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mercoledì 25 marzo 2020

UTOPIA21 - MARZO 2020: EDITORIALE CONGIUNTO - DI FRONTE ALLA PANDEMIA: PRIME CONSIDERAZIONI di Aldo Vecchi e Fulvio Fagiani


DI FRONTE ALLA PANDEMIA:
PRIME CONSIDERAZIONI
di Aldo Vecchi e Fulvio Fagiani

Nel “numero” di marzo 2020 di Utopia21 dedichiamo solo queste prime riflessioni alla Pandemia in atto, lasciando invariate le altre parti della “rivista”, non tanto per valorizzare comunque il lavoro svolto, dalla Redazione e dai Collaboratori ed Interlocutori, ma anche come segno di fiducia nel futuro.
Un futuro, che sarà senz’altro diverso da quanto si prospettava poc’anzi, ma in cui dovremo comunque cimentarci, seppur in termini nuovi, con molti dei temi da tempo maturi, su alcuni dei quali  scriviamo in questo numero:
-       sia per gli aspetti di metodo (se l’utopia si oggi possibile/utile/necessaria o in particolare del ruolo di giurisiti ed intellettuali per un nuovo diritto universale; come si formano pre-giudizi e stereotipi; )
-      sia per gli aspetti di merito (comportamenti individuali/stati e mercati/imprese e sindacati a fronte delle trasformazioni climatiche e socio-economiche: digitalizzazione, robotizzazione, crescita/consumo di risorse; ma anche soluzioni per il bisogno di case, nella fattispecie del Portogallo).
Anche per la nostra attività nei prossimi mesi, non sapendo ancora la portata e la durata della Pandemia e dei suoi effetti (e ad esempio se il Festival dell’Utopia 2020 potrà svolgersi a Varese in autunno, come le precedenti edizioni), vorremmo coltivare, come nostra ambizione, quella di stimolare la progettazione dell’utopia concreta di un “mondo diverso”: inseguendo da lontano gli esempi di pensatori ed agitatori che pensarono, anche nel dettaglio, ad un futuro migliore persino nelle ore più buie del secondo conflitto mondiale, dagli urbanisti inglesi che con Patrick Abercrombie che immaginarono la “grande Londra” e le NewTowns fuori dalla corona verde agli antifascisti e federalisti di Ventotene e di Chivasso [1]; così come ai più noti leaders della Resistenza, che insieme ai più umili dei Partigiani, mentre combattevano, ponevano le premesse, anche teoriche, di quella grande utopia che è tuttora la Costituzione Italiana.
In questa direzione ci pare si stia muovendo ad esempio anche l’ASVIS, con il portavoce Enrico Giovannini: le “unità di crisi” italiana ed europea (che suggerisco di chiamare “unità di resilienza”) dovrebbero usare un approccio sistemico al problema, mobilitando le tante intelligenze di cui dispone il nostro Continente nei vari campi e decidendo i singoli interventi anche in funzione del futuro che vogliamo costruire, non solo dell’emergenza che dobbiamo affrontare oggi. Sarebbe un segnale forte per una popolazione disorientata e spaventata.” 1

La Redazione

DI SEGUITO LE RIFLESSIONI, PRIMA DI ALDO VECCHI E POI DI FULVIO FAGIANI

L’esperienza, che si profila pressoché “globale”, della pandemia di “Coronavirus”, porta molti commentatori (o almeno i più profondi, tra i moltissimi che si esercitano sul tema del giorno) a pensare che “nulla sarà come prima”.

Oltre al carico immediato di morti e lutti, di sofferenze e di angoscia per le persone e le famiglie direttamente colpite (e di stress, e spesso di abnegazione, da parte del personale sanitario), l’epidemia e le direttive per contrastarla stanno determinando una gigantesca alterazione negli assetti economici, sociali ed antropologici dei Paesi coinvolti.

