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domenica 2 giugno 2019

UTOPIA21 - MAGGIO 2019: LA NATURA SPEZZATA ALLA XXII TRIENNALE DI MILANO: MA E’ QUESTO IL DESIGN PER RIPARARLA? ,


Alcune valutazioni sulla ventiduesima Triennale di Milano, a partire dalla lettura del catalogo, con riserva di capire di più (o di meno?) visitando l’esposizione: in sintesi, testi ambiziosi ed anche rigorosi, ma che sembrano non governare le divergenti e spesso peregrine proposte degli Autori raccolti nel Palazzo dell’Arte
Sommario:
- premessa personale
- i saluti iniziali, tra consapevolezza della crisi planetaria e patriottismo dell’export lombardo
- il saggio introduttivo di Paola Antonelli: ambizioni e contraddizioni
- gli altri saggi del catalogo, taluni un po’ scontati, talaltri stimolanti
- l’esposizione generale, grande accozzaglia, con pochi esempi virtuosi (non valorizzati da un confronto nel merito) e moltissime opere autoreferenziali, se non paradossali
- qualche cenno sui “padiglioni nazionali”, troppo schematicamente riassunti nel catalogo
- questioni emergenti (oltre al disastro ambientale e alla scarsità di ricette per affrontarlo): Esistono ancora confini disciplinari? Libertà di espressione versus priorità socio-ambientali. Autoreferenzialità e potere accademico/lobbistico.
- APPENDICE: una nota sulla XXI Triennale del 2016
In corsivo i commenti più personali.
PREMESSA PERSONALE
Anche se le nostre lauree degli anni ’70 (malgrado i “voti politici”…) ci sono in seguito valse ‘ad ampio spettro’ per l’iscrizione all’Albo degli “Architetti, Pianificatori, Paesaggisti, Conservatori”, ed anche se in effetti la formazione pre- e post- ’68, per opposti criteri, alla Facoltà di Architettura era tutt’altro che racchiusa negli ambiti specialistici (prima per ambizione progettuale “dal cucchiaio alla città”, dopo per ambizione critica ‘tuttologica’ anti-disciplinare), in cui si è invece frantumata verso la fine del Novecento, devo confessare che personalmente non mi sono mai incuriosito troppo, né informato approfonditamente, su
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quella che una volta si chiamava “architettura degli interni” e poi più genericamente si è chiamato “design”, indirizzato alla progettazione di oggetti, ed in seguito esteso alla comunicazione grafica, informatica, digitale, ecc.
Di questa mia carenza, e propensione piuttosto agli attigui temi, dalla casa al territorio, sono testimoni anche i testi più disciplinari che ho pubblicato su queste pagine1.
Occupandomi, da spettatore, di questa 22^ Triennale (ma anche della precedente), mi rendo conto però che alla mia lontananza dal “design”, malgrado la disciplina riguardi oggetti concreti, potenzialmente utili e quotidiani, progettabili e modellabili direttamente in scala 1:1,
concorre poderosamente anche il linguaggio, l’atteggiamento, la “narrazione” che contraddistinguono i “designers” e che mi sembrano spesso quanto mai astratti, assertivi, inconfutabili, modaioli: una sorta di progressione inversa della progettazione, che vede aumentare la “fuffologia” quanto più ci si avvicina agli oggetti. (Anche se i pianificatori territoriali, talvolta, non sono proprio raccomandabili quanto a concretezza….)
