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lunedì 26 settembre 2022

UTOPIA21 - SETTEMBRE 2022: RAPPORTO ISTAT 2022 E DINTORNI

 RAPPORTO ISTAT 2022 E DINTORNI

di Aldo Vecchi

 

Una rassegna di estratti dal “Rapporto”, mirato alle trasformazioni sociali in atto (tra Pandemia e Guerra) e denso di attenzioni alle disuguaglianze, preceduta da alcune considerazioni personali sulle ‘tecnostrutture nazionali’ preposte alle analisi socio-economiche.

 

Sommario:

 

-       premessa e riflessioni personali

-       rassegna di estratti dal “rapporto istat 2022”

o   la guerra in ucraina nei tweet italiani

o   il mercato del lavoro

o   la transizione ecologica

o   la giornata durante il lockdown 

o   il lavoro agile

o   le nascite da genitori celibi e nubili

o   i bisogni di assistenza della popolazione anziana

o   le trasformazioni dell’immigrazione: stranieri e nuovi cittadini

o   le diverse forme della disuguaglianza

o   seconde generazioni: punta avanzata dell’integrazione e risorsa per il paese

o   le disuguaglianze digitali

o   le difficoltà economiche delle famiglie con persone con disabilità

 

PREMESSA E RIFLESSIONI PERSONALI

 

 

Nel precedente numero di “Utopia21”, commentando la presentazione da parte dell’ISTAT del rapporto “BES 2021”, segnalavo la scarsa attenzione del mondo politico e dei media generalisti per tale documento e per i temi profondi e duraturi connessi alla ricerca del “Benessere Equo e Solidale”.

Diversamente è accaduto per l’annuale “Rapporto ISTAT 2022”, che – pur trattando in parte gli stessi aspetti della vita sociale nel Paese (e intrecciandosi, con il rapporto BES, nei nuovi assetti dei Censimenti ISTAT, che da decennali stanno trasformandosi in “permanenti”, e nella nuova attitudine dell’Istat ad affrontare anche gli aspetti “soggettivi” della società) – per la sua apparente maggior connessione alla “attualità” [A], è riuscito a bucare lo schermo della disattenzione, ad esempio guadagnando visibilità su più pagine ed in più articoli del quotidiano “La Repubblica” del 9 luglio, con titoli che colgono i principali argomenti del Rapporto, come “Giovani, precari e donne: l’Italia dei dimenticati”, “il Reddito evita un milione di poveri. 4 milioni di stipendi sotto 12 mila Euro”, “I single superano le coppie con figli. E la natalità è sempre più bassa” “Attesa per la cittadinanza, ma lo ius scholae salva solo 280 mila giovani”.

 

Nella parziale rassegna che propongo di seguito come “assaggio” dal Rapporto 2022, mi sembra che emerga una sorta di definitiva emancipazione della statistica (e in particolare – ma non solo - della sua incarnazione nell’Istituto Nazionale di Statistica) dallo stereotipo del “Mezzo Pollo di Trilussa” (ovvero i dati medi che nascondono le disuguaglianze), perché le indagini mirate ai fronti specifici del disagio sociale (utilizzando anche i “big data” e quanto emerge dai “social media”) si affiancano alla sofisticata articolazione dei dati in classi dimensionali, sottogruppi, “cluster” [B]: per fortuna, insomma, le tracce informative che tutti noi rilasciamo quotidianamente non vengono sfruttate solo dai monopoli privati del “web” e dal marketing pubblicitario; e le elaborazioni sulle disuguaglianze sociali non provengono più solo da fonti “di parte”, come i sindacati od Oxfam, ma dalle stesse istituzioni.

 

Infatti, quanto qui rilevato riguardo all’ISTAT si può, sia pure con specifiche differenze, estendere alle altre principali “tecnostrutture” che rilasciano rapporti periodici (oppure indagini monografiche) sull'economia, la società, il territorio e l’ambiente, quali la Banca d’Italia, lo SVIMEZ, l’INPS, l’ISPRA, nonché a suo modo (ovvero mirando alle percezioni soggettive) il CENSIS: rimando alle Fonti del presente articolo i principali documenti che ho consultato, e che non ho il tempo di riassumere e recensire adeguatamente, ma confermo questa mia buona impressione di una elevata attenzione a differenze, disuguaglianze e divari (cioè alla sostanza dei conflitti che pervadono il tessuto sociale) e non solo ai dati complessivi del “PIL” e dell’andamento dell’economia nazionale.

Anche se evidentemente tali testi non mettono in discussione i capisaldi di una società capitalista, le attenzioni verso i disagi sociali/territoriali/ambientali (che da tale assetto socio-politico conseguono) permettono anche letture utili ad approcci alternativi [C].

 

Viceversa l’ideologia sottesa – nell’insieme e all’ingrosso – in tali elaborazioni conoscitive delle tecnostrutture nazionali mi sembra che assomigli a quella che in altro articolo ho chiamato “ideologia Ursula” (cioè, europeista, inclusiva, ambientalista, ecc.), cioè ben lontana sia dal neo-liberismo selvaggio, sia dalle forme di sovranismo xenofobo che vanno per la maggiore nei favori degli elettori, secondo i più recenti sondaggi.

Si verifica quindi il paradosso di una nazione che attraverso gli “organi formali di autocoscienza dello stato” si rappresenta in modo divergente dalle proprie emanazioni elettorali, cui compete la direzione dello stesso stato.

Mi chiedo se c’è una “casta tecnocratica” che manipola le informazioni provenienti dalla società oppure una “casta politica” che manipola le emozioni del popolo.

 

 

RASSEGNA DI ESTRATTI DAL “RAPPORTO ISTAT 2022”

 

Di seguito riproduco il sommario dell’indice del Rapporto, e successivamente propongo una rassegna di estratti dal testo, quelli che ho ritenuto più significativi, sia riguardo al merito delle trasformazioni sociali indagate dall’Istat (escludendone i temi già affrontati nel mio articolo sul rapporto BES, come la mortalità oppure il disagio giovanile), sia riguardo alle innovazioni di metodo più rilevanti. Nelle mie scelte, che non mirano ad una rappresentazione organica del rapporto, ho privilegiato argomenti compiuti in passi abbastanza brevi ed approfondimenti “di nicchia” un po’ particolari.

 

CAPITOLO 1 | LE PROSPETTIVE DI RIPRESA TRA OSTACOLI E INCERTEZZA

CAPITOLO 2 | DUE ANNI DI PANDEMIA: L’IMPATTO SU CITTADINI E IMPRESE

CAPITOLO 3 | FAMIGLIE, STRANIERI E NUOVI CITTADINI

CAPITOLO 4 | LE DIVERSE FORME DELLA DISUGUAGLIANZA

 

 

 

LA GUERRA IN UCRAINA NEI TWEET ITALIANI

 

“Per analizzare le conversazioni sulla guerra Russia-Ucraina dei cittadini intervenuti sui social media e in particolare su Twitter, sono stati presi in considerazione i “tweet” relativi ai periodi dal 24 febbraio all’8 marzo (le prime due settimane di guerra), dall’8 al 20 maggio e dall’1 al 15 giugno . L’analisi delle parole più utilizzate ha fatto emergere un primo elemento di interesse. Nel primo periodo, la parola “ucraina” è stata la più ricorrente (492.006 occorrenze), seguita da “guerra”, “russia”, “putin”, “italia”, “lavoro”. Interessante notare l’elevato numero di occorrenze di “putin” che evidenzia una forte caratterizzazione personale del confl­itto. Non accade per altri leader politici: nello stesso periodo, ad esempio, “draghi” si collocava al 19° posto. A maggio, a poco più di due mesi di distanza, l’ordine delle parole cambia: “lavoro” sale al primo posto, seguito da “italia”, mentre “ucraina” scivola in terza posizione – con un peso sul complesso delle occorrenze più che dimezzato rispetto al primo periodo – e “guerra” in nona. Lo spostamento del dibattito su temi di carattere nazionale è ancora maggiore nel periodo più recente. A inizio giugno, la parola “guerra” si posiziona al 7° posto, “russia” al 13°, “ucraina” al 14°, con un peso relativo ulteriormente ridotto. Mentre si conferma al primo posto la parola “lavoro” seguita da “italia”, “politica”, “famiglia”, “scuola”, “referendum” “giustizia”, cioè temi politici centrali nel dibattito politico nazionale del momento. È importante sottolineare che il tema “lavoro” era comunque nelle primissime posizioni pure nel periodo iniziale, rappresentando un aspetto di particolare rilevanza non oscurato neanche dall’avvio del con­flitto.”

