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mercoledì 21 novembre 2018

UTOPIA21 - NOVEMBRE 2018: CONVERSAZIONE-INTERVISTA CON MASSIMO FOLADOR SULLE IMPRESE “RESPONSABILI” E LA REGOLA BENEDETTINA


CONVERSAZIONE-INTERVISTA CON MASSIMO FOLADOR SULLE IMPRESE “RESPONSABILI” E LA REGOLA BENEDETTINA
di Anna Maria Vailati e Aldo Vecchi

Nel libro “Storie di ordinaria economia“,(GueriniNext editore, ottobre 2017)  il professor Folador raccoglie una serie di “racconti”, già pubblicati singolarmente sul quotidiano “L’Avvenire”, riferiti ad altrettanti dialoghi con 24 tra imprenditori, manager, dirigenti, di aziende “profit e no  profit”, che  - nelle ombre della crisi -  hanno sviluppato esperienze positive su diversi fronti della innovazione, non solo tecnologica e organizzativa, ma soprattutto motivazionale e relazionale. Il testo è completato da una introduzione di Marco Girardo (responsabile delle pagine economiche del Quotidiano), che inquadra il viaggio dell’Autore nella ricerca di una “economia civile” (riallacciandosi ad un filone culturale italiano di economia attenta al sociale, dall’illuminismo a Luigi Einaudi) e da due contributi finali dei padri benedettini Ubaldo Cortoni e Cassian Folsom (priore a Norcia) dai significativi titoli “Norcia e il Capitale Spirituale” e “La Persona, l’Impresa e il Bene Comune”.
La ricerca del prof. Folador tra le imprese è nel frattempo ripresa, e viene pubblicata settimanalmente su “L’Avvenire” dall’ottobre del 2018.

Massimo Folador è fondatore e amministratore di Askesis srl (www.askesis.eu), società che si occupa di processi di cambiamento culturale e organizzativo in alcune tra le più importanti realtà imprenditoriali italiane, sia del mondo profit che del mondo no profit. E’ docente di business ethics presso la LIUC (Università Carlo Cattaneo, di Castellanza) e svolge attività di formazione e consulenza per la Business school della stessa Università. Ha pubblicato tra l’altro “L’organizzazione perfetta” (2006), “Il lavoro e la Regola” (2008), “Un’impresa possibile” (2014), tutti per GueriniNext edizioni. Dal 2006 è presidente dell’associazione “Verso il cenobio” (www.versoilcenobio.it) la cui finalità è far conoscere in ambito aziendale, e non solo, l’attualità della regola di San Benedetto.


Riassunto:
la casistica delle imprese “responsabili” e la ricerca di un filo conduttore: capitale umano, capitale relazionale, capitale fiduciario;
l’imprenditorialità specifica del terzo settore, e la crisi del welfare pubblico;
le contraddizioni delle imprese “responsabili” di alta gamma ed il rischio del “green washing”;
governance e partecipazione: prevalenza dei cambiamenti indotti dall’alto;
i limiti di riproducibilità delle esperienze più alte rispetto al ruolo dei fondatori, da Don Bosco ad Adriano Olivetti;
il modello benedettino: ricerca della consapevolezza di sé e della relazione con la comunità; gerarchia moderata e valorizzazione del lavoro; peculiarità e limiti dell’esperienza storica;
le modalità di diffusione delle esperienze “responsabili”  e gli apporti istituzionali e legislativi.


AMV) segnala un intervento di Anna Maria Vailati, AV) di Aldo Vecchi e MF) del professor Massimo Folador


AV) Con riferimento alla Sua esperienza di formatore, orientato alla valorizzazione, per l’appunto “umana”, delle cosiddette “risorse umane”, le esperienze aziendali da Lei narrate in “Storie di ordinaria economia” spaziano, dal concreto delle singole realtà, a problematiche assai vaste e diversificate, quali il welfare aziendale, il ricambio generazionale ed i rapporti proprietà/dirigenti, la qualità integrale dei processi produttivi, l’internazionalizzazione, le reti collaborative esterne, le sinergie con il territorio….: si può rintracciare in questo insieme complesso un filo conduttore?

MF)  E’ la domanda che mi sono posto io quando ho scritto la postfazione. Mentre scrivevo le storie ho approcciato due ricerche, una dell’Università di Bergamo e l’altra della Cattolica che approdavano a considerazioni analoghe sulle imprese dette innovative o generative.  Sostanzialmente il filo conduttore è in primo luogo questa attenzione che alcuni imprenditori (più che non i manager) danno alla valorizzazione delle persone, del  capitale umano; e in secondo luogo è una tendenza a collaborare, che è innata, non è forse strategica, più a macchia di leopardo che non sistemica: questi imprenditori intuiscono che c’è un capitale relazionale; il terzo punto, che io chiamavo capitale fiduciario, è la percezione che l’impresa sia un sistema complesso, che include il legame con il territorio, non inteso come ambiente fisico, ma la comunità, il Comune, la rete dei fornitori…. Molti di loro vivono questo tema di un’impresa aperta, da cui dipende il valore dell’impresa stessa: è proprio un passaggio importante, è come estendere il limite dell’impresa molto all’esterno dei cancelli.