I SALUTI INIZIALI, TRA CONSAPEVOLEZZA DELLA CRISI PLANETARIA E PATRIOTTISMO DELL’EXPORT LOMBARDO
Aprendo il catalogo2, mi ha colpito la disomogeneità tra i messaggi iniziali di saluto:
- Il Presidente della Triennale, architetto Stefano Boeri (assai noto peril “verde verticale” dei grattacieli in zona Garibaldi/Isola a Milano), segnalando che le città occupano per ora “solo” il 3% delle terre emerse, mentre però la “tecnosfera” (termine coniato nel 2014 da Peter Haff, studioso dell’ “antropocene”) pervade l’intero globo ed ingabbia le residue isole di naturalità, introduce sostanziosamente il tema dell’ “antropocentrismo arrogante”, che danneggia la natura e con essa però lo stesso uomo, non solo per i rischi climatici al suo habitat, ma anche perché estromette la natura dalla sua vita quotidiana; sulla sua scia si snoda il testo di Gonzalo Loscertales, Presidente del Bureau Internation des Expositiones (B.I.E.), che assegnerebbe alla Triennale un ruolo educativo per riparare i collegamenti tra Uomo e Natura, spaziando oltre design, arte ed architettura, con il coinvolgimento delle scienze naturali e sociali, della comunicazione digitale e delle strategie comportamentali;
- al polo opposto il Ministro degli Esteri, Enzo Moavero Milanesi, che - pur con i dovuti omaggi alla sostenibilità, e gli auspici per un industria che rimedi ai danni socio-ambientali - evidenzia soprattutto l’elevata incidenza dell’export italiano nei prodotti di design di alta gamma (e se tali prodotti ed il loro export fossero invece rilevante parte del problema ambientale e non delle soluzioni?); a margine, l’improbabile accostamento proposto dal Ministro tra il Palazzo dell’Arte di Muzio e la Farnesina - nata come “Palazzo del Littorio”, ovvero sede nazionale del Partito Nazionale Fascista, progettata da Del Debbio-Foschini-Ballio-Morpurgo - sotto un comune ombrello “razionalista”.
- nel mezzo il ministro dei Beni Culturali Bonisoli (innocuo) ed il Sindaco Sala, un po’ troppo certo della validità ambientale delle scelte in atto per Milano, come la rigenerazione degli scali ferroviari (sui dubbi in proposito all’operazione ex-scali, rimando al mio testo sopra citato1, paragrafo 3.19).
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Figura 1 e 2: il Palazzo dell’Arte di Milano e la Farnesina di Roma
IL SAGGIO INTRODUTTIVO DI PAOLA ANTONELLI: AMBIZIONI E CONTRADDIZIONI
Il corposo saggio della direttrice del team curatoriale dell’esposizione, Paola Antonelli (da molti anni responsabile per il design al MoMA di New York), affronta pienamente il tema del ”design alla prova della sopravvivenza umana”, rammentando come l’”Earth Overshoot Day” (giorno dell’anno in cui l’uomo ha già consumato tutte le risorse rigenerabili) sia ormai arrivato al 1° agosto (cioè con un consumo annuo superiore di 5/12 rispetto alla disponibilità) e chiedendosi se sia in gioco solo la sopravvivenza della specie umana oppure di tutte le specie viventi: alla luce del pessimo stato di salute di indicatori fondamentali, quali la biodiversità e la sovrappopolazione umana, la produzione alimentare e il depauperamento delle risorse, la temperatura del globo e le emissioni di CO2.
A fronte dei danni profondi apportati dalla specie umana negli ultimi due secoli, verso la biosfera (devastazione di foreste, suolo e sottosuolo; inquinamento chimico, batterico e radio-attivo) e verso la stessa umanità (omologazione culturale ed infine anche compressione dei diritti civili), per Antonelli (e per la Triennale) urgono interventi di riparazione o “risarcimento”.
Qui si dovrebbe collocare il design, che già storicamente si è posto come strumento di soluzione dei problemi, progettando oggetti e comportamenti, ma finora in una prospettiva antropocentrica, che dà per scontata la subordinazione delle altre specie viventi, a partire dal periodo paleo-litico.
L’Autrice ripercorre, con alcuni squarci in profondità (che per brevità non riassumo in modo puntuale), il tracciato storico sulla evoluzione del design negli ultimi decenni, da quando si è affacciata qualche consapevolezza sui limiti ecologici (ed anche sociali e psicologici) degli assetti produttivi incentrati sulla ottimizzazione dei consumi e sul narcisismo, a partire dal 1968 e poi verso questo inizio di secolo, con le riflessioni sull’etica del progetto, sul design sostenibile, sull’economia circolare, in sintonia con i movimenti internazionali sanciti dalle conferenze di Rio e poi dagli obiettivi dell’ONU e delle conferenze sul clima.
Puntualizzando il confronto con l’affacciarsi del design al Moma nel 1940, i capisaldi di valutazione erano allora Utilità, Eleganza, Fattura, Prezzo, mentre oggi – per Antonelli - si rende necessario assumere:
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- una responsabilità etica, sia verso la società umana (condizioni di lavoro, distribuzione dei redditi) sia verso l’ambiente (le altre specie ed anche il mondo inanimato),
- una “consapevolezza di rete” (o “consilienza”) sulla interdipendenza universale (cioè di essere parte di sistemi complessi – città, aziende, governi – con effetti non sempre controllabili di ogni azione sui diversi eco-sistemi).