 

IL MERCATO DEL LAVORO

“La ripresa economica si è riflessa anche sulle condizioni del mercato del lavoro, che dopo i primi mesi del 2021 sono progressivamente migliorate. Ciò nonostante, la crescita occupazionale pur essendo stata meno ampia rispetto alle altre maggiori economie europee ha recuperato quasi pienamente i livelli pre-crisi.

Dopo un primo importante recupero nei mesi estivi del 2020, l’occupazione ha mostrato un andamento volatile ­fino a febbraio del 2021, quando è tornata a crescere a ritmi sostenuti; una nuova decelerazione è emersa nella seconda parte dell’anno. Nel primo trimestre del 2022 è proseguita una tendenza nettamente positiva: il numero di occupati è cresciuto dello 0,5 per cento rispetto alla media degli ultimi tre mesi del 2021 (+120 mila unità), in linea con la dinamica osservata a fi­ne anno (0,5 per cento anche la crescita congiunturale nel quarto trimestre 2021), e a marzo è tornato sopra quota 23 milioni per la prima volta dallo scoppio della pandemia, collocandosi solo circa 150 mila unità sotto il picco raggiunto a metà 2019, ma molto vicina al livello di febbraio 2020. I dati provvisori per i mesi di aprile e maggio indicano una battuta di arresto nella crescita dell’occupazione, con una flessione nel numero di occupati (-58 mila; -0,3 per cento) e una sostanziale stabilità nel tasso di occupazione complessivo (59,8 per cento), che in ogni caso si colloca sui valori più elevati dal gennaio 2004, da quando è disponibile la serie storica.

 

 

Nei primi mesi del 2022 la crescita occupazionale ha riguardato in modo pressoché esclusivo la componente maschile della forza lavoro: a maggio 2022, rispetto a dicembre 2021, l’occupazione maschile è cresciuta di 145 mila unità (+1,1 per cento), mentre quella femminile è diminuita leggermente (-33 mila unità, -0,3 per cento).

Sembra essersi invertita, almeno temporaneamente, la tendenza, osservata nel corso del 2021, al recupero relativamente più rapido dell’occupazione femminile, inizialmente colpita in misura maggiore. Nei primi tre mesi del 2022, una parte rilevante (circa il 44 per cento) della crescita occupazionale riguarda i settori dell’industria in senso stretto (+33 mila occupati; +0,7 per cento) e delle costruzioni (+20 mila; +1,4 per cento), che impiegano in larga prevalenza forza maschile.

Ciò nonostante, il tasso di occupazione femminile, che già a ­fine 2021 era tornato a superare, per la prima volta dal 2019, la soglia del 50 per cento, secondo i dati provvisori di maggio 2022 è pari al 50,7 per cento. La ripresa occupazionale ha continuato ad avvantaggiare soprattutto i lavoratori più giovani.

Dopo aver recuperato già nella seconda metà del 2021 i livelli pre-crisi, il numero di occupati tra i 15 e i 34 anni nei primi cinque mesi del 2022 è aumentato dell’1,4 per cento (+70 mila unità rispetto a dicembre), un ritmo d’espansione quasi triplo di quello dell’occupazione totale (+0,5 per cento). Il tasso di occupazione dei più giovani ha così raggiunto il 43,4 per cento, valore che non si era registrato dal febbraio 2012.

Dal punto di vista territoriale, infi­ne, nel primo trimestre del 2022 si conferma la prosecuzione del buon andamento del mercato del lavoro nel Centro-Sud, dove il recupero del numero di occupati è quasi totale. In particolare, nel Mezzogiorno il tasso di occupazione è tornato, per la prima volta dal 2007, al di sopra del 46 per cento.”

“Nel 2021 la dinamica salariale nel totale dell’economia è stata molto moderata. Le retribuzioni contrattuali per dipendente sono aumentate dello 0,7 per cento, in linea con l’anno precedente, mentre le retribuzioni lorde di fatto per unità di lavoro equivalenti a tempo pieno sono cresciute dello 0,4 per cento, riflettendo gli effetti della ricomposizione dell’occupazione in cui ha prevalso il recupero di posizioni con retribuzione inferiore alla media che maggiormente avevano fruito della CIG nel 2020. Alla luce della progressiva risalita dei prezzi al consumo (+1,9 per cento IPCA) si è registrata una diminuzione in termini reali delle retribuzioni contrattuali e di fatto, rispettivamente dell’1,2 e dell’1,5 per cento.”

 

LA TRANSIZIONE ECOLOGICA

 

“Considerando i dati defi­nitivi più aggiornati prodotti dalla contabilità ambientale (riferiti al 2019), l’attività produttiva genera il 70 per cento delle emissioni di CO2 (poco più di 250 milioni di tonnellate) e le famiglie il restante 30 per cento (di cui il 17,4 per il trasporto e il 12,5 per cento per il riscaldamento domestico).

Le emissioni delle attività produttive sono per il 31,3 per cento dovute al settore energetico, per poco meno di un terzo all’industria, (esclusa l’energia), per 26,2 per cento al terziario e per il restante 5,5 per cento al comparto agricolo. Nell’ambito della manifattura, il 25,3 per cento delle emissioni si concentra in quattro settori: gomma, plastica e minerali non metalliferi (9,0 per cento), raf­finazione (6,4 per cento), metallurgia e prodotti in metallo (5,7 per cento) e chimica (4,3 per cento). Rispetto al 2011, le emissioni complessive si sono ridotte di circa il 19 per cento (a 357 milioni di tonnellate). A fronte di una contrazione del 10,0 per cento dell’impatto dei consumi delle famiglie, principalmente dovuta all’andamento della componente riscaldamento (-14,9 per cento), le emissioni di CO2 del sistema produttivo si sono ridotte del 22,1 per cento.

Questa diminuzione delle emissioni connesse all’attività produttiva si è avuta in presenza di una lieve crescita economica, seppure questa tendenza non appaia generalizzata a tutti settori. Infatti, a fronte di un insieme di comparti (energia, chimica, metallurgia e prodotti in metallo, gomma, plastica e minerali non metalliferi) che hanno ridotto le emissioni nonostante l’incremento del valore aggiunto in volume, altri settori (agricoltura, trasporto e magazzinaggio, apparecchi elettrici ed elettronici) hanno mostrato una tendenza inversa, aumentando le proprie emissioni.

Un altro elemento rilevante nel determinare la riduzione delle emissioni, soprattutto all’interno del sistema produttivo, è stato l’aumento della produzione di energia da fonti rinnovabili, che ha bene­ficiato di un esteso sistema di incentivi pari a oltre 54 miliardi di euro tra il 2016 e il 2020. Nel 2020, in particolare, gli importi erogati ammontavano a circa 9,2 miliardi di euro e i benefi­ciari superavano le 450 mila unità. I due terzi degli incentivi sono stati destinati alle imprese (in larga prevalenza PMI) che hanno come attività principale la produzione di energia elettrica. Il restante terzo ha riguardato in prevalenza imprese con attività principale nell’agricoltura, nella manifattura e nel commercio all’ingrosso.”

 

 

LA GIORNATA DURANTE IL LOCKDOWN 

 

“Nel 2020 l’invito a restare a casa, diventato obbligo in alcuni momenti, ha modificato le abitudini, impattando fortemente sulla giornata della maggior parte della popolazione. Molti individui si sono visti costretti a riconfigurare il piano delle proprie attività, ripiegando il proprio tempo su quelle che era possibile svolgere prevalentemente all’interno delle mura domestiche.

