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mercoledì 25 marzo 2020

UTOPIA21 - MARZO 2020: L’ELOGIO DELL’UTOPIA DA PARTE DI ROBERTO MORDACCI




Il testo di Mordacci classifica con precisione, nella storia del pensiero occidentale, le teorie (palesemente) utopiche ruotando attorno all’archetipo “Utopia” di Thomas More, che l’Autore tende a riproporre come modello da adeguare all’oggi ed alle problematiche dello sviluppo sostenibile. Sollevando però qualche mia perplessità.

Sommario:
-       l’utopia di Thomas More nel contesto rinascimentale e nel confronto con i precedenti
-       gli sviluppi del pensiero utopico nell’età moderna
-       in contrapposizione, le “distopie”
-       variazioni sul tema, nella crisi della modernità: eterotopie, retrotopia, …
-       ritorno all’utopia e suo rilancio: Anterotopia
-       qualche riflessione critica
(in corsivo le annotazioni più personali del recensore)

Roberto Mordacci, filosofo, è preside della facoltà di filosofia dell’Università Vita-Salute dell’Istituto San Raffaele di Milano.


L’UTOPIA DI THOMAS MORE NEL CONTESTO RINASCIMENTALE E NEL CONFRONTO CON I PRECEDENTI

“Ritorno a Utopia”1 esalta il pensiero di Thomas More [A], specificando come la sua Utopia2 attingesse al campo del possibile, con una proposta di riforma delle leggi economiche e socio-politiche (in contrapposizione alla china accumulatrice del tardo feudalesimo, che recintava e sottraeva le terre ai contadini poveri, scacciandoli in miseria verso le città), ma ancorata ad un visione realistica della natura umana, in un quadro letterario di finzione geografica su di una isola (anzi ex-penisola), esistente in quella contemporaneità (1516), ma non effettivamente raggiungibile.
L’espediente narrativo, ricco di ironia, consentiva a More di spingersi nella critica alla società del suo tempo limitando i pericoli di repressione, e si ricollegava ad una tradizione letteraria di viaggi fantastici e mondi immaginari di origine classica (da Luciano di Samosata - e forse anche dagli Argonauti - a Platone ed epigoni) ed anche cristiana e medievale (Atti degli Apostoli; Bonvesin della Riva ed a mio avviso forse anche Agostino e Dante, ed il mito del regno esotico del “Prete Gianni”): ma Mordacci evidenza come More si staccasse da tali modelli, sia per la scarsa importanza data alla componente viaggio&avventura e mitologia, sia per l’aderenza alla realtà “da capovolgere”, laddove Platone nel Crizia si riferisce ad un mitico passato di semi-dei, e nella Repubblica e nelle Leggi invece ad un riordino radicale dell’anima umana (quanto meno per i “custodi”, ovvero militari e filosofi), in funzione del buon governo della società.

Con una voluta ambiguità lessicale, il neologismo grecizzante “Utopia” coniato da More, significava sia “non-luogo, nessun luogo” (da cui anche l’Isola-Che-Non-C’è di Peter Pan), sia “Eu-topia”, ovvero “luogo buono”: una repubblica fondata sulla comunanza dei beni e sulla ripartizione egualitaria del lavoro necessario, a turni, nell’agricoltura, con una giornata lavorativa di 6 ore, e molto spazio per il sapere, le arti, la ricerca della felicità, e molti altri dettagli sulla famiglia, le istituzioni e la giustizia (moderatamente repressiva), nonché la libertà religiosa [B]; ed una politica estera prudentemente isolazionista, per prevenire l’imperialismo sia proprio che altrui; infine Utopia aveva anche una sua storia ed un divenire progressivo.

L' utopia - Tommaso Moro - copertina

Figura 1 – un’immagine editoriale dell’Utopia di Thomas More

Contrapponendolo al realismo senza orizzonti del contemporaneo Machiavelli, e inquadrandolo nel contesto rinascimentale, Mordacci sottolinea, tra i caratteri dell’Utopia di More, la concretezza dell’immaginazione e la incarnazione razionale delle speranze di giustizia, in un’opera che riassorbe e trascende il programma politico-costituzionale e l’Allegoria del Buon Governo, ma non va confusa con la profezia, l’escatologia  di un futuro Paradiso (e tanto meno con il rimpianto dell’età dell’oro).


GLI SVILUPPI DEL PENSIERO UTOPICO NELL’ETA’ MODERNA

Tali aspetti escatologici invece in parte si intrecciano con le successive fortune dell’Utopia come “genere letterario”, fondato o ri-fondato da More, ad esempio nella “Città del Sole” di Tommaso Campanella (1602), di impronta teocratica e monastica (con una rigida eugenetica, già presente in Platone), oppure nell’incompiuta “Nuova Atlantide” di Francis Bacon (1627), di carattere scientista, ma assai gerarchizzata.

