sabato 26 gennaio 2019

VERITA’, EQUITA’, PARTECIPAZIONE


Una riflessione sulle contrapposizioni sociali e politiche, interne alle società occidentali, connesse agli aspetti ambientali della crisi e della difficile transizione verso un diverso sistema di produzione e consumo. La ricerca dei fondamenti per una nuova solidarietà e le peculiarità del caso italiano, verificate su alcuni aspetti della “manovra del popolo”.

Riassunto: ripartizione conflittuale dei percorsi per il controllo climatico tra le diverse nazioni; ripercussioni interne alle società occidentali: Trump, gilet gialli, “governo del cambiamento”.  
Le forze politiche tradizionali ed i nuovi soggetti sovranisti e populisti di fronte alla transizione ecologica: “ambientalisti da salotto”?
I fondamenti teorici per una rifondazione del pensiero collettivo: verità scientifica, equità sociale, nuovi modi di partecipazione.
Le difficoltà in Italia in relazione alla parabola politica del MoVimento 5Stelle.
Appendice A: analisi di alcuni aspetti nodali della Finanziaria per il 2019.
Appendice B: appello per un’IVA ecologica

In precedenti articoli di Fulvio Fagiani (ed altri) su UTOPIA211,2,3,4 , ed in questo stesso numero (“CLIMA, DISEGUAGLIANZA, CRESCITA”), si è focalizzata la problematica della transizione dall’attuale modello socioeconomico ad un sistema di produzione e consumi che divenga compatibile con gli obiettivi di contenimento del cambio climatico e più in generale di riequilibrio ecologico della biosfera.
Un immagine sintetica di tali ragionamenti è quella del ristretto spazio tra un “pavimento” di sviluppo minimo, per non deprimere le condizioni di vita della specie umana, ed un “soffitto” massimo di risorse (non solo energie fossili) da consumare, per garantire la sopravvivenza all’insieme delle specie viventi sul pianeta Terra.
La successione delle conferenze COP (l’ultima a Katowice alcuni giorni orsono, di cui riferisce sempre Fulvio Fagiani in questo numero di UTOPIA21) ha messo in esplicita evidenza i termini del conflitto tra i diversi Stati per posizionarsi “lontano dal pavimento”, con il concreto rischio che molti di essi e l’insieme dell’umanità splafonino oltre il “soffitto” (in questo caso riferito specificamente al limite da porre alle emissioni di gas climalteranti in atmosfera).3
La sottile speranza di un accordo positivo, in questo processo diplomatico mondiale, differenzia correttamente i diversi percorsi che la comunità internazionale intende assegnare alle nazioni più sviluppate (e più inquinanti, sia ora sia nell’insieme della storia della “rivoluzione industriale”) rispetto ai percorsi da consentire ai diversi gruppi delle nazioni meno sviluppate: ma sorgono di continuo enormi problemi sulle modalità di conteggio e di controllo sulle concrete dinamiche in atto ed in progetto nei singoli Stati.
Problemi aggravati dal passaggio della leadership di importanti Paesi, come gli U.S.A. ed il Brasile, a forze politiche che tornano a negare la verità del rischio climatico, spalleggiati da altri paesi comunque interessati a difendere le rendite petrolifere (Russia, Arabia Saudita, ecc.).

Le convulsioni politiche interne a numerosi paesi occidentali, pur apparentemente polarizzate su argomenti collaterali alla latente “crisi delle risorse”, quali il contrasto alle migrazioni e l’insofferenza sovranista alle istituzioni multilaterali (Europa, WTO, ONU&UNESCO, ecc.), tendono però a svelare anche una serie di conflitti sociali interni ai singoli stati, più direttamente legati al problema di “chi paga i costi della transizione” (verso un mondo de-carbonizzato ecc.) oppure, ancora più a monte, di “chi accetta la transizione” oppure cerca di rifiutarla:
-       il presidente americano Trump, sia nella campagna elettorale, sia in parte delle sue contradditorie effettive politiche, ha collegato una propaganda negazionista sul cambio climatico ad una retorica nazionalista e protezionista, raccogliendo consenso non solo tra le imprese più interessate a tali scelte, ma anche presso una parte significativa dell’elettorato popolare, affezionato a ideologia, lavori e consumi tradizionali;
-       il movimento dirompente dei “gilet gialli” in Francia, pur sovrapponendo rivendicazioni diverse e contraddittorie contro le élites (e contro il presidente Macron, vessillo vivente dell’elitarismo), si è notoriamente mosso a partire dal rifiuto di un pur modesto aumento delle accise sui carburanti, aumento che era finalizzato a finanziare alcune innovazioni ecologiche, e solo simbolicamente anche a  scoraggiare i consumi di benzina e gasolio, (perché l’entità dell’aumento, deciso – e poi abrogato – dal governo di Macron, era di gran lunga inferiore alle frequenti variazioni del prezzo dei carburanti derivante dalle oscillazioni del mercato internazionale del petrolio);
-       nel complesso, e forse tragicomico, tragitto del governo italiano “giallo-verde”, durante il travagliato varo della Legge Finanziaria per il 2019,  si è assistito - tra le altre decisioni che meriterebbero approfondimento, e tra un emendamento estemporaneo e l’altro – alla istituzione di una “eco-tassa” sulle auto a combustibile fossile, con paralleli incentivi alle auto elettriche ed ibride, eco-tassa che però, in base alle reazioni dell’opinione pubblica (e delle case automobilistiche), è stata rapidamente concentrata sulle sole auto di grossa cilindrata (SUV e simili), esentandone tutti i veicoli di fascia media e bassa.

La geografia sociale e politica di tali contrapposizioni risulta molto più variegata e confusa rispetto alle divisioni internazionali tra paesi più o meno sviluppati, anche se una sua volgarizzazione si potrebbe leggere nello schema “esclusi” (rappresentati da sovranisti/populisti) contro “ambientalisti da salotto”, che sarebbero ceti elitari di sentire cosmopolita, aperti alle istanze ecologiste, ma ignari dei problemi della “gente comune”.

Poiché tali ceti cosmopoliti sono variamente riconducibili ad esperienze di governo con bandiere di tradizione liberaldemocratica e socialdemocratica (ma in parte anche “verdi”), che nell’insieme hanno cavalcato o accettato la grande globalizzazione di fine Novecento ed i  connessi flussi migratori (e subito la conseguente crisi finanziaria), in questa contrapposizione schematica è incluso un giudizio negativo “a prescindere” sui partiti tradizionali, ed in particolare sulle forze politiche di sinistra (benché paradossalmente attardate dai retaggi di un industrialismo operaista), da cui faticano a distinguersi anche le organizzazioni che più stanno cercando opportune innovazioni, come i socialisti iberici oppure i Verdi tedeschi.

