lavoro svolto per poter ritrovare di che lavorare.
Un monaco provetto artigiano che deve rinunciare alla professionalità per dimostrare umiltà.
Il successo anche economico dei monasteri quale “eterogenesi dei fini”, ma che viene conseguito attraverso prezzi fuori-mercato grazie al lavoro volontario e sottopagato

NOTA B: il concetto di “società benefit” è ben illustrato ad esempio nel dossier: