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lunedì 21 novembre 2022

UTOPIA21 - NOVEMBRE 2022: IL RAPPORTO ASVIS 2022

 IL RAPPORTO ASVIS 2022


Mentre l’Italia – e anche l’Europa (ed il mondo) – si allontanano anziché avvicinarsi, nell’insieme, agli Obiettivi ONU 2030, l’ASviS (Associazione per lo Sviluppo Sostenibile) compie una (silenziosa) svolta verso una impostazione più “statalista” delle necessarie transizioni ambientali e socio-economiche: in controtendenza rispetto al quadro politico italiano.

 

Sommario:

-       Premessa: la questione degli indicatori

-       qualche passo avanti, ma molti all’indietro; in Europa…

-       … e peggio in Italia

-       le altre valutazioni del rapporto 2022

-       il cambio di paradigma: lo stato investitore

o   appendice I – l’andamento degli indicatori negli ultimi 5 anni e quanto necessario per raggiungere gli obiettivi 2030

o   appendice II: capitolo “1.2 nuovi modelli di sviluppo per la sostenibilità planetaria”

In corsivo i commenti più personali

In carattere Colibri 11, i brani riportati dal Rapporto ASviS.

Le parti evidenziate in grassetto sono scelte dallo scrivente

 

 

 

PREMESSA : LA QUESTIONE DEGLI INDICATORI

 

Mi sembra opportuno non ritornare 1 sugli aspetti metodologici dei Rapporti ASviS riguardo agli indicatori adottati per misurare distanze e avvicinamenti dei “Goals 2030”, segnalando in merito – come ricavo dalla lettura del Rapporto 2022 2 - che tale attività sarà assunta in proprio dalla stessa Unione Europea, per quanto riguarda il raffronto tra i dati dei 27 paesi dell’Unione, e che a scala nazionale le elaborazioni ASviS sui Goals si intrecciano sempre più con le statistiche ufficiali dell’ISTAT (a partire dal BES, Benessere Equo e Solidale), come è ben approfondito anche nell’apposito incontro pubblico ISTAT/ASviS del 13 ottobre 3 (nell’ambito del Festival dello Sviluppo Sostenibile 2022).

 

 

QUALCHE PASSO AVANTI, MA MOLTI ALL’INDIETRO: IN EUROPA …

 

Il rapporto 2022 dell’ASviS 2, registrando a pieno gli effetti della pandemia Covid19 (già misurati in parte l’anno precedente) ed anche della successiva rapida ripresa economica, nonché le prime avvisaglie della ulteriore crisi indotta dalla guerra in Ucraina, segnala una situazione complessa, in cui però gli arretramenti (in aggiunta ai risultati “stazionari”) prevalgono sugli avanzamenti verso gli obiettivi per il 2030:

 

“Se si guardano i dati di lungo periodo (2010-2020), l’Unione europea mostra segni di miglioramento per undici Goal (2, 3, 4, 5, 7, 8, 9, 11, 12, 13, e 16), di peggioramento per tre (Goal 10, 15 e 17) e di sostanziale stabilità per due (Goal 1 e 6). Nel breve periodo (2019-2020) tuttavia, anche a causa della pandemia, si ha un complessivo rallentamento: i Goal che mantengono un andamento positivo tra il 2019 e il 2020 sono soltanto tre (7, 12 e 13), quelli con un andamento negativo sono quattro (Goal 1, 3, 10 e 17) e quelli con un andamento stazionario sono sei (Goal 2, 4, 5, 8, 9 e 16). In questo quadro, l’Italia è al di sotto della media UE per nove Goal (1, 4, 6, 8, 9, 10, 11, 16 e 17), uguale per cinque Goal (3, 5, 7, 13, 15) e al di sopra soltanto per due Goal (2 e 12).