Durante il lockdown, la quasi totalità della popolazione di 18 anni e più ha avuto del tempo libero da dedicare ad attività ricreative, mentre solamente il 28 per cento è uscito per le motivazioni consentite dal decreto “iorestoacasa”. In una giornata media hanno lavorato circa 8 milioni e 400 mila persone: una quota dimezzata rispetto a quella rilevata nel corso di indagini analoghe.

Il 44,0 per cento di chi ha lavorato il giorno precedente l’intervista lo ha fatto da casa. Questa attività insieme agli spostamenti è tra quelle che hanno risentito maggiormente delle restrizioni imposte: infatti il tempo dedicato al lavoro è diminuito per il 26 per cento degli individui ed è cresciuto solo per il 13,7 per cento. Neppure le attività fisiologiche sono state indenni dai cambiamenti: principalmente perché è stato possibile dedicarvi più tempo del solito. Un terzo dei cittadini si è potuto svegliare più tardi e un quinto ha potuto dormire di più. Soprattutto gli uomini hanno approfittato della possibilità di riposare di più e di prendersela più comoda al risveglio.

Più di un cittadino su quattro ha dedicato una maggiore quota del proprio tempo ai pasti che, grazie alla presenza della famiglia al completo, sono spesso diventati momenti conviviali anche nei giorni feriali. Non è cambiato solo il tempo dedicato, ma anche la quantità e qualità dei pasti: il 25 per cento degli individui ha mangiato di più (39,5 per cento tra i giovani fino a 34 anni), il 6,6 per cento cibi meno salutari. Tra le attività di lavoro familiare la preparazione dei pasti è quella che ha coinvolto più persone (63,6 per cento). Vivere in una famiglia riunita per più ore della giornata ha indotto anche a dedicare maggior tempo alla cucina: lo ha fatto un terzo dei rispondenti, senza differenze di genere. In effetti durante la prima fase dell’epidemia si sono riscoperte alcune delle nostre tradizioni gastronomiche, come la pizza, il pane o i dolci fatti in casa, come evidenziato anche dall’innalzamento della domanda di farine e sfarinati per uso domestico. Le pulizie della casa hanno coinvolto oltre un cittadino su due (54,4 per cento) e il 40 per cento di quanti vi si sono dedicati dichiarano di averlo fatto per più tempo del solito. La più frequente compresenza tra le mura domestiche e la chiusura delle scuole ha determinato anche un sovraccarico del lavoro di cura dei bambini svolta dall’85,9 per cento degli adulti in famiglie con bambini tra 0 e 14 anni. Il 67,2 per cento vi ha dedicato più tempo che in passato, senza differenze di genere. Infine, tra le usuali attività di lavoro familiare, la spesa è quella che ha coinvolto meno persone (un cittadino su 10) ma, come prevedibile, circa un cittadino su due ha dichiarato di avervi dovuto dedicare più tempo, soprattutto a causa delle lunghe attese in fila. In generale una più frequente compresenza tra le mura domestiche ha creato le condizioni per una maggiore condivisione del lavoro familiare tra uomini e donne, sebbene non abbia riguardato tutte le attività. Ciononostante è rimasto elevato il divario di genere. Il distanziamento fisico non si è tradotto in distanziamento sociale e i rapporti con parenti e amici sono stati coltivati a distanza, telefonicamente o tramite videochiamate, spesso dedicando a questa modalità di interazione più tempo che in passato. Tre cittadini su quattro hanno curato le loro relazioni sociali come hanno potuto, in un momento in cui le visite e gli incontri con familiari e amici non erano consentiti. Si è anche registrato un diffuso incremento del tempo dedicato che ha riguardato il 63,5 per cento di chi ha sentito amici e circa il 60 per cento di chi ha sentito i parenti.”

 

 

IL LAVORO AGILE

 

“Nel confronto europeo, l’Italia mantiene un distacco importante rispetto ai principali paesi dell’Ue27 anche con riferimento alla possibilità di lavorare da remoto. La rapida diffusione dello smart working (o lavoro agile) fin dai primi mesi dello scoppio della pandemia infatti ha prodotto nel nostro Paese una crescita improvvisa nella quota di lavoratori che svolgono almeno parte della propria prestazione lavorativa da casa.

La percentuale di occupati tra i 15 e i 64 anni che affermano di aver svolto il proprio lavoro occasionalmente o abitualmente da casa è infatti triplicata nel corso dei primi mesi della pandemia, passando dal 4,7 per cento della media del 2019 (fanalino di coda tra i principali partner dell’Ue27) al 13,6 della media 2020.

Ad aumentare è stata quasi esclusivamente la quota di chi ha lavorato da remoto abitualmente (da 3,6 nel 2019 a 12,2 per cento nel 2020), mentre è rimasta sostanzialmente stabile l’incidenza di chi è stato in lavoro agile solo occasionalmente (da 1,1 a 1,4): ciò ha determinato il permanere di un divario notevole nella diffusione del lavoro da remoto rispetto ai principali paesi Ue, nei quali risultava significativa, sia nel 2019 sia nel 2020, anche la componente di lavoro da remoto occasionale.

Nel 2021 la ripresa delle attività economiche si è associata in Italia a un ridimensionamento della quota di lavoro agile svolta abitualmente e al concomitante incremento di quella di natura meno frequente. In particolare, per le donne, che nel 2020 avevano sperimentato la crescita più intensa nella quota di lavoro svolto abitualmente da remoto (14,3 per cento, rispetto al 3,3 del 2019), l’incidenza del lavoro agile abituale è scesa al 9,9 per cento ed è stata compensata da un aumento di circa 6 punti di chi lavora da casa ma solo occasionalmente (da 1,4 a 7,4 per cento), portando la quota complessiva del lavoro femminile da remoto nel 2021 al 17,3 per cento, in crescita rispetto al 2020 (15,7 per cento), ma quasi 10 punti al di sotto della corrispondente media registrata nell’Ue27 (25,3 per cento) e circa 19 punti rispetto alla Francia (36 per cento). Lavorare da casa ha comportato comunque delle difficoltà: le riporta più di un lavoratore su due (54,2 per cento). In particolare problemi di connessione a Internet e la difficolta di concentrazione sono stati riferiti da più di un lavoratore su quattro, mentre una percentuale solo di poco inferiore ha lamentato carenze di dotazione tecnologica (23,2 per cento), di spazi adeguati in casa (21,3 per cento) e di sovrapposizione tra lavoro e attività personali/ familiari (23,4 per cento).”

 

 

LE NASCITE DA GENITORI CELIBI E NUBILI

 

“Tra i nati fuori dal matrimonio, la quota maggiore è rappresentata da nati con genitori mai coniugati (coppie di celibi e nubili) che nel 2021 arriva all’84 per cento sul complesso dei nati fuori dal matrimonio.

Questa quota è aumentata di quasi 20 punti percentuali rispetto al 2001 (65 per cento), riflettendo la caduta dei primi matrimoni osservata negli ultimi 20 anni. A livello territoriale il Mezzogiorno è la ripartizione con la quota minore di nati da genitori celibi e nubili sul totale dei nati fuori dal matrimonio (81,0 per cento). Considerando il livello di istruzione della madre, nel 2019 la quota di nati da madri laureate è 28,5 per cento tra le nubili in coppia con celibi, inferiore a quella delle madri coniugate (34,2 per cento, -5,7 punti).

Nel Mezzogiorno, dove le laureate sono comunque meno numerose nella popolazione, la distanza nella quota di madri laureate è particolarmente accentuata arrivando a 10 punti percentuali (rispettivamente 18,9 tra le nubili in coppia con celibi e 29,0 per cento tra le coniugate). Non si riscontrano differenze per le diplomate poiché la quota di nati è la stessa sia dentro sia fuori il matrimonio (44,3 per cento). All’opposto l’incidenza delle madri con basso titolo di studio è del 37 per cento tra le nubili, 10 punti percentuali superiore a quella tra le coniugate.