AV) Quindi l’impresa non si ferma ai suoi confini giuridici

MF) Può essere utile richiamare la mia prima esperienza di lavoro, che fu nell’editoria alla Fabbri Bompiani Sonzogno: nell’86 l’azienda editoriale aveva all’interno quasi tutto il ciclo produttivo, con poche lavorazioni esterne; negli anni successivi si è verificata l’esternalizzazione, prima della stampa, e poi di altri funzioni, ma alla fine il ricavo era quello di prima, ma dato dall’apporto di attori diversi. Questo tipo di processi sta diventando un po’ di più una cultura specifica, dove l’imprenditore ha chiaro che il valore che riuscirà a  produrre dipende da un sistema di relazioni.
Però è difficile per una impresa curare nell’insieme i tre aspetti, i tre “capitali” di cui prima parlavo, in modo sistemico e strategico: c’è chi cura l’uno, chi cura l’altro, chi un pezzo dell’uno o dell’altro e ci sono esperienze che si intrecciano…
 
AV) In taluni casi da Lei presentati la “socialità” delle imprese è intrinseca alla stessa “ragione sociale”, o perché operanti per i servizi di pubblica utilità o perché direttamente strutturate nel cosiddetto ”terzo settore”, cioè senza fini di lucro; mi sembra  interessante osservare come anche in queste realtà (necessariamente?) si ripropongono, con alcune peculiarità, le tipiche dinamiche “imprenditoriali”

MF) Anche questo è un tema – non nuovo – ma che oggi viene finalmente affrontato con il giusto rilievo. Alcune Cooperative - ci sono esempi anche nel libro – sono nate attorno a persone con esperienze peculiari post 68, servizio civile, obiezione di coscienza, grande impegno sociale, che  hanno retto per 20-30 anni; poi si è arrivati ad una svolta ed il volontariato ha preso altre forme:  c’è la parte di volontariato che ha anche necessità di riscontri economici, c’è il rapporto con la Regione che si è complicato per la necessità di certificare gli accreditamenti, occorrono precise competenze (la qualità c’era anche prima, ma ora occorre il rispetto di standard pre-definiti), talora sono venute meno alcune donazioni e gli Enti pubblici tendono a  pagare di meno i servizi. Cosicché molte realtà si sono trovate con risorse fortemente diminuite. E allora si manifesta lento questo tentativo di dare forme più organizzate a queste cooperative che prima erano molto più spontanee; e c’è anche un terzo settore che cerca di diventare molto più impresa, al limite del profit, pur sempre all’interno di una ispirazione sociale; mentre alcune imprese private scoprono una dimensione sociale…

AV) Le realtà del “terzo settore” da Lei considerate come si pongono rispetto alla diffusa tendenza alla contrazione del settore pubblico e alla esternalizzazione di servizi per prevalenti obiettivi di taglio dei costi (spesso a carico delle retribuzioni)?

MF) Il problema è diffuso ed infatti ci sono cooperative che ormai stanno saltando; o rimangono molto piccole, con la sede nell’appartamento del fondatore, per dire, o viceversa devono dotarsi di strutture, di un minimo di capitale, di competenze. Spesso si tratta di  cooperative che nascono per dare lavoro a persone in condizioni di disagio, per cui hanno ereditato funzioni che i Comuni non potevano più fare, di minore valenza, e così  hanno conti economici molto risicati. Oppure addirittura devono far ricorso a persone ricadenti in categorie protette, per poter abbassare i costi. In questo modo però si recupera la produttività delle persone che il mercato scarterebbe.

AV) Queste cooperative fanno il contrario delle imprese che allontanano le persone disabili, monetizzandone l’onere e appaltandone la gestione al terzo settore.

MF) E’ una sorta di economia border-line, che si gioca tra Enti Pubblici, imprese e cooperative, sul filo del costo del lavoro.
Poche cooperative stanno facendo invece un salto di qualità. Per anni il settore pubblico ha appaltato alle cooperative lavori di scarsa qualità. Ma oggi lo stesso settore pubblico è in crisi di prospettive e di reperimento di risorse economiche. Alcune cooperative riescono a inserirsi in questo vuoto assumendo un ruolo progettuale, ponendosi come capofila o come suggeritori nella partecipazione a bandi europei, proponendo collaborazione a enti pubblici e ad imprese private (alle quali non fanno ombra).

AV) All’altro estremo della casistica, Le chiedo se alcune attenzioni sociali (verso i lavoratori e/o verso i fornitori e/o verso i clienti e/o verso il territorio e l’ambiente) siano sufficienti a rendere “etiche” le altre imprese, tipicamente fondate sul profitto e mirate a conquistare i mercati.
In particolare mi sembra significativo il caso delle imprese di Cucinelli (maglieria pregiata in cachemire), che risulta molto sensibile su tutti quei fronti, però inevitabilmente impone agli allevatori un determinato assetto produttivo e asseconda, o sollecita, tra i clienti, un tipo di consumi non propriamente “popolare”.
  
MF) Non è l’unico, forse è il caso più clamoroso. Tra l’altro Cucinelli ha un suo rapporto diretto con il monachesimo (padre Cassian è stato a lungo nel CdA dell’azienda). E’ comunque interessante come sa tenere i conti in ordine e nel contempo offrire condizioni di favore ai dipendenti come ai fornitori. Posizionandosi così in alto nel mercato sembrerebbe un modello poco replicabile. Invece è perseguito anche da altre imprese - di alcune ho parlato nel libro - con aspetti simili, pur in fasce di mercato un po’ inferiori, e con minori margini di redditività.
Mi ricorda l’esperienza dei “santi sociali”, come Don Bosco, che potevano riuscire perché erano anche manager. Per fare certe scelte non basta essere brave persone, ma bisogna saper fare impresa; e al tempo stesso non basta saper fare impresa, sennò tutti gli imprenditori sarebbero santi. Ci vuole un innesco tra queste due capacità. Penso tuttavia che tali scelte valgono solo se ci si pone in una prospettiva di medio-lungo periodo, il pensare a breve termine porta inevitabilmente ad altre scelte.

AV) Qualche anno fa siamo stati invitati, come architetti, a visitare una fabbrica di rubinetti di alta gamma, che vantava molti pregi ambientali e anche qualche attenzione sociale; mi chiedo (e Le chiedo) però se può essere “ecologico” fare “rubinetti d’oro” (oppure produrre la Ferrari).  Pochi giorni fa, guardando al TG la settimana della moda, vedevo l’assegnazione di premi per gli stilisti più sostenibili: ma può esserci una sostenibilità del lusso? E’ solo una campagna promozionale oppure finalmente queste tematiche raggiungono anche quel mondo, in modo forse un po’ distorto? Insomma c’è del buono in queste iniziative?

AMV) Però tu puoi fare produzione di lusso sfruttando i bambini in India oppure puoi fare la stessa cosa rispettando tutte le norme; forse è meglio “comunque”

MF) Sì, c’è questo “comunque”. Due o tre anni fa fecero una serata a Report con Cucinelli e Moncler; erano due aziende fashion entrate in borsa lo stesso anno: di Cucinelli hanno raccontato di una impresa che fa alta moda secondo certi criteri; Moncler, pur guadagnando meno, risultava spinta alla de-localizzazione senza guardare troppo per il sottile. Un'altra cosa che mi viene in mente a proposito sono due spot che ho visto al cinema, prima di un film, due spot di marchi molto noti, tutte imperniate sull’Africa, sul Sociale, sulla sostenibilità, ma in maniera molto pubblicitaria, su cui ti viene subito il dubbio che sia una finzione, che sia solo quello che viene chiamato ”green washing”. D’altra parte ti chiedi, se ne parlano tanto, qualcosa avranno pur fatto. In questo campo è difficile capire dove inizia o finisce il bene rispetto al male.

AV) Nelle imprese profit da Lei raccontate, la responsabilità sociale nasce solo dall’imprenditore (top down) o anche da spinte etiche dal basso (bottom up)? Si riscontrano modalità tipiche di modificazione negli schemi di governance aziendale?

MF) Negli ultimi tempi su questo aspetto mi ritrovo un po’ pessimista. Ne parlavamo ad un convegno all’abbazia di Viboldone, con la Badessa, madre Ignazia, che è di vista molto acuta: l’uomo è sì plasmabile, si diceva, ma se si plasma nell’insicurezza di oggi, si determina allineamento e appiattimento. Quando c’è cambiamento per iniziativa dai vertici aziendali, che perdura nel tempo, allora c’è coinvolgimento. Invece oggi vedo pochi processi di cambiamento dal basso. Nelle situazioni confuse e insicure le persone fanno passi indietro.
                                                                                                                     
AV) Anche quando c’è partecipazione, allora, è piuttosto passiva?

MF) Ho l’impressione che se non viene indotta dai vertici con energia, la partecipazione sia “poco partecipata”. Così non era anni addietro, quando si riscontrava molta più vivacità anche dal basso.

AMV) C’è anche una questione dei ruoli nella vita individuale e nella vita sociale, il lavoro si sta svalorizzando?

MF) Certamente. E non è questione di giovani o anziani, io smitizzerei questa separazione. Se c’è un po’ di attenzione ai temi sociali e ambientali, di contro c’è però molta pigrizia

AMV) Vorrei chiedere se i lavoratori delle imprese dove vi sono maggiori sensibilità positive si rendono conto della differenza rispetto alle altre situazioni più ordinarie?

MF) Anche questo è un tema grande. C’è anche poca mobilità e quindi ci sono limiti alla consapevolezza. Ad esempio in una impresa assicurativa con cui ho lavorato (e le assicurazioni sono un settore dove ancora c’è un agio economico),  a fronte di importanti innovazioni, ci sono state resistenze e polemiche, che fanno venir voglia di dire “ma provate ad andare  a lavorare nell’azienda accanto…” .
E’ questo che un po’ mi spiace nell’umano di oggi, ma anche di ieri: è che teniamo un orizzonte limitato alla propria area di benessere.

AV) Il caso delle cooperative agro-alimentari anti-mafiose della Locride, che resistono agli attacchi vandalici mettendo in conto i costi di periodiche ricostruzioni di attrezzature danneggiate dalle cosche (quasi “porgessero l’altra guancia”) e però vantano bilanci in attivo, coniugando solidarietà sociale e qualità ecologica (e che merita di essere raccontato, come nel Suo libro, ben oltre questa nostra rivista) può divenire un modello ampliabile e ripetibile (con quali strumenti e alleati: lo Stato, associazioni come Libera…?) oppure costituisce una esperienza unica e fortunata?