Facendo propria la distinzione, espressa nel 1929 dal sociologo Karl Mannheim[C]  tra utopia ed ideologia, dove la prima tende a rompere l’ordine sociale prevalente, mentre la seconda resta ancorata al presente, ma finisce per cristallizzarlo, occultando e mistificando la realtà in difesa degli interessi dominanti, il testo di Mordacci esamina le componenti utopiche delle teorie politiche progressive emerse nei secoli successivi a Thomas More, ed in particolare:
-       l’illuminismo, con numerosi autori che si cimentano sia nei racconti di viaggio (veri o presunti) anche come occasione di critica sociale (a partire dalle “Lettere persiane” di Montesquieu oppure dal Telemaco di Fenelon, con il suo Salento immaginario), sia nella progettualità politica esplicita, dall’Abbé di Saint-Pierre (da cui Kant si ispira per la pace perpetua) a Rousseau, e nel mezzo Condorcet, il cui frammento su Atlantide (proiettato al futuro e non verso il passato) include anticipazioni assai interessanti, come la parità dei diritti per le donne e la discussione pubblica sulla ricerca scientifica;
-       i socialismi utopisti ottocenteschi di Saint Simon, di Fourier e di Owen, parzialmente sperimentati in Comuni, Falansteri, opifici e comunità locali, con diversi presupposti e analoghi fallimenti, e l’anarchismo individualista di Proudhon, tutti duramente criticati quali ingenui sognatori ed imbelli interclassisti, e di fatto superati dal “socialismo scientifico” di Marx ed Engels, effettivamente molto più attrezzato nell’analizzare la concretezza delle condizioni sociali e la dinamica degli scontri di classe, salvo ricadere, per le sue pretese “scientifiche”, nella rigidità delle (erronee)  previsioni sul glorioso cammino rivoluzionario del proletariato: una sorta di utopia che da “possibile” diverrebbe “necessaria”.


IN CONTRAPPOSIZIONE, LE “DISTOPIE”

Ma nell’Ottocento, mentre il marxismo si contrappone all’utopismo filantropico e nel contempo sequestra e cerca di monopolizzare nel suo progetto le istanze di trasformazione sociale (il che non esclude la rivalutazione dell’Utopia classica da parte di Kautski – dirigente tedesco della 2^ Internazionale – e poi da parte del filosofo Ernst Bloch[D] , cui aggiungerei l’utopismo evangelico di molti predicatori del socialismo in seno al popolo, come ad esempio Camillo Prampolini), il diffondersi della paura borghese per lo “spettro del comunismo” induce intellettuali e politici liberali, pur di tradizione progressista, come Stuart Mill e Bentham, a schierarsi apertamente contro i pericoli di ogni utopismo, coniando anzi – 1868 - i termini di “distopia” e “cacotopia” per descrivere le inevitabili conseguenze liberticide e catastrofiche di ogni pretesa ricerca di una società perfetta: ciò benché all’origine del pensiero liberale fosse presente una certa dose di utopismo (come Bloch rileva a proposito dello stesso Adam Smith).

Mordacci rammenta che il primo archetipo della “distopia” è incluso nella stessa Bibbia, dove la narrazione sulla Torre di Babele indicherebbe un intervento diretto dello stesso Dio per stroncare le pretese comunicative (una sola lingua) e costruttive (la scalata al cielo) di quella comunità mesopotamica.
Ci racconta poi del florido sviluppo della distopia, dall’Ottocento e ancor di più nel Novecento, a fronte dei successi, nefandezze e crolli dei grandi stati totalitari (ma io non disdegnerei di affiancarci anche nefandezze “democratiche”, come le bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki), nella letteratura e poi nel cinema, con svariati contenuti, che l’Autore distingue in:
-       totalitari e fantascientifici, da Zamjatin a Orwell, da Aldous Huxley a Fahrenight 451, Blade Runner, ecc.
-       post-apocalittici, in conseguenza di disastri naturali oppure indotti da mostruosità iper-tecnologiche.


VARIAZIONI SUL TEMA, NELLA CRISI DELLA MODERNITA’

L’Autore individua – in diverse parti del testo -  i seguenti pensatori, nodali nella critica all’utopia e dintorni, dal secondo Novecento in qua (in parte anche da me considerati in precedenti articoli 3 ):
-       Herbert Marcuse (1898-1979), che – partito dal conflitto tra principio di piacere e principio di realtà in Freud (che già confinava l’utopia nella fantasia) – approda ad una visione disincantata, in cui non solo il lavoro ma anche il consumo risulta “alienato”, e le pulsioni libertarie aleggiano come teorie inoffensive, perché anestesizzate dalla “tolleranza repressiva”, che riassorbe le trasformazioni graduali, mentre restano invariati i sostanziali meccanismi di dominio;

-       Michel Foucault (1926-1984), che - indagando sull’uomo e sulla società - da un lato confina l’utopia nella proiezione soggettiva dell’individuo e del suo corpo, che ha una “spietata topia” (la ritrova nello specchio, nell’amore, nella morte), ma tende a sfuggirne con varie trasfigurazioni, dall’altro rileva che socialmente – invece di luoghi fantastici di armonia “utopica” – esistono concrete “etero-topie”, luoghi “altri” (di cui Foucault propone una articolata tassonomia), spesso rimossi dalla vita quotidiana, in cui si svolgono funzioni peculiari, e dove i rapporti sociali sono alterati/sospesi/invertiti: dai giardini ai cimiteri, dalle carceri ai manicomi, fino alle navi ed in particolare alle crociere (che sono una sorta di parodia dell’utopia, tutta risolta nel consumismo più sfacciato);

-       Hans Jonas (1903-1993), che – preoccupato per gli effetti accumulativi del “progresso infinito” (anche nella versione marxista), ai danni dell’ambiente – denuncia come perniciosa “utopia moderna” il connubio tra la tradizione della profezia giudaico-cristiana e la “hybris” scientifico-tecnologica, ed invoca invece la necessità  di subordinare le applicazioni della ricerca scientifica ad un ragionevole “principio di precauzione”, fino a paventare l’opportunità di una sorta di “eco-dittatura” per arginare i pericoli di una “democratica” distruzione della biosfera;

-       Zigmunt Bauman (1925-2017) , che - nel tentativo di decifrare la deriva della società contemporanea - introduce tra l’altro il concetto di retro-topia, come sintesi del processo di disgregazione sociale, sfiducia nello stato, insicurezza, caduta delle speranze in un futuro migliore (collettivo)  e quindi ricerca di una (illusoria) salvezza individuale, ma con il mito di un passato localista e tribale, che scarica sulla ”globalizzazione” tutte le colpe per i disagi dell’esistenza. Associandosi anche alla lettura di Svetlana Boym (1966-2015) sulla “grande nostalgia” della fine del XX secolo, in cui l’individuo rimpiange l’infanzia (regressione narcisista al ventre materno) e la comunità rifiuta la storia e la responsabilità della storia.


