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mercoledì 21 novembre 2018

UTOPIA21 - NOVEMBRE 2018: DEMOCRAZIE, POPULISMI ED UTOPIE


Una ricerca sugli elementi essenziali nella contrapposizione in atto tra le democrazie “tradizionali” e le spinte sovraniste e populiste, in Europa e nel mondo, attraverso l’analisi di alcuni testi e lo sviluppo di considerazioni personali.


Sommario
Premessa
Parte prima: lo scontro tra democrazia e populismo nei testi in esame
-       la democrazia sfigurata secondo Nadia Urbinati
-       Diamanti e Lazar: la metamorfosi delle democrazie in “popolocrazie”
-       il duello tra democrazia (liberale) e populismo per Yascha Mounk
Parte seconda: mie considerazioni, a partire dalle carenze dei testi esaminati
-       la rimozione del ruolo polarizzante del movimento operaio
-       la concezione statica e conservatrice dei regimi liberal-democratici
-       la mancanza di una utopia democratica e sociale


PREMESSA

La crescita, in gran parte dell’Occidente, di movimenti populisti e sovranisti, richiama l’attenzione sul concetto di “democrazia”: a maggior ragione dopo la Brexit, l’elezione di Trump negli USA e la formazione del governo Lega-5Stelle in Italia.

In particolare l’affermazione esplicita da parte del leader ungherese Orbàn dei valori di una “democrazia illiberale” (per altro già enunciata da Karl Schmitt agli albori del nazismo) contrapposta ai principi condivisi nella Unione Europea (Carta dei diritti fondamentali dell'Unione) e le convergenti tendenze di fatto ad una sorta di plebiscitarismo in paesi come la Polonia (ed altri membri orientali della UE), la Turchia e la Russia, sollecitano a riflettere su quali siano gli aspetti discriminanti rispetto ad una diversa “democrazia” (a cui ci pare di essere affezionati).

Poiché l’origine greca della parola rimanda ad esperienze molto diverse da quelle sperimentate negli ultimi secoli in Occidente e poiché – sommariamente – nelle città-stato dell’antica Grecia la “democrazia” si distingueva dalla “tirannia” e dalla “aristocrazia”, ma comprendeva al suo interno fenomeni di demagogia assembleare e di dittatura delle maggioranze (come l’ostracismo verso i dissidenti), si rende di fatto necessario aggiungere qualche aggettivo per riconoscere una moderna democrazia.
Cioè una democrazia inclusiva dei diritti civili e sociali, dei singoli e delle minoranze, quale quella delineata dalla Costituzione italiana (e da altre coeve costituzioni di stati europei), nonché dalla suddetta Carta  della UE.
Cosicché dicendo “democrazia costituzionale” fino ad oggi si intende in Italia qualcosa di abbastanza preciso, ma non generalizzabile come definizione, perché in una costituzione si potrebbero anche negare alcuni fondamentali diritti (come si sta iniziando a fare ad esempio in Polonia). NOTA A,

“Democrazia liberale” (come propone Yascha Mounk in “Popolo vs. democrazia, dalla cittadinanza alla dittatura elettorale”  1), pur con il pregio di contraddire frontalmente Orbàn, mi sembra riduttivo (come indicherò più avanti), ma può essere storicamente significativo, perché il liberalismo si è affermato prima della moderna democrazia, come temperamento del potere assoluto delle monarchie, acquisendo - attraverso lotte, guerre e rivoluzioni - posizioni giuridiche a tutela di alcune categorie di sudditi, e poi tendenzialmente di tutti i cittadini. 

“Democrazia rappresentativa” (come specifica Nadia Urbinati in “Democrazia sfigurata. Il popolo tra opinione e verità” 2), mi pare troppo legato all’istituto della delega, contrapposto ad una ipotetica democrazia diretta (quale quella vagheggiata dal MoVimento 5Stelle e soprattutto da Casaleggio Associati);  delega sostanzialmente necessaria nelle dimensioni demografiche degli attuali stati nazionali.

Più utile forse la narrazione di un processo, da “Democrazia dei Parlamenti” a “Democrazia dei Partiti e dei Parlamenti”3, per poi divenire “Democrazia del Pubblico” ed infine “Popolocrazia”, come descritto da Ilvo Diamanti e Marc Lazar in “Popolocrazia. La metamorfosi delle nostre democrazie”.

Considerando che non è questione di nomi, ma di sostanza, mi appoggerò (soprattutto) alla lettura critica dei tre testi sopra citati (che ho scelto tra la vasta pubblicistica recente su questo tema di attualità NOTA B) per approfondire, nella prima parte dell’articolo la problematica dello scontro in atto – schematizzando – tra democrazia e populismo in questo inizio di secolo; cercando poi di sviluppare nella seconda parte alcune mie personali considerazioni.



PARTE PRIMA: LO SCONTRO TRA DEMOCRAZIA E POPULISMO NEI TESTI IN ESAME

Trattandosi di testi abbastanza poderosi, non procederò ad una recensione analitica ed esaustiva di ciascuno di essi, ma solo a coglierne gli elementi essenziali, consigliandone – per chi ne abbia il tempo – una lettura integrale, perché a mio avviso assai interessanti.


 LA DEMOCRAZIA SFIGURATA SECONDO NADIA URBINATI

Urbinati, allieva di Norberto Bobbio e cattedratica alla Columbia University di New York, affronta il tema nell’ambito della scienza politica e della filosofia del diritto, con ricchezza di fonti lungo tutto il percorso del pensiero da Platone (e soprattutto dall’amatissimo Aristotele) ad oggi (più precisamente al 2014, quindi prima degli scossoni elettorali più recenti); anche con rimandi puntuali alla storia, ma solo funzionali alla verifica di singole ipotesi e non immergendo le attuali contraddizioni nel flusso concreto delle vicende degli ultimi secoli e decenni.
Il che rischia di far apparire come un modello astratto e senza tempo la sua proposizione della democrazia NOTA C, che è necessariamente quella rappresentativa (pur senza una estesa critica della democrazia diretta, stigmatizzata come dominio della demagogia), e che consiste nella “diarchia” e nell’equilibrio tra “volontà” (ovvero il momento formale in cui gli elettori si esprimono con il voto) e “opinione” (ovvero la continua influenza della società civile sulle decisioni dei governanti).

