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mercoledì 21 novembre 2018

UTOPIA21 - NOVEMBRE 2018: INGLEHART E LA POST-MODERNITA’


Un classico della sociologia, costruito attraverso sistematiche campagne di rilevamento delle opinioni socio-culturali e politiche in diversi Paesi, nel passaggio attraverso lo sviluppo industriale e post-industriale, ritornato di attualità (ed aggiornato) alla luce delle attuali spinte populiste.  

Riassunto: il metodo di indagine, interviste ripetute di anno in anno in molti Paesi e riscontri socioeconomici, nel secondo Novecento; correlazioni di fondo tra stadio di sviluppo materiale e assunzioni di mentalità prima “moderne” (ad esempio socialdemocratiche) e poi post-moderne (ad esempio radical-verdi), in materia non solo di politica, ma di famiglia, diritti, lavoro, ecc.; vischiosità generazionali ed eccezioni geo-politiche; la controversa peculiarità del fattore religioso; oltre Marx e Weber: oltre la contrapposizione destra/sinistra? Anticipazioni sulla nuova ricerca pubblicata nel 2018, in aggiornamento rispetto a quella uscita nel 1996.
in corsivo i commenti personali del recensore

Si può considerare ormai un testo classico “La società postmoderna”1 di Ronald Inglehart, sociologo del Michigan (nato nel 1934) e coordinatore a livello internazionale delle campagne di indagini demoscopiche “World Values Surveys”, svolte ripetutamente con domande identiche (o quasi) in 43 paesi; un classico della sociologia politica che torna di attualità di fronte all’espansione dei populismi (vedi mio articolo in questo numero di “Utopia21”).

In particolare il testo descrive ed analizza gli esiti dei rilevamenti del 1981 e del 1990, affiancandoli ad alcuni risultati – per il solo campo dell’Europa comunitaria – del cosiddetto “Eurobarometro” e ad altre ricerche più puntuali.
Anche se le valutazioni di Inglehart e collaboratori sono intrecciate con la lettura di altri dati statistici “oggettivi” (ad esempio la crescita del PIL, la demografia, i rivolgimenti politico-istituzionali), la materia prima dello studio è costituita dalle “opinioni” della popolazione, rilevate tramite questionari a campione, ed in particolare dai valori medi a livello nazionale (e talora a livello locale) delle diverse risposte, confrontate con quelle delle altre nazioni e nel divenire temporale, in parte anche prima del 1981 e dopo il 1990.
Ma non dopo il 1996, data della ricerca, la quale pertanto ha potuto misurarsi solo con alcune recessioni cicliche del secondo ‘900 in singole aree geografiche, e non con il tema della grande recessione successiva al 2007: a ciò ha sopperito la recente pubblicazione (per ora in inglese)2 di un nuovo ciclo operativo della grande ricerca del Wordl Values Survey.

La fede di Inglehart e degli altri ricercatori nelle opinioni  e nelle “medie” risulta priva di qualsivoglia forma di dubbio, riserva o “istruzione per l’uso”: per esempio tra gli indicatori assunti figura la risposta a quesiti circa l’adesione degli intervistati ad organismi di volontariato, senza che vi sia alcun riscontro sul dato oggettivo delle iscrizioni effettive a tali  associazioni; in generale non si dà peso alla preoccupazione circa l’attendibilità delle risposte e circa le distorsioni tipiche che alcuni sondaggi comportano; le medie nazionali – ammette Inglehart - rischiano di rafforzare stereotipi e luoghi comuni, ma il rischio viene accettato senza specifici rimedi (quali ad esempio la rilevazione dell’ampiezza degli scostamenti a ventaglio nel campionamento dei dati in una nazione, rispetto alla media nazionale risultante): pare che la raffinatezza degli algoritmi di calcolo appaghi i ricercatori riguardo alla scientificità del loro lavoro, come spesso accade negli ambiti specialistici.
(Accettando il criterio delle medie nazionali, appare alquanto affascinante la ricomposizione della costellazione dei risultati nelle illustrazioni tabellari, ovvero nello spazio cartesiano delle matrici dei dati: le nazioni formano nuove arcipelaghi ed i continenti sperimentano nuove derive nei quadranti delle opinioni).