Di fronte ai rischi di una radicalizzazione a destra (cioè su contenuti nazionalisti, xenofobi ed anti-egualitari, nonché potenzialmente anti-democratici) di importanti segmenti delle masse popolari dei paesi occidentali, pur non avendo personalmente alcuna pretesa di indicare soluzioni politiche né in termini di organizzazione (come si fa politica oggi? servono ancora i partiti? quali?) né di comunicazione (con quale linguaggio e strumenti intervenire?), mi sento di esprimere la mia intima convinzione che per un (difficile) cammino virtuoso nella ricerca di una salvezza collettiva dell’umanità e del suo habitat (su UTOPIA21 ci sia permesso di puntare un po’ in alto) occorra passare attraverso:
-       il coraggio di dire la verità (per quanto imperfettamente conoscibile, attraverso la ragione e le scienze) riguardo alla crisi ecologica della biosfera terrestre, al nodo climatico, alla relativa scarsità delle risorse naturali ed eco-sistemiche, alle crescenti disuguaglianze nelle ricchezze e nei poteri, ai rischi di ulteriori crisi finanziarie; nonché – a scala nazionale – sulla realtà del debito pubblico pregresso, sulla intrinseca interdipendenza internazionale della nostra economia (con e senza Euro), sul crescente deficit demografico (con e senza migranti) e sui conseguenti problemi di distribuzione del lavoro e dei redditi; ed ancora sul divario tra investimenti pubblici e bisogni dei territori (adeguamento sismico, protezione idrogeologica, manutenzione infrastrutture), sulle carenze del sistema di istruzione e dei servizi socio-sanitari;
-       l’attenzione ad una sostanziale equità sociale - a scala mondiale, europea e nazionale – contro tutte le diverse forme di privilegio (non solo – ad esempio – l’odiata casta dei politici, ma anche l’evasione fiscale, dai paradisi finanziari off-shore al bottegaio sotto casa) e contro tutte le forme di povertà, a partire dalla casa, dall’istruzione e dalla solitudine, e non solo dal reddito;
-       l’invenzione di nuovi modi di partecipazione, che coinvolgano effettivamente i “cittadini”, innanzitutto in quanto lavoratori, imprenditori, studenti, utenti dei servizi pubblici, residenti nei loro quartieri, ed in modo complementare in quanto consumatori di merci e di informazioni (e da ultimo in quanto elettori), affinché le complesse scelte necessarie per superare la crisi di sistema (ecologico e socio-economico) avvengano tenendo conto degli interessi e delle sensibilità di quante più persone, famiglie, imprese, associazioni sia possibile consultare: ad esempio per progettare il difficile passaggio verso forme di mobilità, oppure di alimentazione, che siano compatibili a lungo termine con gli equilibri ambientali.

Temo però che in Italia una simile rifondazione complessiva del pensare collettivo, in termini ambientalisti ed egualitari, sia resa più difficile, almeno a breve termine, dalla parabola politica del MoVimento 5Stelle: un “non-partito” che da un lato ha popolarizzato come mai in precedenza (e monopolizzato di fatto) alcuni temi ambientalisti e iper-democratici, mentre dall’altro lato, nella sua pratica contradittoria e demagogica, rischia di banalizzarli e cannibalizzarli, come un Re Mida alla rovescia.
Basti pensare, riguardo alla democrazia diretta, alla retorica dell’uno-vale-uno, dello streaming-in-diretta di ogni trattativa politica, dei cittadini-in-rete-che-decidono, a fronte della realtà di un “capo-politico”, consacrato da poche migliaia di iscritti (mai più consultati sulle scelte post-elettorali), che contratta nel segreto delle solite stanze programmi e nomine con altre forze politiche (teoricamente antagonistiche).
E basti guardare, sul fronte ambientale, agli arretramenti sulle “grandi opere”, ai compromessi sull’ILVA, ed agli ammiccamenti elettoralistici (condono edilizio postumo per Ischia), oppure a scelte inspiegabili anche in chiave elettoralistica (elevazione a potenza del limite per scaricare in agricoltura i fanghi di depurazione).

Di compromessi ed arretramenti è fatta la politica, per sua natura, e ne ha fatto cattiva mostra negli scorsi decenni, per essere chiari, anche il centro sinistra, in particolare sull’ambiente, e non solo con Renzi, ma anche con Prodi (dalla stessa ILVA, con l’impensabile ma vigente – e confermata… - “franchigia penale”, alle trivelle del “Salva Italia”, e andando indietro con la base militare USA di Vicenza ed  il MUOS di Niscemi): ma mi pare che non ci fosse bisogno di proclamare il ”governo del cambiamento” e la “manovra del popolo”, per fare poi altrettanto, e talvolta di peggio, con l’aggravante dell’arroganza purista e dell’aggressività comunicativa del MoVimento 5Stelle.

Come ho già accennato in altri articoli 5,6, tale vaghezza di elaborazione politica (e poi di comportamenti) deriva da un anti-elitarismo superficiale, che ha cercato un suo nemico propagandistico:
- nella “casta” (salvo scoprire che dal taglio dei famosi “vitalizi” dei politici e dalle “pensioni d’oro” si possono ricavare pochi milioni all’anno),
- nelle “grandi opere” (come se la corruzione e gli sprechi non abitassero anche diffusamente nelle “piccole opere”),
- nelle “banche” (in quanto tali?),
senza nessuna articolazione di pensiero sul rapporto intrinseco tra sfruttamento dei lavori, accumulazione capitalistica e concentrazione del potere finanziario, nazionale ed internazionale, ed in particolare nella formazione di nuovi monopoli globali nella stessa osannata “rete” (da Google a Facebook, da Amazon ad Apple e Microsoft, fino alle “piattaforme” Uber, AirB&B, ecc., ed agli omologhi cinesi), che solo un potere pubblico a scala europea – a mio avviso – può forse contrastare.

Ed infatti mi pare che – nella concretezza del “Contratto di Governo” e della sua controversa attuazione - l’accozzaglia ambiental-demagogica del programma a 5Stelle, si dimostri priva di una visione di insieme e di un baricentro di politica economica: la decrescita? l’economia circolare? l’esaltazione delle piccole imprese? l’intervento pubblico e nel contempo le privatizzazioni?
Cosicché la voglia di governare di DiMaio&C. è stata attirata soprattutto dalla contrapposizione all’establishment europeo ed italiano (salvo imbarcare per necessità manager e funzionari di variegate esperienze), ed è approdata senza particolari problemi ad una condivisa convergenza con il socio xenofobo (ed anti-egualitario) “Noi-con-Salvini”, approvando e apprezzando misure come:
- la chiusura dei porti alle Organizzazioni Non Governative umanitarie,
- la restrizione dell’accoglienza sia ai profughi che agli altri emigranti,
- l’introduzione di un balzello dell’1,5% sul “money transfer”, cioè sulle rimesse dei migranti (quelli “da aiutare a casa loro”..).

Accettando anche l’ideologia della micidiale “Flat Tax” (eliminazione della progressività delle tasse sul reddito, in favore dei più ricchi), per ora solo enunciata, ma con un assaggio già applicato in favore delle “partite IVA” (vedi oltre in Appendice A): proprio il contrario di quella politica di progressivo riequilibrio fiscale in termini di reddito e di patrimonio che sarebbe a mio avviso necessaria sia per ridurre le inaccettabili e crescenti disuguaglianze sociali, sia per finanziare un serio programma di investimenti pubblici a lungo termine.