Modello ideale che nel trattato di Nadia Urbinati risulta insidiato oggi da tre tendenze degenerative:
-       la “epistocrazia”, cioè la reazione tecnocratica che – spaventata dalle decisioni emotive del popolo e timorosa che comportino scelte non efficienti - tende a sottrarre sovranità ai cittadini, conferendo poteri poco controllabili alle élites specialistiche (magistratura, scienziati, alti burocrati, ecc.); moderne forme di “epistocrazia”, ad esempio, muovono dalla critica alla faziosità (e crescente scarsa credibilità) del mondo politico per proporre un ruolo centrale ai forum tematici di esperti (Pierre Rosanvallon), oppure – quasi all’opposto - a comitati di cittadini sorteggiati come rappresentativi, ma non eletti (Philip Pettit); 
-       il populismo, che - forzando i movimenti di opinione in una presunta convergenza unitaria del popolo - tende a subordinare le decisioni alle passioni del momento, insofferente rispetto alle regole procedurali; caratteristiche comuni alle diverse manifestazioni storiche del populismo sono l’esaltazione della purezza del popolo contro i compromessi del potere, la polarizzazione ideologica contro “i nemici”, la discriminazione di minoranze e dissidenti, la verticalizzazione dei rapporti tra gli elettori ed un “capo”, l’insofferenza verso le rappresentanze ed i corpi sociali intermedi, l’uso spregiudicato di “miti, simboli e retorica”;
-       il plebiscitarismo, che – esaltando il rapporto mediatico tra leader ed elettori, ridotti a spettatori – cerca di ridurre la dialettica politica al solo momento della delega elettorale;  recuperando nella sacralità del leader elementi ideologici della monarchia e privilegiando le forme di governo presidenzialiste, sulla scia del tardo Max Weber e di Karl Schmitt, il moderno plebiscitarismo tende a valorizzare la comunicazione mediatica uni-direzionale (e soprattutto il mezzo televisivo, “videocrazia”); e assegna, per esempio in Edward Green, al cittadino-spettatore un (presunto) ruolo di controllo permanente sull’immagine del leader (costretto però a rinunciare alla propria riservatezza): trascurando viceversa quanto l’emittenza televisiva può manipolare i messaggi.

Invece la retta via – secondo Urbinati - è quella del “proceduralismo”, il quale non garantisce la bontà delle decisioni (che per altro nessuno può definire dall’alto od a-priori), bensì solo la (fondamentale) reversibilità e correggibilità nel tempo di ogni decisione, a condizione che sia sempre tutelato il pluralismo delle opinioni e la libertà di pensiero e di parola del singolo cittadino: libertà non solo “negativa”, contro la censura, ma anche in positivo, quale elemento basilare per influenzare e controllare il potere.
Pertanto il vero regime democratico, rappresentativo/costituzionale, è quello che tutela le minoranze e limita il potere delle maggioranze.
Questione centrale per Urbinati è quella della “par condicio” nell’accesso ai mezzi di comunicazione (benché Urbinati non condanni pienamente la radice liberale della sentenza della Corte Suprema U.S.A. “Citizen United“, che nel 2010 ha rimosso i precedenti limiti ai finanziamenti  privati nelle campagne elettorali in nome della libertà di parola delle imprese, facendo alzare alle stelle i costi delle stesse campagne).
Riguardo “ai media”, il testo si occupa in realtà soprattutto della televisione, a partire dal caso paradigmatico di Berlusconi, senza indagare a fondo sulle specificità di Internet e dei “social media”.

Viceversa l’Autrice – a mio avviso sbagliando - non conferisce una importanza decisiva alle disuguaglianze socio-economiche, ritenendo che il loro “contenimento” sia sufficiente per consentire un equo funzionamento delle istituzioni democratiche, sia sul versante delle decisioni elettorali, sia su quello delle influenze d’opinione, pur avvertendo i rischi di prevaricazioni da parte dei ceti più abbienti e di disaffezione la partecipazione politica da parte dei meno abbienti.

Cammin facendo Urbinati rende conto delle più disparate critiche alla “democrazia reale” (e soprattutto alla partitocrazia, che tuttavia la stessa Urbinati, malgrado la conoscenza delle vicende italiane, non contempla come significativa tendenza degenerativa della democrazia, da porre alla pari delle altre 3 degenerazioni da lei codificate):
- da quelle di Platone e Cicerone (e di più recenti epigoni) contro la “demagogia” oppure in suo favore (LeBon),
- a quelle di Pareto, Mitchell, Schumpeter NOTA D che variamente riducono i regimi democratici ad una competizione tra élites concorrenti,
- fino alla più aggiornata narrazione di Bernard Manin, che evidenzia nella “democrazia del pubblico” il declino dei partiti e l’emergere degli esperti della comunicazione.
Ma per Urbinati tali critiche non intaccano il nocciolo buono della democrazia rappresentativa, a condizione che si tuteli il fondamentale equilibrio tra decisione ed opinione (“epistème” e “doxa”).

Merito del “proceduralismo” è anche, secondo Urbinati, di non coltivare utopie, ed anzi di essere potenzialmente la tomba di tutte le utopie: la democrazia rappresentativa come secolarizzazione permanente delle ideologie politiche.
Anche se – ammette l’Autrice nelle conclusioni -  “Il valore del processo democratico fa sì che il compito politico di conservarlo sia obiettivo tutt’altro che vile o secondario. Si può persino affermare che si tratta di un compito a sua volta utopistico in quanto …. i cittadini devono apprezzare il valore delle regole e delle norme democratiche nonostante le loro performances scadenti …., ma anche la possibilità di porvi rimedio”.
In sostanza quindi Urbinati propone come utopia la conservazione del sistema regolativo della democrazia rappresentativa.


IL DUELLO TRA DEMOCRAZIA (LIBERALE) E POPULISMO PER YASCHA MOUNK

Yascha Mounk, nato in Germania da famiglia ebraica cosmopolita (suo malgrado), laureato in Inghilterra e cattedratico ad Harvard, frequentatore e conoscitore anche del nostro paese, politologo di taglio storico-sociologico, ha editato nel maggio 2018 l’edizione italiana del suo saggio, e si è confrontato pertanto (rispetto ad Urbinati) con una maggior dose di populismi vincenti, seppur alla vigilia della formazione del governo italiano Lega/5Stelle.

Il testo, scorrevole e ben documentato (salvo alcuni svarioni – NOTA E) , sullo sfondo di una storia bicentenaria del populismo (di cui però trascura il filone della Russia ottocentesca), affronta a tutto campo il rischio di un tramonto della democrazia liberale, appena dopo il suo apparente trionfo con la caduta dell’antagonistico modello sovietico sul finire del Novecento.
Caduta del “socialismo reale” che aveva condotto teorici come Francis Fukuyama a teorizzare la “fine della storia” in una diffusa democrazia capitalista, ma più in generale aveva portato la pubblica opinione a ritenere irreversibile il modello politico liberal-democratico, quanto meno dove era consolidato nel mondo occidentale.

Mounk descrive come la fine della democrazia liberale, fine già ritenuta “impossibile”, stia iniziando invece a divenire possibilità, o addirittura realtà: non solo negli stati di recente affrancamento da precedenti regimi totalitari, come l’Ungheria e la Polonia (dove si esperimenta una “democrazia senza diritti” a danno della stampa e istituzioni indipendenti, delle minoranze etniche e politiche e dei diritti individuali, a partire dalla libertà di espressione), ma anche nel cuore dell’Occidente, dove avanzano nuove forze politiche sovraniste che riecheggiano quel modello, a partire dalle forme della propaganda polarizzante contro le élites e contro gli immigrati (emblematica la vittoria del referendum svizzero contro i minareti), e nel contempo si misura quanto le strutture politiche si siano spesso atrofizzate in livelli tecnocratici e burocratici (vedi Commissione Europea e varie Autority), assecondando il calo della partecipazione dei cittadini (cui sono comunque garantiti i diritti civili individuali: “diritti senza democrazia”). 