Da questa consapevolezza dei cambiamenti in atto e dalla proiezione sui futuri possibili, si innesta la proposta della XXII Triennale per un “design ricostituente”, che studia i legami e le contraddizioni sociali e ambientali, e progetta i possibili rimedi, ad ogni scala, nel tentativo di superare l’ottica puramente antropocentrica, ponendo in discussione “qual è il posto dell’uomo” e mettendo in campo:
- nuove strategie per il design tradizionale: trasparenza, circolarità, equità nel lavoro, emissioni-zero, responsabilità a lungo termine (dal “consumo” alla “adozione” degli oggetti);
- superamento del “design organico”, che imitava le forme della natura (dall’Art Nouveau in poi), per mutuare dal rapporto con le altre specie funzioni, processi, sistemi, alleanze, “co-creazione”;
- nuovi campi di ricerca, quali il bio-design, l’auto-assemblaggio, e nuovi linguaggi, che superino la razionalità modernista per comprendere l’empatia ed i valori spirituali soggettivi;
- rapporti di interdisciplinarità con artisti, scienziati, decisori politici.
Con alcune gravi stonature, però, almeno a mio avviso, come nell’auspicio (non si capisce con quali fondamenti), che il design assuma l’autorevolezza della scienza, e soprattutto nel finale, dove Paola Antonelli ipotizza:
- che i designer possano supplire alla “distrazione” dei politici (come misurabile nelle incertezze sul contrasto al cambio climatico) divenendo gli “alfieri del cambiamento” (mi chiedo: con quale linguaggio, quali strumenti, quali capacità di sormontare le immense difficoltà antropologiche in cui affondano politici e scienziati e comunicatori?)
- che – se l’umanità è avviata all’estinzione – almeno, grazie al design, possa “estinguersi con eleganza” (mi sembra un pensierino fatto apposta per spiegare come si crea il divario tra élites e masse; una cosina simpatica da raccontare alle popolazioni i cui atolli saranno sommersi dagli oceani, ai migranti racchiusi nei campi di “accoglienza”, ed anche ai gilet gialli preoccupati per il prezzo del gasolio…)
GLI ALTRI SAGGI DEL CATALOGO, TALUNI UN PO’ SCONTATI, TALALTRI STIMOLANTI
Il Catalogo della XXII Triennale è disseminato da una quindicina di altri brevi saggi, raggruppati all’inizio di ognuna delle cinque sezioni della mostra (oltre alle Partecipazioni Internazionali), che si intitolano “Il clima è cambiato”, “Ambienti complessi”, Fatto e disfatto”, “O tempora, o mores”, “Ponti”.
Tali saggi sono molto diversi come taglio, linguaggio, spessore, ed anche interesse.
(Mi limiterò a commentarne alcuni).
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Per esempio, il testo di Ala Tannir (designer libanese) sul disastro provocato dalla diga del Vajont, ripercorrendo il punto di vista della nota performance teatrale di Marco Paolini, pur essendo corretto ed esaustivo, mi sembra che non aggiunga molto a quanto già si è detto e dibattuto, sia sul caso specifico, sia più in generale sulla presunzione scientista asservita agli interessi aziendali.
Più problematico invece il testo di Emily Eliza Scott (storica e critica statunitense), che tende a mettere a fuoco alcun contraddizioni, come “la retorica green che talvolta non è altro che un lupo travestito da pecora”, citando ad esempio una biennale di architettura di Chicago sponsorizzata dalla British Petroleum e spaziando dall’aria condizionata di casa nostra al Muro di Trump tra Messico e U.S.A.: in questo percorso a zig-zag si permette anche una garbata critica al condominio “Bosco Verticale” progettato dal suddetto Presidente della medesima Triennale, Stefano Boeri, ed alle acritiche riproduzioni di tale modello, in Cina ed altrove, chiedendo: “chi può permettersi di affittare uno di quei lussuosi appartamenti, elevandosi rispetto ai dintorni sottostanti, assai meno abbienti e lussureggianti? Quanto lavoro, capitale e risorse sono necessari per mantenere le facciate verdeggianti dell’edificio? Quali sono i benefici e i limiti ecologici, persino le trappole, di un’opera come questa? La sua rapida celebrazione e adozione come modello non dovrebbero essere un motivo di preoccupazione, più che un indicatore di successo del progetto?” (Domande che condivido in toto).