RITORNO ALL’UTOPIA E SUO RILANCIO: ANTEROTOPIA

Ma tra i filosofi di fine Novecento, Mordacci rileva anche la rinascita di correnti favorevoli all’utopia come (paradossalmente), in campo liberale, Robert Nozick (1938-2002), teorico di uno stato minimo (che si occupa solo di sicurezza e di libertà del mercato) ed invece in campo democratico il più noto John Rawls (1921-2002), che prospetta una sorta di “utopia realistica”, dove ordinamenti illuminati favoriscono la coesistenza pacifica tra comunità pluraliste, assicurando diritti sociali minimi (fondandosi però sulla proprietà privata, per “evitare sprechi”, diversamente che nel modello comunistico di More).

Ed è soprattutto lo stesso Mordacci, riprendendo nella parte finale del testo diversi spunti già seminati nel corso della trattazione storica, ad affermare l’attualità e la praticabilità dell’Utopia, sviluppando e attualizzando le intuizioni umanistiche di Thomas More, fino ad articolare la proposta di una anterotopia, ovvero la prefigurazione di un luogo davanti a noi in cui la critica alle forme (e deformazioni) attuali della convivenza umana si traduca in una visione complessiva e coordinata, “uno sforzo creativo ordinato e costruttivo”, nella scala globale necessaria per fronteggiare le emergenze climatico-ambientali, tentando di dare un senso al nostro muoversi nella storia, in contrapposizione:
-       ai pensieri nostalgici e reazionari, al determinismo catastrofico, al cinico compiacimento della decadenza
-       al nichilismo post-moderno (oggetto polemico di un altro recente libro di Mordacci 4, che ancora non ho letto) che dal relativismo sfocia nel solipsismo o nella retro-topia.

Secondo Mordacci, la velocità delle trasformazioni tecnologiche e sociali in atto, pur generando alienazione, non deve impedirci di leggerle in correlazione alle precedenti “grandi svolte” dell’umanità, come la stampa di Gutenberg ai tempi della riforma luterana, oppure il motore a vapore nell’età illuminista, per comprendere:
- da un lato, che molte conquiste nel frattempo raggiunte erano in precedenza considerate utopie (istruzione di massa, sanità pubblica, diritti personali e tolleranza religiosa, tutela delle donne e dei bambini, dei lavoratori, di svariate minoranze)
- d’altro lato, che – pur nell’incertezza del suo farsi – la rivoluzione digitale in atto può aprirsi a nuove utopie (che vengono contrastate così come in passato lo erano le conquiste suddette), anche se per ora non hanno un disegno unitario: dalla riduzione generale degli orari di lavoro alla ridistribuzione del reddito, dalla ricerca della felicità (in luogo dell’arido “PIL”) alla libera circolazione delle persone attraverso i confini (com’è oggi quasi solo dentro l’Europa), fino alla “più colossale” (e più urgente) “delle utopie”, ovvero lo “sviluppo sostenibile”.

In contrasto con Jonas (vedi sopra), l’Autore ritiene che la tecnologia non vada demonizzata, ma che solo una “tecnica sostenibile” possa rientrare nel percorso verso i 17 “Goals” individuati dall’ONU come orizzonte positivo dell’umanità: però l’urgenza della questione ambientale richiede una visione cosmopolita, che vada oltre la mera coesistenza, e costruisca una convivenza giusta e cooperativa, una “repubblica di repubbliche sovrane”.
Se sul piano psicologico ed emotivo il desiderio di giustizia dà valore alla vita, l’utopia diviene necessaria ed ineludibile come pensiero razionale e consapevole (non solo però sistema logico, ma immaginazione, narrazione del possibile), per costituire l’unica alternativa alla crisi[E] ed alla rassegnazione catastrofica.


QUALCHE RIFLESSIONE CRITICA

Se per un redattore di “Utopia21” il libro di Mordacci è evidentemente di gran conforto (ed anche di monito ad utilizzare con precisione il temine di “utopia” ed i suoi derivati), mi sento comunque di esprimere qualche riserva:

-       sull’inquadramento storico dell’opera di More proposta da Mordacci, perché:
o   tralascia di rapportare il pensiero di More alla sua (successiva) condotta pratica, come ministro e persecutore degli eretici luterani (come già ho segnalato in nota B),
o   sottovaluta la componente profetica del pensiero religioso cristiano (anche quando non configurata come canonica “utopia”) quale tensione ricorrente rispetto agli assetti del potere (come invece ben tratteggiato da Paolo Prodi 5), da Agostino a Francesco d’Assisi, dai catari ai patari, da Valdo a fra Dolcino, da Giordano Bruno allo stesso Ignazio da Loyola (vedasi le missioni gesuite in Sud America),
o   trascura le correnti utopiche estranee  (o parzialmente estranee) al pensiero occidentale, come negli ultimi cent’anni Gandhi, Mandela e M.L.King 6, ed i loro ascendenti extra-europei;