Nel quadro internazionale che contraddistingue l’inizio del secolo, caratterizzato dalla globalizzazione, dai conflitti etnico-religiosi e dai flussi migratori, Mounk individua specificamente le cause del successo dei populismi nei seguenti fattori:
-       aumento delle disuguaglianze socio-economiche, con l’esaurimento delle modalità redistributive in precedenza instaurate, e compressione delle speranze di miglioramento per i ceti subalterni (anche prima e dopo la fase più acuta della crisi finanziaria del 2008); particolarmente interessante è l’analisi sociologica sull’elettorato di Trump, che non risulta mediamente più povero rispetto a quello di Hillary Clinton (risulta sì però meno istruito), ma soprattutto si trova insediato in contesti a rischio di impoverimento (de-industrializzazione ecc.), tali da incrementarne la vulnerabilità soggettiva;
-       acutizzazione delle sensibilità identitarie a fronte dei flussi migratori e degli episodi terroristici, in realtà nazionali che erano in precedenza, per lo più, monoetniche; alcuni sociologi statunitensi (come sempre orientati alle ricerche quantitative) propongono in merito  anche alcune ipotesi di correlazioni statistiche tra % di presenza di stranieri e percezione del disagio interetnico, con esiti NON proporzionali (allarmi elevati con soglie iniziali e intermedie, e loro superamento – ad esempio – in California a fronte di una immigrazione che sfiora il 25% della popolazione); NOTA F
-       irruzione dei social media nelle modalità di comunicazione politica, con enorme abbattimento dei costi per il lancio di campagne di propaganda da parte di movimenti nuovi o outsider, e con incomprimibile effetto di rilancio sui media tradizionali anche per le fake news più infondate (se una notizia, anche falsa, riesce ad emergere nella rete, televisioni e giornali non possono ignorarla, e così loro malgrado funzionano da cassa di risonanza).

Ed è su questi 3 fronti che Mounk ritiene necessaria e possibile una articolata risposta da parte delle “democrazie liberali” (iniziando comunque da una coraggiosa opposizione politica contro le effrazioni delle regole e contro le propagande strumentali e falsificatorie; e segnala il caso della Corea del Sud come esempio positivo di possibile rifiuto di un deriva populista, con il rovesciamento della presidenza di Park Geun-hie nel 2017):
-       sul terreno socio-economico l’Autore suggerisce un insieme di politiche finalizzate ad una profonda rifondazione dello “stato sociale”, in materia di fisco, abitazioni, lavoro e assistenza, adeguata alle attuali caratteristiche della produzione e della finanza (una sorta di riformismo sociale che diviene obbligatorio per salvare le democrazie liberali);
-       sul fronte dei conflitti etnico-migratori, Mounk (partendo dalla sua esperienza di cosmopolita che però i nazionalismi li ha incontrati e conosciuti), vorrebbe sottrarre il nazionalismo ai sovranisti, rilanciando un “patriottismo inclusivo” (alla Obama), in cui prospetta un complesso e difficile equilibrio tra saldezza dei principi relativi alle libertà individuali (e quindi contro ogni discriminazione, ma anche contro i condizionamenti etnico-religiosi) e la comprensione delle diversità culturali,  tra l’accoglienza verso chi già è immigrato ed il controllo dei confini e dei flussi;   
-       riguardo alla qualità della comunicazione ed alla credibilità dei messaggi, Mounk propone di arginare gli eccessi delle fake-news attraverso una regolamentazione (e ancor meglio auto-regolamentazione) dei social-media, con repressione dei meccanismi automatici di rilancio (i falsi account detti “bot”) ; ma soprattutto sollecita un profondo miglioramento dell’istruzione e dell’educazione civica (evidenziando la decadenza del ‘patriottismo costituzionale’ che vigeva storicamente negli USA ed anche la pericolosa autoreferenzialità del mondo accademico, anche di eccellenza, nelle facoltà socio-politiche americane, tutto concentrato sulle graduatorie delle ‘pubblicazioni’ anziché sulla realtà sociale) ed auspica una radicale auto-riforma del sistema politico, contro la corruzione, i conflitti di  interesse e le collusioni con le lobbies (nonché limitando l’influenza della ricchezza privata nel controllo dei media).

Nel farsi propositivo e politico, mi sembra che Mounk si dimentichi di essere politologo, e non sorregga le sue vigorose perorazioni (pur largamente condivisibili) con adeguata individuazione delle forze in campo per sorreggerne l’attuazione. Su quali gambe oggi cammina la “democrazia liberale”? Chi può riuscire a convincere banchieri, politici e social-media ad auto-riformarsi? 
  

DIAMANTI E LAZAR: LA METAMORFOSI DELLE DEMOCRAZIE IN "POPOLOCRAZIE"
  
Il politologo e sondaggista Ilvo Diamanti ed il collega francese (ma studioso dell’Italia) Marc Lazar hanno pubblicato il loro testo “POPOLOCRAZIA. LA METAMORFOSI DELLE NOSTRE DEMOCRAZIE” 3 nel marzo 2018, concludendolo alla vigilia delle elezioni parlamentari in Italia (di cui già misuravano le tendenze nei sondaggi), ed è quindi più aggiornato degli altri due libri che ho preso in esame.

La precisa attenzione all’attualità e gli approfondimenti sui fenomeni in atto in Italia e Francia si accompagnano comunque ad una sintetica ma esauriente panoramica storica, estesa alla Russia ottocentesca ed agli Stati Uniti d’America (sia nell’Ottocento che nel Novecento), - con pochi cenni però all’America Latina -, ed assai approfondita ancora su
-       Francia (il Boulangismo e la Lega Anti-semita a fine Ottocento, la destra nazionale e sociale degli anni Trenta, il Poujadismo nella Quarta Repubblica – anti-fisco e pro colonialismo in Algeria - ed infine il Front National, da Le Pen padre a Le Pen figlia ma anche la France Insoumise di Mélenchon, erede di un populismo di sinistra presente nella propaganda del PCF ed in certi atteggiamenti del Partito Socialista di Mitterrand, nonché nella fiammata maoista del ‘68)
-       e Italia (dalle origini opposte del giacobinismo e del sanfedismo, tra Settecento e Ottocento, al populismo come componente del Fascismo, e poi come quintessenza del Qualunquismo e del Laurismo, nonché come tentazione della sinistra - da  Nenni a Craxi, passando anche per Pannella NOTA G - per finire a Bossi ed a Berlusconi,  poi ai giorni nostri, dopo la meteora di Di Pietro, con la Lega di Salvini ed i 5Stelle).

Il populismo è definito – in modo necessariamente complesso – come movimento contrapposto alle élites, dicotomico (polarizzazione amico/nemico), semplificatore e immediatista (sia nel senso del rifiuto delle mediazioni e delle rappresentanze, sia nel senso temporale del “presentismo”), passionale e spesso imperniato sulla figura di un leader carismatico.
Gli Autori però evidenziano le differenti concezioni del “popolo unitario” espresse dai vari populismi, talora su base etnica e tradizionalista (con le varianti del localismo oppure del nazionalismo), tal altra invece modernizzante e “futurista” come nel mito Pentastellato dei “cittadini in rete”; e le prevalenti distinzioni tra il populismo di destra – nazionalista e talora razzista – e quello di sinistra – di origine classista -  per lo più contrastato dalle organizzazioni tradizionali del movimento operaio, per motivi ideologico-culturali oppure “tattici” (e poi strategici: l’accettazione della democrazia rappresentativa come fase intermedia in attesa di una rivoluzione poi rinviata sine die).
E percorrono giustamente gli elementi di populismo riscontrabili in diversi periodi anche all’interno dei principali filoni politici di Destra e di Sinistra, da Sarkozy a Macron, da Pertini a Matteo Renzi (con qualche indulgenza forse sul versante centrista, dove viene censurato Bayrou, ma salvato de Gaulle).   