Questa differenza lascia supporre che il fenomeno delle nascite al di fuori del matrimonio nel Mezzogiorno sia riconducibile, più che altrove, a condizioni di vulnerabilità sociale piuttosto che ad aspetti che riguardano le trasformazioni culturali e della sfera valoriale. Nel contingente dei nati da genitori che non si sono mai sposati, si osserva nel tempo una struttura per età della madre sempre più matura, in linea con la tendenza alla posticipazione che riguarda le nascite nel complesso.

Mentre nel 2001 circa il 40 per cento delle madri nubili aveva più di 30 anni, nel 2021 tale percentuale supera il 60 per cento. Nonostante l’evidente posticipazione, nel caso dei nati da genitori mai coniugati la struttura per età della madre resta comunque decisamente più giovane (38,6 per cento di nati da genitori sotto i 30 anni) rispetto a quella delle madri coniugate (24,5 per cento).”

 

 

I BISOGNI DI ASSISTENZA DELLA POPOLAZIONE ANZIANA

 

“Diversi sono i sistemi organizzativi adottati dai paesi europei per fronteggiare i bisogni di assistenza della popolazione anziana, così come è diversa sia la capacità di risposta a tali bisogni, sia il ruolo che la famiglia è chiamata a svolgere. Come abbiamo visto, secondo l’Indagine europea sulle condizioni di salute, sono circa 4,6 milioni gli anziani in Italia con moderate o gravi diffi­coltà nelle attività di cura della persona o nelle attività della vita domestica che dichiarano di aver bisogno di aiuto per svolgere tali attività. Sono oltre 2 milioni gli individui di 65 anni o più (il 33,7 per cento) che non si sentono adeguatamente aiutati pur avendo livelli di autonomia compromessa (moderati o gravi), mentre il 39 per cento dichiara di ricevere un aiuto suffi­ciente. La necessità di aiuto, come atteso, aumenta con il livello di gravità delle diffi­coltà sperimentate dagli anziani: se sono moderate meno della metà degli anziani richiede aiuti, quando invece diventano gravi la quota raggiunge il 90 per cento (3,4 milioni). In quest’ultimo gruppo quasi la metà degli anziani non riceve un aiuto adeguato (1,8 milioni) e tra questi circa 900 mila hanno gravi diffi­coltà nelle attività essenziali di cura della persona (ADL).

In generale, le donne esprimono un maggior bisogno di aiuto (76,2 per cento a fronte di 65,3 per cento degli uomini), ma riferiscono più spesso bisogni di assistenza non soddisfatti (35,5 per cento contro 29,9 per cento), apparendo anche più isolate.

A fronte di un bisogno di assistenza che supera il 70 per cento delle persone con moderate o gravi dif­ficoltà in tutte le ripartizioni territoriali, la risposta a tali bisogni non risulta sempre adeguata, in particolare la rete di aiuti risulta carente soprattutto al Sud dove la quota di persone senza aiuti o con aiuti insuffi­cienti si attesta al 40,4 per cento e nelle Isole al 44,2 per cento (contro uno su quattro nel Nord-est).

Il disagio si accentua per le donne, al punto che nelle Isole una su due non ha aiuti o non sono adeguati (una su quattro nel Nord-est). In ambito europeo il bisogno di assistenza non soddisfatto è mediamente più alto di quanto si rileva in Italia (32,4 per cento Ue27, 29,5 per cento Italia), sebbene il range di variazione tra i paesi sia molto ampio: la quota passa dal 14,3 per cento nei Paesi Bassi a oltre il 50 per cento in Croazia, Estonia, Romania e Bulgaria. In Italia, dei 2 milioni e 140 mila anziani con moderate o gravi diffi­coltà, che lamentano un livello di assistenza non adeguato, quasi un milione (44,3 per cento) vive da solo – prevalentemente donne – mentre oltre 600 mila vivono in coppia senza ­figli (30,6). A fronte di tali bisogni, nel nostro Paese la famiglia ha sempre svolto un ruolo fondamentale nell’assistere i propri familiari, sostenendo per decenni il nostro welfare.

Circa 3,5 milioni di anziani con moderate o gravi dif­ficoltà per le attività quotidiane di cura personale o domestiche possono fronteggiare la ridotta autonomia grazie al supporto dei propri familiari (sia conviventi sia non conviventi): il 43,2 per cento degli anziani con ridotta autonomia se ne avvale in modo esclusivo e il 12,3 per cento insieme ad altre persone che li aiutano, sia che si tratti di personale a pagamento (9,2 per cento dei casi), sia di amici o volontari comunque a titolo gratuito (3 per cento).

Solo il 9,4 per cento degli anziani con riduzione dell’autonomia è aiutato esclusivamente da persone esterne alla famiglia, di cui il 7,5 per cento solo a pagamento, infi­ne il 5,3 per cento invece dichiara di non ricevere alcun aiuto anche quando vive con altri familiari.

L’aiuto esclusivo dei familiari (conviventi o non) è sempre predominante ma raggiunge una quota molto elevata quando l’anziano non autosuf­ficiente vive in famiglie estese o insieme a un ­figlio. Tra gli anziani soli invece il supporto esclusivo dei familiari non conviventi è molto più contenuto e aumenta contestualmente l’aiuto di persone esterne sia in modo esclusivo, sia di supporto alla famiglia stessa (entrambi circa 16 per cento).

Si attesta al 17 per cento la quota di anziani che per la ridotta autonomia ricorrono ad aiuti a pagamento (circa 1 milione), quota che aumenta quando gli anziani vivono soli (25,7 per cento), oppure quando le difficoltà sono gravi (23,6 per cento) e riguardano quelle essenziali della cura personale (35,8 per cento nelle ADL). L’accesso agli aiuti a pagamento dipende ovviamente dallo status sociale e dalle disponibilità economiche della famiglia in cui vive la persona con problemi di autonomia. Ne usufruiscono in misura maggiore gli anziani con redditi elevati (21,6 per cento appartenenti al quinto di reddito più elevato contro l’11,2 per cento del primo quinto di reddito) e livello di istruzione medio-alta (22 per cento contro 15,9 per cento).”

 

 

 

 

LE TRASFORMAZIONI DELL’IMMIGRAZIONE: STRANIERI E NUOVI CITTADINI

 

“Una presenza stabile, ma che sta cambiando

È possibile individuare almeno tre fasi nella storia dell’immigrazione in Italia: un primo periodo di moderata immigrazione, negli anni Settanta e Ottanta, una seconda fase di crescita inattesa e straordinaria, nei due decenni seguenti, per arrivare alla fase più recente caratterizzata dalla crisi economica e dalle emergenze umanitarie, durante la quale flussi di nuovi arrivati in cerca di protezione internazionale si sono aggiunti a una presenza straniera ormai radicata sul territorio e alimentata da flussi prevalentemente per motivi familiari.

Durante quest’ultima fase la crescita della presenza straniera è rallentata rispetto al ritmo sostenuto registrato dalla fi­ne degli anni Novanta ­fino ai primi anni Duemila grazie ai procedimenti di regolarizzazione (in particolare quelli legati alle leggi n. 189 e n. 195 del 2002). La popolazione straniera in Italia al 1° gennaio 2022 è di 5 milioni e 193 mila e 669 residenti. Nel 2019 ammontava a 4.996.158 e quindi, in tre anni, è aumentata di meno di 200 mila unità. Negli anni precedenti (tra il 2015-2016 e tra il 2016-2017) si era registrata addirittura una lieve diminuzione.

Alla base del rallentamento si collocano sia la riduzione dei flussi migratori in arrivo – dovuta anche alla stretta dell’Italia sui decreti per la programmazione degli ingressi – sia l’assenza per lungo tempo di provvedimenti di regolarizzazione che in passato avevano dato luogo ai picchi nella registrazione anagrafi­ca dei migranti. Per comprendere però pienamente le reali dinamiche migratorie degli anni recenti si deve considerare anche un altro aspetto di crescente rilevanza nel nostro Paese, così come già avvenuto in paesi da più lungo tempo meta di immigrazione: l’acquisizione della cittadinanza.