-       sulla contrapposizione al pensiero post-moderno: a mio avviso occorre arrivare ad un programma di azione cosmopolita (per la pace, l’uguaglianza e la salvezza della biosfera) anche attraverso la critica serrata alle presunzioni scientiste della modernità (per esempio LeCorbusier) e attraverso il dubbio sistematico verso ogni certezza: atteggiamento necessario anche per meglio capire gli altri, cioè sia “le ragioni” (o almeno le pulsioni ed linguaggio) degli avversari[F],  sia le diverse logiche dei possibili e necessari alleati (a partire ad esempio da Papa Bergoglio, che si fonda con evidenza su un' “Utopia” diversa);

-       sull’auto-sufficienza e sulla rappresentatività di un “nuovo umanesimo”, da una parte verso le altre specie viventi, dall’altro all’interno dell’umana specie, che non a caso si  muove divisa (oggi assai confusamente) in una serie di conflitti, etnici, religiosi, sociali: senza approfondire una adeguata “teoria dei conflitti”, c’è il rischio di ri-proporre – galleggiando sui conflitti stessi, oppure un domani da questi sommersi - una concezione illuministica/paternalistica, al limite anche potenzialmente totalitaria (occorre cioè capire che la  mia utopia può essere molto diversa non solo da quella del Papa, ma da quella di una donna nigeriana, di un giovane nero haitiano, di un dissidente tibetano, ecc. ecc.);

-       e comunque, pur restando tra gli intellettuali progressisti europei, sulla difficile componibilità concettuale di un grande affresco utopico unitario (“coordinato negli scopi, nelle realizzazioni, negli attori”, come postula Mordacci), sia riguardo alla divergenza delle discipline scientifiche e dei linguaggi (come già ipotizzava Mannheim, citato da Mordacci a pag. 24), sia riguardo alla lettura critica dello stato di cose presenti, che può essere molto differenziata, a mio avviso, soprattutto in merito al “nocciolo” del tecno-capitalismo (si veda in proposito il confronto tra Ferraris e Demichelis, ampiamente illustrato su UTOPIA218); lo mostrano ad esempio anche le diverse, e non sempre complementari, elaborazioni dell’ASVIS di Giovannini rispetto al FORUM di Barca, pur coerenti ambedue con i 17 Goals dell’ONU (che sono necessariamente alquanto generici).
Pertanto, a mio avviso, la costruzione di auspicabili livelli di unità di azione verso gli obiettivi condivisibili, indicati da Mordacci, può essere solo una ricerca molto parziale e faticosa di “minimi (massimi) comuni denominatori” tra soggetti diversi, rispetto alla quale le prefigurazioni utopiche sono soprattutto necessari ma temporanei strumenti (come lo sono gli “scenari” abitualmente utilizzati nelle scienze probabilistiche, quali la climatologia, e nelle scienze sociali, quali l’economia, la demografia, l’urbanistica): nella permanente consapevolezza della odierna “complessità” dell’insieme uomo/mondo.

Per parte mia non so se una “utopia relativista” è possibile, ma temo che sia comunque necessaria, date le immani dimensioni dei problemi da risolvere per salvare (da se stessa) l’umanità: nel contempo mi rendo conto che molti altri la pensano diversamente, anche sulla stessa natura dei suddetti problemi. Per questo mi preoccupa invece l’ipotesi di una “utopia fondamentalista”, anche se laica, ugualitaria e ambientalista.



Fonti:
1.    Roberto Mordacci – RITORNO A UTOPIA – Laterza, Bari 2020
2.    Thomas More – UTOPIA – tra le varie edizioni: Feltrinelli, Milano 2016
3.    Aldo Vecchi - UTOPIE, TRA FILOSOFIA E PSICANALISI – Quaderno n° 11 di UTOPIA21, settembre 2019 https://drive.google.com/file/d/1aExhFltmWwSyn0N3ld5ZP5rzAsTFEeL8/view?usp=sharing
4.    Roberto Mordacci – LA CONDIZIONE NEOMODERNA – Einaudi, Torino 2017
5.    Paolo Prodi – SETTIMO NON RUBARE – Il Mulino, Bologna 2009, e – IL TRAMONTO DELLA RIVOLUZIONE – Il Mulino, Bologna 2015, da me recensiti su UTOPIA 21, nel marzo 2017  - https://drive.google.com/file/d/0BzaFw8WEAEgYQ29aT0Q2QjhvSG8/view - e settembre2018 - https://drive.google.com/file/d/1yhn8fOy9AWX1zXrx1LjcxtqaMJ2opsHk/view.
6.    Aldo Vecchi – TRE RIFLESSIONI POLITICHE: ’68, POPULISMO, NONVIOLENZA - Quaderno n° 9 di UTOPIA21, settembre 2019 https://drive.google.com/file/d/1B4slM22JS6pimQksVvuKm3zldsaOc8fZ/view?usp=sharing
7.    Fulvio Fagiani - UTOPIA PER REALISTI DI RUTGER BREGMAN – su UTOPIA21 del novembre 2017 . https://drive.google.com/file/d/1bzTcvMqU8CAYWU58Wm-zJ4QIQGGwJMF9/view.
8.    Fulvio Fagiani e Aldo Vecchi - IL DIALOGO TRA FERRARIS E DEMICHELIS SU TECNICA E UMANITÀ’ – su UTOPIA21 del novembre 2019 - https://drive.google.com/file/d/1kfQ6QaOfbN_IiJCPZMlkIEikXUFzBynG/view.