MF) E’ l’esperienza più importante del libro. Nasce da una intuizione di monsignor Bregantini, un pensiero cristiano e ad un tempo socialista. Per realizzarla è stata incaricata la persona giusta, con incredibile forza morale (ha famiglia, e va in giro senza scorta) e bravo a fare impresa, capace di fare molta comunicazione già sui primi piccoli effetti, e di far crescere la cosa in una spirale virtuosa, che li ha portati ad essere molto visibili, ad esempio nei programmi della RAI, ad avere l’Ambrogino d’oro.
E questo li protegge in parte anche dalla Ndrangheta, che – diversamente dalla mafia – non cerca notorietà dannose.
Oggi raggruppano 200 persone, sono 5 cooperative ed un consorzio, hanno una sede, hanno credito dalle banche, collaborano con Libera e altre realtà, in una rete articolata, ben congegnata: ad esempio hanno una linea produttiva per Yamamay, impresa che figura nel libro e che io gli ho fatto conoscere. Le istituzioni li hanno accolti, ma continuano a vederli come dei tipi strani.
C’è il rischio che la sorte dell’iniziativa resti legata alla vita del fondatore. E’ un modello che si fonda molto sul “carisma”, e il carisma personale (anche nelle imprese), non sempre è replicabile…
C’è anche un problema di carenze teoriche.
Uno degli imprenditori “responsabili” con cui collaboro, ad esempio, vorrebbe finalmente fare un libro. I miei sono solo racconti, manca ancora una saggistica con analisi approfondite su queste esperienze, difficilmente diventano modelli ripetibili, perché non sono ancora ben indagati, proprio sotto il profilo economico.

AV) Forse manca anche una domanda organizzata per sorreggere studi analitici su questo tipo di economia.

MF) Si, certo. Mi viene da pensare ancora ai Santi Sociali, che erano persone di grandi ideali, ma anche capaci di organizzare. Don Bosco pare che fosse un vero imprenditore. E le loro intraprese spesso sono sopravvissute ai fondatori, oltre il carisma personale.

AMV) Ma dietro c’era la Chiesa e anche la Chiesa è una organizzazione sopravvissuta al suo fondatore…

MF) La Chiesa infine li ha riconosciuti. Ed era anche un periodo particolare, alla fine dell’Ottocento e all’inizio del Novecento, in presenza di un forte fermento sociale.

AMV) Un periodo in cui per la Chiesa occorreva contrapporsi ai movimenti socialisti.

MF) Invece il caso di Olivetti ha visto il crollo del suo disegno dopo la sua morte, che purtroppo è avvenuta in un momento delicato, al massimo storico dell’indebitamento della ditta. Le banche, la famiglia, i nuovi manager hanno distrutto quella prospettiva (facendolo passare per un visionario)

AMV) Probabilmente non solo per come intendeva l’impresa, ma anche per quello che produceva, e che avrebbe affidato all’Italia un ruolo di avanguardia nell’informatica, disturbando l’America?

MF) Ci sono voluti trent’anni per ristabilire una corretta ri-lettura di Olivetti

AV) Al termine del Suo libro, è inserito un contributo del padre benedettino Cassian Folsom (O.S.B. del Monastero di Norcia), che ci ricollega alla rivalutazione della regola di San Benedetto, da Lei proposta (in altri Suoi testi e nelle Sue attività di formazione; ma ciò avviene anche in altri ambiti benedettini, come recentemente raccontato su “la Repubblica” da Paolo Rumiz) come valido riferimento alternativo per la gestione dei rapporti umani all’interno delle aziende; tale impostazione è affascinante, tuttavia leggendo gli esempi riportati da padre Folsom mi pongo il dubbio se tali casi estremi non siano eccessivamente paradossali per la riflessione dei comuni mortali nota A : si tratta di un percorso verso la “santità”, e quindi necessariamente elitario, oppure di una profezia (o utopia) accessibile a tutti?

MF) Ne parlavo oggi con un imprenditore ligure. Le imprese sono immerse in una complessità sociale, politica, che è esogena, e che si protrarrà nei prossimi anni, ma cui le imprese devono comunque rispondere.
E la chiave sono le persone. Solo se le persone reggono la complessità, l’impresa risponde in modo adeguato: la persona che si muove in relazione alla comunità, viene prima delle strategie, che oggi nessuno sa quali possano essere.
Per questo faccio riferimento alla figura del monaco, che sceglie di stare nell’ambito del convento e metà delle cose che fa le fa per diventare più consapevole di sé e del rapporto tra sé e il mondo, avvalendosi di questo sguardo diverso. E’ anche il pensiero del saggio cinese Lao-Tse: se il nemico è sovrastante devi concentrare le tue forze.
D’altronde l’elenco delle competenze che emergeranno nel futuro, e che cambieranno radicalmente rispetto al passato, secondo il rapporto del World Economic Forum, sono tutte quelle incentrate sulla persona: la relazione, la capacità di concentrazione, il problem solving.
Nel contempo si conviene che è la persona che dovrebbe rafforzarsi nella comunità; gli uffici, le aziende, i Comuni devono diventare più “comunità”: che è l’altro uovo di Colombo del monachesimo, e che è quello che dice Cassian.
Credo che loro, i benedettini, abbiano evidenziato due cose, che sono semplici, ma che nei momenti di difficoltà permettono alle persone ed ai convivi delle persone di reggere l’urto.
In fasi difficili si sono addirittura chiusi dentro, però hanno salvaguardato valori generali. Noi arriviamo a questo più deboli personalmente e con poca voglia di relazionarci

AMV) Siamo di fronte a modificazioni profonde e inquietanti…

MF) Ed è preoccupante la banalità dilagante, che riduce il linguaggio ad “I like”, al ritrovarsi tra simili, facendo venir meno il confronto.
Il monachesimo in sostanza dice: cercati, che qualcosa in fondo troverai, meglio se con l’aiuto di una Parola terza (così è per loro); e cercati una comunità.