Tra il 2010 e il 2021 si registrano miglioramenti per otto SDGs: alimentazione e agricoltura sostenibile (Goal 2), salute (Goal 3), educazione (Goal 4), uguaglianza di genere (Goal 5), sistema energetico (Goal 7), innovazione (Goal 9), consumo e produzione responsabili (Goal 12), lotta al cambiamento climatico (Goal 13). Si evidenzia un peggioramento complessivo per cinque SDGs: povertà (Goal 1), acqua (Goal 6), ecosistema terrestre (Goal 15), istituzioni solide (Goal 16) e cooperazione internazionale (Goal 17). Mentre rimane sostanzialmente invariata la situazione per quattro SDGs: condizione economica e occupazionale (Goal 8), disuguaglianze (Goal 10), città e comunità sostenibili (Goal 11) e tutela degli ecosistemi marini (Goal 14). Rispetto alla condizione pre-pandemia invece, nel 2021 l’Italia mostra miglioramenti soltanto per due Goal (Goal 7 e 8), mentre per altri due (Goal 2 e 13) viene confermato il livello del 2019. Per tutti i restanti SDGs (Goal 1, 3, 4, 5, 6, 9, 10, 15, 16 e 17) il livello registrato nel 2021 è ancora al di sotto di quello del 2019, a conferma che il Paese non ha ancora superato gli effetti negativi causati dalla crisi pandemica.”

 

 

 

… E PEGGIO IN ITALIA

 

La pesantezza della situazione italiana è riepilogata dal Rapporto 2 con i seguenti 4 grafici di nuova concezione, a forma di freccia e dedicati ognuno ad un raggruppamento di obiettivi (ambientali, economici, istituzionali, sociali), grafici che riproduco in APPENDICE I con le correlate avvertenze:

Tali grafici sono la risultante sintetica, riportata anche nell’”Executive Summary”, rispetto alle elaborazioni analitiche del Rapporto, che si sviluppano, per quanto riguarda l’Italia, nel capitolo finale (n° 5), da pag. 83 a pag. 220, ed a cui rimando integralmente, senza ulteriori estratti in questa sede.

 

 

LE ALTRE VALUTAZIONI DEL RAPPORTO 2022

 

Il Rapporto 2 comprende anche, ai capitoli 2, 3 e 4, un puntuale e articolato racconto (e rendiconto):

-       delle crisi internazionali e delle defatiganti trattative comunque in corso nell’ambito dell’ONU, dalle specifiche COP (clima – desertificazione – biodiversità) all’HLPF (il forum politico di alto livello sullo sviluppo sostenibile),

-       delle laboriose attività dell’Unione Europea (soprattutto al livello della Commissione ed a quello del Parlamento) per monitorare i ritardi verso gli obiettivi ONU 2030 (tenendo anche conto del ‘combinato disposto’ degli effetti cumulativi intersettoriali) e per tentare di accelerare in molti campi la risposta istituzionale,

-       del riassetto istituzionale avviato in Italia (anche su impulso dell’ASviS e comunque intrecciandosi con le sue iniziative, in parte in collaborazione con il CNEL), dalla modifica costituzionale sull’ambiente alla implementazione del PNRR, dagli inizi del Piano di Transizione Ecologica all’entrata in funzione del CIPESS (Comitato Interministeriale per la Programmazione Economica e lo Sviluppo Sostenibile);

-       delle conseguenti proposte dell’ASviS, condensate nel decalogo pre-elettorale (che ho riportato nel mio articolo sui programmi elettorali per il 25 settembre).

 

 

IL CAMBIO DI PARADIGMA: LO STATO INVESTITORE

 

Ma il cuore del documento, in sintonia con il riepilogo dei contributi dell’IPCC (Gruppo intergovernativo di esperti sul cambiamento climatico) ed anche dell’HLAB dell’ONU (Comitato consultivo dell’ONU sul multilateralismo, che nelle su riflessioni si proietta anche oltre l’orizzonte del 2030) in materia di confini planetari delle risorse, crisi climatico-ambientale e suoi possibili salti di qualità (“tipping point”) – tutti temi ben noti ai lettori di Utopia21 attraverso gli articoli di Fulvio Fagiani 4 è la valutazione che i ritardi verso gli obiettivi (a partire dal culmine termico di +1,5°) non devono portare ad un rinvio del traguardo temporale, bensì ad una intensificazione ed accelerazione degli strumenti per conseguirli.

In questo ambito il Rapporto ASviS, nel delineare in efficace sintesi l’evoluzione geo-politica in relazione al modello di sviluppo capitalistico negli ultimi decenni ed i nodi attualmente irrisolti (citando Piketty), propone un cambio di paradigma, passando dal tradizionale auspicio di una evoluzione di mercato verso governance aziendali più sensibili all’ambiente ed alla società, ad una ipotesi di forte intervento degli Stati come “investitori di prima istanza” e registi di missioni strategiche, in cui indirizzare e coinvolgere i soggetti privati (orientamento più vicino a Thomas Piketty, Fabrizio Barca e Mariana Mazzucato, che non all’intero arco dei programmi politici dei partiti italiani rappresentati in Parlamento, con l’eccezione forse di Sinistra Italiana); forse però sopravvalutando il PNRR come esempio in tale direzione.