Tra il 2011 e il 2020 oltre 1 milione e 250 mila persone hanno acquisito la cittadinanza italiana e si può stimare che al 1° gennaio 2021 i nuovi cittadini per acquisizione della cittadinanza residenti in Italia siano circa 1 milione e 600 mila, al 1° gennaio 2020 erano circa 1 milione e 517 mila.

Considerando l’insieme della popolazione con background migratorio (stranieri e italiani per acquisizione della cittadinanza) la popolazione di origine straniera ha continuato a crescere, anche se non ai ritmi del passato, raggiungendo al 1° gennaio 2021 la quota di quasi 6 milioni e 800 mila residenti (Figura 3.19). L’acquisizione di cittadinanza non ha solo conseguenze dirette sull’ammontare della popolazione straniera – e specularmente di quella italiana – ma anche indirette.

Ad esempio, i potenziali genitori che acquisiscono la cittadinanza italiana metteranno al mondo ­gli italiani e alcuni matrimoni, in apparenza misti (uno sposo italiano e l’altro straniero), potrebbero in realtà essere tra persone della stessa origine anche se non della stessa cittadinanza.

Più in generale, quando si studia l’integrazione dei migranti, guardando alle condizioni lavorative o di vita, è importante considerare non solo i cittadini stranieri, ma anche coloro che hanno acquisito la cittadinanza italiana non alla nascita; si rischia altrimenti di escludere dalle analisi proprio coloro che sono da più lungo tempo in Italia e che hanno verosimilmente condizioni di vita migliori. Un discorso analogo vale per gli indicatori demografi­ci sia di dinamica (natalità, mortalità, migrazioni), sia di struttura, come ad esempio quelli relativi all’invecchiamento della popolazione straniera. Si deve infatti considerare, che le persone più avanti con l’età hanno avuto maggiori chances di acquisire la cittadinanza.

Nonostante siano molti i minori che l’acquisiscono per trasmissione dai genitori, in realtà i nuovi cittadini hanno, al primo gennaio 2021, un’età media più alta di oltre 4 anni rispetto ai cittadini stranieri residenti. Dal punto di vista delle cittadinanze, le persone di origine albanese e marocchina sono le più numerose tra i nuovi

cittadini, seguite da romeni, brasiliani, indiani, argentini, peruviani, tunisini, francesi e macedoni. Queste prime dieci cittadinanze coprono, tuttavia, solo la metà dei nuovi cittadini, a indicare come si tratti di un universo estremamente articolato. Del resto, questo collettivo si compone non solo degli immigrati stranieri e dei loro ­gli, ma anche di quella parte dei congiunti e dei discendenti degli emigrati italiani all’estero che hanno chiesto la cittadinanza per ius sanguinis. Va inoltre sottolineato come alcune cittadinanze di origine, particolarmente importanti tra gli stranieri, perdano invece rilevanza nella graduatoria dei nuovi cittadini. Questo avviene per varie ragioni tra le quali il minore interesse all’acquisizione del passaporto italiano da parte dei cittadini comunitari (per i romeni) oppure i maggiori vincoli imposti dalla normativa del paese di origine (per i cinesi).”

 

 

SECONDE GENERAZIONI: PUNTA AVANZATA DELL’INTEGRAZIONE E RISORSA PER IL PAESE

“Il variegato mondo dei minori: Italiani alla nascita, nuovi cittadini, stranieri.

In generale la popolazione straniera, come è noto, ha una struttura giovane. I giovanissimi di origine straniera crescono numericamente e la loro presenza diviene sempre più articolata: ci sono giovani nati in Italia da genitori stranieri (seconda generazione in senso stretto), giovani arrivati prima del compimento dei 18 anni, ­figli di coppie miste, ecc. Alcuni hanno cittadinanza straniera, altri quella italiana dalla nascita o per acquisizione.

Per gli stranieri il rapporto tra le generazioni è più vantaggioso per i giovani rispetto a quanto avviene per gli italiani. I ragazzi con meno di 18 anni rappresentano il 20 per cento della popolazione straniera e per ogni anziano (di 65 anni o più) ci sono più di 3 giovanissimi di età compresa tra 0 e 14 anni. Per gli italiani la quota di minorenni è inferiore al 16 per cento e per ogni anziano c’è solo “mezzo” giovane tra 0 e 14 anni. In realtà si deve ricordare che, con l’estendersi dell’esperienza migratoria, molti acquisiscono la cittadinanza italiana ed escono dal contingente degli stranieri che per questo risulta più giovane. Tra coloro che hanno acquisito la cittadinanza la quota di giovani con meno di 18 anni è del 18,5 per cento e per ogni anziano c’è più di un giovane e mezzo tra 0 e 14 anni, una situazione intermedia tra quella riscontrata tra gli stranieri e quella rilevata per gli italiani. La Figura 3.24 mostra in modo effi­cace la differente struttura delle tre popolazioni. La forma della piramide delle età degli stranieri è molto diversa da quella degli italiani, con una base più larga, mentre sono molto più ristretti i segmenti che fanno riferimento alle classi di età più avanzate. Al contrario la piramide per gli italiani ha una base molto ristretta e si allarga invece per le classi oltre i 40 anni. La piramide dei nuovi cittadini ha una forma particolare che risponde anche alle diverse modalità di acquisizione della cittadinanza nel nostro Paese: sono molti i ragazzi minorenni che acquisiscono la cittadinanza italiana per trasmissione dai genitori e questo provoca il rigonfi­amento delle età più giovani della ­figura.

 

 

 

In Italia al 1° gennaio 2020 i ragazzi minorenni di seconda generazione in senso stretto (nati in Italia da genitori stranieri) sono oltre 1 milione, il 22,7 per cento dei quali (oltre 228 mila) ha acquisito la cittadinanza italiana. Nel complesso sono invece 1 milione e 300 mila circa i ragazzi stranieri o italiani per acquisizione della cittadinanza e rappresentano il 13 per cento del totale della popolazione residente in Italia con meno di 18 anni.

I ragazzi con background straniero danno un contributo notevole alla componente più giovane e dinamica della popolazione italiana, quella che rappresenta il nostro futuro demogra­fico. Si tratta di un collettivo composito, all’interno del quale si possono distinguere ulteriori “generazioni”, quelle migratorie. Infatti non solo è di grande rilievo nell’ambito dei processi di inclusione scolastica e sociale il paese di nascita, ma anche l’età dell’arrivo nel paese di accoglienza.

Considerando i soli studenti stranieri delle scuole secondarie si può notare che, se nella scuola secondaria di primo grado sono prevalenti le presenze dei nati in Italia, nella scuola secondaria di secondo grado la maggior parte degli studenti è nata all’estero e di questi il 31 per cento all’arrivo aveva almeno 6 anni.

La vera novità degli ultimi anni è rappresentata dal crescente numero di giovani immigrati e ragazzi di seconda generazione che diventano italiani. I minori che acquisiscono la cittadinanza per trasmissione dai genitori e coloro che, nati nel nostro Paese al compimento del diciottesimo anno, scelgono la cittadinanza italiana sono aumentati in maniera costante e molto sostenuta ­fino al 2016; nel 2017 invece si è registrata una diminuzione rilevante (quasi 30 per cento) rispetto all’anno precedente e si è toccato un minimo nel 2018. Successivamente si è assistito a una ripresa.

In generale tra il 2011 e il 2020 quasi 400 mila ragazzi stranieri hanno acquisito la cittadinanza per trasmissione dai genitori. Si sottolinea che non tutti questi giovani continuano a vivere in Italia; non è raro, infatti che anche dopo l’acquisizione della cittadinanza le famiglie si spostino in un altro paese.