AV) Il messaggio benedettino di ascolto e cura delle persone risulta valido se diretto ai capi e agli apprendisti capi od anche per i subalterni (i quali sono però costretti comunque a subire “a-priori” il potere gerarchico del ”priore”)?

MF) A quell’incontro con la Badessa di Viboldone, si esaminava la Superbia (e gli ultimi 3 vizi capitali) e si evidenziava che nella Regola di Benedetto la figura dell’abate compare solo al cap. 2 e poi in uno degli ultimi, nella versione rielaborata dopo 30 anni di esperienza.
Benedetto rivede e arricchisce il ruolo dell’Abate come buon padre di famiglia, fondato sul  buon senso: fa scendere ancora la gerarchia in favore della relazione, e lì ci sarebbe ancora molto da indagare.
Nella comunità monastica comunque c’è una gerarchia che è molto moderata da un’idea di relazione e di comunità. Quella che aveva in mente Olivetti, quando parlava di comunità organizzata.
Mentre nell’azienda molto dipende dalle persone che ci sono al vertice: ci sono aziende che sono fortemente gerarchizzate, e dove comunque la gerarchia vince e altre poco organizzate a forte relazionalità (e che poi talora si incasinano).
L’ideale è un equilibrio tra una ossatura gerarchica che comunque è necessaria ed una diffusa capacità di relazione. Il nodo sono i capi, che danno l’impronta, mentre i subalterni per lo più li seguono.

AV) La vostra didattica pertanto è rivolta ai capi. Andare a insegnare ai subalterni che il capo deve ascoltarli appare contradditorio?

MF) Sì, è rivolta soprattutto ai capi Le neuroscienze ce lo stanno dicendo, che l’uomo ha bisogno di partecipazione, si nutre di relazione (d’altronde lo diceva anche Aristotele, e poi Maslow). Dove una realtà genera relazione, poi l’uomo risponde. Se attivi la relazione, è un modo che tu hai affinché la persona cominci a cambiare velocità. Devi attivarla continuativamente in modo fiduciario. E chi può attivarla è il capo, il quadro intermedio

AV) Questa considerazione è anche un caposaldo culturale per contrapporsi all’isolamento dei fruitori di Internet

MF) Mi diceva un amico, padre di ragazzi adolescenti, che l’oratorio dove li forza ad andare ha organizzato prima un week end e poi una settimana in montagna lasciando a casa i telefonini. C’è stata dapprima una bassissima adesione, al week end, ma quelli che sono tornati hanno cominciato a dire che è stata un’esperienza bellissima, e alla successiva settimana c’è stata un’adesione enorme, scoprendo che stare assieme facendo cose è molto meglio. Se abitui le persone alla relazione, poi si accorgono che è fonte di energia, che dentro c’è un sacco di roba buona. 

AV) La riproposizione, in un moderno contesto aziendale, di alcuni canoni della regola benedettina si fonda sulla qualità intrinseca del messaggio oppure anche sulla considerazione dei successi storici/aziendali dei monasteri benedettini (pur trattandosi comunque di esperienze minoritarie, ed in calo dopo l’Alto Medio Evo)?

MF) La cosa buffa, che ho toccato con mano, è che ai monaci dell’economia non importa nulla. Hanno condotto imprese senza documentare gli aspetti economici (diversamente dai francescani). Se ora qualche padre benedettino, come Grun in Germania, incrocia il monachesimo e l’economia è per esperienze particolari. La Regola ha detto essenzialmente “tu vuoi essere felice, ti propongo una comunità”, poi se di conseguenza c’è anche da lavorare “non farlo come disgrazia, fallo perché ha senso”. Poi da lì si è sviluppata una storia inusuale, ma forse anche inconsapevole, combinando lavoro e competenze, in autosufficienza e facendo meglio dentro i monasteri che fuori, nei tempi più bui.

AV) Forse anche perché i secoli di maggior fulgore dei benedettini sono periodi con scarsa circolazione di moneta; però il concetto di autosufficienza e di autonomia del singolo monastero viene poi contraddetto dal grande disegno dei cistercensi, che si propagano da un monastero all’altro?

MF) Prima c’era l’esperienza di Cluny, una grande struttura accentrata, fino a 800 monaci, più l’indotto; per i cistercensi invece valeva il modulo di 12 monaci, quando c’era più afflusso si andava a fondare un nuovo monastero.

AMV) Può ricordare l’esperienza delle città dell’antica Grecia, che avevano, per motivi di scarsità delle risorse agricole (ma anche per consentire il funzionamento di istituzioni assembleari), una sorta di numero chiuso, superato il quale i cadetti dovevano partire per fondare una colonia.