 

Ritengo opportuno pertanto, in APPENDICE 2, riprodurre per intero dal Rapporto ASviS 2022 il capitolo “1.2 Nuovi modelli di sviluppo per la sostenibilità planetaria”, limitandomi in esso ad evidenziare in grassetto i passaggi che mi sembrano più significativi (e che l’ASviS in realtà non sta ancora sbandierando nelle sue ordinarie comunicazioni).

 

aldovecchi@hotmail.it

 

da pag.5 - . APPENDICE I – L’ANDAMENTO DEGLI INDICATORI NEGLI ULTIMI 5 ANNI E QUANTO NECESSARIO PER RAGGIUNGERE GLI OBIETTIVI 2030

 

da pag. 9 - APPENDICE II: CAPITOLO “1.2 NUOVI MODELLI DI SVILUPPO PER LA SOSTENIBILITÀ PLANETARIA”

 

Fonti:

1.    Aldo Vecchi - I RAPPORTI ASVIS 2020 E I TERRITORI – su Utopia21, maggio 2021 - https://drive.google.com/file/d/1ah-wVbDE_u-1DBMIet-ouSfLvoZnCB6-/view?usp=sharing

2.    https://asvis.it/rapporto-asvis-2022/

3.    https://www.youtube.com/watch?v=5UotqqQOwr8

4.    Fulvio Fagiani - IL SESTO RAPPORTO DELL’IPCC – Quaderno n° 34 di UTOPIA21, settembre 2022

 


 

APPENDICE I – L’ANDAMENTO DEGLI INDICATORI NEGLI ULTIMI 5 ANNI E QUANTO NECESSARIO PER RAGGIUNGERE GLI OBIETTIVI 2030

 

Nei grafici riportati si analizza il rapporto tra l’andamento degli ultimi cinque anni e quello necessario per raggiungere l’obiettivo, in particolare:

1. Progresso significativo: il suo trend, se mantenuto nel futuro, garantisce il raggiungimento (in 6 casi su 30); 2. Progresso moderato: si sta andando nella giusta direzione ma con una velocità insufficiente (in 2 casi su 30);

3. Progresso insufficiente: di fatto la situazione risulta statica (in 14 casi su 30);

4. Peggioramento: ci si sta allontanando (in 8 casi su 30).

In 3 casi su 33 non è disponibile il trend di breve periodo.

                                                                                                                          

 

 

Relativamente agli obiettivi quantitativi a prevalente dimensione ambientale, negli ultimi cinque anni si segnalano andamenti poco rassicuranti. Solamente l’obiettivo relativo alle coltivazioni biologiche mostra progressi significativi. Sette obiettivi sperimentano progressi ancora insufficienti, mentre per tre obiettivi si assiste a un peggioramento.

(A causa della mancanza di dati, i Goal 11 e 12 sono analizzati fino al 2020 e il Goal 14 fino al 2019).

 

 

 

 

Differente la situazione relativa agli obiettivi quantitativi a prevalente dimensione economica. Su sei obiettivi, due mostrano progressi significativi nel breve periodo, due progressi insufficienti e due un significativo peggioramento.

 

 

 

 

Per quanto riguarda la sfera istituzionale due obiettivi quantitativi mostrano progressi insufficienti nel breve periodo, mentre l’eliminazione del sovraffollamento nelle carceri mostra progressi moderati, in parte dovuti alle iniziative prese in relazione alla crisi pandemica.

 

 

 

Gli obiettivi a prevalente dimensione sociale mostrano una situazione eterogenea. Su dieci obiettivi, tre presentano progressi significativi, uno sperimenta progressi moderati, tre progressi insufficienti e altri tre registrano un peggioramento complessivo. Tra questi si segnala la disuguaglianza di reddito, aumentata negli ultimi anni.