Però le considerazioni fondamentali (e quasi conclusive) di Diamanti e Lazar, riferite alla svolta di questo inizio di secolo, e particolareggiate riguardo a Francia e Italia  (ometto di riferire la narrazione degli Autori su Le Pen e Mélenchon, NOTA H Salvini e Di Maio, perché fenomeni comunque assai presenti ai nostri occhi di contemporanei), consistono nella presa d’atto di una complessiva tendenza alla metamorfosi delle tradizionali democrazie occidentali in “popolocrazie”, perché l’influenza dei movimenti populisti, favoriti dalla crisi economica, dai flussi migratori e dalla facilità delle comunicazioni social-mediatiche, oltre a pesare direttamente nella vita politica, comportano una crescente assimilazione dei partiti antagonisti alle logiche da loro imposte, in termini di:
-       personalizzazione dell’offerta politica (ma anche degli organismi istituzionali ed aziendali, sempre più identificati con le figure dei rispettivi Presidenti); determinando “partiti senza società …. leader senza partiti”;
-       immediatizzazione della comunicazione (come già sopra richiamato, immediatezza nei tempi e nella soppressione di ogni mediazione, prevalenza dei ri-sentimenti sulla ragione), sia di tipo “verticale”, come la televisione e le ”dirette su Face-book”, tra leader e pubblico, sia di tipo orizzontale, come internet ed i suoi social-media, apparentemente egualitari (mentre in realtà escludono larghe fasce di popolazione, a partire dagli anziani, e nascondono il predominio di chi controlla le piattaforme e gli algoritmi);
-       rincorsa ai linguaggi “anti-politici” ed ai temi determinati dalla spinta populista, vedi soprattutto i cedimenti sul fronte migratorio od anti-islamico, da parte di soggetti centristi (come ad esempio i popolari austriaci od i conservatori olandesi) e le retoriche della “riscossa delle periferie”.

Anche se nel frattempo i movimenti populisti subiscono inevitabili processi di normalizzazione avvicinandosi al potere.
A fronte di disuguali e discontinui segnali di successo dei partiti populisti in Europa (ma in Italia ed in Francia hanno comunque conseguito una centralità, diretta o indiretta) gli Autori lasciano aperta la previsione sulla definitiva affermazione della “popolocrazia”.

Ed in alcune battute finali pongono l’interrogativo se sia possibile rispondere positivamente al risentimento ed alla frustrazione di chi si sente “escluso”; e se sia possibile farlo senza scimmiottare ed introiettare il populismo stesso (come invece sostanzialmente propone, per salvare l’Europa unita, il politologo bulgaro Ivan Krastev, in nome della specificità della storia dell’Est Europa e del rifiuto di una importazione coloniale della liberal-democrazia - vedi nota B).

Lasciando qualche speranza ai “partigiani della democrazia – liberale e rappresentativa –“ a condizione che (rilevo, in stretta analogia alle più articolate proposte di Yascha Mounk):
-   “riescano ad analizzare e comprendere i cambiamenti” [in atto]…
- rifondino “il patto sociale …”
- ripensino “i modelli di integrazione degli immigrati”…
- restituiscano “senso – e passione – alla politica” e ricostruiscano            “un clima di fiducia tra i cittadini e i loro rappresentanti”…
- rilancino infine “il progetto europeo”.

(Anche Diamanti&Lazar non si preoccupano di verificare se l’ipotetica resistenza anti-populista abbia una base sociale su cui appoggiarsi).


PARTE SECONDA: MIE CONSIDERAZIONI, A PARTIRE DALLE CARENZE DEI TESTI ESAMINATI

Mi permetto di seguito di sviluppare alcune considerazioni personali sul tema delle sorti della democrazia occidentale, partendo dalle lacune che mi sembra di aver individuato, pur con differenze, in tutti e tre i testi esaminati.


LA RIMOZIONE DEL RUOLO POLARIZZANTE DEL MOVIMENTO OPERAIO

L’affermazione delle forme di democrazia liberale nei principali paesi dell’Occidente, soprattutto europeo, ha dovuto presto confrontarsi con la nascita e la crescita del movimento operaio, e con lo “spettro del comunismo”.
Pur con oggettivi intrecci con il populismo (che aveva caratterizzato le rivolte dei ceti subalterni nei secoli precedenti, ad esempio con i Ciompi, Cola Di Rienzo e Masaniello), i diversi filoni del movimento operaio, ottocentesco e novecentesco (anarchici, comunisti, socialdemocratici), evolvendosi dalle origini filantropiche e caritative, si sono caratterizzati soprattutto per la pratica (e per il mito) della emancipazione degli stessi proletari attraverso le lotte sindacali e l’auto-organizzazione, nonché attraverso l’acculturazione, in parte rivendicata davanti allo Stato (istruzione pubblica) ed in parte autogestita (spesso con un ruolo ambiguo ma indispensabile di militanti intellettuali di origine piccolo-borghese).

Il che, almeno idealmente ovvero “ideologicamente”, è abbastanza agli antipodi del populismo, perché, anche quando le correnti estremiste e rivoluzionarie disdegnano la democrazia liberale, presuppone un ruolo attivo e organizzato delle masse e dei loro “delegati”, e non una delega passiva al demagogo di turno.

Da queste esperienze sono nati i modelli organizzativi dei sindacati (assai diversi dalle antiche corporazioni, da cui pure in parte sono figliati, perché rispecchianti in modo antitetico la nuova organizzazione produttiva delle fabbriche) e dei partiti di massa.
Organizzazioni ben presto passibili di forme degenerative in senso burocratico e/o settario e/o leaderistico, e ben presto imitati, in termini concorrenziali oppure antagonistici, su altre basi aggregative: vedi i sindacati e partiti cattolici (intrecciati con quelli contadini) e più tardi gli stessi movimenti fascisti e nazional-socialisti, che hanno egemonizzato le masse (compresa parte dei lavoratori dipendenti) su un versante di destra, dal quale i vecchi partiti borghesi e liberali non riuscivano a contrapporsi validamente al pericolo della rivoluzione proletaria.

