PARTE SECONDA: PROPOSTE DI SOSTENIBILITA’, GENERALE ED URBANA
IN ROSSO LE AGGIUNTE DOPO IL 2013
INDICE DELLA PARTE SECONDA
6 -LA DECRESCITA FELICE
7 - L’APPROCCIO COMPLESSIVO (E ILLUMINISTA?) DEL WUPPERTAL INSTITUT
6 - LA DECRESCITA FELICE
6 -
8 – IL PROGRAMMA MOVIMENTISTA DI GUIDO VIALE
9 - GREEN LIFE OVVERO L’OTTIMISMO TECNOLOGICO
10 - LA TERZA RIVOLUZIONE INDUSTRIALE SECONDO JEREMY RIFKIN
10 BIS - LA BLUE ECONOMYI TEORIZZATA DA GUNTER PAULI
11 – SMART CITIES OVVERO I RISCHI DI UN ECCESSO DI INTELLIGENZA
11 – SMART CITIES OVVERO I RISCHI DI UN ECCESSO DI INTELLIGENZA
Avvicinandomi al
territorio disciplinare della pianificazione, scelgo di iniziare, proprio per
la sua rappresentatività anche simbolica, dalla linea più radicale, quella
della “decrescita felice”, anche se si tratta più di una suggestione
socio-economica che non di una proposta articolata in termini di progettazione
urbana (almeno per quanto finora ho riscontrato nella pubblicistica).
La
lezione tenuta a Parma da Serge Latouche nel febbraio 2011 nell’ambito di un
convegno sulle “Politiche di sviluppo sostenibile per le piccole comunità
urbane sfavorite”, Latouche 2011 che quindi sollecitava a
pronunciarsi anche sugli aspetti territoriali della questione, conferma le sue
teorie, riassunte a fianco da Paolo Ventura come “orizzonte di obiettivi di
lungo periodo da conseguire progressivamente al fine di ritrovare una ’impronta
ecologica’ sostenibile”:
-
“uno sviluppo urbano tale da ridurre
i trasporti (privati) e rilocalizzare le attività;
-
il rilancio dell’agricoltura
contadina;
-
la trasformazione degli incrementi di
produttività in riduzione dei tempi di lavoro ed in crescita dell’occupazione;
-
il rilancio della produzione di “beni
relazionali”;
-
la riduzione degli sprechi di
energia;
-
la riduzione del ruolo della
pubblicità;
-
il ri-orientamento della ricerca tecnica e scientifica;
-
la protezione dallo scambio ineguale
delle attività economiche minori tramite “monete locali” e “monete
complementari”.
In questo elenco – tranne forse
sull’ultimo punto, più originale e più nebuloso - credo possano riconoscersi in
larga misura anche tutti i sostenitori delle più tradizionali concezioni dello
sviluppo sostenibile (es. carta di Aalborg del 1994, e Aalborg commitments del
2004) : si sbagliano, perché questo insieme di misure comporta necessariamente
la decrescita?
Dove sta la specificità della
proposta della decrescita felice, recentemente ribattezzata “dell’abbondanza
frugale” (andando oltre la formulazione piuttosto autarchico-solipsista e
passatista esposta da Maurizio Pallante - Pallante
2011)?
Latouche
articola la “strategia” essenzialmente in due ambiti:
-
quello
africano, o terzo-mondista, dove in sostanza non si ha nulla da perdere e tutto
da guadagnare in una rapida “fuori-uscita dallo sviluppo”, anche approfittando
dell’attuale crisi come favorevole occasione
-
quello
euro-occidentale in cui più è difficile la disintossicazione dai falsi bisogni
e dove quindi si ipotizza un lungo percorso verso la de-mercificazione, da un
lato tramite la battaglia culturale per cambiare l’immaginario collettivo, e da
un altro lato tramite la sperimentazione di
“alleanze” con “le imprese miste”, gli alter-mondisti e i sostenitori
dell’economia solidale.
E neppure ipotizza esplicitamente
che la sottrazione delle aree terzo-mondiali più sfruttate dal circuito dello
sviluppo possa accentuarne la crisi producendo squilibri forse drammatici, ma
potenzialmente a lieto fine.
In assenza di una esplicita
teorizzazione di possibili fasi di rotture catastrofiche dell’attuale sistema
sviluppista, da gestire con segno alternativo, oppure direttamente
rivoluzionarie, ne risulta una sorta di “riformismo estremista”, ma con un
orizzonte senza tempo, e soprattutto senza specificazioni riguardo alle
modalità felici di accettazione della decrescita da parte dei popoli più
“sviluppati”, se non attraverso l’auspicio di uno spontaneo mutamento dei
paradigmi culturali dalla competizione alla collaborazione.