[A] intellettuale umanista inglese – 1478-1535 -,  fu anche primo ministro sotto Eduardo VIII Tudor, che lo fece infine giustiziare perché More – cattolico – non accettò lo scisma protestante anglicano
[B] Libertà religiosa teorizzata da Thomas More, ma non altrettanto praticata nella sua successiva carriera politica di oppositore, piuttosto feroce, alla riforma luterana
[C] Ebreo tedesco, nato a Budapest nel 1893 e morto a Londra nel 1947, passato attraverso il marxismo di Lukacs ed il sociologismo di Max Weber
[D] Ernst Bloch (1885/1977) filosofo marxista tedesco, rivaluta l’utopia e la speranza come valenze antropologiche che muovono la storia in ogni tempo
[E] Mordacci richiama anche il contributo di Rutger Bregman (recensito su Utopia21 da Fulvio Fagiani come autore di “Utopia per realisti”7) in particolare riguardo alla mancanza di alternative, anche solo immaginate, da parte del mondo intellettuale, anche di opposizione, spiazzato di fronte alla crisi iniziata nel 2007
[F] Non dimenticando che tra gli avversari di uno sviluppo sostenibile vi siamo in parte noi stessi, data la pervasività sociale del modello consumista e più in generale del paradigma tecno-capitalista “senza alternative”.

UTOPIA21 - MARZO 2020: ALCUNE QUESTIONI SULLE ABITAZIONI, IN PORTOGALLO




Il riassunto di un servizio giornalistico di “Urbanistica Informazioni”, che può stimolare ad utili riflessioni sui casi italiani, diversi, ma non troppo

Sommario:
-       come il Portogallo sta uscendo dalla crisi finanziaria, fuori dal mito
-       cenni sulla situazione abitativa in Portogallo
-       dove, dal 1976, il diritto alla casa è riconosciuto nella Costituzione
-       la nuova Segreteria di Stato alla Casa
-       in corsivo le mie note personali, relative quasi solo all’Italia

La rubrica “Una finestra su…” della rivista “Urbanistica Informazioni”, dedicata per lo più a singole città straniere, stimola spesso la mia curiosità, anche se tratta di situazioni remote, in cui a fatica si rintracciano analogie con le problematiche, gli strumenti e le soluzioni a noi abituali.
Il servizio sul Portogallo e sulle politiche abitative di quel Governo, nella fase di faticoso superamento della crisi, a cura di Giovanni Allegretti ed altri, sul n° 283 della rivista1, uscito nello scorso novembre, mi ha invece pienamente coinvolto, per la larga confrontabilità con i casi italiani, pur in presenza di importanti specifiche differenze.


COME IL PORTOGALLO STA USCENDO DALLA CRISI FINANZIARIA, FUORI DAL MITO

L’articolo di Allegretti, ricercatore a Coimbra, inquadra - con dettagliate informazioni e sistematiche valutazioni - il tema delle politiche abitative nel contesto complessivo della svolta (anzi mezza-svolta) politico-economica con cui la coalizione tra socialisti, verdi e sinistre – confermata al potere dal voto popolare di novembre, dopo i primi 5 anni di governo – sta positivamente tendando di risalire dalla crisi finanziaria del 2011-12, aggravata dalle ricette neo-liberiste della “Troika” (UE. BCE, FMI) che aveva erogato un decisivo prestito di salvataggio.
Dai media generalisti era emersa l’impressione di una austerità temperata, ingentilita da alcune scelte fantasiose come la “lotteria degli scontrini fiscali”; l’articolo – che meriterebbe di essere riprodotto per intero - mette in evidenza da un lato la fragilità della ripresa, fondata in gran parte su turismo ed investimenti esteri (soprattutto immobiliari), e dall’altro la permanenza di numerose normative vessatorie, imposte dalla “Troika”, soprattutto riguardo alla precarietà del lavoro, mentre le innovazioni riguardano soprattutto i livelli minimi dei salari e delle pensioni (e lo stop alle privatizzazioni), fermi restando gli impegni riguardo al controllo della spesa pubblica complessiva ed al pagamento dei debiti.


CENNI SULLA SITUAZIONE ABITATIVA IN PORTOGALLO

La situazione abitativa portoghese era caratterizzata nei precedenti decenni da una cospicua crescita delle abitazioni in proprietà (dal 50 al 73% delle famiglie, tra il 1970 ed il 2011), con il contestuale indebitamento sia delle famiglie stesse, sia dello Stato che ne agevolava i mutui, affiancata da un esteso abusivismo di baracche, un settore di abitazioni sociali esiguo e di scarsa qualità, nonché da un mercato degli affitti con i canoni a lungo bloccati, rilevante soprattutto a Lisbona e Oporto; con la crisi finanziaria internazionale iniziata nel 2007, il debito immobiliare privato e quello pubblico sono diventati elementi di rigidità poco sostenibili, mentre l’intervento della “Troika” ha imposto la liberalizzazione di affitti e sfratti, poi in parte ridotta dal Governo Costa dopo il 2014.
In tale contesto (che mi sembra simile a quello italiano, ma con livelli medi di reddito più bassi: da noi l’abusivismo è passato nei decenni dopo la guerra dalle baracche ai villini ed alle palazzine, mentre dopo la crisi la precarietà abitativa urbana si scarica soprattutto nel dismesso e le baracche ricompaiono nei ghetti rurali per i migranti-schiavi dei raccolti ortofrutticoli) ha assunto grande rilevanza, nelle grandi città e dintorni, ed in altre mete turistiche, l’impatto del turismo estero, sia in proprietà (per gli incentivi statali alla immigrazione di pensionati e di ricchi stranieri), sia negli affitti brevi, che stanno dilagando con forte accelerazione negli ultimi anni: un flusso di danaro – con riflessi anche sulla domanda di servizi turistici e annessi - che ha aiutato ad uscire dalla crisi sia lo Stato che l’economia nazionale, sia i singoli proprietari di alloggi vendibili/affittabili e le imprese turistico-commerciali, ma ha peggiorato nettamente la condizione degli inquilini e dei giovani che cercano casa, determinandone in particolare l’espulsione verso la fascia più periferica delle aree metropolitane di Lisbona e Oporto; nonché aumentando i casi di grave precarietà abitativa.