Gli aspetti che mi preme evidenziare, per porre alcune domande cui tenteremo di ripondere nei prossimi  mesi, sono:
-       il capovolgimento delle priorità nelle preoccupazioni quotidiane delle persone, anche quelle non ancora raggiunte o lambite dal virus, sia negli aspetti materlali (proteggersi dal contagio, assicurarsi cibo, farmaci e cure, sopperire alla chiusura di asili e scuole, rispetto alle usuali e pur persistenti necessità di studiare/lavorare, cercare reddito, progettare la propria vita), sia negli aspetti emotivi (la paura della pandemia, e del connesso impoverimento economico ed esistenziale, nasconde, se non rimuove, i timori consolidati – ed anche artificialmente sostenuti -  verso gli stranieri/migranti e  verso le istituzioni sovranazionali ed i connessi occulti poteri);
-       la riduzione temporanea dello “sviluppo” (e purtroppo dell’occupazione, a partire dai lavori più precari nel commercio/turismo/servizi, ed ormai anche nel cuore del sistema produttivo manifatturiero) e la compressione obbligata dei consumi (soprattutto voluttuari), ma non sempre in direzione “ecologica” (ad esempio, per evidenti motivi, la mobilità residua delle persone, se possibile, opta per i mezzi privati e non per il trasporto pubblico);
-       la profonda modificazione dei comportamenti individuali e collettivi, in parte imposta ed in parte (con difficoltà) interiorizzata[2], motivata dalla salute pubblica, in un difficile rapporto di fiducia/sfiducia tra cittadini, esperti ed istituzioni, variamente canalizzato dai mezzi di comunicazione, vecchi e nuovi (anche qui, se la sobrietà dei consumi si sovrappone agli obiettivi ecologisti, l’isolamento individuale ne rappresenta invece l’opposto, perché una decrescita “felice” dovrebbe combinarsi con un massimo di socialità e di scambi culturali);
-       la sospensione degli usuali meccanismi nella governance effettiva della “cosa pubblica”, sia pure in un quadro di formale rispetto delle regole, con indebolimento dei centri di propaganda politico-mediatici [3], dei partiti e del Parlamento (e forse dello stesso Governo) ed un rafforzamento di organi concertativi di raccordo tra Governo e Regioni, tra tecnici (sanitari) e politici; tra l’altro, con ovvio annichilimento, almeno temporaneo, di movimenti di base, come le “sardine” o i FFF.

E queste sono le domande che mi pongo, dopo quella – fondamentale, valida per ciascuno e per tutti – “se, come e quando usciremo (vivi?) dalla pandemia”:
-       una austerità di questa portata, anche se più “intelligente”, quale è probabilmente quella necessaria per affrontare adeguatamente il cambio climatico e la connessa crisi ecologica, potrebbe essere accettata dalle popolazioni già abituate agli standard di vita e di consumo “occidentali”? anche se si tratterebbe di una austerità funzionale ad una “emergenza” meno capillarmente evidente? ed, in particolare, DOPO, la pesante cura di dimagrimento socio-economico in atto?
-       l’auspicabile superamento della crisi sanitaria e delle conseguenze socio-economiche (tra cui l’accumulo di debiti pubblici e privati) determinerà inevitabilmente una richiesta corale di rilancio “tal quale” del precedente (e vigente) modello di sviluppo “tecno-capitalista” (pur azzoppato materialmente nella sua dimensione globalista), oppure i frammenti  di solidarismo necessari per contrapporsi alla pandemia (comportamenti disciplinati, concordia istituzionale, credibilità degli esperti, carattere pubblico della sanità, centralità della spesa pubblica, caduta temporanea dei tabù ordo-liberisti) potranno essere valorizzati per costruire una alternativa?