L’assunto di fondo della ricerca consiste nella individuazione di un percorso “tipico” (e quindi addirittura prevedibile, per il futuro delle nazioni ancora sotto-sviluppate) nel processo di sviluppo economico delle singole nazioni, evidenziando che – salvo eccezioni, spiegate soprattutto con l’incertezza determinata da rivolgimenti politico-istituzionali (ad esempio Sud Africa ed Est Europa) - :
-           nel passaggio dall’economia di sopravvivenza al decollo industriale si rilevano mutamenti nel sistema di pensiero, correlati al venir meno della preoccupazione basilare per la sussistenza, con l’abbandono delle ideologie tradizionali (in materia di religione, famiglia, autorità) e l’instaurazione di criteri “legal-razionali”, ma molto legati agli aspetti materiali dell’esistenza e con una prevalenza di componenti autoritario-burocratici;
-           con il successivo raggiungimento di livelli diffusi di benessere materiale e quindi con il calare della “utilità marginale” della maggior ricchezza, insorgono invece valori cosiddetti “post-materialisti” o postmoderni, come l’attenzione alla libertà individuale (propria e altrui), all’ambiente ed alla qualità della vita, e l’insofferenza verso lo statalismo e l’eccesso di burocrazia (ed anche verso i partiti di massa): tra questi valori si afferma una qualche  rivalutazione della famiglia e della religione, ma  non in termini di riproposizione della cultura tradizionale; altra cosa è la rinascita dei fondamentalismi religiosi, che Inglehart vede come reazioni marginali alla progressiva secolarizzazione, forti solo in contesti ancora privi di una effettiva modernizzazione (tesi discutibile, ed in effetti contrastata da altri e diversissimi autori, da Samuel P. Huntington a Ulrich Beck, e rivisitata dallo stesso Inglehart in una successiva ricerca del 2007, non tradotta in italiano);
-           i mutamenti nel sistema di opinioni non sono lineari, ma subentrano con i ricambi generazionali, perché l’assetto ideologico delle persone si “cristallizza” per lo più all’età della formazione e poi tende a conservarsi con limitati aggiornamenti.

Altro aspetto ampiamente indagato è la natura delle correlazioni tra cultura e sviluppo, con una interpretazione che tende a superare la contrapposizione tra Marx (la struttura determina la sovrastruttura) e Weber (lo sviluppo capitalistico come prodotto dell’etica calvinista (o protestante?)), rilevando invece le reciproche interferenze tra progresso materiale ed evoluzione culturale, soprattutto in termini di attenzione alle propensioni culturali, quali ad esempio la motivazione individuale al successo (contrastata spesso dalle culture religiose tradizionali) come premessa rilevante per lo sviluppo socio-economico.

Anche i rapporti tra le istituzioni democratiche ed il necessario substrato culturale di lungo periodo (ad esempio gli indicatori della fiducia nel prossimo e della partecipazione ad associazioni), in relazione con lo sviluppo economico, sono studiati come interrelazioni aperte e non univoche (ad esempio risulta difficile la democrazia senza benessere, mentre è possibile il progresso economico senza democrazia).

Mi sono sembrati molto interessanti (anche in relazione al testo di Marco Revelli “Finale di partito” 3), ma non del tutto convincenti, gli sviluppi della ricerca sui valori post-materialisti in campo politico, con le seguenti affermazioni principali:
-           l’apprezzamento per la democrazia sarebbe comunque in crescita, pur in presenza di disaffezione al voto ed alla vita dei grandi partiti, perché nel frattempo aumenta l’attivismo e la partecipazione ad iniziative di tipo diretto
-           l’ecologismo (con agli antipodi i localismi xenofobi di reazione alla modernità) si porrebbe come un nuovo asse discriminante, “ortogonale” alla tradizionale polarizzazione destra/sinistra.

L’analisi, riferita soprattutto all’Europa Occidentale (perché negli USA il bipartitismo formalmente tiene di più, anche per il sistema elettorale iper-maggioritario), coglie abbastanza bene la problematica specifica delle leadership dei partiti di sinistra, costretti a non correre troppo avanti, verso i giovani ed i nuovi ceti medi “post-materialisti” (problematiche di genere, ambientalismo, democrazia diretta), per il rischio di perdere i contatti con l’elettorato tradizionale dei lavoratori manuali più anziani, attratto anche dai populismi xenofobi.

Tuttavia mi sembra che la lettura di Inglehart sulla storia della sinistra europea sia troppo schematica, per esempio per l’accento da lui posto sulla tematica della “proprietà pubblica di mezzi di produzione”, che in realtà si è estinta abbastanza presto nelle sinistre europee, durante i primi decenni post-bellici, e per la difficoltà a spiegare come comunque il “quadrante” tra sinistra e nuovo polo “post-materialista” sia assai più fecondamente frequentato (vedi quanto meno in Germania e Francia) del contiguo quadrante tra destra e nuovo polo (forse l’asse non è così “ortogonale”?).
Peculiare l’errore storico, a pag.118, circa i post-comunisti italiani: Inglehart attribuisce il passaggio dalla sconfitta del 1994 al successo del 1996 ad un mutamento programmatico del PdS, mentre a mio avviso – a parità di evoluzione programmatica - vi fu soprattutto la formazione di un sistema di alleanze (in verità assai fragile) più consono alla legge elettorale maggioritaria, in una fase di temporaneo indebolimento dei legami Lega/Berlusconi sul fronte di destra.