Sulla stessa linea di una critica radicale, ma che aiuti ad orientarsi nella complessità delle contraddizioni, si sviluppa l’intervento di Alexandra Daisy Ginsberg (artista e designer inglese), muovendo dal successo delle bottiglie di plastica: “Anche di fronte a un’esigenza ben definita, risolvere un problema ne fa sorgere altri. … Il design opera in un intrico di contesti, sistemi e reti che includono esseri umani e non, il presente e il futuro. Per immaginare mondi migliori e renderli più possibili, dobbiamo prima definire quale mondo migliore vogliamo. Progettare in questa complessità significa riconoscere che non esiste un futuro migliore adatto a chiunque, ed è quindi necessario trovare un compromesso tra le varie idee di ‘migliore’ …. Quale idea di migliore si sta perseguendo? Chi la stabilisce?...”
(Mi sembrano buoni consigli per utopisti/riformisti, anche fuori dai confini del design, ed in particolare per noi di Utopia21).
L’ESPOSIZIONE GENERALE, GRANDE ACCOZZAGLIA, CON POCHI ESEMPI VIRTUOSI (NON VALORIZZATI DA UN CONFRONTO NEL MERITO) E MOLTISSIME OPERE AUTOREFERENZIALI, SE NON PARADOSSALI
Pur mancandomi il contatto diretto con le istallazioni e quindi la suggestione comunicativa delle opere e dei messaggi, dalla lettura del catalogo ho ricavato la netta impressione di un significativo divario tra le intenzioni dichiarate dal saggio introduttivo e la effettiva rassegna espositiva, sia in termini di connessioni lungo le varie sezioni tematiche, sia in termini di qualità e comprensibilità delle singole proposte.
Poiché i ragionamenti complessivi, desumibili dai testi dei saggi, li ho riassunti nei precedenti paragrafi, ritengo opportuno limitarmi a commentare singoli elementi, che ho scelto tra i più virtuosi ed i meno virtuosi, secondo le mie personali valutazioni.
(ALCUNI) ESEMPI VIRTUOSI:
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FAIRPHONE 2, prodotto dall’omonima ditta olandese, è uno smartphone progettato affrontando nell’insieme i problemi del ciclo di produzione e di vita dell’apparecchio, puntando sulla sostituibilità dei singoli componenti, sul riciclo dei materiali e sulla riduzione dei danni nel reperimento delle risorse e nelle modalità di lavorazione.
GEOLANA, proposto da Edizero Architecture for Peace in collaborazione con dipartimenti universitari di Cagliari, prevede il riutilizzo di lana di pecora a pelo corto, rifiutata dal mercato tessile, per realizzare dei galleggianti oblunghi, utili – in simbiosi con colonie di animaletti marini - per depurare le acque dei porti e per affrontare sversamenti di inquinanti in mare.
TIALOQUE 200 LITER (Isla Urbana, Messico) e AGUA CARIOCA (collettivo operante a Rio de Janeiro) affrontano il primo la raccolta sistematica ed il riuso dell’acqua piovana in insediamenti poveri preesistenti ed il secondo un più ambizioso sistema di gestione delle acque, dalla pioggia alla fito-depurazione, adeguato (in termini “ecologici sociali e spaziali”) agli insediamenti informali della metropoli, endemicamente privi di fognature.
SEATED DESIGN, di Lucy Jones (GB), studia abbigliamento idoneo a persone costrette a lungo su sedie a rotelle.
PERIOD-PROOF UNDERWEAR, RUBY CUP, WOMEN&HEART DISEASE, JANMA e LIA PREGNANCY TEST, proposte avanzate da designers femmine, singole o associate, suggeriscono soluzioni adeguate per questioni rilevanti nella condizione femminile, dal ciclo mestruale ai test di gravidanza, dalle condizioni del parto “a casa loro” per donne prive di un sistema di assistenza medico alla peculiare attenzione che richiede(rebbe) la diagnosi dell’infarto (che ha nelle donne sintomi meno acuti rispetto ai maschi).