DOVE, DAL 1976, IL DIRITTO ALLA CASA E’ RICONOSCIUTO NELLA COSTITUZIONE

Il dibattito che si è sviluppato nel Paese e che ha portato le forze governative a istituire nel 2017 una apposita “Segreteria di Stato alla Casa” (una sorta di Vice-Ministero), ha come riferimento l’articolo 65 della Costituzione portoghese del 1976, che afferma il principio “Tutti hanno diritto, per sé e per la propria famiglia, ad un’abitazione di dimensione adeguata in condizioni di igiene e benessere e che protegga l’intimità personale e la privacy familiare”, cui seguono 4 commi di indirizzi in materia di pianificazione territoriale e urbanistica e di edilizia sociale, e si concludono garantendo “… la partecipazione degli interessati nell’elaborazione degli strumenti di pianificazione urbana…”.
Tale fondamento costituzionale (che – come è noto – manca in Italia, malgrado una passata tradizione di edilizia abitativa sociale2) aveva già trovato attuazione – ad esempio – con le leggi del 1992 per superare le emergenze abitative e del 1995 per risanare gli insediamenti abusivi, con buoni risultati quantitativi, ma con numerose rigidità burocratiche: ad esempio, il bisogno di casa è stato a lungo identificato con la sola condizione “classica” dei “baraccati”, il cui nucleo principale era costituito dalle persone rimpatriate dopo le sconfitte nelle guerre coloniali degli anni ’60 e ’70.


LA NUOVA SEGRETERIA DI STATO ALLA CASA

Infatti l’intervista dello stesso Allegretti alla nuova “Segretaria di Stato” Ana Pinho3 evidenzia il nuovo approccio “plurale” cercato dal governo portoghese, con lo stanziamento di consistenti fondi, per conseguire sostanziali risultati entro il 2024 su tale “diritto primario”, e che si articola essenzialmente sui seguenti criteri (in parte già applicati ed altri in fase di concretizzazione, e che a mio avviso contengono validissimi spunti da imitare anche fuori dal Portogallo):
-       osservatorio centrale per intercettare – da fonti statistiche classiche, ma anche dai nuovi strumenti telematici – i nuovi bisogni, in una società che si è fatta più complessa, con la frammentazione delle famiglie e la precarietà del lavoro; e per raccogliere stimoli e soluzioni provenienti dai territori, e diffondere l’attenzione alla concretezza delle singole persone;
-       decentramento delle politiche di intervento ai singoli comuni, per individuare le soluzioni migliori a fronte di casistiche assai differenziate, ad esempio, tra le aree metropolitane con forti tensioni sul limitato mercato degli affitti, e le aree interne dove invece la rigidità giuridiche delle case in proprietà ostacola il raggiungimento di standard qualitativi nel patrimonio edilizio storico, oggi divenuto spesso inadeguato;
-       introduzione di nuovi istituti giuridici, quali ad esempio gli affitti a lunga durata, con rilevante cauzione iniziale da parte degli inquilini (riscattabile in caso di trasloco) a garanzia della permanenza del contratto; tali cauzioni, incamerate dai proprietari, consentono a loro volta diversi progetti di vita, ed anche investimenti di riqualificazione di altre unità immobiliari;
-       intreccio delle politiche abitative con le questioni territoriali ed ambientali, dal risparmio del consumo di suolo al miglioramento delle prestazioni energetiche degli edifici;
-       ripensamento delle normative edilizie in materia di sicurezza statica e sismica, per gli interventi sul patrimonio esistente, superando in modo equilibrato precedenti oscillazioni pericolose in senso permissivo (tutto permesso se è recupero).    
  
Non risulta ancora affrontato sistematicamente il conflitto tra la domanda locale di case e la pressione turistica, però ad esempio il Comune di Lisbona non consente di affittare, tramite le piattaforme telematiche, alloggi interi ma solo porzioni di alloggi abitati.
E’ invece notizia dello scorso gennaio – dopo l’uscita del servizio su Urbanistica Informazioni - , con la legge finanziaria per il 2020, l’introduzione di una frenata fiscale sui trasferimenti di pensionati dall’estero, finora esentasse per 10 anni (in futuro invece saranno assoggettati ad una aliquota del 10%, con un minimo fisso non trascurabile).

Il servizio curato da Allegretti&C. (su cui mi permetto di rilevare solo la presenza di qualche refuso nella traduzione dell’intervista) si conclude con una ricca bibliografia.


Fonti:
1.    Giovanni Allegretti – VERSO UN RIDISEGNO ANTROPOCENTRICO DELLE POLITICHE ABITATIVE NEL PORTOGALLO POST-CRISI – su “Urbanistica Informazioni” n° 283 del gennaio-febbraio 2019, pubblicato a novembre
2.    Aldo Vecchi - L’UTOPIA (ITALIANA) DELLA CASA, PER TUTTI – su UTOPIA21, luglio 2018 - https://drive.google.com/file/d/1BX9Vb9D-20iw3gvlhLkN9jU1yTVWg5UR/view.
3.    Giovanni Allegretti –  INTERVISTA AD ANA PINHO, SEGRETARIA DI STATO DEL XXI GOVERNO PORTOGHESE – su “Urbanistica Informazioni” n° 283 del gennaio-febbraio 2019, pubblicato a novembre

UTOPIA21 - MARZO 2020: L’APPELLO PER LA COSTITUENTE DELLA TERRA



L’appello “Perché la storia continui” propone un percorso di formazione organizzato per far crescere il pensiero di “una costituzione dei popoli della Terra”; e forse un conseguente Partito; pur apprezzandone i temi, esprimo le mie perplessità sulla proposta.