Nello stesso periodo si sono registrate oltre 57 mila acquisizioni di cittadinanza per elezione da parte di nati in Italia al compimento del diciottesimo anno di età. Insieme le acquisizioni per trasmissione e quelle per elezione rappresentano quasi il 37 per cento di tutti i procedimenti di acquisizione di cittadinanza che si sono registrati tra il 2011 e il 2020. È evidente che le nuove generazioni sono più complesse da misurare e da studiare rispetto al passato.

Si deve andare oltre la dicotomia Italiani/stranieri se si vuole restituire un’immagine più aderente alla realtà, specie quando si dibatte sulla rilevanza di rivedere, proprio per i giovanissimi, l’accesso alla cittadinanza. Attualmente è in discussione una proposta basata sullo ius scholae. La proposta prevede che possa acquisire la cittadinanza italiana su richiesta il minore straniero nato in Italia che sia risieduto legalmente e senza interruzioni in Italia e abbia frequentato regolarmente, nel territorio nazionale, per almeno 5 anni, uno o più cicli scolastici presso istituti appartenenti al sistema nazionale di istruzione o percorsi di istruzione e formazione professionale triennale o quadriennale idonei al conseguimento di una qualifi­ca professionale. Sono state presentate nel tempo diverse proposte da numerose parti politiche di modi­ca alla legge 91/1992 che attualmente regola l’acquisizione della cittadinanza in Italia. Si è trattato di scenari basati su diversi approcci e con diversi riferimenti a forme di ius soli più o meno temperato e ius culturae.

Tale possibilità è aperta anche al minore straniero che ha fatto ingresso in Italia entro il compimento del dodicesimo anno di età. La cittadinanza si acquisisce a seguito di una dichiarazione di volontà, entro il compimento della maggiore età dell’interessato, da entrambi i genitori legalmente residenti in Italia o da chi esercita la responsabilità genitoriale, all’uf­ficiale dello stato civile del comune di residenza del minore, da annotare nel registro dello stato civile. Entro due anni dal raggiungimento della maggiore età, l’interessato può rinunciare alla cittadinanza italiana se in possesso di altra cittadinanza.

A oggi sono stati presentati diversi emendamenti che potrebbero cambiare il profi­lo della platea degli aventi diritto. Considerando però i requisiti previsti dalla proposta originaria (nascita in Italia o arrivo prima del compimento dei 12 anni, continuità della presenza e frequenza di 5 anni di scuola), la platea di aventi diritto è stimabile in circa 280 mila ragazzi. Si tratta di una stima di massima perché basata sull’assunto che abbiano frequentato la scuola dai 6 anni e che non abbiano interrotto gli studi prima dei 16 anni (età limite prevista dalle norme sull’obbligo scolastico). Oltre il 25 per cento dei ragazzi potenzialmente interessati dalla variazione della legge risiede in Lombardia. Cinque regioni del Centro-Nord, ospitano il 68 per cento dei potenziali aventi diritto: Lombardia, Lazio, Emilia Romagna, Veneto e Piemonte. Nel 26 per cento dei casi si tratta di ragazzi di origine romena, seguono i cittadini di Albania (10,1 per cento), Cina (9,6 per cento) e Marocco (9,1 per cento).

La graduatoria risente non solo della numerosità delle collettività sul nostro territorio, ma anche del diverso accesso da parte dei minori alla cittadinanza italiana per trasmissione dai genitori. Come già si è avuto modo di osservare, i cinesi adulti hanno una minore propensione ad acquisire la cittadinanza italiana, di conseguenza i bambini e i ragazzi di questa origine, in base alla normativa vigente, hanno minori chances di diventare italiani durante la minore età; diverso è il caso dei ragazzi albanesi e marocchini, molti dei quali hanno acquisito la cittadinanza nel momento in cui i genitori sono diventati italiani e sono usciti dalla platea dei potenziali bene­ficiari della legge.”

 

 

LE DIVERSE FORME DELLA DISUGUAGLIANZA

 

“I lavoratori vulnerabili

A partire dagli anni Novanta si è assistito a una progressiva diffusione di forme di lavoro non-standard, che hanno reso più complessa e sfumata la natura del rapporto di lavoro. L’occupazione indipendente e l’occupazione dipendente hanno perso il loro carattere mutuamente esclusivo, collocandosi tra i due poli di un continuum nel quale sono rintracciabili forme di occupazione con caratteristiche proprie sia del lavoro dipendente sia del lavoro autonomo.

Il termine non-standard identifi­ca i rapporti di lavoro che mancano di uno o più elementi che caratterizzano il lavoro tradizionale, quali la sua regolarità, i requisiti assicurativi minimi e la copertura assicurativa generalizzata, un adeguato livello di protezione sociale in caso di perdita di lavoro o la congrua contribuzione pensionistica, tanto per citarne alcuni. Le forme di lavoro non-standard pertanto, oltre a identi­ficare una gamma vasta ed eterogenea di modalità occupazionali, si associano a una maggiore vulnerabilità dei lavoratori coinvolti, anche in termini di rischio di esclusione sociale.

Continuità e intensità: aspetti della vulnerabilità del lavoro

Per delineare le diverse forme di vulnerabilità lavorativa si può fare riferimento alle due dimensioni principali del lavoro: i) la continuità nel tempo, da cui generalmente discendono anche i benefi­ci previdenziali e assistenziali (contributi pensionistici, ferie e malattie pagate, maternità obbligatoria, ecc.) e ii) l’intensità lavorativa, fortemente e direttamente correlata con il livello di reddito da lavoro. Le trasformazioni strutturali del mercato del lavoro, accentuate o rallentate dall’andamento del ciclo economico, hanno portato a una decisa diminuzione del lavoro tradizionalmente definito come lavoro standard, cioè di quello individuato nei dipendenti a tempo indeterminato e negli autonomi con dipendenti, entrambi con orario a tempo pieno; nel 2021, queste modalità di lavoro riguardano il 59,5 per cento del totale degli occupati, contro un’incidenza che nei primi anni Duemila era pari a circa il 65 per cento.

Nel lungo periodo, a essere particolarmente evidente è la progressiva diminuzione dei lavoratori indipendenti, che nell’economia del nostro Paese hanno sempre avuto un peso particolarmente rilevante legato alla diffusa presenza di piccole imprese, spesso a conduzione familiare, peculiarità propria del contesto produttivo italiano (si pensi che il 73,1 per cento dei lavoratori indipendenti non ha dipendenti).

Se all’inizio degli anni Novanta gli indipendenti rappresentavano quasi un terzo degli occupati, tale quota scende a poco sopra un quarto nei primi anni Duemila e si riduce, nel 2021, a poco più di un quinto, per un totale di circa 4,9 milioni (1,3 milioni in meno rispetto al 2004). Si tratta di un insieme di lavoratori eterogeneo, con ­figure che vanno dall’imprenditore al prestatore d’opera occasionale, e la progressiva diminuzione osservata negli anni non ha coinvolto tutti gli indipendenti in maniera uniforme: sono diminuiti gli imprenditori, i lavoratori in proprio (agricoltori, artigiani, commercianti), i coadiuvanti e i collaboratori; al contrario il numero dei liberi professionisti è rimasto stabile, in particolare di quelli senza dipendenti. Parallelamente, sono progressivamente aumentati i lavoratori dipendenti a tempo determinato, andamento che ha mostrato qualche flessione solamente nelle fasi di congiuntura economica negativa; la dinamica di questo gruppo è infatti molto legata a quella congiunturale, essendo la prima forma di lavoro a diminuire in periodi di crisi e a crescere in periodi di ripresa (Figura 4.1a). Dall’inizio degli anni Novanta al 2019 i lavoratori a termine sono raddoppiati, da circa 1,5 milioni (il 10 per cento dei dipendenti e il 7 per cento degli occupati) a oltre 3 milioni (il 17 per cento dei dipendenti e il 13 per cento degli occupati) e, dopo il forte calo osservato nel 2020 (-402 mila), non pienamente compensato dalla ripresa nell’anno successivo, nel 2021 si attestano a 2,9 milioni.