Però sia i successi che i fallimenti della eroica e tragica epopea del movimento operaio hanno generato mostri, spesso di natura populista, dentro o contro di esso:
-       i successi, perché la forza crescente del proletariato organizzato ha suscitato poderose reazioni, tra cui la contrapposta organizzazione di strati sociali piccolo-borghesi reazionari (e qui figurano bene tutti i populismi di destra censiti da Diamanti&Lazar tra fine Ottocento e tre quarti del Novecento);
-       i fallimenti, perché il velleitarismo anarchico, l’ingloriosa resa della Seconda Internazionale alla chiamata alle armi delle contrapposte nazioni nel 14-18, le rivoluzioni mancate (come il biennio rosso 1919-21 in Italia e similmente in Germania), il massimalismo parolaio dei Socialisti ed il settarismo dei Comunisti nel 1921-22, hanno sempre sistematicamente prodotto delusione e risentimento, lasciando i singoli proletari in preda ad alternative sirene demagogiche, fascismi compresi:
-       i grandi successi che racchiudono (già in nuce) grandiosi fallimenti, come la Rivoluzione d’Ottobre in Russia e la conseguente cruciale esperienza del cosiddetto Socialismo Reale (culto della personalità dei leaders, da Lenin a Stalin giù giù fino a Breznev), ancor di più: sia in corso d’opera, con le progressive rivelazioni sulle degenerazioni del sistema, sia al tracollo definitivo attorno al 1989, NOTA I che ha indirettamente delegittimato anche le formazioni moderate euro-comuniste e socialdemocratiche (queste pur spesso dichiaratamene anti-comuniste), perché ha spianato universalmente le menti al concetto che non vi siano alternative possibili al capitalismo (più o meno liberal-democratico).

A mio avviso, in particolare, le ondate più recenti dei populismi, a partire in Italia dalla Lega Nord di Bossi e dal Berlusconismo, si sono ampliamente alimentate, nel loro consistente successo all’interno dei ceti subalterni (compresi talora i quadri del movimento operaio), di quel complesso insieme di ri-sentimenti, delusione e frustrazione derivanti dal tramonto del mito comunista.
Molto banalmente, se non “adda venì” più nessun “Baffone”, le speranze di riscatto sociale si atomizzano e tornano a passare dai canali clientelari oppure da altri miti proposti dal bar, dallo stadio, e soprattutto dalla televisione. 
Gli effetti delle globalizzazione e poi la crisi economica e la novità (in Italia) dei flussi migratori hanno accentuato e rilanciato tali processi in un nuovo ciclo, ora sorretto anche dai social media (e annesse fake news), di cui il MoVimento 5Stelle e la Lega-di-Salvini sono gli attuali catalizzatori. 
NOTA J


LA CONCEZIONE STATICA E CONSERVATRICE DEI REGIMI LIBERAL-DEMOCRATICI

Se lanciamo uno sguardo lungo ai processi di trasformazione degli Stati occidentali nell’età moderna, il liberalismo e la democrazia appaiono come una lenta e contrastata conquista, a partire da istituzioni per lo più monarchiche ed autocratiche (le poche situazioni di carattere repubblicano, in prevalenza aristocratiche, affondano le radici nel Medioevo e risultano declinanti o sconfitte  dalle monarchie – vedi Genova e Venezia ed i Paesi Bassi - con l’eccezione della Svizzera, di San Marino ed in generale dei poteri locali comunitari dei capi-famiglia, confinati nelle regioni alpine, poteri patriarcali  che con molta fatica sono poi evoluti in forme più modernamente democratiche).
Le classi borghesi che si fanno strada rovesciando – a colpi di violente rivoluzioni, prima in Inghilterra, poi nelle colonie Americane ed infine in Francia e poi nel 1848 europeo  – l’assetto delle Monarchie Assolute (o quasi assolute, nel caso inglese), ne ereditano la forma statuale centralizzata e ne temperano la verticalità garantendo alcuni diritti: ma restano a lungo ben lontane dall’affermare un modello democratico, pur evocato nei proclami rivoluzionari ed echeggiato – talora - nella Costituzioni repubblicane (oppure concesse dai Monarchi, come ad esempio lo Statuto Albertino).
Basti osservare come i nuovi regimi liberali e parlamentari convivono, per tutto l’Ottocento, e spesso ben dentro al Novecento, con pesantissime limitazioni all’esercizio dei diritti politici ed alla eguaglianza effettiva dei cittadini:
-       schiavismo e razzismo (in America anche dopo la guerra di Secessione e comunque contro i nativi “pellerossa”; per Francia e Inghilterra fin dopo la seconda guerra mondiale nei confronti dei “sudditi coloniali”);
-       esclusione dal diritto di voto per le donne, i poveri e gli analfabeti;
-       repressione sistematica del movimento operaio e delle libertà sindacali (per non parlare dei soggetti “devianti”, quali gli omosessuali oppure i malati mentali).

Se questo assetto coinvolge i principali modelli della democrazia liberale (USA, Gran Bretagna, Francia), a maggior ragione si riverbera sulle nazioni arrivate più tardi al costituzionalismo e ombreggiate da pesanti tradizioni autoritarie e paternaliste, come gli imperi asburgico e germanico (e dintorni) oppure la penisola iberica: con qualche felice e parziale eccezione forse ai margini dell’Occidente, come nel Benelux e in Scandinavia oppure nelle ex colonie inglesi Canada e Australia, e con una larga evoluzione positiva più generale solo dopo il 1945 anche in Germania Ovest, Italia, Austria, e tre decenni dopo in Spagna Grecia e Portogallo.

In particolare in Italia il suffragio universale maschile fu concesso solo nel 1921 (e di fatto sequestrato dal Fascismo subito dopo) ed esteso alle donne solo nel 1946.
La bellissima Costituzione Italiana  correttamente afferma una concezione dinamica della espansione dei diritti al suo articolo 3: “E` compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese.” 
Ma è a mio avviso largamente inattuata, riguardo allo stesso art. 3 e ad una serie di diritti fondamentali in cui si concretizzerebbe “l’uguaglianza dei cittadini” e la ”partecipazione dei lavoratori”: da una istruzione estesa davvero a tutti all’accesso al lavoro, dalla disponibilità di una casa alla libertà dai condizionamenti mafiosi e clientelari.
Per non parlare degli antichi e moderni condizionamenti derivanti dal controllo dall’alto oppure di pochi sui mezzi di comunicazioni di massa, dai giornali alla radio poi alla TV ed a Internet (chi manovra gli “algoritmi”?).
Non esistono inoltre sistematiche leggi di attuazione dei principi di democraticità relativi ai partiti ed ai sindacati.

Che democrazia è quella che consente che una parte consistente del “demos” giovanile non lavori né studi, né abbia conseguito una formazione adeguata?
E che tollera in larga parte del ”demos” di ogni età una capacità scarsa di comprendere un testo complesso ed una scarsa conoscenza dei fondamentali meccanismi in cui si articola lo stesso potere “democratico”? NOTA K
(Ma nel contempo frena la concessione della cittadinanza ai figli degli immigrati, che – scolarizzandosi – spesso invece hanno ben maturato tali conoscenze e capacità…).
E che subisce il predominio di cosche mafiose in significative zone del suo territorio?

Sia chiaro che con questi miei giudizi, consapevolmente pesanti perché – mi pare  - ben motivati, non intendo disprezzare la lunga catena
-       di conquiste del liberalismo, dall’Habeas Corpus all’indipendenza della Magistratura (ed anche delle Banche Centrali, volendo), e
-       di conquiste della democrazia, dal diritto di sciopero al diritto di voto,
che rendono gli stati occidentali (Italia compresa) mediamente più equi e vivibili delle autocrazie vastamente diffuse nel mondo (tra cui Cina e Iran, molti paesi arabi, ed in parte Russia e Turchia).