Riassunto:
-       Riepilogo dell’Appello: analisi, riferimenti, proposte
-       Commento: (linguaggio), diritto e soggetti sociali, pluralità e sintesi partitica

Il 27 dicembre 2019, in concomitanza con il 70° anniversario della promulgazione della Costituzione della Repubblica Italiana, è stato pubblicato su “Il Manifesto” un importante “Appello  Perché la storia continui,  per una Costituzione della Terra” 1, promosso tra gli altri da Raniero La Valle, Luigi Ferrajoli, Valerio Onida, Paolo Maddalena, Mariarosaria Guglielmi, Riccardo Petrella e dal vescovo Raffaele Nogaro (in maggioranza giuristi).

Il testo, estratto da un più ampio documento (che non mi risulta di facile reperibilità), è rapidamente leggibile al link https://ilmanifesto.it/perche-la-storia-continui-proposta-per-una-costituzione-della-terra/  e,  partendo da una rapida analisi
-       dei disagi di vasti popoli rispetto alle terre, inabitabili od inarrivabili,
-       dei disastri ambientali in atto ed in divenire,
-       dell’incompiutezza delle legislazioni costituzionali e soprattutto del diritto internazionale (la dichiarazione dei diritti dell’uomo del 1948 e gli altri connessi documenti sanciti in ambito ONU e dintorni restano mere petizioni di principio),
-       della labilità dei partiti politici sopravviventi, screditati in proprio e marginalizzati dai poteri finanziari e mediatici,
propone in sintesi:
-       lo sviluppo di un pensiero politico e giuridico, in rapporto dialettico con i movimenti di lotta, che sia adeguato ad affrontare le problematiche globali ed orientato ad una concezione universale dei diritti e del diritto (la “Costituzione dei Popoli della terra”);
-       la organizzazione di un sapere diffuso, sia come materiale fondazione di “scuole” (di vario taglio e formato, anche tramite una raccolta di fondi), sia come interconnessione di esperienze formative “in rete”; formazione di cui l’appello indica già un elenco di 11 temi (molto vicini a quelli trattati da “Utopia21” e dal Festival dell’Utopia di Varese);
-       l’aspirazione, ancora incerta e contradditoria,  alla costruzione di un “Partito della terra”, per perseguire in modo organizzato gli obiettivi di pace, cooperazione, risanamento ambientale.

L’Appello assume come riferimenti:
-       governanti illuminati del passato, con espressione simbolica nella dichiarazione pacifista ed antinucleare di New Dehli 1986 tra Gorbaciov e Rajiv Gandhi;
-       autorità religiose convergenti di oggi, ben rappresentate dal recente convegno interconfessionale di Abu Dhabi tra cristiani, mussulmani ed ebrei;
-       movimenti di massa, come i giovani del Friday For Future (e forse le “Sardine”).


Leggendolo ho apprezzato in particolare alcuni passaggi, come questo, sul versante interreligioso:
«Dio non ha bisogno di essere difeso da nessuno»  hanno detto ad Abu Dhabi  non vuole essere causa di terrore per nessuno, mentre lo stesso «pluralismo e le diversità di religione sono una sapiente volontà divina con cui Dio ha creato gli esseri umani»; non c’è più un Dio geloso e la Terra stessa non è una sfera, ma un poliedro di differenze armoniose.
E quest’altro, sul versante “scuola di pace”:
ogni casa dovrebbe diventare una scuola e ognuno in essa sarebbe docente e discente. Il suo fine potrebbe perfino spingersi oltre il traguardo indicato dai profeti che volevano cambiare le lance in falci e le spade in aratri e si aspettavano che i popoli non avrebbero più imparato l’arte della guerra. Ciò voleva dire che la guerra non era in natura: per farla, bisognava prima impararla. Senonché noi l’abbiamo imparata così bene che per prima cosa dovremmo disimpararla, e a questo la scuola dovrebbe addestrarci, a disimparare l’arte della guerra, per imparare invece l’arte di custodire il mondo e fare la pace.