Anche se il “reddito di cittadinanza” risponde – in modo forse scorretto, lo vedremo poi nei dettagli – ad un disagio effettivo e primario, come in parte la correzione della legge Fornero sull’età pensionabile, e perciò la validità elettorale ed economica della Finanziaria 2019 andrà misurata nei suoi effetti macro-economici complessivi, nonché specificamente sulla efficacia e sostenibilità di queste due misure “di bandiera” (misure che sarà difficile per qualsivoglia governo successivo rimettere in discussione, come questo governo non ha potuto toccare decisioni come l’esenzione fiscale degli “80 euro” per i salari più bassi, oppure l’”Ape social” per il prepensionamento di categorie disagiate di lavoratori, ancorché varate dai governi a guida PD).
E pertanto mi riservo di tornare su tali argomenti quando le proposte-bandiera saranno definite ed avviate, e con un occhio alla tenuta del bilancio sui mercati finanziari, da un lato, alla effettiva misura degli investimenti pubblici, in particolare per il risanamento del territorio, dall’altro.

Dedico invece le seguenti appendici, per chi voglia seguirmi in alcuni approfondimenti,
-       da un lato ad una analisi di alcuni aspetti nodali della Finanziaria per il 2019, che mi sembrano emblematici, per quanto contrastano i bisogni di Verità, Equità e Partecipazione a cui sopra mi sono richiamato (anche se di questo sito è vocato soprattutto alle strategie politico-culturali di più ampio respiro, non possiamo concentrarci sull’Utopia e non vedere quanto di abnorme accade qui ed ora)
-       dal lato opposto riproducendo una mia proposta del 2013 (rimasta evidentemente inascoltata…) in materia di IVA, che si colloca in una direzione esattamente opposta al presente stato di cose.




APPENDICE A: ANALISI DI ALCUNI ASPETTI NODALI DELLA FINANZIARIA PER IL 2019.

Mi sembra infatti interessante focalizzare l’attenzione su alcuni aspetti della “manovra del popolo” (in parte funzionali a finanziare le suddette “misure di bandiera”):

VERITA’/IVA:
PREMESSA. Le cosiddette “clausole di salvaguardia”, cioè la promessa di innalzare l’IVA (tassa sul valore aggiunto, pagata infine dai consumatori) nel bilancio dell’anno successivo, fatta per legge, su richiesta della Commissione Europea (ed a tutela dei creditori dei titoli di stato), per garantire il contenimento della dinamica del debito pubblico, sono state introdotte per la prima volta nel 2011 dal governo Berlusconi/Tremonti, anche per effetto del “fiscal compact” sottoscritto in precedenza da quel governo, con l’impegno verso l’Europa ad un rapido azzeramento del deficit di bilancio annuale italiano.
I successivi governi Monti e Letta hanno in parte alzato effettivamente l’IVA (l’aliquota massima è passata prima dal 20% al 21% poi al 22%), ed in parte confermato nuove “clausole di salvaguardia” per gli anni successivi, come poi anche i governi di Renzi e di Gentiloni, procedendo per i bilanci operativi (cioè quelli dell’anno immediatamente successivo alla approvazione della legge finanziaria) a scongiurare l’aumento dell’IVA mediante complesse operazioni con altre entrate e/o altri tagli di spese e soprattutto con qualche grado di complicità della Commissione Europea nel concedere “flessibilità” nella progressiva riduzione del deficit (riduzione che si è man mano attuata nelle previsioni, ed un po’ meno nei consuntivi).  
Ciò premesso, Gentiloni ha lasciato in eredità al Governo Conte una previsione di aumento dell’IVA per 12 miliardi di € nel 2019, che il nuovo Governo ha provveduto a “sterilizzare”, ma – in un primo e lunghissimo tempo, da settembre a metà dicembre (mentre lo “spread” volava alto ed il valore dei risparmi “degli italiani” si riducevano in proporzione) – puntando su un palese aumento del deficit di bilancio (il famoso “2,4%” del brindisi sul balcone) e su un meno palese eccesso di ottimismo sulla crescita del PIL nel 2019 (1,5%), il tutto “alla faccia dell’Europa” e degli impegni ivi assunti (e confermati anche in giugno dalla nuova maggioranza).
Il compromesso da ultimo concordato con la Commissione Europea (per evitare o rinviare una procedura di infrazione comunitaria, che avrebbe immediati effetti sui costi del debito pubblico)  ha ricondotto il deficit più in basso (2,04%) e così anche l’ottimismo sul PIL (1%), e – per confermare la sterilizzazione dell’IVA, a fianco delle nuove “misure bandiera” (reddito di cittadinanza e pensioni anticipate) – ha comportato per il 2019, sia una riduzione e differimento delle suddette bandiere, sia una  serie di rinvii di spesa (assunzioni negli enti pubblici) ed altri tagli improvvisati, il più cospicuo dei quali ai danni dei pensionati del ceto medio (vedi oltre).
Ma per il 2020 e 2021, andando a regime le due bandiere (e mezza, quella della “Flat tax” per le partite IVA), nonché le assunzioni differite a novembre 2019, le “clausole di salvaguardia” sull’IVA si ripresentano, ma raddoppiate, da 12 miliardi di € ad oltre 25 miliardi di € medi annui.
E’ evidente che si tratta di una ipotesi impercorribile, perché comporterebbe di innalzare l’aliquota principale verso il 25%, con riflessi probabilmente anche sugli scaglioni IVA più bassi (prodotti agevolati e di prima necessità).
Ma è questo il modo ipocrita con cui sia il Governo Italiano sia la Commissione Europea hanno deciso di “nascondere lo sporco sotto il tappeto” aspettando gli esiti delle elezioni europee del maggio 2019, quando la Commissione scadrà e dovrà essere rinnovata, nell’ambito di nuovi equilibri politici ed internazionali, in cui la maggioranza giallo-verde ipotizza di guadagnare nuovi margini di consenso per politiche, ancora oscure, di maggior deficit o di uscita dall’Euro o di dissoluzione dell’Europa nei suoi singoli Popoli e  Governi (mentre gli avversari in Europa del Governo giallo-verde si augurano di avere maggior forza, rispetto ad una Commissione uscente, per imporre la disciplina comunitaria). 
Il che comunque significa prorogare l’intrinseca instabilità dei conti pubblici.
Tutto ciò non ha niente a che fare con la verità contabile che andrebbe raccontata ai cittadini italiani affinché compiano correttamente le loro scelte, non solo politico-elettorali, ma economiche e sociali, e di vita quotidiana (che studi percorrere, dove cercare lavoro, come investire, come tutelare i risparmi).
Si determina invece una sorta di precarizzazione di gran parte del paese (mentre si tranquillizzano, ma solo temporaneamente, e quindi precariamente, i precari storici con il reddito di cittadinanza).
Aggiungo che in materia di IVA, a mio avviso, si potrebbe aprire ben altro tipo di dibattito (vedi Appendice B).