Tuttavia non riesco a cristallizzare in quei pochi recenti decenni in cui gli stati liberali sono riusciti a divenire un po’democratici (rimanendo magari abbastanza imperialisti, come gli USA – vedi Cile, Grenada, Afghanistan, Iraq -  e non solo gli USA) un valido “modello liberaldemocratico” NOTA L  da sbandierare contro gli usurpatori populisti.
Vedo piuttosto la “democrazia costituzionale” (cioè, in breve, una democrazia che esclude la dittatura della maggioranza, incanalando le espressioni della volontà popolare in opportune regole di bilanciamento dei poteri, compresi quelli derivanti da precedenti elezioni, NOTA M e comprese autorità indipendenti che siano fondate in forte misura sul merito e sulla competenza, pur con il trasparente controllo popolare) come un delicato, auspicabile, controverso processo di trasformazione.
I cui principi vanno sì preservati, ma al tempo stesso devono evolvere, adeguandosi alle situazioni sociali e quanto più possibile mirando alla estensione e diffusione del potere e dei diritti (con i corrispettivi ben delineati doveri, dal fisco al servizio civile).

Invece una concezione statica e conservatrice, puramente difensiva, dello stato liberal-democratico, come storicamente stratificato (con tutti i buchi sopra delineati), mi sembra un pessimo servizio alla causa della democrazia costituzionale, e forse anzi un regalo tattico agli avversari.

Analogo ragionamento vale per le istituzioni dell’Unione Europea.
Ritengo errato considerarle “burocratiche” perché “non elette”.
A parte il Parlamento Europeo, che ha pochi poteri, ma viene eletto con suffragio universale diretto, sia la Commissione che il Consiglio, sono comunque espressione indiretta dei meccanismi elettorali che vigono nei singoli Stati dell’Unione, e non ritengo che una elezione di secondo grado sia per questo anti-democratica: si veda la figura del Presidente della Repubblica, non solo in Italia.
Il problema è che la Commissione Europea (ed ancor più il Consiglio dove siedono i leader dei singoli Stati) esprimono spesso una “politica burocratica” perché corrispondente alla mediazione tra gli interessi dominanti, risultanti dagli esiti elettorali nell’insieme dei singoli paesi europei: se gli elettorati in questo inizio di secolo hanno espresso segni moderati/conservatori, non può che risultarne risulta una euro-politica moderata e conservatrice: ma non per questo “anti-democratica”. Anzi. Sennò dovremmo scrivere nelle costituzioni che è democratico solo il voto che premia i miei amici “progressisti” (o populisti o ecc. ecc.).

(Altro è il ragionamento storico dell’occasione mancata dalle forze socialdemocratiche a cavallo della fine del secolo precedente, quando primeggiavano in molti stati europei, ma non hanno impresso una svolta significativa né al federalismo delle istituzioni europee né alle politiche sociali comuni; NOTA N  lì sta tutta l’evidente debolezza strategica di quella sinistra moderata, a dire il vero anche all’interno di gran parte delle singole nazioni).


LA MANCANZA DI UNA UTOPIA DEMOCRATICA E SOCIALE

Corollario delle mie considerazioni sulla “democrazia incompiuta” dei nostri attuali ordinamenti ed assetti sociali liberal-democratici, è quello di assumere invece una “democrazia compiuta” come orizzonte da conseguire, in un panorama necessariamente “utopistico”, ma non per questo impossibile da tradurre anche in percorsi realistici di trasformazione, culturale, sociale, politica, ed infine istituzionale.

Obiettivo da affiancare ad altri, intravisti negli ultimi secoli e decenni, ma ben lontani dall’essere raggiunti, come la pace e la non-violenza, ed una fratellanza universale nell’affrontare le problematiche del pianeta Terra (come ben delineate ad esempio nell’editoriale di Fulvio Fagiani in questo numero di UTOPIA21, e su cui pertanto non mi soffermo).

E’ proprio l’oggettiva dimensione mondiale di tali problemi, e quindi delle auspicabili correlative soluzioni – non solo l’afflato fraterno, che spesso fatica ad esistere nella natura umana - che rende necessario un approccio universalistico alla gestione della cosa pubblica.
Non nel senso di un astratto cosmopolitismo (tipo l’elezione diretta del “Presidente dell’ONU” a suffragio universale mondiale), ma all’opposto facendo evolvere la cultura della cittadinanza, nelle forme locali e nazionali concretamente presenti, nel senso  dell’esercizio pieno della democrazia, nel rispetto degli interessi e dei sentimenti di tutti gli altri, vicini e lontani.
Penso, in concreto ed in termini applicabili nella realtà italiana, ad un aumento delle dimensioni, dei poteri e delle risorse per le autonomie locali, cioè a dei “Sindaci territoriali” che governino e rappresentino entità attorno ad un minimo di 50.000 persone (ferme restando le dimensioni storiche dei piccoli Comuni come unità basilari di identità locale), e corrispondenti a quartieri o Municipi nelle grandi città.
Super-sindaci che da questi ambiti locali di circa 50.000 persone siano controllati e stimolati, con crescenti forme di democrazia diretta e di partecipazione NOTA O tramite libere e trasparenti associazioni dal basso.
Però in dimensioni demografiche che consentano di intrecciare la conoscenza personale e le relazioni inter-soggettive - sia per le azioni necessarie a migliorare le condizioni di vita nei territori, sia per concorrere forti di tale esperienza  (e del peso omogeneo di 50.000 abitanti alle spalle di ognuno di essi NOTA P) al governo dei livelli superiori del potere: provincia (livello che a mio avviso deve essere rianimato, non solo per le aree metropolitane), regione, nazione, Europa (livello a cui vanno necessariamente gestiti macro-fenomeni come le migrazioni oppure la tassazione delle società multinazionali), ed infine l’intero mondo.

Una sorta di federalismo solidale e virtuoso, che - secondo me - potrebbe avvicinare i cittadini al potere molto più delle forme di consultazione diretta a scala nazionale, come i referendum propositivi oppure l’elezione diretta dei vertici dello Stato.
Strumenti che non intendo escludere in assoluto, ma vedo come molto più condizionabili dai vari mezzi di comunicazione, in un rapporto remoto, e ad un tempo emotivo, tra il singolo elettore ed enormi e costose macchine di propaganda.
Quanto all’uso su larga scala della “democrazia digitale” ne temo soprattutto i rischi, che sono gli stessi di cui sopra, con l’aggravante delle difficili modalità di controllo sugli stessi controllori degli “algoritmi” (vedi le non encomiabili prove della “piattaforma Rousseau” e l’inaffidabilità – se non peggio - dei social media tipo Facebook) e perciò suggerirei di sperimentarli prima a lungo ad una scala “cantonale” (come quella dei “Sindaci del territorio” sopra enunciati). NOTA Q

Sono dichiaratamente utopie, ma non mi sembrano più improbabili di una astratta difesa ad oltranza della “liberal-democrazia reale”, tal quale com’è; liberal-democrazia che non è fallita quanto il “socialismo reale”, ma neanche mostra di stare molto bene.
La democrazia costituzionale può essere difesa dagli assalti dei sovranisti e dalle deviazioni dei populisti solo se la si assume come obiettivo ancora da conquistare (ad esempio con più democrazia diretta in ambito locale, ma anche in qualche misura a livello europeo), e al suo fianco si perseguono (non strumentalmente, per salvare il liberalismo, ma in quanto validi in sè) obiettivi di effettiva uguaglianza sociale, nell’istruzione, nell’informazione, nel lavoro, nella ricchezza.
Obiettivi che sono di contenuto sociale, ma anche di “metodo democratico”, perché le astratte regole di uguaglianza dei diritti – dal voto alla giustizia – non possono funzionare se non sono sostanziate in una concreta parità socio-economica.
Non dimenticando la scala mondiale dei problemi ambientali (e sociali), senza la cui soluzione non va in crisi solo la liberal-democrazia, ma lo stesso insediamento umano su questo Pianeta.