MF) E’ un criterio che ho incontrato anche nella crescita della Cooperativa di Iseo, di cui parlo nel libro, che ha una struttura fondata su micro-cellule e da lì la generazione di nuove unità, abbinando crescita e stabilità; può essere utile nel dibattito che si è riaperto su grande o piccola impresa.

AV) L’autonomia delle cellule ricorda anche la struttura delle organizzazioni clandestine…

MF) L’analogia delle forme organizzative è interessante

AMV) Anche la Chiesa cristiana delle origini talora doveva seguire logiche di clandestinità… 

AV) Tornando ai conventi e all’economia, il caso dei francescani è stato diverso, perché sorti più tardi e dentro le città? (secondo Paolo Prodi è stato Bernardino da Siena a sdoganare il tasso di interesse rispetto al peccato di usura, affrontando il nocciolo del capitalismo nascente)

MF) Certamente i francescani hanno sempre fatto economia, dal tardo medio Evo, con gli strumenti dell’epoca. I sermoni di San Bernardino sono dei trattati di economia. E anche oggi dai francescani emergono importanti contributi…Anche i benedettini di Dumenza, che la vostra redazione di Utopia21 conosce, e che stanno sviluppando importanti riflessioni sull’oggi, con cui collaboro, hanno chiamato alcuni francescani, che non sono tecnicamente economisti, ma capiscono le trasformazioni

AV) Non è paradossale assumere il modello monastico benedettino per la formazione del capitale umano, in quanto fondato anche sulla castità e quindi sulla non-riproduzione delle stesse forze di lavoro?
Ci sono queste comunità che perseguono la felicità, l’equilibrio con il territorio, con un influsso benefico sulla popolazione circostante, si offrono come luogo di rifugio, ma non si pongono il problema di riprodursi, se non per l’adesione di altri adulti

MF) San Benedetto eredita questa impostazione, ma in effetti nella Regola non se ne occupa, la dà per scontata

AMV) Probabilmente pesano i precedenti, la concezione del monachesimo orientale, con il purismo degli eletti ed il rifiuto della riproduzione, il rapporto tra la castità e l’Essere superiore, fino quasi ad un rifiuto della vita terrena, in un processo di rinuncia e di ascesi; il monachesimo benedettino nasce con una Chiesa cristiana già strutturata, che include questi valori. E agli albori del cristianesimo si intrecciano con l’attesa escatologica del ritorno del Messia. Le prime comunità di tipo monastico nei territori dell’impero si insediano in ville patrizie rustiche (quando il cristianesimo raggiunge il patriziato), dove si pratica la fratellanza, e che spesso hanno continuità di luogo con i successivi monasteri veri e propri.
D’altronde la castità è presente in altre religioni, ad esempio nell’induismo spesso persone che hanno condotto una normale vita familiare, ad una certa età passano ad una condotta quasi eremitica, rinunciando tra l’altro al sesso (e quindi alla riproduzione della vita), come se fossero un impedimento alla spiritualità.

AV) Però nel monachesimo occidentale, da Benedetto a padre Bianchi della comunità di Bose, c’è anche un approccio gioioso alla vita, ad esempio al cibo

MF) Subentra anche un processo di sublimazione, ad esempio dal sesso al cibo. Ci stiamo occupando del monachesimo antico, prima di Benedetto, in questo ciclo di incontri sui “vizi capitali”, approfondendo il pensiero dei monaci cristiani orientali; un pensiero che si propone la persona come luogo di energia, che si sublima verso le virtù o viceversa si deteriora se se ne fa un uso cattivo; questa energia è la sessualità, che può andare verso la lussuria o viceversa. C’è un contraltare sempre: l’ira può diventare il coraggio.
La creatività e il sesso diventano una cosa delicata e complessa da capire; la repressione può generare disagio oppure sublimarsi in bene per gli altri, in creatività artistica. 

AMV) E’ la storia della Chiesa, la svolta rispetto al mondo greco-romano, che porta a questa impostazione, a cui il monachesimo deve attenersi

AV) Rispetto al monachesimo orientale degli stiliti e degli eremiti, con Benedetto si profila come un sorta di “monachesimo deviato”, che abbandona le finalità ascetiche perché non esclude la ricerca di una felicità terrena, ma in una dimensione orizzontale e comunitaria, proponendo un benessere possibile, ma attraverso la rinuncia all’egotismo?
  
MF) Questo è un passaggio importante, anche per l’oggi, come i monaci affrontano la “filautia”. La Regola – come anche il Cristianesimo – è improntata alla rinuncia dell’egotismo in favore di un sano egoismo che però incontra la Relazione

AV) Ora tutto questo discorso del non-riprodursi della comunità forse funziona così, che avevano comunque molti adepti perché erano un luogo di rifugio, la “materia prima” arrivava perché erano in qualche modo gli “scarti” del resto della società.

AMV) Era una società in cui l’idea del peccato era una cosa pazzesca. La gente viveva a contatto con questa paura dell’Inferno, dei Mostri (ne vediamo le immagini). Anche se il Medioevo non è in realtà solo ”secoli bui”. C’era di che fuggire. Penso soprattutto ai monasteri femminili, queste povere ragazze sfuggivano a matrimoni spaventosi e trovavano l’unico luogo in cui le donne potevano avere un ruolo, come testimoniano molte grandi Badesse…

AV) Era una forma di prevenzione dal femminicidio? Anche per gli uomini la protezione delle mura del convento poteva consentire di non andare in guerra, di non assoggettarsi ai signori.