 

 

 


 

APPENDICE II: CAPITOLO “1.2 NUOVI MODELLI DI SVILUPPO PER LA SOSTENIBILITÀ PLANETARIA”

 

“Uno sviluppo ineguale delle economie e delle società ha segnato il cammino del mondo dopo l’Earth Summit di Rio del 1992. Era allora appena crollata l’Unione Sovietica, lasciando libero il campo al modello di sviluppo occidentale, basato sull’economia di mercato e su reti multilaterali di sicurezza degli scambi e dei commerci (WTO, etc.). La guerra fredda si era conclusa non perché i problemi del capitalismo fossero stati risolti, ma perché il “socialismo reale” aveva fallito. Le differenze di reddito delle persone nei Paesi ricchi si sono ridotte a cavallo delle due guerre e i sistemi di welfare sono diventati sempre più generosi. Ma già da prima della fine dell’Unione Sovietica le aliquote fiscali per gli alti redditi sono state ridotte, i sindacati sono stati indeboliti e i divari dei redditi sono esplosi all’interno dei Paesi e tra di essi. A Rio si dava per scontato che la ricchezza occidentale sarebbe stata condivisa con il gruppo di Paesi in via di sviluppo (PVS), tanto che alcuni principi e le stesse Convenzioni, tra cui quella climatica, esentarono i PVS da ogni obbligo ambientale nel nome delle responsabilità condivise ma differenziate. Aumentò poi la globalizzazione dei mercati che apportò benefici, ma fece crescere ancora le diseguaglianze, con i prezzi delle materie prime dei PVS imposti dai mercati a vantaggio dei più forti e soprattutto con la mercificazione del lavoro e la delocalizzazione delle imprese.

 

Sono impressionanti le cifre delle disuguaglianze di reddito, cui vanno aggiunte le diseguaglianze di genere, dei diritti e dell’accesso alle risorse. Dal 1995, all’1% più ricco delle persone è andata una quota dell’aumento della ricchezza globale 20 volte superiore alla metà più povera della popolazione umana. Otto uomini ora possiedono la stessa quantità di ricchezza dei 3,6 miliardi di persone più povere del mondo. Per giunta, questo sistema non sa evitare gravi crisi ricorrenti né prevenire le crisi sanitarie o difendere la pace.

 

Il quadro geopolitico mondiale è in evoluzione continua. L’occidente ha di nuovo competitori sul terreno, per effetto del deficit delle politiche globali che anziché integrazione hanno generato competizione e conflitti armati. Nuove realtà multinazionali sono cresciute autorevolmente. La Cina, anzitutto, guida indiscussa e interessata di molti PVS, è ora alla pari degli occidentali su molti indicatori, emissioni e inquinamento compresi. L’Africa, l’America Latina e il Medio Oriente non sembrano più disposti a cedere le loro materie prime a prezzi favorevoli alle economie avanzate. Per ultima, la Russia tra i maggiori esportatori di gas e del petrolio al mondo, cerca di riaffermarsi come potenza imperialista e di ottenere una rivincita con metodi quantomeno premoderni, nonostante le dimensioni esigue del proprio Prodotto Interno Lordo (PIL). In queste nuove realtà emergenti la democrazia è costantemente erosa, anche per il fallimento disastroso dei tentativi di esportare la democrazia con le armi.

 

La trasformazione del quadro mondiale si legge nei passaggi del negoziato mondiale sull’ambiente e lo sviluppo. Nel 2012, a Rio+20, Europa e il Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente (UNEP) avanzarono il modello della green economy. Per interessi speculari bloccarono il tentativo la Cina, indisponibile a modelli di sviluppo alloctoni, e gli Stati Uniti, sostanzialmente nemici di quel tipo di istanze green. Lo sviluppo sostenibile fu portato ai livelli più alti delle Nazioni Unite, investendo l’Assemblea Generale e il Consiglio economico e sociale delle Nazioni Unite (ECOSOC) e in tre anni di faticosi negoziati si pervenne con l’Agenda 2030 e l’Accordo di Parigi (2015) a una nuova modalità di governance, non più basata sul “Command and Control”, top-down, ma sull’adesione volontaria e proattiva, bottom-up, dei diversi Paesi agli Obiettivi degli SDG e di Parigi, al cui storico Accordo i Paesi accedono attraverso degli NDCs, Contributi Determinati a Livello Nazionale.

 

Anche l’Europa è passata dalle affermazioni di principio di una green economy universale al Green Deal, un patto interno stringente per obiettivi, che mette al centro la decarbonizzazione dell’economia entro il 2050 con un severo milestone al 2030, l’economia circolare e la protezione della natura, in un quadro sociale dichiaratamente inclusivo. Tuttavia, nonostante l’economia di mercato vada verso il green, le istanze di abbattimento delle diseguaglianze non sono adeguatamente ascoltate e la forbice con la sostenibilità si allarga.