Mi pare però che – a fronte di simili casi di proposte apparentemente serie, ben motivate ed articolate – manchi nell’esposizione sia una attenzione di insieme (solo i progetti “femminili” e quelli “idraulici” sono almeno accostati tra di loro), sia un apparato comunicativo (del genere “scheda tipo”) che spieghi se si tratta di pure idee, di prototipi oppure di soluzioni sperimentate e/o applicate, sia ancora un raffronto critico che – avvalendosi per esempio della saggezza distribuita nei saggi dispersi nel catalogo – le sottoponga ad una verifica di fattibilità, di coerenza, di “sostenibilità ambientale”: con tali carenze, anche i progetti più seri rischiano di diventare mera suggestione, puro spettacolo (altro che avvicinarsi alla scienza…).
(ALCUNI, SOLO POCHI TRA I TANTI) ESEMPI MENO VIRTUOSI (tacendone gli autori):
GENERATIONS: un video-gioco per cellulari talmente complesso che con certezza una sola vita umana non basta per concluderlo, obbligando l’utente, verso fine-vita, a optare se abbandonarlo o affidarlo ad un erede (sarebbe una specie di moderno “memento mori”, finalizzato a far comprendere la relativa brevità della vita umana).
CASKIA/GROWING A MARS-BOOT: una struttura per stivali stampata in 3D ed una colonia di spore di micelio, da alimentare per sette mesi con il sudore dell’astronauta diretto dalla terra a Marte, per divenire un paio di stivali completo, pronto per passeggiare sul pianeta rosso.
NATURE SELF-PORTRAIT: sorta di “selfie” (o meglio vecchi “autoscatti”) a campo lungo, con il corpo dell’autrice (purtroppo nel frattempo deceduta) a confronto con forme della natura, più o meno estrema (e anch’essa nuda o brulla).
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Figura 3 – Nature Self-portrait #10
HUMAN X SHARK: ricerca di feromoni idonei a rendere seducente l’autrice, in muta da sub, per i maschi di una specie particolare di squali copulatori.
QUALCHE CENNO SUI “PADIGLIONI NAZIONALI”, TROPPO SCHEMATICAMENTE RIASSUNTI NEL CATALOGO
L’ecclettismo che pervade l’intera mostra, anche dove aleggia la pretesa di percorsi tematici, per le 23 partecipazioni internazionali è invece dichiarato come tale nel saggio introduttivo a tale sezione, ed è probabilmente inevitabile, come in tutte le consimili rassegne.
Inoltre il Catalogo, che già supera le 350 pagine, non può dar conto in 2-3-4 facciate della articolazione delle proposte, quando queste non sono monografiche: come è il caso dell’Italia, che raggruppa diverse suggestioni sotto il nome dei 4 elementi (acqua-aria-fuoco-terra) oppure degli Stati Uniti, che affronta scientificamente la sostenibilità di materiali ed oggetti secondo diversi criteri.
Tra le partecipazioni nazionali con proposte monografiche (e quindi ben comprensibili già dal catalogo), mi ha incuriosito la proposta austriaca CIRCULAR FLOWS (studio EOOS con istituto svizzero EAWAG, ricerca finanziata dalla Cancelleria Federale austriaca), che ipotizza, con dettagli tecnici assai precisi, una riorganizzazione radicale dei servizi igienici e dei sistemi fognari, separando dall’origine le urine, al fine di escluderne l’impatto negativo nel ciclo di depurazione e valorizzarne invece il riutilizzo come fertilizzanti: si tratterebbe di una riforma con intenso impatto attuativo, casa per casa e strada per strada, da paragonare con quella, ancora più radicale, ma divergente, pubblicata da Bertaglia del CCR di Ispra su Utopia213, in favore di servizi igienici a secco e digestione aerobica delle deiezioni. (Dove e quando una verifica approfondita su simili alternative?).
All’estremo opposto, come scelta espositiva, sempre tra le partecipazioni nazionali a carattere monografico, lo stand del Regno Unito, MAPS OF DEFIANCE, curato dal Victoria&Albert Museum in collaborazione con Art Jameel e con la ONG Yadza, centrato sulle attività investigative in atto nel nord dell’Irak per documentare – coniugando raffinati
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strumenti cartografici digitali ed attrezzature elementari di facile impiego - le pratiche genocide del Califfato Islamico ai danni della enclave etnica Yazida.