Negli anni, inoltre, è progressivamente aumentata la quota di occupazioni di breve durata: nel 2021, il 46,4 per cento dei dipendenti a termine ha un’occupazione di durata pari o inferiore ai 6 mesi ed è proprio questo tipo di attività a contribuire maggiormente alla crescita del lavoro a tempo determinato osservata nel 2021. Nonostante nel corso del tempo siano aumentati anche i dipendenti a tempo indeterminato, la loro crescita è stata molto più contenuta di quella dei dipendenti a termine, a parte sporadiche accelerazioni dovute a provvedimenti di decontribuzione (nel recente passato quello del 2015-2016).

Sebbene, negli anni, la normativa abbia ridotto le garanzie legate all’occupazione standard anche per le imprese medio-grandi, rimane la minor tutela per i lavoratori delle piccole imprese; nel 2021, circa un quarto dei dipendenti a tempo indeterminato è occupato in aziende con una sola sede e con al massimo 15 addetti, quota che sale a circa la metà nei comparti dell’agricoltura, delle costruzioni e dell’alloggio e ristorazione.  La Legge di stabilità 2015 ha previsto la decontribuzione triennale per le nuove assunzioni a tempo indeterminato e per le trasformazioni dei contratti da tempo determinato in contratto a tempo indeterminato, con sgravi contributivi a favore dei datori di lavoro fi­no a circa 8 mila euro in un anno.

Un’altra forma di lavoro che negli anni si è particolarmente diffusa è l’occupazione part-time: nei primi anni Novanta coinvolgeva circa l’11 per cento dei lavoratori, all’inizio degli anni 2000 poco più del 12 per cento e nel 2021 ha raggiunto il 18,6 per cento; si tratta di una forma di lavoro atipico che rispecchia una duplice necessità: dal lato dell’impresa, permette di aumentare la flessibilità organizzativa, dal lato del lavoratore, può facilitare l’occupazione di chi vuole dedicare solo una parte ridotta del proprio tempo al lavoro, per scelta o per esigenze familiari e di cura. Il part-time tuttavia nella maggioranza dei casi (60,9 per cento nel 2021) è involontario, svolto cioè in assenza di occasioni di lavoro a tempo pieno, ed è proprio questa componente che ha mostrato la crescita più consistente (dal 5 per cento dell’occupazione nei primi anni Duemila all’11,3 del 2021).

Individuando nella mancanza di continuità e di intensità lavorativa gli elementi più signifi­cativi della vulnerabilità, si possono considerare quattro gruppi mutualmente esclusivi: i lavoratori standard, i quasi standard e, tra i non-standard, i vulnerabili e i doppiamente vulnerabili, in quanto lo sono sia rispetto alla durata sia rispetto all’intensità di lavoro. Nel 2021, il 59,5 per cento degli occupati è classifi­cato come standard e il restante 40,5 per cento si suddivide tra il 18,8 per cento di lavoratori quasi standard, il 18,1 per cento di lavoratori vulnerabili (il 10,4 per cento perché dipendenti a termine o collaboratori, e il 7,7 per cento perché in part-time involontario) e il 3,6 per cento di lavoratori doppiamente vulnerabili. Nel complesso, dunque, quasi 5 milioni di occupati (il 21,7 per cento del totale) sono non-standard e, tra questi, 816 mila sono doppiamente vulnerabili.

La vulnerabilità dei lavoratori non-standard trova conferma negli indicatori di percezione dell’insicurezza lavorativa: quasi un terzo dei collaboratori (collaboratori a progetto, collaboratori coordinati e continuativi, prestatori d’opera occasionali) e dei dipendenti a termine dichiara di temere di perdere il lavoro entro sei mesi, una quota di oltre 4 volte più elevata rispetto al resto degli occupati.

Gli elementi di vulnerabilità lavorativa si concentrano in alcuni sottogruppi di popolazione. In primo luogo tra i giovani ­fino a 34 anni che, in quattro casi su dieci, sono lavoratori non-standard (2 su 10 tra i 35-49enni e poco più di 1 su 10 tra gli over 50); nella maggior parte dei casi si tratta di giovani che vivono ancora nella famiglia di origine, presumibilmente anche per la dif­ficoltà economica di iniziare una vita autonoma.

Tra chi ha responsabilità genitoriali, i lavoratori non-standard sono il 17 per cento (pari a circa 2 milioni), tra i single o chi vive in coppia senza ­gli sono oltre il 18 per cento; entrambe le quote aumentano significativamente tra le donne, superando il 22 per cento tra le single e arrivando al 25 per cento tra i genitori o tra chi vive in coppia senza fi­gli.

Sono lavoratori non-standard: quasi un terzo delle donne occupate (rispetto al 16,8 per cento degli uomini), il 34,3 per cento degli stranieri (20,3 per cento degli italiani), un quarto dei lavoratori con basso livello di istruzione (18,4 per cento dei laureati) e quasi un terzo dei residenti nel Mezzogiorno (22,0 per cento nel Centro e 18,3 per cento nel Nord).

La sovrapposizione di tali caratteristiche aggrava le condizioni di debolezza nel mercato del lavoro: la quota di lavoratori non-standard raggiunge il 47,2 per cento tra le donne giovani (34,4 per cento i coetanei), il 36,9 per cento tra le residenti nel Mezzogiorno (22,9 per cento gli uomini della stessa ripartizione), il 36,6 per cento tra le donne che hanno conseguito al massimo la licenza media (19,4 per cento gli uomini con lo stesso livello di istruzione) e arriva al 41,8 per cento tra le straniere (28,8 per cento tra gli stranieri). Sono presenti lavoratori non-standard in 4 milioni e 300 mila famiglie (il 28 per cento delle famiglie con occupati) e in meno della metà dei casi il lavoratore non-standard coabita con un lavoratore standard o quasi standard. Per 1 milione e 900 mila famiglie il lavoratore non-standard è l’unico occupato: in un terzo dei casi vive solo e in un ulteriore terzo in coppia con fi­gli; solo nel 20 per cento dei casi in famiglia è presente un ritirato dal lavoro. Vulnerabilità, professione e settori di attività presentano un legame particolarmente forte. La più marcata concentrazione di lavoratori non-standard si rileva tra le professioni non quali­ficate (47,5 per cento) – ad esempio, addetti alle consegne, lavapiatti, addetti alle pulizie di esercizi commerciali, collaboratori domestici, braccianti agricoli – e tra gli addetti al commercio e servizi (29,9 per cento), in particolare commesse, addetti alla ristorazione, babysitter e badanti. Ciononostante, una quota signi­ficativa di tali lavoratori si rileva anche nelle professioni che rientrano nel gruppo di quelle scienti­fiche e intellettuali, in particolare tra i ricercatori universitari, gli insegnanti, i giornalisti e le professioni in ambito artistico (regista, coreografo, ballerino, ecc.). Circa quattro occupati su dieci sono lavoratori non-standard nel settore degli alloggi e ristorazione e in agricoltura; tuttavia la quota più elevata si rileva per il settore dei servizi alle famiglie (48,5 per cento), caratterizzato da un’alta concentrazione di donne e stranieri (questi ultimi sono la maggioranza), e scende a meno di un terzo in quello dei servizi collettivi e alle persone (31,9 per cento) e dell’istruzione (28,4 per cento), settori anch’essi contraddistinti dalla forte presenza di occupazione femminile.”

 

 

LE DISUGUAGLIANZE DIGITALI

 

“La crisi pandemica ha determinato una crescente necessità di digitalizzazione, per seguire la didattica e svolgere alcune attività lavorative. In questo contesto, il nostro Paese è caratterizzato da un forte ritardo, nonostante le misure messe in atto in questi ultimi due anni per affrontare l’emergenza sanitaria – incluso il “voucher connettività” introdotto nel 2020 a sostegno delle famiglie meno abbienti – abbiano sollecitato una maggiore diffusione e frequenza dell’uso di Internet nei diversi ambiti della vita quotidiana, riducendo le distanze con il resto dell’Europa (la distanza dalla media Ue si è ridotta da 10 a 7 punti percentuali).