Tutti obiettivi tracciabili in un campo concettuale di pura razionalità; e però potenzialmente abbastanza avvincenti per essere sviluppati anche in una narrazione moderatamente retorica, costruendo gli opportuni “miti” e “simboli”, su un terreno comunicativo che non può essere abbandonato né in favore dei sovranisti né in favore dei populisti.

Non credo che queste mie riflessioni siano sufficienti per trovare una base sociale in favore della “democrazia costituzionale e sociale”, ma penso che siano utili almeno per cercarla, tra gli ultimi e tra i penultimi, tornando tra i delusi dal comunismo e andando anche tra i delusi dal populismo, che presto inizieremo a incontrare, soprattutto in Italia.


NOTA A - “Democrazie popolari” fu l’aggettivazione applicata dopo la 2^ guerra mondiale al di là della “Cortina di Ferro”  per distinguere i regimi del socialismo reale, nei paesi satelliti dell’Unione Sovietica, dalle “democrazie borghesi” dell’Occidente.

NOTA B – Alessandro Barbano “TROPPI DIRITTI” – Mondadori, Milano 2018
-       Luciano Canfora “LA SCOPA DI DON ABBONDIO” – Laterza, Bari 2018
-       Sabino Cassese “LA DEMOCRAZIA E I SUOI LIMITI” - Mondadori, Milano 2018 (recensito da Massimiliano Panarari su “La Repubblica/Affari e Finanza” settembre 2018)
-       Ivan Krastev “IL DIALOGO IMPOSSIBILE. NEL RECUPERO DELL’EST LA SALVEZZA DELL’EUROPA” su “La Repubblica” del 20-10-18
-       Ezio Mauro “L’UOMO BIANCO” - Milano, Feltrinelli, Milano 2018 (recensito su “La Repubblica” da Massimo Recalcati il 11-10-2018)
-       Maurizio Molinari “PERCHE’ E’ SUCCESSO QUI” – La Nave di Teseo, Milano 2018 (recensito da Stefano Folli su “La Repubblica” del 26-10-18)
-       Giovanni Orsina “LA DEMOCRAZIA DEL NARCISISMO” – Marsilio, Padova 2018 (recensito da Marco Bracconi su “La Repubblica/Robinson” del 22-04-18
-       David Van Reybrouck “CONTRO LE ELEZIONI. PERCHE’ VOTARE NON E’ PIU’ DEMOCRATICO” – Feltrinelli, Milano 2013 (recensito da Antonello Guerrera su “La Repubblica” del 27-08-18 – la tesi del “sorteggio” dei rappresentanti del popolo è echeggiata da Beppe Grillo e nobilitata da Michele Ainis su “L’Espresso”  n° 44 del 26-08-18
-       Jan Zielonka “CONTRORIVOLUZIONE” - Laterza, Bari 2018 (recensito su “La Repubblica” da Ezio Mauro il 3-10-2018)
-       Luigi Zoja “BENVENUTI NELL’EPOCA DEL RISENTIMENTO” su “L’Espresso” n° 76 del 7-10-18

NOTA C – questo atteggiamento di olimpico distacco di Nadia Urbinati nel testo in esame appare superato invece in recenti articoli della stessa Autrice su “Repubblica”, dove la visione sulla democrazia appare assai più dinamica e calata nella storia: 16-10-18 “Quei diritti da difendere”; 02-11-18 “La sinistra senza partito”

NOTA D – Vedi anche Marco Revelli “FINALE DI PARTITO” 4 da me recensito sul blog “relativamente, sì” www.aldomarcovecchi.blogspot.it

NOTA E – Mi sembrano imprecisi i giudizi di Yascha Mounk a proposito di:
-       il ventennio Berlusconiano come effettivo dominio di Berlusconi che invece (e per fortuna, direi) pur avendo “dettato l’agenda” ha governato solo dal 94 al 96, dal 2001 al 2006 e dal 2008 al 2011, per un totale di circa 10 anni; gli altri 10 anni invece si sono succeduti governi gestiti dal contrapposto schieramento di centro-sinistra, oppure dai “tecnici” Dini e Monti;
-       il debito greco come prodotto della “grande recessione”, dimenticando che cavalcando le Olimpiadi di Atene del 2004 la classe dirigente di centro-destra aveva dapprima grandemente indebitato il paese e poi truccato i conti per entrare comunque nell’Euro, mancandone invece i presupposti economici e finanziari;
-       il ruolo della stampa nella diffusione dell’eresia luterana e nelle dimensioni delle conseguenti rivolte e guerre di religione in mezza Europa: senza nulla togliere a Gutenberg, mi pare di rammentare che anche le eresie medioevali, come quella dei Catari – pur avvalendosi di comunicazioni solo verbali e manoscritte – avessero raggiunto  ampie proporzioni e innescato (e soprattutto subìto) devoti ammazzamenti su vasta scala, tanto che si parla della Crociata contro gli Albigesi addirittura come “genocidio”.

NOTA F – Il riacutizzarsi delle disuguaglianze sociali e i conflitti identitari vanno a minare anche il quadro di certezze sociologiche intessute con metodo da studiosi americani come Ronald Inglehart (vedi mia recensione di “Società post-moderna“, del 1998, in questo stesso numero di UTOPIA21), secondo cui al crescere del benessere corrisponde un passaggio da interessi primari e valori tradizionali a nuove soggettività più individualiste e libertarie,  ma anche ambientaliste e tolleranti; sulle recenti controtendenze si è pronunciato con aggiornata ricerca lo stesso Inglehart nel 2018, come do atto nella suddetta recensione.

NOTA G – nel testo di Diamanti&Lazar risulta invece trascurato il filone dei maoisti nostrani, tra cui “Servire-Il-Popolo”, e certe pieghe di movimenti come Lotta Continua, soprattutto nelle regioni meridionali

NOTA H -  la rappresentazione del populismo di sinistra di Mèlenchon svolta da Lazar, che ne mette in risalto, a mio avviso correttamente, le ambigue derive nazionalistiche, anti-europee e personaliste, rischia di proiettare questi giudizi sulle altre forze politiche nuove e parzialmente populiste, ma chiaramente di sinistra, presenti solo nel Sud Europa, come Podemos, Syriza e la sinistra portoghese, che nelle loro alterne vicende mi sembrano comunque meno esposte a questi difetti.