Concludono la rassegna internazionale uno spot del Comune di Milano sulla propria politica urbanistica e la NAZIONE DELLE PIANTE, proposta curata da Stefano Mancuso ed altri, che ha avuto grande rilievo nella presentazione della 22^ Triennale sui mass media, mentre non ha altrettanto rilievo sul catalogo: si tratta di una suggestiva rappresentazione delle ragioni del mondo vegetale, contrapposte alle tendenze predatorie del mondo animale (che vive saccheggiando le piante), e ne esalta le caratteristiche modulari-decentrate come modello reticolare di resilienza programmatica, terminando con lo slogan “Se [le piante] fossero una nazione, sarebbe di gran lunga la più importante, da cui tutti dipendiamo”.
Figura 4 – un’immagine della “Nazione delle Piante”
QUESTIONI EMERGENTI (OLTRE AL DISASTRO AMBIENTALE E ALLA SCARSITÀ DI RICETTE PER AFFRONTARLO): ESISTONO CONFINI DISCIPLINARI? LIBERTÀ DI ESPRESSIONE VERSUS PRIORITÀ SOCIO-AMBIENTALI. AUTOREFERENZIALITÀ E POTERE ACCADEMICO/LOBBISTICO.
Al termine di questa carrellata sul Catalogo della 22^ Triennale di Milano, mi permetto di esporre queste riflessioni:
- sul disastro ambientale a mio avviso dopo la 22^ Triennale non ne sappiamo molto più di prima, cioè di quanto verificato e diffuso dalle discipline scientifiche, e ormai sancito da documenti internazionali ufficiali ed ufficiosi, ben noti ai lettori di Utopia21 e del suo Direttore Fulvio Fagiani 4; nuova invece è la percezione della consapevolezza di tali problematiche ambientali che finalmente pervade ambienti come quello del design e delle esposizioni internazionali (vedi anche EXPO 2015 di Milano sul cibo), senza però che ne consegua un livello adeguato
o né di capacità di comunicazione rivolta alla massa dei consumatori, per muoverli a migliori comportamenti operativi come utenti e come cittadini (ed elettori), perché secondo me sul terreno comunicativo queste manifestazioni in sintesi trasmettono piuttosto confusione, allarmismo e sensazione di impotenza,
o né di organizzazione scientifica delle potenziali proposte di soluzioni dei problemi, perché tali proposte, quando presenti, rimangono sommerse dal
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chiacchericcio espositivo/emotivo e non sottoposte a serrati confronti dialettici e verifiche di fattibilità.
- Molte installazioni potrebbero indifferentemente stare qui oppure alla Biennale di Venezia, inaugurata in questi giorni; oppure in qualche sfilata di moda-fashion-week. Personalmente sarei favorevole al superamento degli steccati disciplinari e dei settarismi specialistici, in tutti i campi del sapere (e del fare), scientifico, umanistico ed artistico: però in direzione di una contaminazione fertile, in cui ognuno conosce il proprio linguaggio e si sforza di confrontarsi con quello altrui. Mentre mi sembra di assistere a gare di esibizioni solipsistiche, di invasioni di campo senza che vi sia alcun campo.
- Ritengo che siano valori positivi la libertà di ricerca e di espressione. E si può spesso constatare quanto la ricerca scientifica (ma anche la sperimentazione artistica) abbia spesso ricadute indirette imprevedibili: molte innovazioni che investono la vita quotidiana (e talora indiscutibilmente migliorative) derivano da ricerche che ci sembrano in sé deprecabili perché orientate alla guerra oppure a futili attività per privilegiati, come le corse di Formula 1 oppure l’alta moda. Tuttavia, senza cadere in ridicole censure “zdanoviane” (Andrej Zdanov, teorico del “realismo socialista” nell’Unione Sovietica in epoca staliniana) oppure populiste, mi parrebbe opportuno che un qualche trasparente ragionamento di carattere sociale ed ambientale debba guidare le priorità nella assegnazione delle risorse pubbliche, sia nella ricerca, sia nella comunicazione culturale, riguardo alle erogazioni dirette ed anche indirette, come le agevolazioni fiscali e come l’utilizzo degli spazi espositivi pubblici di eccellenza. Tendenza che potrebbe trasparire nei testi del Catalogo, ma certo non emerge dalla rassegna espositiva di questa Triennale.