EQUITA’/PENSIONI: Accertato che – sedimentato il polverone propagandistico – dalla fustigazione dei privilegi (vitalizi dei parlamentari e poche migliaia di “pensioni d’oro) si ricava un magro bottino, il Governo del Cambiamento ha escogitato all’ultimo minuto e disattendendo accordi raggiunti con i Sindacati (vedi sotto alla voce “partecipazione”) una proroga nel congelamento dell’adeguamento all’inflazione di gran parte delle pensioni superiori a 3 volte il minimo INPS (da 1.500 € mensili lordi in su, sia pure con incidenza progressiva ed inizialmente blanda), già colpite in tal senso negli anni precedenti (e con una pronuncia della Corte Costituzionale che ammetteva tali interventi solo come temporanei ed eccezionali).
Si può convenire che per fortuna in questi anni l’inflazione è contenuta, e che i redditi superiori a 1.500 € iniziano a corrispondere ad una fascia sociale di relativo benessere, cui potrebbe essere giusto chiedere (ulteriori) sacrifici.
Mi pare però che stoni parecchio la contestuale scelta di estendere il regime forfettario, con aliquota al 15%, per i lavoratori autonomi e le micro-imprese fino a 65.000 € di ricavi annui, cioè oltre 5.000 € al mese.
(Con il corollario di incentivare la trasformazione apparente di rapporti di lavoro dipendente in false partite IVA).
Per cui se confrontiamo 3 casi con reddito mensile di 4.000 € lorde, la partita IVA pagherà il 15%, il lavoratore dipendente pagherà circa il doppio, il pensionato pure il doppio, ma sarà penalizzato – per sempre – di una ulteriore ventina di Euro al mese per la mancata rivalutazione (in aggiunta al centinaio di € perduto negli anni scorsi) e senza speranza né forza contrattuale per garantirsi in futuro l’adeguamento all’inflazione.
E’ vero che si tratta di piccole cifre (riguardo alla pensioni congelate: non all’assaggio di Flat Tax, che nel caso indicato misura circa 600 € al mese in favore degli autonomi), ma è la scelta di “togliere poco a tanti, senza mai chiedere tanto ai pochi che hanno molto”, che rende iniqua l’imposizione di sacrifici, sia che al governo ci sia Monti, sia che vi siedano Conte, Di Maio e Salvini.  

PARTECIPAZIONE/MAXI-EMENDAMENTO:
PREMESSA. E’ da molti anni che la procedura di approvazione della Legge Finanziaria viene accelerata e conclusa con un voto di fiducia e quindi con la stesura di un “maxi-emendamento” che riprende tutte le decisioni, o gran parte, in unico articolo di centinaia di commi (che per altro diventa tecnicamente illeggibile).
Fino a quest’anno escluso, però, si trattava di un taglio alla discussione parlamentare (per lo più solo nel ramo del Parlamento che aveva esaminato la Finanziaria per secondo), con una sintesi governativa di un ampio dibattito – interno ed esterno alla maggioranza ed interno ed esterno al Parlamento – su proposte iniziali governative abbastanza chiare e con i saldi complessivi già verificati con l’Europa e con gli organi nazionali di consulenza e controllo (Banca d’Italia, INPS, Autority varie, Uffici Parlamentari).
La Finanziaria per il 2019 invece, come è abbastanza noto, è stata totalmente riscritta all’ultimo momento, sia nei saldi finalmente concordati con Bruxelles, sia nei pesanti “dettagli” necessari a far tornare in qualche modo i conti complessivi.
Dopo che il Parlamento aveva inutilmente discusso analiticamente la precedente versione temeraria della ”manovra del popolo”, è stato espropriato non solo della possibilità di discuterne la versione finale ed effettiva, ma addirittura, per quanto riguarda il Senato, di avere il tempo di leggere tutti i commi (dall’esaltazione del bi-cameralismo ad una situazione di fatto “zero-camerale”).
Quello che mi preme sottolineare è che – insieme all’oltraggio al corretto funzionamento delle istituzioni – questo modo di procedere ha impedito ogni forma di organica consultazione e di espressione per tutte le organizzazioni sociali e categoriali interessate dalla nuove decisioni (escluse forse alcune lobbies con rapporti diretti con i vertici governativi).
Con alcuni risultati emblematici, tra cui ad esempio:
-       il suddetto taglio per 1,5 miliardi di € alle pensioni medie, alla faccia di CGIL-CISL-UIL che pochi giorni addietro gioivano per essere state “ascoltate finalmente” (ma invano) nei Palazzi Governativi,
-       il raddoppio dell’IRES a carico del Terzo Settore dal 12% al 24%, cui non a caso pare che stia seguendo una poderosa marcia indietro, frutto immediato della carenza di consultazioni preventive,
-       la proroga di 15 anni delle concessioni balneari: un regalo corporativo nel senso della privatizzazione dei beni pubblici, quali le spiagge demaniali (con canoni spesso modestissimi), in radicale contrasto con tutta la retorica del MoVimento 5Stelle sull’acqua pubblica, sui paesaggi da salvare, sulle concessioni (autostradali) da rivedere, ecc.
-       l’affidamento diretto, senza gara, degli appalti per lavori fino a 150.000 €: mentre si inaspriscono le pene sulla corruzione e si sopprime la prescrizione nei relativi processi, si consentono ponti d’oro al clientelismo se non alla corruzione stessa (che però diventa non punibile, “non-reato”) in una vastissima platea di appalti di non lieve entità.