Nel più recente saggio “Per
un’abbondanza frugale” Latouche 2012, Latouche cerca
– con risultati a mio avviso poco risolutivi - di dimostrare la compatibilità
della decrescita sia con il capitalismo che con la democrazia, e l’inutilità di
una ricerca dei “soggetti sociali protagonisti”, affidandosi invece alla sola
crescita culturale degli “individui”.
7 - L’APPROCCIO COMPLESSIVO (E ILLUMINISTA?) DEL
WUPPERTAL INSTITUT
Orientamenti
comparabili figurano nei saggi del
Wuppertal Institut a cura di Wolfgang Sachs e collaboratori Sachs e Santarius
2007 Sachs e Morosini 2011,
commissionati in Germania da organismi ambientalisti e religiosi, e promossi in
Italia da “Terra Futura”, cui aderiscono tra gli altri ACLI, CISL, Caritas e
ARCI.
Sachs
&C non si occupano dettagliatamente delle città (indicate come meta
obbligata dei contadini espulsi dalle campagne a causa dell’agricoltura
monoculturale orientata alle esportazioni e/o dall’impoverimento delle risorse
naturali determinato da dighe e attività estrattive ed industriali inquinanti),
pur individuando significative articolazione locali delle strategie proposte:
- politiche urbane ecologiche in materia di energia, trasporti, approvvigionamenti
di materie e gestione dei rifiuti,
-
enti
locali come possibile soggetto di nuovi equilibri ecologici,
-
“regionalizzazione”
degli scambi economici come necessario temperamento agli eccessi della globalizzazione
(anche con la sperimentazione di ‘monete locali’ – vedi precedente peragrafo),
-
cooperazione
locale in materia di acquisti, impiego del risparmio, gestione dei beni comuni,
scambi non mercantili di tempo di vita ed iniziative dal basso.
Sachs
&C affrontano con sistematicità ed equilibrio tutti gli aspetti della
sostenibilità ambientale, economica e sociale nella biosfera di oggi e di
domani, ed in particolare:
-
i
limiti, non ancora conosciuti e non rigidi, ma ineluttabili, delle risorse
disponibili e rigenerabili
-
le
differenze crescenti di benessere, non solo tra gli stati, ma tra i diversi
gruppi sociali all’interno degli stati
-
gli
effetti perversi degli scambi commerciali “alla pari” tra economie e società intrinsecamente differenti
ed
individuano un orizzonte, necessario e forse possibile, di convergenza dei
livelli di pressione ambientale tra paesi ricchi e paesi poveri su un livello
medio virtuoso (con difficile ricerca di standard di sostenibilità, quali ad
esempio 2.000 km
annui di mobilità individuale oppure 2.000 Watt annui di consumo energetico
pro-capite), da conseguire combinando
-
innovazione
tecnologica,
-
efficienza
anti-sprechi
-
e
soprattutto “sufficienza” (cioè sobrietà) dei consumi,
o
non
solo da parte delle minoranze privilegiate dei paesi ricchi,
o
ma
anche da parte
§
dei
ceti emergenti dei paesi in via di sviluppo, la cui imitazione dei livelli
occidentali di opulenza avrebbe effetti pesanti sugli equilibri ecologici
e sociali,
§
della
massa dei consumatori dei paesi sviluppati, proponendo in sostanza una
riduzione degli orari di lavoro ed in parallelo anche dei salari medi.
Sachs
&C approfondiscono in particolare le contraddizioni del diritto
internazionale, tra i principi fondatori dell’ONU sui diritti dell’uomo (1948)
e gli sviluppi ambientalisti della Conferenza di Rio (1992 e seguenti fino ed
oltre Kioto - 1997), da un lato, e l’insieme degli accordi commerciali, dal
GATT al WTO, dal lato opposto; tali trattati - pur riportando nelle premesse
alcuni riconoscimenti sui diritti dei popoli e delle persone - definiscono un
sistema giuridico ed operativo rigidamente liberista e di fatto impermeabile
alle ragioni di tutela delle comunità locali, dei loro prodotti e dei loro
saperi, con effetti spesso distruttivi delle basi di sopravvivenza delle
formazioni sociali più deboli, e di impoverimento dei paesi più poveri.