- L’autoreferenzialità che caratterizza numerose istallazioni della 22^ triennale (così come della precedente, vedi APPENDICE) non è a mio avviso un semplice vezzo d’artista del singolo Autore, ma uno stile, un “pezzo” organico ad un sistema di potere, di carattere accademico, che trascende gli ambiti strettamente universitari e li connette nella rete dei critici/curatori/”influencer”, dei galleristi&collezionisti, degli editori e dei padroni delle “griffe” (ed in ultima analisi ai potentati finanziari). Un mondo costituito e presidiato da un linguaggio esclusivo ed elitario, dove la forma (“elegante” oppure “provocatoria”), l’emozione (che è sempre “ineffabile”) e soprattutto l’appartenenza alle cordate lobbistiche, prevalgono quasi sempre rispetto a contenuti razionali, verificabili e comunicabili al di fuori della ristretta cerchia degli iniziati. Se ciò accomuna in qualche misura tutte le accademie (anche scientifiche, filosofiche, ecc.) e tutti i sistemi di potere (tra cui lo stesso mondo politico), nei campi dell’arte e della moda si possono ovviamente toccare vertici altrove inattingibili.
Il meccanismo dell’interscambio elitario mira in sostanza ad alimentare e gonfiare valori di mercato artificiosi, per idee ed oggetti, analogamente a quanto avviene in Borsa e nel Calcio. Poiché tali speculazioni si fondano in ultima analisi sul consenso degli spettatori/consumatori, è forse il caso di iniziare a dire in giro, come nella fiaba “i vestiti nuovi dell’imperatore”, che in realtà “Il Re è Nudo”.
Spiace però che tali tendenze sconvolgano il design (e l’architettura, ecc.), che dovrebbe invece confrontarsi con i bisogni primari dell’uomo, quali sopravvivere ai
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disastri ambientali dall’uomo stesso creati, ed inoltre mangiare, vivere, abitare, studiare, lavorare (e solo verso la fine “estinguersi con eleganza”).
APPENDICE SULLA 21^ TRIENNALE DI MILANO, 2016 (testo pubblicato sul mio blog “relativamente sì” http://aldomarcovecchi.blogspot.com nel giugno 2016)
Ho visitato due tra le principali mostre che caratterizzano questa 21^ Triennale, dopo 20 anni di sospensione, e sono rimasto abbastanza perplesso. “W. Women in Italian Design - Design Museum Nona Edizione“ a cura di Silvana Annichiarico, dopo una affascinante ma ambigua sala/gineceo di “pizzi e merletti” (le abilità tessili ovvero il confino in cui a lungo è stata relegata la donna, non si capisce se rivendicato o da vendicare) espone, meritoriamente, oggetti di design realizzati in Italia da donne negli ultimi 100 anni (e cioè: quasi nulla e per lo più bambole e ninnoli fino agli anni ’50; poco dai ‘50 agli ’80, e spesso esibendo un paio di cognomi, di cui uno maschile; molto solo dopo il 2000), ma senza un raffronto (neanche numerico o riassuntivo) con l’altra (e finora preponderante) metà maschile del cielo, per cui risulta difficile capire il vero peso quantitativo e qualitativo della componente femminile nella storia nazionale del disegno industriale (ad esempio: quante donne laureate nel settore nei vari anni e quante di loro affermate nella professione?; oppure quali evoluzioni grazie alle donne/progettiste sono emerse nelle tipologie dei prodotti, nelle soluzioni progettuali, nel modo di progettare e di produrre?).
Guardando gli oggetti esposti relativi agli ultimi decenni, e ripensando all’insieme del Museo del Design attualmente collocato alla Villa Reale di Monza (e sempre diretto da Annichiarico), mi sembra di capire che i designers di ambedue i sessi si stiano perdendo nella progettazione di cose inutili, intercambiabili con moda&arte, per clienti ricchi e annoiati, mentre il popolo – me compreso - va all’IKEA (e ci trova cosa in prevalenza utili e spesso ben disegnate, ma all’estero) oppure a Conforama (eccetera) e ci trova cose, sempre abbastanza utili, meno ben disegnate, che costano un po’ meno, e di cui la Triennale comunque non si interessa, anche se riempiono le case degli italiane e delle italiane, e ne condizionano gli stili di vita.