Aggiungo poche note a quanto scritto da Aldo Vecchi, perché penso anch’io che la pandemia in corso avrà effetti duraturi sul nostro modo di vivere, sia nel sistema delle percezioni individuali che, ancora di più, nelle forme della vita collettiva.
Non possiamo sapere oggi quali saranno tali effetti, possiamo solo avanzare ipotesi o, meglio ancora, porci domande.
E tuttavia una cosa almeno è certa, l’epidemia ha mostrato quanto sia instabile il nostro vivere e quanto sia soggetto a mutamenti repentini.
Nella vita delle generazioni del dopoguerra penso sia un caso assolutamente unico: neanche le ‘domeniche a piedi’ del 1973, che i meno giovani ricordano, avevano avuto un uguale impatto sulle vite quotidiane. Non c’erano decessi, né pericoli per la salute, e l’eccezionalità era riservata solo ai giorni festivi, nei feriali la vita scorreva come sempre.
C’insegnerà ad uscire dall’immediatezza e a scrutare l’orizzonte per percepire rischi e pericoli? Saremo capaci di comprendere che l’esercizio della premonizione e della precauzione non sono un fastidio che guasta la buona vita, ma sono la precondizione stessa della buona vita? Capiremo che la natura non è argilla inanimata in attesa di essere plasmata, ma un complesso sistema vivente da conoscere e rispettare?
Se si, quel clima di condivisione e mobilitazione pubblica che finalmente vediamo in questi giorni, si trasferiranno su altre emergenze, quella climatica e ambientale innanzitutto?
Mai come in questi momenti riscontriamo quanto aspirazioni individuali e responsabilità pubblica non coincidano affatto, e come il nostro stesso benessere individuale dipenda dal senso di responsabilità di tutti gli altri e dalla coerenza dei comportamenti.
Mi sorprende in questi giorni vedere le strade vuote e sentire commenti assennati e partecipi: è un patrimonio di civismo riaffiorante che conforta e alimenta speranze. Non è vero che siamo solo egoisti, auto-interessati, vanesi e narcisi. Tante persone dimostrano di riconoscere un dovere civico e di doverlo condividere, non per il timore di sanzioni, ma per intima convinzione.
Vuol dire che non c’è una natura umana immutabile e odiosa, ma anche una riserva di solidarietà e identificazione collettiva, con cui affrontare drammi comuni.
Gli episodi di esasperato individualismo ci sono stati, come ricorda Vecchi, ma li ho interpretati come limitati e frutto di una comprensione ancora parziale.
Improvvisamente scopriamo che il bene pubblico della salute sa ispirare anche il sacrificio di beni privati, ritenuti irrinunciabili, come la libertà di muoversi e decidere il flusso della propria vita.
Chi mi legge su UTOPIA21 sa a quali obiettivi vorrei che queste attitudini s’indirizzassero, estendendo il loro campo d’azione.
Se scopriamo che la natura va compresa e rispettata e che non siamo soli nel crederlo, ma lo condividiamo con altri e da queste convinzioni ci facciamo guidare, quegli obiettivi che ora sembrano un sogno irrealizzabile, forse possono essere ottenuti.
Intravedo un altro insegnamento da questa contingenza.
Dopo l’iniziale scatenamento delle opinioni in libertà, in cui molti, privi di alcun titolo, hanno indossato i panni dell’esperto e discettato sulle soluzioni, iscrivendosi ora al partito dei prudenti ora a quello degli irridenti, non lesinando critiche feroci a destra e a manca, ho colto, con il crudo manifestarsi dell’emergenza grave, il prevalere di una maggiore sobrietà.
Basta partito preso, basta certezze inoppugnabili, basta arringhe. Anche gli esperti chiamati a spiegare hanno esposto i molti fatti ignoti, l’impossibilità di predizioni certe, il dover inseguire la conoscenza giorno per giorno e dato su dato.
Persino gli esponenti politici, con le immancabili eccezioni, si sono silenziati per far posto al ruolo delle istituzioni e a quello, mai come in questo caso necessario, degli specialisti.
Si è forse anche capito che le buone decisioni non sono il frutto del taglio netto del capo solo al comando, ma il frutto faticoso del confronto tra competenze e responsabilità diffuse.
Di fronte al coronavirus gli slogan possono poco, le sparate irose, che non sono mancate e non mancheranno, servono a nulla.
Il cammino prudente, incerto, la valutazione ponderata, la trasparenza argomentata sono i soli strumenti su cui si può realmente contare.
Chissà se, a cose fatte, avremo capito che ci sono patrimoni indispensabili, come la sanità, la formazione e la ricerca, che vanno costruiti pezzo su pezzo, mai lasciate a se stesse, mai sacrificate per un po’ di beni di consumo in più, o per onorare promesse elettorali a questa o a quella categoria. Che, inoltre, sono un bene pubblico primario, su cui investire con tenacia, che sollecitano dedizione non motivata da premi monetari, ma più spesso dal senso del dovere, come stiamo vedendo.
Dalle crisi e dalle emergenze si può uscire bene o male, imparare o dimenticare, migliorare o peggiorare. I prossimi mesi ci diranno.

fulviofagiani@gmail.com

Fonti:
1.    Donato Speroni - EVITIAMO IL RIPETERSI DELLE “TEMPESTE PERFETTE” -  news letter dell’ASVIS, 13 marzo 2020 https://asvis.it/in-evidenza-nella-settimana/230-5238/questa-settimana-evitiamo-il-ripetersi-delle-tempeste-perfette-




[1] La Dichiarazione dei rappresentanti delle popolazioni alpine, meglio conosciuta come Dichiarazione (o Carta) di Chivasso, è un documento firmato il 19 dicembre 1943 a Chivasso, durante un convegno clandestino organizzato da esponenti della Resistenza delle valli alpine. Venne scelta la cittadina piemontese perché a metà strada tra coloro che provenivano dalle valli valdesi ed i valdostani (da Wikipedia).
[2] Ad esempio, in ambito milanese, si fatica a riconoscere, nella disordinata disobbedienza dei persistenti fenomeni di movida giovanile in barba al “coprifuoco” (fino all’inizio di marzo)  oppure nell’affannoso “ritorno a casa” dei fuori sede la sera del 7 marzo) l’eco del pazientissimo popolo degli utenti dell’EXPO 2015, benchè in gran parte socialmente coincidenti; tuttavia nell’insieme sembrano prevalere atteggiamenti consapevoli o addirittura solidali, in controtendenza rispetto all’andazzo preesistente, almeno come rappresentato dei media
[3] Richiamando Stefano Levi della Torre 2, che citava Carl Schmitt “sovrano è chi decide dello stato d’eccezione”  e lo  parafrasava: “sovrano è chi sa decidere dell’ordine del giorno”, mi pare che in questa fase di emergenza “sovrano è il Virus” e quindi, con la sua “Corona, toglie spazio ad ogni altra sovranità, compresa quella dei sovranisti

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