Di specifico interesse mi è parsa, inoltre, la digressione iniziale sulla compresenza e divergenza tra il fenomeno effettivo della “post-modernità” (vedi quanto sopra riassunto come “post-materialismo”) e le ideologie dei pensatori post-moderni – Lyotard, Derrida -  che Inglehart espone nel cap. I, mostrando di non ritenerli effettivamente rappresentativi della realtà in esame.

Riguardo alle riflessioni cui è giunto Inglehart attraverso il nuovo ciclo di interviste ed a fronte delle recenti svolte politiche, improntate al “populismo”, penso che sia utile riprodurre di seguito alcune risposte dello stesso Inglehart ad una recente intervista curata da Giancarlo Bosetti 4:
«Il sentimento che la sopravvivenza propria e della propria prole sia diventata insicura conduce a rafforzare la solidarietà etnocentrica contro gli outsider e la solidarietà interna a sostegno di leader autoritari. Per la maggior parte della propria esistenza le condizioni di scarsità estrema hanno spinto a serrare i ranghi nella battaglia per sopravvivere. L’evoluzione ha sviluppato un "riflesso autoritario" per il quale la insicurezza innesca il sostegno a leader forti, rifiuto degli altri, rigido conformismo. E all’opposto alti livelli di sicurezza aprono spazi alla libera scelta individuale e a maggiore apertura verso outsider e nuove idee».
«Oggi è in corso un’autentica sfida per la democrazia, che si è finora diffusa a un gran numero di paesi. Le condizioni di insicurezza portano la gente a desiderare l’uomo forte al potere che la protegga da stranieri pericolosi, ma questa tendenza xenofobico-autoritaria non è un trend globale, riguarda le società industriali avanzate, l’Europa e il Nordamerica. È qui dove è più forte. Non riguarda la Cina, che non conosce una grande ondata di xenofobia, e neppure l’India, che ha seri problemi ma diversi».

«È vero che non abbiamo la Grande Depressione, ma la cosa determinante non è il tasso di crescita, ma il fatto che esso stia raggiungendo un punto in cui non è più vero che ciascuno possa assumere la sopravvivenza come un dato garantito, mentre la crescente prosperità è quel che sta plasmando Cina e India. Paesi come l’Italia, la Svezia, la Germania e gli Stati Uniti hanno bisogno di una soluzione politica del loro problema, di qualcosa paragonabile alla drastica svolta degli anni Trenta quando grandi risorse sono state riallocate per creare posti di lavoro sicuri».

«L’ineguaglianza geografica è il maggiore problema di lungo termine. Paesi ricchi e paesi poveri vicini e con comunicazioni molto più facili di un tempo. Il risultato è che abbiamo livelli di emigrazione senza precedenti. Gli Stati Uniti hanno ora più gente che parla spagnolo della stessa Spagna.
Qualcosa che cambia la faccia degli Stati Uniti. Nessuna società è capace di reggere una immigrazione illimitata. La Svezia, per esempio, che ha una lunga e solida tradizione liberale e tollerante, ora con il 18% di immigrati etnicamente diversi ha dato luogo a un movimento xenofobo. Così in Danimarca, Norvegia e Olanda. Il punto è che abbiamo una capacità limitata di assorbire immigrazione prima di scatenare una reazione xenofoba che può essere molto dannosa e distruttiva».

Fonti:
1.    Ronald Inglehart “LA SOCIETÀ POSTMODERNA -  MUTAMENTO, IDEOLOGIE E VALORI IN 43 PAESI” - Roma, Editori Riuniti 1998
2.    Ronald Inglehart “CULTURAL EVOLUTION. PEOPLE’S MOTIVATIONS ARE CHANGING AND RESHAPING THE WORLD” - Cambridge University Press 2018
3.    Marco Revelli “FINALE DI PARTITO” – Einaudi, Torino 2013 da me recensito sul blog “relativamente, sì” www.aldomarcovecchi.blogspot.it
4.    Giancarlo Bosetti “RONALD INGLEHART - LA TEORIA DARWINIANA DI OGNI POPULISMO" su “La Repubblica” 08-11-2018 e su www.reset.it


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