MF) Ma è vero soprattutto per le donne, potevano trovare un ruolo e paradossalmente anche una forma di libertà, nel solo rispetto della Regola.
La Badessa di Viboldone mi spiegava come l’obbedienza alla Regola è la massima libertà perché la vera libertà sta nel seguire le cose che producono felicità. In realtà tutti obbediamo a qualche cosa, se disobbediamo e perché obbediamo a qualcos’altro, ma ci sembra di essere liberi. L’accettazione di una regola un po’ costrittiva ci appare difficile. Ma loro dicono “noi crediamo che in questa regola ci sia del buono, per cui liberamente scegliamo di seguirla, e poi effettivamente pian piano ci accorgiamo di diventare un poco migliori”.

AMV) Il periodo tardoantico è pervaso da grandi paure: impero d’occidente caduto, regni che si scontrano; la Regola è semplice, fatta di poche cose. Seguire la Regola è diverso che seguire l’autorità del vescovo, che può essere anche arbitraria e diventa spesso potere temporale

Risultati immagini per abbazia di viboldone

Figura 6 – Un chiostro cistercense (Morimondo)

MF) All’inizio non capivo, poi, approfondendo, Benedetto aveva chiaro l’umano, aveva alle spalle una esperienza di santità, nella Regola ad ogni parola inserisce una piccola ricchezza. La Regola è semplice ma piena di buon senso e di umanità
E’ il contrario di quello che si fa oggi. Pensiamo a come oggi cresce un giovane, che ogni giorno se ne inventa una...

AMV) Quando noi eravamo bambini e ragazzi le regole da seguire, a partire dalla famiglia erano chiare, anche poche, ma non c’erano dubbi.

MF) Se pensiamo a come erano acuti i conflitti anche dentro la Chiesa, in quei secoli, la scelta del monachesimo era anche quella di dire “dandoci una regola noi almeno litighiamo di meno”

AMV) La situazione poi peggiora nell’epoca delle Commende, nelle degenerazioni degli Ordini?  

MF) E’ da valutare questo meccanismo delle “degenerazioni”, che spingono a nuove riforme.
Il percorso dovrebbe essere quello persona-comunità-Regola-competenze, ma vediamo proprio con i Cistercensi che si allontanano da Cluny per starsene a “Ca-di-Dio” e nella povertà assoluta, ed invece in cento anni conquistano l’Europa, e a un certo punto si arricchiscono e qualcuno poi si domanda se stanno deviando dalla retta via; e così si ha la ripartenza, con le riforme e nuovi ordini.
Perché la storia del monachesimo non è lineare, ma comprende questi cicli, pauperisti che poi si imbattono con la ricchezza e si “imborghesiscono”, depravano, e allora si cerca un nuovo ritorno alle origini.
E però dimostra che l’organizzazione fondata sul circuito persona-comunità-Regola-competenze, un modo giusto di far circolare le risorse, produce ricchezza. E questo ci interessa anche per l’economia di oggi.

AV) Non so bene come si sia evoluta nella storia del monachesimo benedettino, ma dentro alle pieghe della Regola si insinua ad un certo punto anche una divisione classista del lavoro, tra i monaci, i conversi ed i servi? (se ne coglie una versione esasperata ne “I Viceré” di De Roberto: ma siamo in pieno Ottocento)

MF) Distorcendo la concezione del lavoro di Benedetto, che - anche a detta di antropologi e sociologi - è il primo nella storia dell’Occidente che lo nobilita, in quel suo inciso “guarda che se Tu sei un uomo di fede, allora lavora, ma non per mero dovere, guarda che è roba buona”, capovolgendo quanto vissuto fino ad allora, quando il lavoro era solo la fatica degli schiavi.
Ma al fondo l’umanità è fragile. Sartre, l’esistenzialismo, Camus mi fanno tenerezza, perché non tengono conto di questa fragilità umana.

AMV) D’altronde falliscono tutte le teorie che postulano che l’uomo sia buono e non fanno i conti con la realtà

AV) Con il disorientamento di oggi, forse chiudersi in una comunità, con le sue belle regole, può avere nuovamente un fascino

MF) C’è questo libro di Rod Dreher, un americano, “L’opzione Benedetto”, dove si teorizza che le comunità monastiche avrebbero avuto successo perché erano enclaves chiuse; ma in realtà i monasteri erano porosi, le grandi abbazie erano dei borghi. Anche oggi il tema non è chiudiamoci

AV) Intendevo “sottraiamoci alla confusione”

MF) Non è barricandoci che si risolve. A parte che probabilmente non è possibile. Questo libro, equivocando l’esperienza monastica, propone la chiusura: non è nello spirito cristiano,

AMV) Però un po’ c’è nello spirito del monachesimo; raccogliamo le nostre forze, e solo poi confrontiamoci con l’esterno

MF) Conoscendo tante comunità, vedo che le comunità che si chiudono involvono. Quelle che evolvono mantengono l’identità, ma si aprono. Vedi i monaci di Dumenza: fisicamente si sono quasi isolati, ma lo vedi che sono in dialogo. Altri si ritraggono e si accartocciano. Oggi c’è l’impressione che tutti comunichino, e in realtà non dialogano con nessuno C’è contatto, ma non c’è relazione.