APPENDICE B: APPELLO PER UN’IVA ECOLOGICA (primavera 2013)
Nell’assenza di un governo, incombe, per luglio 2013, anche un ulteriore aumento di un punto percentuale dell’IVA, su gran parte dei prodotti, esclusi quelli con la tariffa agevolata del 4% (articoli di prima necessità), che avrà evidenti effetti inflazionistici sui prezzi e depressivi sui volumi complessivi di consumo.
Mi chiedo se sia possibile, in questa difficile situazione politica, e per prevenire una più grave caduta socio-economica, approfondire una seria proposta alternativa (da inquadrare a scala europea), finalizzata ad un superamento della spirale oscillatoria tra recessione e tentativi di rilancio (sempre più difficoltosi) del vecchio modello di sviluppo, ed orientata, invece che a contenere o rilanciare  i consumi, a riqualificare produzione e consumi, a partire per l’appunto dalla leva fiscale ed in particolare dalla differenziazione “ecologica” delle aliquote IVA, generalizzando una logica da “carbon tax”.
Si tratterebbe ad esempio di introdurre una quarta aliquota, nettamente superiore, verso il 30% o 33% (e rivedendo nel contempo con i medesimi criteri la ripartizione degli altri prodotti nelle 3 aliquote inferiori, magari riportando al 20% l’aliquota ordinaria) per i prodotti di lusso e/o particolarmente superflui (od inutilmente esotici), e per tutti quelli che presentino negativi risvolti ambientali, sia nelle fasi di produzione e commercializzazione, sia nelle fasi di utilizzo e smaltimento finale, riguardo a:
-          consumo di suolo agricolo (fabbricati, impianti produttivi ed energetici)
-          consumo di energia (veicoli ed elettrodomestici, ed anche fabbricati, con consumi elevati; merci con eccessivi consumi energetici per i trasporti)
-          emissioni di inquinanti (liquidi, aeriformi, acustici, luminosi)
-          produzione di imballaggi e di rifiuti residuali.
Una incentivazione e disincentivazione fiscale, rilevante (ma, volendo, anche da introdurre con gradualità) ed esplicitamente orientata, potrebbe innescare virtuosi processi di selezione dei consumi (limitando il peso inflazionistico per i redditi più bassi e per i consumatori più saggi) e di riorganizzazione produttiva.
Con questa ipotesi di rimodulazione ecologica dell’IVA, se nel frattempo i tentativi di revisione della spesa pubblica improduttiva e di lotta all’evasione fiscale dessero buoni risultati, se ne potrebbero utilizzare i benefici non sul fronte IVA, bensì su quelli più strategici del “cuneo fiscale”, sia agendo sull’IRAP (anche qui con discriminanti qualitative, legate anche all’innovazione) sia soprattutto sull’IRPEF a carico degli scaglioni di reddito più bassi, restituendo in permanenza il “fiscal drag”, che raddoppia in beffa il prelievo improprio costituito dall’inflazione, e rappresenta un costante insulto al concetto di “equità”.
Non so se il risultato sarebbe una “decrescita felice”, ma mi accontenterei che si cercasse di evitare una recessione stupida oppure un rilancio miope.
Credo che si debba  cogliere positivamente l’occasione di una crisi evidentemente strutturale (connessa anche alla saturazione di  alcuni settori merceologici nei paesi avanzati, ed all’orizzonte di scarsità di alcune materie prime a fronte della crescente domanda mondiale) per mettere in discussione (sfidando le lobbies di settore ad un confronto esplicito sui costi e benefici sociali e ambientali di ogni prodotto) i contenuti della realtà economica italiana ed europea; all’opposto di chi vuole modificare l’art. 41 della Costituzione per consentire tutto ciò che non è vietato: è più che mai necessario verificare socialmente cosa, come e dove produrre (e trasportare) merci.
E rendere, così, strategica la riflessione sulla “economia verde”: non solo un aggettivo ed un colore per la solita economia.
Fonti:
  1. Fulvio Fagiani “LIMITARE IL RISCALDAMENTO DEL CLIMA A 1,5°C” https://drive.google.com/file/d/17OKFysYzhhggtmWfQg876N2yVP2wIFi/view?usp=sharing – Pubblicato su “UTOPIA21” nel 2018
  2. Fulvio Fagiani – Quaderno n.6 di “UTOPIA21” “CRESCITA O DECRESCITA?” https://drive.google.com/file/d/1Lo2eWnqu_Ge_aR-A81Ln2BudLUPdcu7l/view?usp=sharing. Articoli pubblicati su “UTOPIA21” nel 2017 e 2018.
  3. Fulvio Fagiani “IDEE E PROSPETTIVE PER LA TRANSIZIONE DI FULVIO FAGIANI” https://drive.google.com/file/d/12V6iBTJQkOfM69VDbgvpbeqPzsiIphdo/view?usp=sharing – Pubblicato su “UTOPIA21” nel 2018
  4. Fulvio Fagiani e Marco Bertaglia – Quaderno n.1 “LE EMERGENZE AMBIENTALI” https://drive.google.com/file/d/1JGiAP3FbkEv42w56nmHBc-4fFL2QqeYG/view?usp=sharing Articoli pubblicati su “UTOPIA21” nel 2016, 2017 e 2018
  5. Aldo Vecchi “LETTURA CRITICA DEI PROGRAMMI ELETTORALI PER IL4 MARZO 2018”https://drive.google.com/file/d/1-pOGmRevCBAEFoVD79kPcjPurVoAPYMM/view?usp=sharing Articolo pubblicati su “UTOPIA21” nel Marzo 2018
  6. Aldo Vecchi e Fulvio Fagiani “GOVERNO DEL CAMBIAMENTO?” https://drive.google.com/file/d/12WwtrNlr_wgxWxVC97wqxwZ6PPzjBF_V/view?usp=sharing Articoli pubblicato su “UTOPIA21” nel Settembre 2018


sabato 29 dicembre 2018

note di Anna&Aldo sul testo di Stefano Levi della Torre "Qualche considerazione sulla storia in corso" - luglio 2018


Con riferimento al testo di Stefano Levi della Torre
http://www.razzismobruttastoria.net/2018/07/26/qualche-considerazione-sulla-storia-corso-stefano-levi-della-torre-giugnoluglio-2018/
abbiamo apprezzato molto il contributo di Stefano alla comprensione della “storia in corso”, ma riteniamo utile mettere in evidenza qualche dubbio e dissenso che sono emersi dalla sua lettura; poiché siamo arrivati a poco più i 2 paginette, a fronte delle oltre 20 di Stefano, parrebbe che le convergenze siano ampie e superino le seguenti specifiche divergenze.

Note di Anna Maria Vailati e Aldo Vecchi, agosto 2018  

Pensiamo che si debba approfondire il tema della scomposizione sociale e culturale delle classi operaie occidentali.NOTA *
Considerandola anche come effetto collaterale e contradditorio di qualche decennio di battaglie contro la fatica del lavoro, per l’istruzione, per l’emancipazione da un modello antropologico “casa-e-famiglia”, ecc..
Ed in relazione alla consapevole reazione neo-liberista, che è un altro contro-effetto del successo di tutto  un ciclo di lotte sociali dopo il 1945.
Ipotizzeremmo addirittura che, pur senza il contributo (comunque poi decisivo) della caduta del modello sovietico, tale scomposizione stia alla base della crisi politica delle sinistre europee, ed in particolare:
-          della progressiva auto-referenzialità delle sue “rappresentanze”, non più innervate da una frequente spinta di nuove avanguardie derivanti dalle lotte sociali,
-          della risorgente tendenza alla frammentazione settaria, pur ben radicata in tutta la storia del movimento operaio, ma attenuata nel periodo post-bellico.

Non ci sembra altrettanto determinato dalla suddetta scomposizione sociale l’orientamento della maggioranza delle forze di sinistra europee, soprattutto nelle loro esperienze di governo, in favore della subalternità ideologico-culturale rispetto al neo-liberismo montante (subalternità che apparve subita ai tempi dell’Ulivo, ed invece rivendicata ai tempi del PD); orientamento moderato che ha trovato alimento nella crescente debolezza dei sindacati (date le nuove condizioni del mercato del lavoro), nell’oggettivo peso dei  problemi di sostenibilità del welfare (allungamento della vita media e denatalità, altri effetti collaterali del progresso sociale)  e di improduttività dello Stato-Imprenditore (non solo in Italia): ma soprattutto nella mancanza di un nuovo orizzonte di politica economica (e culturale) alternativo al fallimento del socialismo reale.
Ci sembra infatti importante constatare che in quasi tutti i paesi della vecchia Europa (al di qua del nuovo “muro” di Visegrad) a sinistra delle “sinistre di governo” sono sorti movimenti e partiti che non hanno sposato la deriva neo-liberista (l’ha comunque dovuta accettare Syriza di Tsipras in Grecia), e non per questo sono riusciti a contendere il consenso crescente alle forze populiste e sovraniste (salvo forse in Portogallo e Spagna, Catalunya esclusa), finendo talvolta per rincorrerle ed imitarle (France Insoumise di Mélenchon): ciò si è verificato soprattutto in Germania (dove Verdi e Linke ristagnano mentre la socialdemocrazia arretra, ed avanza solo la nuova destra dell’AFD) ed in Italia (dove a sinistra del PD si sono schierati nel tempo numerosi partiti, personaggi e cartelli elettorali, ma scarsissimi elettori e pure scarsi militanti effettivamente in campo): ed anche in questa fascia estrema delle  sinistre ci pare che il nocciolo sia la mancanza di una credibile prospettiva, che vada oltre la rivendicazione di una maggior spesa pubblica (poco seria soprattutto in Italia, dato il debito variamente accumulato ben prima della grande crisi).