Nel 2021, il tasso di utenti regolari di Internet è risultato pari al 73,4 per cento (+4,4 punti percentuali rispetto al 2020 e +7,3 punti rispetto al 2019). L’incremento maggiore è stato tra i più piccoli (6-14 anni) e, a seguire, nella fascia tra i 55 e i 74 anni.

Le differenze per età restano tuttavia enormi, passando da quasi il 90 per cento tra chi ha meno di 44 anni al 32,8 per cento per le persone di 65 anni e più. Le differenze di genere (76,5 per cento per i maschi e 70,4 per cento per le femmine) si concentrano nella fascia d’età dai 55 anni in su, mentre l’uso regolare del web raggiunge livelli elevatissimi tra le persone laureate (92,5 per cento), e si dimezza (45,9 per cento) tra coloro che hanno al massimo la licenza media.

Essere utenti regolari di Internet non si traduce necessariamente in un’elevata capacità di distinguere l’attendibilità delle fonti e dei contenuti informativi e neanche nella consapevolezza del livello di protezione dei propri dispositivi e dati personali.

Nel 2021, appena il 24 per cento degli utenti ha verifi­cato l’autenticità delle informazioni o dei contenuti che considerava non veritieri o dubbi e il 37 per cento ha dichiarato di leggere l’informativa sulla privacy; soltanto il 35 per cento limita l’accesso alla propria geo-localizzazione e il 26 per cento veri­fica la sicurezza dei siti web prima di rilasciare i propri dati personali. Bassa attenzione che caratterizza anche gli internauti giovani tra i 16 e i 24 anni, tra i quali i valori sono comunque più elevati.”

LE DIFFI­COLTÀ ECONOMICHE DELLE FAMIGLIE CON PERSONE CON DISABILITÀ

 

In Italia, circa 2 milioni e 800 mila famiglie, pari al 10,7 per cento del totale, hanno al proprio interno un componente con disabilità, che sia un anziano non autosuf­ficiente o un bambino, ragazzo o adulto bisognoso di assistenza e attenzioni quotidiane. Il sistema di welfare si avvale di strumenti per lo più basati sui trasferimenti economici piuttosto che sui servizi alla persona ed è per tale motivo che le famiglie devono fare ricorso a una rete informale di aiuti, in cui le donne svolgono un ruolo centrale.

Sono spesso i familiari a dover prestare direttamente le attività di cura o a dover organizzare una rete di supporto, anche con costi molto elevati e incomprimibili. Ciò si traduce in un impegno gravoso in termini di tempo ed energie, limitando la capacità di produzione del reddito dell’intero nucleo familiare e non solo del componente portatore di disabilità: i familiari si vedono costretti a rinunciare, totalmente o in parte, all’attività lavorativa o alla carriera. I 35-64enni che vivono con persone con disabilità sono occupati nel 58,6 per cento dei casi (quota di oltre 10 punti percentuali inferiore a quella di chi non ha conviventi con limitazioni) e disoccupati nel 14,8 per cento (circa 6 punti più elevata); inoltre, tra i familiari delle persone con disabilità la quota dei casalinghi/e è del 17,1 per cento (3,2 punti più elevata) e quella di chi ricopre posizioni di impiegato, quadro o dirigente/imprenditore è del 46,7 per cento (4,5 punti inferiore).

Lo svantaggio riscontrato rispetto al mercato del lavoro si riflette anche sulle condizioni economiche delle famiglie. Nel 2019, il reddito medio disponibile (equivalente) di una famiglia con persone con disabilità era pari a 19 mila 500 euro annui, circa mille euro in meno di quello delle altre famiglie.

Un’evidenza opposta caratterizza le famiglie che vivono al Sud, presumibilmente per il maggior peso che i benefi­ci sociali legati alla disabilità hanno sulle risorse economiche delle famiglie (spesso tra i requisiti per l’accesso a tali misure).

I trasferimenti economici in molti casi sopperiscono infatti alle carenze di reddito familiare: circa la metà delle famiglie con persone con disabilità riceve trasferimenti economici, senza i quali, il rischio di povertà salirebbe dal 20 per cento al 32,8 per cento.

Va tuttavia sottolineato che le famiglie delle persone con disabilità sono costrette a sostenere spese ingenti: nel 2017, quasi un quarto di queste ha acquistato servizi per assistenza e cura, il 91 per cento ha sostenuto costi per l’acquisto di medicinali e il 79,2 per cento per cure mediche. Circa la metà di queste famiglie valuta molto pesante l’incidenza di tali spese sul bilancio familiare, peso che aumenta considerevolmente se si includono anche le spese per l’assistenza domiciliare con personale specializzato.

Non a caso un quinto delle famiglie con almeno una persona con disabilità è deprivato: lo è più del 25 per cento tra le famiglie monoreddito e quasi il 30 tra quelle residenti nelle regioni del Mezzogiorno; tutti i valori superano sensibilmente quelli registrati tra le famiglie senza disabilità (12,4 per cento del totale famiglie, 16,6 di quelle monoreddito, 16,8 di quelle residenti nelle Isole e 22,9 per cento nel Sud).

In sintesi, nonostante le politiche di welfare abbiano ridotto il rischio di povertà delle famiglie con persone con disabilità, queste non riescono ad annullare le forme estese di deprivazione materiale. I servizi e gli interventi in tema di assistenza socio-assistenziale lasciano ancora un onere di cura importante sulle famiglie e non permettono di colmare lo svantaggio nelle prospettive di lavoro e carriera dei caregiver e delle stesse persone con disabilità. In una prospettiva di medio-lungo periodo, diversi sono i fattori attualmente in atto che potrebbero produrre un ulteriore squilibrio tra domanda e offerta di lavoro di cura: il processo di invecchiamento demograf­ico, che ormai da diversi decenni alimenta la crescita di famiglie con anziani e, potenzialmente, di anziani con gravi limitazioni; la riduzione della fecondità, che diminuisce il numero di ­figure potenzialmente disponibili a fornire lavoro di cura, l’aumento della dissoluzione delle unioni, la crescita della quota di single e di persone senza ­figli che rendono ancora più complessa l’organizzazione familiare.”

 

aldovecchi@hotmail.it

 

Fonti:

1.    ISTAT – RAPPORTO ANNUALE 2022. LA SITUAZIONE DEL PAESE -

https://www.istat.it/it/archivio/271808

https://www.istat.it/it/archivio/271806

 



[A] D’altronde, anche formalmente, dal 2011 l’Istat ha riassorbito le funzioni in precedenza svolte dall’ISAE  - Istituto di Studi e Analisi Economica – ed in precedenza dall’ISCO, che era specializzato negli studi della “congiuntura”

[B] Interessante in tal senso è il confronto tra il presidente dell’Istat Giancarlo Blangiardo e l’economista francese Thomas Piketty – più volte recensito su “Utopia21” – nell’ambito del Festival dell’Economia di Torino, animato da Tito Boeri, sull’argomento della “statistica della discriminazione” (in particolare nell’istruzione e nel lavoro, e per fasce etnico-religiose), su cui sta lavorando Piketty, andando oltre la “statistica della disuguaglianza”; anche se alcuni strumenti un po’ disinvolti, come l’invio di falsi curriculum uguali, ma firmati “Giovanni” oppure “Mohammed” non possono per evidenti motivi essere adottati dagli organismi statistici pubblici, è emersa una sostanziale contiguità di metodi e di intenti, che però purtroppo non coinvolge ancora in modo unitario tutti gli istituti nazionali dei 27 paesi dell’Unione Europea.

[C] Nei partiti e movimenti di sinistra era uso far precedere le proposte politiche da una “analisi di classe” della società (locale o nazionale); ferme restando le valenze relazionali di simili inchieste rispetto ai “soggetti sociali”, gli sforzi necessari per acquisire i dati, in tali pratiche (che temo oggi siano dimenticate, o degradate a riti formali di sette estremiste), sarebbero oggi enormemente facilitate dalla disponibilità delle elaborazioni dello stesso “Stato borghese”.

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