Gli
autori sembravano riporre nel 2005 specifiche speranze nell’Europa, in quanto
originaria ‘patria del cosmopolitismo’ e per gli sprazzi di autonomia
dall’egemonia USA, manifestati ad esempio contro la guerra in Irak ed in favore
degli accordi sul clima; nel 2010 appaiono più pessimisti, in considerazione
dei comportamenti egoistici che anche l’Europa continua a manifestare nei
rapporti di scambio commerciale con i paesi poveri, a partire dal settore
agro-alimentare.
Sachs
&C articolano le loro proposte operative, da rendere tendenzialmente
compatibili con una economia di mercato ricondotta ‘a ragione’ sia ‘dall’alto’, con nuove norme (nazionali
ed internazionali), incentivi e politiche di persuasione, sia ‘dal basso’, con
suggerimenti per iniziative a livello locale ed anche per un diverso comportamento
soggettivo dei singoli cittadini, in quanto consumatori e risparmiatori,
bricoleurs e potenziali ciclisti.
Ma nei loro testi,
permeati da appelli kantiani alla giustizia e ad un “nuovo cosmopolitismo”, l’analisi
sui soggetti sociali e politici che –
nei diversi contesti nazionali - potrebbero essere protagonisti delle svolte
invocate, si riduce all’appello ad una “Nuova Internazionale”, ovvero il
collegamento - innanzitutto via Internet
- tra molteplici minoranze illuminate, che sperimentano comportamenti virtuosi
in campo agricolo oppure energetico oppure tecnologico (ed anche nella finanza
equa e solidale) e in tal modo maturano le risposte per illuminare e
influenzare le parti restanti e resistenti delle diverse società nazionali,
incalzandole in particolare man mano che vengono al pettine i nodi della crisi
di esaurimento delle risorse, del clima e dell’attuale modello di sviluppo.
Diverso sarebbe il mio giudizio
se tali proposte fossero fatte proprie pienamente da forze politiche di massa
in grado di contendere il governo nei principali paesi europei; di mezzo ci
sono ancora enormi problemi di egemonia e di orientamento culturale e
antropologico dei segmenti sociali potenzialmente coinvolgibili (vedi paragrafo
4 sulla sociologia post-moderna): se appare possibile diffondere modelli di consumo più
bio-compatibili, equi e solidali, assai più difficile mi sembra promuovere in
occidente un progetto generale di austerità, fondato sulla riduzione di salari
ed orari di lavoro..
Poco sviluppata mi
sembra anche l’attenzione alla crisi socio-economica e finanziaria in atto, ben
indagata quale effetto dello sviluppo industrialista e finanziario, liberista e
neocolonialista, ma non altrettanto esaminata come possibile crogiolo di mutamenti
drammatici, non necessariamente nella positiva direzione auspicata.
8 – IL PROGRAMMA MOVIMENTISTA
DI GUIDO VIALE
Guido Viale, con diversi interventi sul quotidiano Il Manifesto, ripresi anche dal sito Eddyburg, Viale 2011 parte da una analisi radicale, e radicata nella questione ambientale, della crisi finanziaria indotta dal neo-liberismo, giudicando negativamente gli sforzi di rincorsa al pagamento del debito, sviluppati dall’attuale governo Monti.
Viale
non si allinea, in modo esplicito con le ricette di abbandono dell’Euro di Loretta Napoleoni – vedi paragrafo 5 - (anche se in passato, in Lotta Continua,
Guido Viale sostenne l’insolvibilità deliberata dell’Italia come strumento di
gestione politica di una auspicata
rottura semi-rivoluzionaria), afferma tuttavia che “la strada della bancarotta della finanza statale, a meno di una
revisione radicale del patto di stabilità, sembra essere una tappa obbligata.
Si tratta solo di vedere chi e come la gestirà”.
Contrapponendosi
su “Il Manifesto” a Paolo Cacciari Cacciari 2011, si distingue anche dalla parola
d’ordine della “decrescita felice” (di cui al paragrafo 6) e dichiara: “Non sono un fautore della decrescita. Trovo questo concetto
povero di contenuti; inutilizzabile, se non impresentabile, nelle situazioni di
crisi (quando a essere messi in forse sono redditi e posti di lavoro); ambiguo
(in quanto speculare, anche se opposto, a quanto ci viene proposto dagli
economisti mainstream). Non credo che le otto "R" di Latouche
(rivalutare, riconcettualizzare, ristrutturare, ridistribuire, rilocalizzare,
ridurre, riutilizzare, riciclare) apportino al dibattito politico molto più di
un chiarimento concettuale. Però, quando si scende - se mai si scende - sulle
cose da fare o proporre è molto più facile ritrovarsi d'accordo al di là delle
formulazioni dottrinarie. Ma questa diffidenza non significa certo accettazione
del diktat della crescita.”