Anche la sconfitta di Genova nel 2001 del movimento no-global contro il G8 si inscrive, secondo noi, nella carenza di prospettiva (anche se vi erano interessanti intuizioni nuove), aggravata dalla  scelta tattica di cadere di fatto nella trappola dello scontro militare sui confini della ”zona rossa”  anziché isolare i black-blok e abbandonarli alla loro guerriglia di posizione, sviluppando invece (altrove ?) azioni non-violente, che avrebbero forse potuto conservare dimensioni di massa al movimento, in parte ancora riscontrabili nell’ondata pacifista che invano tentò di contrastare la seconda guerra USA all’Irak, due anni dopo.
(Nel nostro piccolo orto extraparlamentare, fummo più saggi quel 12 dicembre del 1971 in piazza Leonardo…).

La prospettiva da cercare, secondo noi, deve sì incrociarsi di nuovo con il disagio delle “vittime del sistema”, a partire dai cosiddetti penultimi cui siamo territorialmente e socialmente contigui: è necessario, ma è insufficiente.

Necessario, perché – un'altra contraddizione dialettica -  muovere dai bisogni immediati degli oppressi include sempre un po’di vittimismo (vittimismo brillantemente scippato da parte delle destre nazional-socialiste già nella crudele prima metà del Novecento), che fu ed è stato storicamente anche un carburante naturale delle lotte di classe, da sinistra, indubbiamente dal Giuramento della Pallacorda in poi: basti pensare alle canzoni anarchiche e socialiste, partigiane e sessantottine, da “siam la canaglia pezzente” a “se otto ore vi sembran poche”, da “la plebe sempre all’opra china”    a “gridavano, pensi, di essere sfruttati”.
Il vittimismo, gestito da destra, includendo offese presunte (tipo “la Vittoria Mutilata”), serve a fare “di ogni erba un fascio”, unendo interessi divergenti contro presunti nemici comuni.
Mentre l’ideale rivoluzionario, variamente coniugato nell’Ottocento e nel Novecento, tendeva a ricomporre le rivendicazioni settoriali e le speranze di riscatto in un disegno (confuso ma) unitario (l’unità di classe), in qualche misura inter-categoriale e internazionalista (in verità con gravi cadute scioviniste, non solo quando raccolte e gestite “da destra”: dall’adesione di gran parte dei partiti socialisti della 2^ internazionale ai singoli fronti nazionali nella prima guerra mondiale, nonché ad alcune delle ultime imprese coloniali, al razzismo implicito in sindacati non inclusivi in paesi di precoce immigrazione straniera, come Gran Bretagna e Francia, fino all’adesione popolare alle repressioni dell’URSS contro gli operai di Ungheria, Polonia, Cecoslovacchia…).
Tuttavia, nella variegata storia delle sinistre europee, lo spirito, non solo tra i “riformisti”, era quello di accettare mediazioni e battute d’arresto in nome di una futura possibile vittoria generale delle vittime contro “i padroni”: un nemico che – utilmente - c’era, ma risultava sempre più sfumato, man mano che:
- al di là del Muro il socialismo reale assomigliava sempre più ad un capitalismo di stato,
- al di qua del Muro si instauravano compromessi sociali e sindacali anche vantaggiosi,
- l’istruzione e gli stili di vita attenuavano le distanze antropologiche tra operai e padroni, con di mezzo tutta la varietà dei ceti e delle figure intermedie, in particolare nelle piccole imprese (si sviluppava cioè la suddetta “scomposizione della classe operaia”, anche prima della grande globalizzazione di fine Novecento e della grande informatizzazione di questo inizio di secolo).

Oggi, invece, constatandoci ormai da tempo orfani di orizzonti alternativi (sia rivoluzionari che riformisti), e per questo necessariamente (a breve termine) minoritari, confrontarci con e tra i penultimi risulta insufficiente: dobbiamo sforzarci di capire di nuovo al meglio come funziona “il sistema” e le sofferenze di tutte le sue vittime, considerando:
- da un lato che – pur espandendosi le dimensioni virtuali ed immateriali, aumentando la confusione tra produttori e consumatori, nonché tra lavoratori dipendenti ed indipendenti, e sovrapponendosi le vecchie e le nuove schiavitù  - la globalizzazione comporta una gigantesca espansione dello sfruttamento capitalista, che assoggetta, masse crescenti di persone subalterne e spesso sfruttate in tutti i continenti (pur in forme diverse e molto specifiche, non come le generiche “moltitudini” di Toni Negri, che soffrono il dominio imperiale anche semplicemente esistendo e respirando)
- e, d’altro lato, il “finanz-capitalismo” nel contempo minaccia le sorti della biosfera (o quanto meno la sua abitabilità per tutti gli esseri umani) spingendo a fondo l’assalto alle risorse naturali ed agli equilibri ambientali (temi ecologici oggi in Italia malamente monopolizzati e banalizzati dal Movimento5Stelle, tra incultura e contraddizioni abissali).
Da qui cercare amici e nemici, vicini e lontani, ed in prospettiva un qualche nuovo orizzonte planetario, di una umanità migliore: per riuscire così a modificare gli “ordini del giorno”:
·         Avendo il coraggio di riproporre tra gli europei la solidarietà non solo con i profughi ed i migranti, ma anche con tutti gli altri “sfruttati a casa loro”; ed anche qualche dose di austerità e sobrietà dei consumi: in favore dell’ambiente ed in favore dei poveri più poveri.
·         Demistificando i meccanismi, legali e illegali, che trasferiscono potere di controllo e risorse economiche  dai comuni mortali ai gruppi dominanti, a scala locale ed a scala globale (che non sono genericamente “le banche”).
·         Denunciando le manipolazioni della comunicazione, a tutti i livelli, e affrontando il difficile tema della “post-verità”.
·         Ipotizzando (a rischio di errore) che l’estensione dei poteri pubblici sovranazionali (dall’Europa all’ONU) sia ancora uno strumento utile per comprimere quanto abbisogna i poteri privati.     

Ma con la consapevolezza che assieme alla scomposizione sociale è maturata anche una sorta di involuzione antropologica, che associa alla senescenza delle società europee un facile allignare delle paure, ed un declinare delle speranze; che contempla con la globalizzazione anche una sorta di coscienza della finitezza del globo; che prende atto in qualche misura del tema dell’esaurimento delle risorse naturali, ma tende a viverlo in salsa egoistica, cioè verso l’accaparramento per se di quanto ancora si possa arraffare (sintomatici i pessimi argomenti dell’ex operaista Asor Rosa nel teorizzare la bontà della sua “pensione d’oro”, contro la “piatta omogeneità della massa”: e speriamo non tocchino anche le nostre pensioni, che sono invero assai più basse…).
  
Perciò il programma di pensiero e di eventuale azione è invero alquanto ambizioso.
Anche se già praticato, in nicchie ancora separate, da organizzazioni di volontariato, centri di ricerca, cooperative di produzione, testate giornalistiche.
La parola “partito”, invece, al momento sembra determinare reazioni allergiche, almeno in Italia.
Prima o poi sarà utile: però bisogna anche pensare a cosa farsene dei residui dei partiti esistenti, iniziando dall’ingombrante corpaccione del PD, che resta comunque il principale luogo di riferimento, quanto meno, per i ceti medi urbani di sentimenti progressisti (ceto in cui ricadono, oggettivamente, i grilli parlanti come noi) e forse anche per i lavoratori storicamente sindacalizzati.