NOTA I – Sul crollo del socialismo reale si sono intrecciati diversi fattori, strutturali ed intrinseci al sistema di produzione (stressato anche dalla corsa agli armamenti in contrapposizione a USA e NATO), e sovrastrutturali, a partire dalla stessa sottovalutazione sistematica degli aspetti antropologici, finendo sconfitto da un lato dalla concorrenza del consumismo occidentale e dall’altro da un sindacato organizzato in Polonia proprio su basi confessionali cattoliche.

NOTA J - Sull’intreccio tra caduta del socialismo reale e globalizzazione, nel passaggio tra il Novecento e questo secolo, ritengo opportuno richiamare le recenti riflessioni di Stefano Levi della Torre http://www.razzismobruttastoria.net/2018/07/26/qualche-considerazione-sulla-storia-corso-stefano-levi-della-torre-giugnoluglio-2018/

NOTA K – Mi rendo conto che l’argomento è usato al contrario anche da neo-aristocratici neo-platonici (od “epistocrati”, come direbbe Nadia Urbinati), per proporre di restringere il suffragio elettorale ai soli “sapienti”, invece di estendere istruzione e formazione a chi non le ha conseguite a sufficienza.

NOTA L – in particolare, per quanto riguarda l’asettica visione di Nadia Urbinati, la varietà delle soluzioni che i diversi stati occidentali hanno dato a specifici problemi, ad esempio l’indipendenza della magistratura, offusca l’immagine di un “valido modello”: sono gli USA troppo populisti perché prevedono l’elettività di taluni magistrati (gli inquirenti)? oppure sono poco democratici gli stati europei perché non la prevedono?   

NOTA M – ha recentemente ben rammentato Sabino Cassese (vedi nota B) – la cui concezione del processo democratico è molto dinamica – l’importanza dei contropoteri, parte dei quali (ad esempio la Presidenza della Repubblica, oppure i poteri locali) sono espressione di una diversa scelta elettorale democratica, ma espressa in una fase precedente.

NOTA N – in particolare durante la presidenza di Romano Prodi alla Commissione Europea, si è accelerata l’adesione alla Unione Europea dei paesi orientali, già satelliti dell’URSS: scelta giusta in termini storici e geo-politici, ma negativa sotto il profilo dell’efficienza del processo federativo, perché non preceduta da un rafforzamento dei meccanismi comunitari, in termini di struttura costituzionale, di decisioni a maggioranza, di efficacia delle procedure sanzionatorie, di estensione delle competenze dell’Unione in materia sociale (e migratoria).

NOTA O – diffido però da certe forme di partecipazione organizzata, senza reali poteri, come l’esperienza delle rappresentanze delle famiglie nelle scuole, oppure certe cerimonie di consultazione sugli strumenti urbanistici comunali, limitate di fatto agli addetti ai lavori; fondamentale è invece a mio avviso che la legislazione si occupi di assicurare trasparenza non solo agli organismi statali e amministrativi, ma anche a tutte le associazioni partitiche e sindacali, locali e nazionali.

NOTA P – il che avrebbe un riflesso egualitario, e perciò democratico, anche sull’influenza esercitata da ognuno dei cittadini che contribuiscono  ad eleggerli; oggi invece, pur essendo astrattamente omogenea la rappresentanza dei cittadini attraverso i parlamentari, indirettamente nel “mercato della politica” pesano molto di più – attraverso Sindaci, parlamentari di primo piano, lobbies organizzate - le realtà urbane maggiori che non le “campagne” dove il reticolo degli enti locali si disperde in entità di poche migliaia o centinaia di abitanti ciascuna e gli interessi locali faticano oggettivamente a coagularsi.

NOTA Q – se già la stessa “democrazia costituzionale e sociale” è un’utopia, a maggior ragione lo è la “democrazia diretta”, come anche le forme di “democrazia inclusiva” proposte ad esempio da Graeber 5 (vedi mia recensione su UTOPIA21 di Luglio 2018 https://drive.google.com/file/d/1KNHwvYRdA-gatgudIQMBtJt5Q3shSWl/view?usp=sharing).
A mio avviso tali utopie più estremiste non sono da bandire od esorcizzare a-priori, bensì da sperimentare cautamente sul campo, evitando che però siano usate in maniera strumentale e sostanzialmente reazionaria contro le “utopie possibili”.
Ad esempio, se nella democrazia del voto si possono insediare forme di dittatura della maggioranza, le teorie della democrazia inclusiva, tendenzialmente unanimista (che sostituisce al voto l’iterazione di tentativi di inclusione dei diversi punti di vista), può variamente nascondere tentazioni totalitarie, a cura dei Grandi Fratelli che spesso in tali situazioni sono “più uguali degli altri”, come nella “Fattoria degli Animali” di  George Orwell.6

Sull’argomento si era autorevolmente pronunciato anche il compianto Stefano Rodotà7 comparando Internet all’uso della TV e dei sondaggi, e mettendo in guardia da ogni fenomeno plebiscitario, in cui i cittadini, singolarmente isolati (ed in un contesto storico di logoramento dei vecchi tessuti sociali, a partire dalle fabbriche), non possono partecipare né alla formulazione delle domande né al controllo sulle risposte.
Pur aprendo alla sperimentazione di nuovi modelli di trasparenza e condivisione del potere, Rodotà metteva in evidenza
-           come alla frantumazione sociale del cittadino-sovrano corrisponda una rincorsa settoriale da parte dei politici, con i metodi del marketing e della pubblicità, che mira ad una raccolta spregiudicata dei vari segmenti del consenso, mentre viene meno ogni coscienza dell’interesse generale,
-           che l’affiancamento dei continui sondaggi alle normali cadenze elettorali finisce con il far prevalere questi su quelle, sia per l’influenza che i sondaggi stessi esercitano sull’elettorato, sia per l’artificiosa suddivisione del corpo elettorale in “sommatoria di campioni statistici”, e come in tal modo gli interessi e le emozioni a breve termine sormontino ogni capacità di programmazione e decisione strategica sui tempi lunghi (analogamente a quanto accade nel mondo finanziario e spesso anche aziendale).


Fonti:
1.    Yascha Mounk “POPOLO VS. DEMOCRAZIA, DALLA CITTADINANZA ALLA DITTATURA ELETTORALE” – Feltrinelli, Milano 2018
2.    Nadia Urbinati  “DEMOCRAZIA SFIGURATA. IL POPOLO TRA OPINIONE E VERITÀ” – Egea, UBE Paperback, Milano  2014
3.    Ilvo Diamanti e Marc Lazar in “POPOLOCRAZIA. LA METAMORFOSI DELLE NOSTRE DEMOCRAZIE” -  Laterza, Bari 2018
4.    Marco Revelli “FINALE DI PARTITO” – Einaudi, Torino 2013
5.    David Graeber “CRITICA DELLA DEMOCRAZIA OCCIDENTALE. NUOVI MOVIMENTI, CRISI DELLO STATO, DEMOCRAZIA DIRETTA” – Eleuthera, Milano  2012
6.    George Orwell. “LA FATTORIA DEGLI ANIMALI” – Mondadori, Verona-Milano 1947
7.    Stefano Rodotà “IPERDEMOCRAZIA – COME CAMBIA LA SOVRANITÀ DEMOCRATICA CON IL WEB” - e-book gratuito dell’editore Laterza, Bari 2014

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