Allettanti, ma di dubbia scientificità, i temi dell’ultima sala, con schemi e test su cervello e percezione maschile/femminile e su e gli embrioni di analisi statistiche su pochi dati numerici relativi alla facoltà di Disegno Industriale del Politecnico di Milano. “STANZE. Altre filosofie dell’abitare” a cura di Beppe Finessi, si compone di due parti:
- La prima è una ampia ma superficiale carrellata, con una sola foto di una porzione di casa arredata (talora porzioni non significative) per ogni autore, riferita ai progettisti di interni italiani degli ultimi 80 anni;
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- La seconda è una rassegna alquanto delirante di “soluzioni abitative” realizzate specificamente in sito da autori contemporanei, accompagnate da testi ancora più autoreferenziali e deliranti (le “filosofie”), con la sola eccezione di una sorta di “bungalow per studenti” proposto da Umberto Riva, un vecchio maestro che mostra ancora un ancoraggio con la realtà;
- vecchio maestro è ormai anche Alessandro Mendini, che ha avuto il merito di svecchiare il clima negli anni ‘70/’80 con spiritose e simpatiche provocazioni, ma non capisco che senso abbia oggi – mentre 70.000 persone vagano senza-casa per le città italiane (e mentre la situazione carceraria continua ad essere più penosa che semplicemente penale) - annunciare che lui si sente un po’ imprigionato e quindi impiega il suo stand per rappresentare una condizione di invivibilità in stile optical/ossessivo (una stanza a violente bande bianco-nere con feroce illuminazione): abbiamo ancora bisogno di simili provocazioni?
- mentre Carlo Ratti (e Associati), giovane maestro di smart-city, presenta un mobile assemblaggio di sgabelli imbottiti, comandabile però da remoto smartphone (che utilità può avere, al di là di un single, che a metà serata, programmi di aver piacere al suo rientro di un divano ad una piazza piuttosto che a 2 o più piazze?);
- l’unica istallazione con un cenno di attenzione alla tematica del cambio climatico e del risparmio energetico si limita a recepire l’esistenza di moderni film fotovoltaici, e li spalma in fasce parallele su pareti esterne totalmente vetrate (che a mio avviso rendono invivibile lo spazio per usi residenziali, mancando ogni controllo su luce esterna e visioni dall’esterno), con dentro un arredo del tutto indifferente a clima/risorse/rinnovabilità.
Capisco e rispetto la libertà di ricerca e di espressione, l’impossibilità di definire confini tra architettura ed altre arti, ecc. ecc. (e anche il peso della progettazione e progettazione di oggetti di lusso nel PIL di Milano, Monza e Brianza) ecc. ecc., ma mi chiedo anche se questa rassegna rappresenta la progettazione di interni in Italia oggi: perché in tal caso significa che nessuno si preoccupa di cosa sta progettando, per chi sta progettando, di quali sono i problemi delle persone comuni, tanto in Italia quanto peggio nei paesi emergenti ed in quelli in via di sommersione, e di come cambieranno nei prossimi decenni, tra crisi economica e crisi ecologica.
Nel mio piccolo non mi sono mai occupato di interni in quanto tali, se non per arredare sobriamente edifici pubblici (oppure casa nostra), ma sono abbastanza fiero, come architetto e funzionario, di avere speso il mio tempo per fognature, semafori, marciapiedi, cimiteri, case popolari, centri sociali ed altre cose più utili alla comune umanità.
Fonti:
1. Aldo Vecchi “LA SOSTENIBILITÀ DAL FABBRICATO AL TERRITORIO” – Quaderno 5 di UTOPIA21, settembre 2018
https://drive.google.com/file/d/1dSTEb7DtGK9dYDMwxry3IJzQAHIY-FcA/view?usp=sharing
2. AAVV, a cura di Paola Antonelli e Ala Tannir “BROKEN NATURE” – Catalogo della XXII Triennale di Milano – Electa, Milano 2019
3. Marco Bertaglia - PIANETA IN PERICOLO: NUOVO ALLARME DEGLI SCIENZIATI” su UTOPIA21, marzo 2018 https://drive.google.com/file/d/19OCltQhkLZmTBbQ-x-EzLR37efPh_/view

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