Tralasciamo perché irrilevanti (soprattutto in un’ottica di superamento dei settarismi) le divergenze da Stefano sull’equiparazione Renzi-Berlusconi, a nostro avviso solo parziale e tendenziale (ad esempio non operante sugli “80 Euro” o sull’autonomia della magistratura – cui Renzi ha tolto solo qualche giorno di ferie - per non parlare del capitolo “diritti civili”), o sulla brutta stesura della riforma Boschi, indubitabile, ma che non crediamo abbia turbato più di tanto gli elettori comuni.

NOTA * - la scomposizione delle classi ed i connessi mutamenti antropologici sono tra gli  argomenti su cui indirizziamo le nostre letture da pensionati; ci permettiamo di rimandare alle recensioni di Aldo sul blog “relativamente, sì” e su “Utopia21”: Augé, Bauman, Castells, Maffesoli, Boltanski&Chiapello, Mason, Standing, ecc..


mercoledì 21 novembre 2018

UTOPIA21 - NOVEMBRE 2018: IL LUNGO XX SECOLO DI GIOVANNI ARRIGHI



La narrazione dialettica di cinque secoli di capitalismo mondiale, dal predominio finanziario genovese a quelli olandese e poi britannico, per meglio comprendere il Novecento, lungo periodo ad egemonia statunitense, e formulare alcune ipotesi sulle potenze emergenti dell’Asia (il racconto si interrompe nel 2009 per la morte dell’Autore).

Riassunto: la “nazione genovese” (pur sconfitta sul territorio) inventa la moderna finanza internazionale, all’ombra dell’impero spagnolo (e dell’argento delle Indie Occidentali); i nascenti Paesi Bassi sperimentano nuovi strumenti di governo del commerci e delle risorse coloniali; la monarchia e la borghesia britannica soppiantano gli olandesi come centro del capitalismo e dell’imperialismo mondiale; la grande accumulazione di risorse e nuove forme di organizzazione della produzione, della guerra e della finanza assicurano agli USA l’egemonia globale nell’ultimo lungo secolo, ma si aprono nuove contraddizioni, in particolare sul versante del Pacifico.   
in corsivo i commenti personali del recensore

Laddove Hobsbawn vedeva il Novecento come secolo “breve”, focalizzando l’attenzione sulle vicende politico-sociali, ed individuandone pertanto l’inizio con la prima guerra mondiale e la rivoluzione di ottobre, ed il termine con la caduta del muro di Berlino e la dissoluzione del “socialismo reale”, lo sguardo multidisciplinare di Giovanni Arrighi in “Il lungo XX secolo – denaro, potere e le origini del nostro tempo” identifica il Novecento come la fase di accumulazione capitalistica ad egemonia USA, con prodromi ancora nel XIX secolo e sentori crepuscolari a cavallo tra il XX ed il XXI.
Il fluido e poderoso racconto di Arrighi (economista italiano, 1937-2009, emigrato dapprima nell’Africa post-coloniale e poi negli Stati Uniti, con un importante intermezzo a cavallo del ’68 a Trento ed a Cosenza, nonché come animatore del “Gruppo Gramsci”) colloca il dominio statunitense nell’ambito di una successione di cicli di accumulazione finanziaria e di potere lunga cinque secoli, quanto la storia dell’odierno capitalismo, a partire dal tardo medioevo ed attraverso le seguenti fasi, che riassumo schematicamente come segue, in parte con parole mie:
-           Periodo della “nazione genovese” (dal Cinquecento all’inizio del Seicento), che – malgrado la sconfitta ed il ridimensionamento della repubblica di Genova nel confronto con Venezia e nell’esito del conflitto totale (ma non privo di fasi cooperative) tra le città-stato italiane (tra cui primeggiarono anche Firenze e Milano) ed i loro ceti mercantili – inventando la moderna finanza, imparando dagli errori e dai fallimenti dei banchieri fiorentini e acquisendo la capacità di lucrare sui prestiti agli stati; in particolare con i prestiti al nascente impero spagnolo, trasformò le risorse accumulate con il commercio attraverso il Mediterraneo, ormai calante, in strumento di egemonia delle famiglie genovesi (anche in esilio) sul nascente mercato finanziario mondiale, a partire dalle “fiere di cambio” e attraverso il monopolio dell’argento che fluiva dalle Americhe all’impero spagnolo;
-           Periodo olandese (fino a metà Settecento), caratterizzato dall’intreccio tra la capacità di intermediazione finanziaria (mutuata dai genovesi ed iniziata anche con i loro stessi capitali), ma anche commerciale (con i magazzini globali nei porti olandesi), ed una organizzazione politica e militare pubblico-privata con ascendenze nel modello veneziano (le Compagnie delle Indie), pragmatica e “spietata”, perché efficacemente orientata al profitto anziché a miti astratti di comando e proselitismo qual era quella degli imperi iberici, dagli olandesi direttamente sfidati ed in parte soppiantati, dal mare del Nord agli oceani;
-           Periodo britannico (fino all’inizio del Novecento), derivante da un lungo periodo di incubazione, dopo le sconfitte (e i conseguenti indebitamenti) dei Tudor sui fronti continentali, attraverso l’accorta politica  e la fortuna marinara&piratesca di Elisabetta I e sir Francis Drake, con stabilità monetaria e precoce industrializzazione, che ha portato a cavallo del periodo napoleonico a valorizzare la posizione insulare ai margini dell’Europa e le basi coloniali in tutto il mondo (malgrado l’indipendenza degli Stati Uniti d’America, rimasti comunque a lungo terra di investimenti britannici) per impostare un nuovo sistema complessivo di dominio commerciale, industriale, finanziario e diplomatico (ed anche militare, per quanto necessario) imperniato sulla City, il libero scambio, la conversione aurea della moneta, il Parlamento e la collaborazione delle borghesie delle altre nazioni “liberali” (e bianche), con una molteplicità di imprese flessibili (ed un uso strumentale e temporaneo dei monopoli delle Compagnie),  surclassando infine i rivali olandesi (parziali finanziatori della stessa City);
-           Periodo americano, fondato sulla crescita di un enorme mercato interno, affacciato su due oceani, e sulla organizzazione di grandi compagnie (anche sul modello delle industrie tedesche, protette dallo Stato bismarckiano nella vana rincorsa verso la supremazia britannica), divenute poi transnazionali ed in grado quindi di inglobare i costi delle transazioni con l’estero; gli U.S.A., dapprima finanziati da Londra, ne divengono finanziatori per le immani spese britanniche nella 1^ guerra mondiale (e poi nella 2^) e subentrano alla Gran Bretagna nel ruolo di egemonia sul “mondo libero” in relazione alle vicende politico-militari delle suddette guerre mondiali (che li coinvolgono senza scalfirne il territorio), della decolonizzazione e della “guerra fredda” contro l’impero socialista-sovietico, in un quadro di liberismo parziale (mischiato al protezionismo) e di definitivo abbandono della convertibilità aurea della moneta.
  