AV) Domandone finale: alcuni economisti, come Becchetti o Magatti, criticando gli assetti presenti, sembrano puntare molto sul ruolo sociale delle “imprese responsabili”. Lei pensa che possa delinearsi una società migliore attraverso la (sola) diffusione di un insieme di esempi virtuosi? C’è modo di rendere etico il contesto di mercato, oltre la singola impresa? L’auspicabile estensione di esperienze evolutive rimane affidata alla spontaneità oppure sono possibili stimoli istituzionali? Inoltre: sono comunque indispensabili anche i classici (ma usurati) strumenti di politica economica generali? (C’è facoltà di non rispondere…)

MF) Non mi pronuncio ancora sulla manovra di questo Governo, sono in attesa: forse c’è qualcosa che non capisco. L’economia avrebbe bisogno di scelte. Il precedente governo qualcosa aveva fatto. Ad esempio la legge sulle “società benefit” NOTA B, con l’Italia prima in Europa su questo fronte. Aiuterebbero ad esempio de-fiscalizzazioni…
Ma al momento rimangono fenomeni marginali. Qualcosa di positivo c’è, ad esempio la legge 231 del 2001 (sulla responsabilità penale dei soggetti giuridici), o anche l’obbligo dei report di sostenibilità per le imprese quotate o per le cooperative. Però mi sembrano norme o indirizzi che non hanno ancora iniziato a generare cultura; la sensibilità resta in capo alle imprese e quindi agli imprenditori. Bisognerebbe invece che si muovessero i “corpi intermedi”. Mentre vedo indietro sia Confindustria che Confartigianato. Le imprese “virtuose” sono ancora piuttosto isolate, devono arrangiarsi da sole.
Un altro aspetto che Becchetti sottolinea è quello del consumatore, se aumentasse il suo discernimento, potrebbe influenzare molto di più le aziende. Un pochettino sta accadendo, non so quanto. Un consumatore più maturo rende più mature anche le imprese; molte imprese cominciano ad essere sensibili ai “voti” dei consumatori.
Su questo forse c’è un effetto benefico dei social.
L’Italia, che appare sempre un po’ in ritardo, però forse è tra i primi paesi ad aver raccordato alcuni elementi, come le Benefit Corporation, il terzo settore, le cooperative… Ci sono nuovi elementi su cui in Italia ci si sta muovendo. Adesso occorre vedere da un lato cosa farà il nuovo governo, dall’altro se queste norme rimarranno sulla carta o diverranno cultura, innescheranno dei processi: per ora siamo solo agli inizi.

AV) Per ora sono solo ”nicchie normative”, che non pervadono l’assetto complessivo del mercato?

MF) Per esempio il Decreto legislativo 231, “legge sull’etica”, noi l’abbiamo seguita a lungo, perché era veramente ben congegnata, ma è stata mal interpretata, mal accolta, divenuta ostaggio degli studi legali, come adempimento burocratico da disbrigare; alla fine è risultata una opportunità sprecata.
Il mondo anglosassone è orientato alla norma, l’etica contrattuale nasce lì; il bene comune è la sfida, per creare bene comune tra me e te occorre normarlo.
L’etica è la virtù, ma deve essere suffragata dalla norma.
In Italia c’è un po’ di legge morale, ma è “strattonata”: bisognerebbe in primo luogo renderla più cultura e in secondo luogo supportarla con una normativa adeguata.
Però c’è anche in giro un sacco di brava gente, c’è un fermento positivo, che – ad esempio – non ti aspetteresti al vertice di tante imprese.
L’Italia è un po’ un guazzabuglio, un tessuto positivo ci sarebbe, ma poi ci disperdiamo in mille rivoli: abbiamo il peggio ma anche gli anticorpi.
In alcuni zone prevalgono gli uni a scapito degli altri, e viceversa.
Io comunque preferisco lavorare in questa realtà rispetto ad esperienze che ho fatto in Nord Europa. Altrove, e soprattutto nelle multinazionali (anche nelle filiali italiane) prevalgono schemi procedurali pesanti e abbastanza impermeabili alle istanze socio-ambientali di cui abbiamo parlato

AMV) Una cosa che vorrei capire: le imprese normali come vedono quelle “responsabili”, impegnate nel sociale nell’ambiente?

MF) Ho l’impressione che ci sia una sorta di “switch”: o capisci o non capisci. A quelli che potremmo definire “non-etici” (a parte i ladri), anche imprese serie, non gli passa nemmeno per la testa di porsi questi problemi: non li vedono. Vedi il caso Olivetti. Li considerano strani.
Anche se gli dici che gli imprenditori “etici” hanno fatto profitti, non gli interessa.
Ci sono carenze culturali e ideologiche, a partire dalle Università.



NOTA A: un eremita che distrugge il lavoro svolto per poter ritrovare di che lavorare.
Un monaco provetto artigiano che deve rinunciare alla professionalità per dimostrare umiltà.
Il successo anche economico dei monasteri quale “eterogenesi dei fini”, ma che viene conseguito attraverso prezzi fuori-mercato grazie al lavoro volontario e sottopagato

NOTA B: il concetto di “società benefit” è ben illustrato ad esempio nel dossier:


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