 

Come trovare un modello di sviluppo sostenibile? Il quadro del negoziato multilaterale deve essere salvaguardato e rafforzato. In occidente il riconoscimento delle attuali insufficienze è ormai largamente condiviso e da molte parti si parla di nuovo capitalismo. Nessuna teoria sembra però capace di superare il muro di Thomas Piketty espresso dalla famosa formula “r>g”, dove il tasso di rendimento del capitale “r” supera anche più di cinque volte i tassi di crescita economica “g” da cui dipendono i redditi della maggior parte delle persone. I dati storici inducono a pensare che tale è la condizione definitiva del capitalismo, salvo che nei periodi delle ricostruzioni postbelliche del secolo scorso, quando il capitale finanziario fu giocoforza al minimo e la rendita con esso. Le disuguaglianze creano una gerarchia e determinano le distanze sociali. Invece di incoraggiare lo spirito pubblico, la coesione e la fiducia che possono fiorire in una comunità di quasi uguali, grandi differenze materiali esacerbano le discriminazioni all’interno dei Paesi e tra Paesi poveri e ricchi. La struttura sociale si ossifica e la mobilità sociale diminuisce. In breve, le disuguaglianze creano una condizione di blocco dello sviluppo e, perfino, dei processi democratici, come ad esempio osserviamo da anni con affluenze elettorali in calo.

Vediamo aumentare nel mondo l’ostilità politica verso i Paesi ad alto reddito, responsabili maggiori delle crisi economiche e ambientali. Quello che sta avvenendo è uno spostamento di prestigio e influenza tra le comunità maggiori, dagli Stati Uniti, da trent’anni egemone indiscusso ma indebolito da crisi economiche, guerre avventate e dissidi politici interni, alla Cina, che non cessa di ricordare al mondo le proprie limitate responsabilità storiche per le emissioni di anidride carbonica, la schiavitù e il colonialismo. La aspirazione egemonica cinese incontra però ostacoli causati da un sistema autocratico di governo, crimini umani perpetrati contro parti della propria popolazione, una politica estera sempre più aggressiva e un continuo aumento del proprio contributo al cambiamento climatico.

Per limitare la crescente influenza del socialismo autoritario della Cina, il mondo occidentale deve profondamente innovare il proprio modello capitalista, evolvendolo verso un sistema di mercato partecipativo, postcoloniale e solidale verso i Paesi a reddito medio e basso, in grado di rispondere efficacemente alla crisi ambientale. I due poli sociali e geopolitici dominanti devono cioè avvicinarsi, non arroccandosi invece su contrapposizioni economiche e militari, come sembra si stiano apprestando a fare. L’Agenda 2030 può essere la guida di questo avvicinamento. Essa indica Obiettivi che si devono tradurre a livello dei governi in altrettante missioni. Una missione deve essere ambiziosa, chiara nel proposito di migliorare la qualità della vita delle persone e avere un’ampia risonanza sociale. I suoi obiettivi devono essere concreti, misurabili e delimitati nel tempo, come la decarbonizzazione del Green Deal europeo.

Qui viene al punto il nuovo ruolo per le amministrazioni pubbliche, che non deve più essere solo quello di ridurre i rischi per il capitale privato, ma essere l’investitore di prima istanza e non di ultima, capace di attirare investimenti privati aumentando l’effetto moltiplicatore e orientando le istituzioni finanziarie. Come stiamo sperimentando in Italia in queste prime fasi del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR), perché ciò sia possibile abbiamo bisogno di potenziare di molto la capacitazione del settore pubblico, superando l’esternalizzazione della guida e del monitoraggio dei progetti a società private o a consulenti professionali. Qui sta la chiave del nuovo rapporto tra pubblico e privato. Il pubblico definisce le missioni in nome del bene comune, le struttura e le finanzia per la sua parte, il privato co-investe e coopera al raggiungimento degli obiettivi, oltre la responsabilità sociale d’impresa, la beneficenza o l’allargamento della platea degli stakeholder, ma come ramo determinante della catena del valore della missione dove si produce ricchezza in maniera più equa, perseguendo allo stesso tempo gli obiettivi della società. Non si tratta di far entrare i governi tra gli azionisti delle società, e quindi nelle loro logiche privatistiche. Si tratta invece di arruolare il sistema industriale nelle missioni pubbliche, finanziare, usare le leve fiscali e sistemi di monitoraggio severi e capaci di valutare le performance di ogni attore e quindi anche di sostituire i manager che non hanno raggiunto gli obiettivi assegnati.”

 

 

 

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