In questa periodizzazione Arrighi, sulla scorta di fondamentali ricerche storiche di Fernand Braudel (anche e soprattutto sui criteri per la stessa “periodizzazione”) e di impulsi del suo collega in ricerche socio-economiche “africane” Immanuel Wallerstein e di Beverly Silver, nonché attingendo a numerosi studi di autori anglosassoni contemporanei (ma non trascurando i contributi più datati di Marx, Weber, Pirenne, Polanyi, Gramsci, ecc.) mette in evidenza:
-           come ad una fase “centrale” di massimo impiego diretto dei capitali nelle attività commerciali/produttive specifiche di ciascun ciclo di accumulazione, segua – a partire da una prima “crisi di avvertimento”, che ha a che fare con la “caduta tendenziale del saggio di profitto”, ovvero con la concorrenza eccessiva e la saturazione dei mercati maturi - una fase “autunnale” di massimo splendore “culturale” e però di turbolenza economica, che sfocia in una elevata volatilità dei capitali, una ricorrente “finanziarizzazione”, che di fatto finisce per favorire i poteri nascenti di nuovi soggetti e di nuovi paradigmi politico-economico-finanziari;
-           come la durata temporale dei cicli capitalistici in esame sia andata accorciandosi e come si siano sviluppate inclusioni ed antinomie nelle rispettive modalità organizzative (ad esempio i britannici sconfiggono gli olandesi copiandone solo in parte i modelli, ma recuperando anche alcune flessibilità tipiche dei genovesi, e così via);
-           quanto la crisi dell’espansione post-bellica maturata negli anni ’70, con lo shock petrolifero e la sconfitta in Vietnam, ed il successivo rilancio neo-liberista ed iper-finanziario dell’egemonia USA assomigli ai momenti “autunnali” dei precedenti cicli (ed in particolare alle fasi di crisi del secondo ottocento e successivo splendore apparente della “Belle époque”).
L’egemonia dei soggetti vincenti di ciascun periodo non implica evidentemente un dominio assoluto sulle altre realtà geo-politiche, che Arrighi legge come interdipendenti e connesse a vari livelli in un unico “sistema-mondo”, anche nei secoli in cui non era ancora così massicciamente evidente la “globalizzazione”; anzi è proprio la capacità di volgere in proprio favore l’insieme dei rapporti sia di subordinazione sia di scambio con le altre nazioni, comprese le potenze minori, che conferisce un ruolo egemone ai poli di rilievo mondiale.  
Arrighi non propone assolutamente considerazioni meccaniche e deterministiche per prevedere il futuro sulla base dell’esperienza passata, ma – limitandosi a formulare alcune ipotesi alternative sulle tendenze in atto - fornisce strumenti di interpretazione molto utili sul presente, con analisi molto dettagliate sui rapporti tra economia statunitense e “tigri asiatiche” (Giappone, Corea del Sud, Hong-Kong, Taiwan), purtroppo limitate sul versante della Cina e sulla valutazione della ulteriore crisi finanziaria iniziata nel 2008 a causa della prematura scomparsa dell’Autore nell’anno 2009, data a cui risale l’epilogo del testo, impostato nelle sue parti principali nel 1994.
Per motivi di spazio non riassumo qui le parti più aperte, problematiche e forse meno mature del testo di Arrighi, relative alla seconda metà del Novecento ed all’inizio di questo secolo, che ritengo comunque molto stimolanti, soprattutto laddove delinea un ruolo, forse subalterno e però per alcuni aspetti anche decisivo, ai conflitti di classe ed alla “resistenza” degli sfruttati, nonché dove intravvede tra le possibili variabili discriminanti per ulteriori cicli di egemonia globale (in alternativa ad un altrettanto possibile caos) la capacità di “internalizzare” nei cicli economici, dopo i costi di produzione, commercializzazione e finanziarizzazione (quanto avvenuto dal Cinquecento ad oggi), anche i costi di “riproduzione” non solo della forza-lavoro ma dell’insieme umano e ambientale del mondo intero.
Alcuni critici di sinistra hanno imputato ad Arrighi una sottovalutazione programmatica dei conflitti sociali, in coerenza ad una sua esperienza e visione “terzo-mondista” (ad esempio nei suoi precedenti studi sulla proletarizzazione senza sviluppo delle periferie del mondo capitalista ed in generale nell’assegnazione di un ruolo parziale all’industria ed ai rapporti di produzione).
A mio avviso lo sforzo di comprensione inter-disciplinare di Arrighi è già molto vasto ed una attenzione di altri autori sulle lotte sociali potrebbe integrare la sua lettura di questa storia di mezzo millennio di capitalismo, probabilmente senza smentirla.
Come afferma anche Mario Pianta nella prefazione al testo edito in Italia nel 2014, indicando anche altre significative direzioni di ulteriore ricerca a partire dalle acquisizioni ed intuizioni di Arrighi (il quale a sua volta dichiara la voluta parzialità di questo studio, finalizzato a individuare il nodo centrale dei cicli storici recenti, rispetto alla complessità dei fenomeni socio-economici da lui stesso esaminati in altre ricerche).
Così come tale lettura mi sembra conciliabile con altre ricerche da altri punti di vista parziali, da me recentemente apprezzate, quali quelle di Luciano Gallino2,8 e di Paolo Leon 3,8 (sul finanz-capitalismo di oggi, ma senza i precedenti storici pluri-secolari), di Thomas Piketty4,8 (sulla accumulazione del capitale dal Settecento, ma con poca attenzione alle dinamiche ed alle transazioni internazionali), di Paolo Prodi5,8 (sulla genesi dei mercati dal Medioevo, nella emancipazione dai poteri religioso e politico); mi sembra inoltre un utile correttivo ai contributi ancor più parziali (e da me meno apprezzati), ma comunque originali ed utili, di Graeber6,8 sul debito nei secoli e di Acemoglu&Robinson7,8 sui governi “estrattivi” e la benefiche distruzioni creatrici del capitalismo.   
Fonti:
1.    Giovanni Arrighi “IL LUNGO XX SECOLO – DENARO, POTERE E LE ORIGINI DEL NOSTRO TEMPO” – Il Saggiatore, Milano 2014
2.    Luciano Gallino  “FINANZCAPITALISMO” – Einaudi, Torino 2008
3.    Paolo Leon “IL CAPITALISMO E LO STATO” – Castelvecchi editore, Roma 2014
4.    Thomas Piketty “IL CAPITALE NEL XXI SECOLO” – Bompiani, Milano 2014
5.    Paolo Prodi - “SETTIMO NON RUBARE. Furto e mercato nella storia dell’Occidente”– Il Mulino 2009 e Paolo Prodi “IL TRAMONTO DELLA RIVOLUZIONE” - Il Mulino, Bologna 2015
6.    David Graeber  “DEBITO - I PRIMI 5000 ANNI” – Il Saggiatore, Milano 2012
7.    Daron Acemoglu e James A. Robinson - “PERCHE’ LE NAZIONI FALLISCONO - Alle origini di potenza, prosperità, e povertà” – Il Saggiatore, Milano 2014
8.    Recensioni sui precedenti testi in questo blog, in appositi POST e nella pagina ULTERIORI LETTURE, e/o su “UTOPIA21” https://www.universauser.it/utopia21.html , Quaderno n°2 RECENSIONI, sul numero 5 di settembre 2018 per Prodi/”7° Non rubare” e sul Quaderno n° 4, capitolo 3, per “Finanz-capitalismo” di Gallino