Ma in altri passi, e nell’insieme, ho l’impressione che il linguaggio raffinato e le immagini poetiche finiscano per nascondere le criticità dei contenuti dell’Appello, che per parte mia avrei così individuato:
-       una sopravvalutazione del … “costituzionalismo statuale, che ha dato una regola al potere, ha garantito i diritti, affermato l’eguaglianza e assicurato la vita degli Stati” , mentre a mio avviso tali risultati sono ancora soltanto tendenziali (e non consolidati), e sono frutto non solo di un sistema giuridico, ma di un contestuale sistema politico e sociale[A];
-       la conseguente sopravvalutazione degli aspetti giuridici nell’auspicata costruzione di un sistema universale di cooperazione pacifica ed ambientalista  (“non sono mai state introdotte le norme di attuazione di queste Carte, cioè le garanzie internazionali dei diritti proclamati”);  invece secondo me occorre in parallelo costruire concrete “politiche” sociali ed ambientali (ad esempio sulle migrazioni), realisticamente prima alla scala continentale (con l’Europa come possibile esempio positivo per gli altri ambiti continentali) che non a quella globale;
-       una ambiguità ecumenica nella individuazione dei soggetti attivi delle trasformazioni in progetto:  il popolo della Terra, … l’unità umana…; una Costituente della Terra, prima ideale e poi anche reale, di cui tutte le persone del pianeta siano i Padri e le Madri costituenti. Mi parrebbe necessaria invece una attenta analisi su quali siano le componenti sociali effettivamente coinvolgibili quali attori dei “poliedrici” movimenti, possibili e necessari (e specificamente chi nei paesi ricchi e chi nei paesi poveri, con quale linguaggio e obiettivi tattici in comune), nella consapevolezza che l’ideale cosmopolita della salvezza della biosfera incontra già ora poderose resistenze, che hanno anche consistenti “basi sociali” (basti guardare ai sovranisti, nostrani ed esteri, nonché ai variegati sostenitori del “tecno-capitalismo”);
-       una incertezza od oscillazione sull’argomento del futuro Partito della Terra (che forse tradisce divergenze tra gli estensori dell’Appello), che in talune parti del testo sembra coincidere con l’immediata azione delle Scuole (in effetti il comitato promotore si è denominato progettopartitodellaterra),  ed in altre profilarsi in un orizzonte più remoto: come ai miei occhi appare ineluttabile, perché le analisi finora esplicitate dai promotori dell’Appello mi sembrano troppo esili per proporre una visione partitica della totalità  (soprattutto nella superficialissima critica alla declinante storia dei partiti esistenti)[B] e le attività pratiche dei promotori risultano ancora tutte da costruire (né l’eco e l’adesione all’Appello appaiono travolgenti, tanto meno su scala internazionale).

In conclusione, in questo difficile avvio di una difficile fase di transizione, mi sembra molto interessante l’impegno per sviluppare un costituzionalismo universalista, una “Internazionale del diritto e dei diritti”.
E ben venga nell’ambito, già affollato, in una pluralità di scuole, di ricerche, di aggregazioni.
Penso – già solo per l’Italia - al Forum delle Disuguaglianze-Diversità, all’ASVIS, agli amici di Laudato Sì (anch’essi “Un’alleanza per il clima, la Terra e la giustizia sociale”), a Salviamo-il-Paesaggio, a LegaAmbiente: la pluralità mi sembra in questa fase necessaria, sia per la “poliedricità” della società contemporanea, sia per la frammentazione dello stesso sapere scientifico, sia infine per la necessaria indeterminatezza – per ora – dell’alternativa allo “stato delle cose presenti”.
(Ne scrivo in questo numero di UTOPIA21, sia nell’Editoriale, sia nella recensione su “Utopia” di Roberto Mordacci).

Sarebbe però una vera tragedia se ognuno di questi si proponesse di diventare un Partito.
Potrei proporre al mio direttore, Fulvio Fagiani, di candidare anche “Utopia21”, così scinderemmo immediatamente il nostro piccolo sito in un paio di correnti…

Ci sarà un tempo per la sintesi partitica (anche se io ho superato i settant’anni e forse non farò in tempo ad iscrivermi al partito giusto, con tutti i popoli della terra).



Fonti:
1.    APPELLO “PERCHE’ LA STORIA CONTINUI” – su “il Manifesto” del 27-12-2019 https://ilmanifesto.it/perche-la-storia-continui-proposta-per-una-costituzione-della-terra/
2.    Marco Revelli - FINALE DI PARTITO – Einaudi, Torino 2013
3.    Aldo Vecchi – FINALE DI PARTITO, SECONDO MARCO REVELLI -  https://aldomarcovecchi.blogspot.com/2013/07/finale-di-partito-secondo-marco-revelli.html
4.    Aldo Vecchi - DEMOCRAZIE, POPULISMI, UTOPIE -  su UTOPIA21 del novembre 2018 - https://drive.google.com/file/d/17frHnO85GX3GKyp3WaGOzNSUHiu4T1r7/view.
5.    Fulvio Fagiani - CONVERSAZIONE-INTERVISTA CON FERRUCCIO CAPELLI, DIRETTORE DELLA CASA DELLA CULTURA DI MILANO - su UTOPIA21 del maggio 2019 - https://drive.google.com/file/d/1_aaUMDL_zGS48uIm4BY-ZMHHkBcAjSeM/view.
6.    Fulvio Fagiani - CAPIRE IL POPULISMO. UNA RASSEGNA COMMENTATA DI RIFLESSIONI - su UTOPIA21 del luglio 2019 - https://drive.google.com/file/d/13WCHC1h6PENskpE6Bmf8yEhhAPVeAjTg/view.


[A] tant’è che la Gran Bretagna, patria del costituzionalismo non ha una costituzione, mentre talune dittature si sono ammantate di ammalianti testi costituzionali, ovviamente del tutto inapplicati
[B] Oltre ad una necessaria analisi generale sulla forma-partito nell’attuale fase di difficoltà della democrazia (mi sembra fondamentale in tal senso il libro di Marco Revelli “Finale di partito”2,3), e sui fenomeni populisti4,5,6  , occorrerebbe cimentarsi in una riflessione storica e politica sul declino non-lineare della socialdemocrazia in Europa, sulle peculiarità dei vari partiti “Verdi” e sui difficili tentativi di costruire alternative di sinistra (non nostalgiche del socialismo reale), che hanno dato qualche risultato in Spagna Portogallo Grecia Germania, poco altrove, ed una sorta di ‘deserto salato’ in Italia, tra Bertinotti e Ingroia.