Nel
frattempo, in qualche modo “a
prescindere” da una soluzione generale, quasi che a quel livello oggi si possa
dire, come Montale sotto il fascismo, solo “ciò che noi non siamo e ciò che non
vogliano” Montale 1925,
Viale cerca di
offrire un orizzonte complessivo ai “movimenti” (dal referendum sull’acqua ai
difensori di altri “beni comuni”, come “Salviamo il Paesaggio” -vedi paragrafo
19-, dove si propugna una battaglia contro il consumo di suolo, dai Gruppi di
Acquisto Solidali agli agricoltori “a Km zero), con una interpretazione più
conflittuale delle ‘reti della nuova internazionale’ di Sachs&Co (vedi al
precedente paragrafo 7) e del “localismo cosmopolita" proposto da Magnaghi
(paragrafo 13): infatti ritiene che “mano a a mano
che i processi molecolari si concretizzano, unificano e rafforzano, i movimenti
vengono a confronto ed entrano in conflitto con il potere della finanza
internazionale e dei governi che ne sono mandatari a livello statuale”.
Ed individua, in tale prospettiva, i seguenti 6 “pilastri”:
1. “La conversione
ecologica” come “processo di riterritorializzazione,
cioè di riavvicinamento fisico ("km0") e organizzativo (riduzione
dell'intermediazione affidata solo al mercato) tra produzione e consumo:
processo graduale, a macchia di leopardo e, ovviamente, mai integrale. Per
questo un ruolo centrale lo giocano l'impegno, i saperi e soprattutto i
rapporti diretti della cittadinanza attiva, le sue associazioni, le imprese e
l'imprenditoria locale effettiva o potenziale e, come punto di agglutinazione,
i governi del territorio: cioè i municipi e le loro reti, riqualificati da
nuove forme di democrazia partecipativa.” Con “il passaggio, ----- dal
gigantismo delle strutture proprie dell'economia fondata sui combustibili
fossili alle dimensioni ridotte, alla diffusione, alla differenziazione e
all'interconnessione degli impianti, delle imprese e degli agglomerati urbani
rese possibili dal ricorso alle fonti rinnovabili, all'efficienza energetica, a
un'agricoltura e a una gestione delle risorse (e dei rifiuti), dei suoli, del
territorio e della mobilità condivise e sostenibili.”
2. “Per operare in
questa direzione è essenziale che i governi del territorio possano disporre di
"bracci operativi" : ovvero “i
servizi pubblici” locali, “restituiti,
come disposto dal referendum del 12 giugno, a un controllo congiunto degli enti
locali e della cittadinanza, cioè sottratti al diktat della privatizzazione.”,
nonché al patto di stabilità, rinegoziando i debiti ai danni della “bolla
finanziaria”
3. “l'arresto
del consumo di suolo” Se le strutture e i suoli inutilizzati “non vengono
resi disponibili dal vincolo che lega il bene al suo proprietario occorre
procede con una politica di espropri e rivendicare una legislazione che la
renda praticabile.”
4. “Il suolo urbano
libero da costruzioni e quello periurbano possono essere valorizzati da un
grande progetto di integrazione tra città e campagna, tra agricoltura e
agglomerati residenziali. Un'integrazione che è stata il pilastro delle civiltà
di tutto il mondo prima dell'avvento della globalizzazione”: “orti urbani,
disseminazione dei Gas, farmer's markets, mense scolastiche e aziendali, marchi
di qualità ecologica per la distribuzione, gestione dei mercati ortofrutticoli:
quanto basterebbe per cambiare l'assetto
dell'agricoltura periurbana e per ri-orientare l'alimentazione della
cittadinanza con filiere corte”.
5. “La mobilità sostenibile (attraverso
l'integrazione intermodale tra trasporto di linea e mobilità flessibile:
car-pooling, car-sharing, trasporto a domanda e city-logistic per le merci) e la riconversione energetica
(attraverso la diffusione degli impianti alimentati da fonti rinnovabili e la
promozione dell'efficienza nelle abitazioni, nelle imprese e nei servizi)
costituiscono gli ambiti fondamentali per sostenere le imprese e l'occupazione
in molte delle fabbriche oggi condannate alla chiusura.”
6. “La conversione ecologica è innanzitutto una
rivoluzione culturale che ha bisogno di processi di elaborazione pubblici e
condivisi e di sedi dove svilupparli. ---- nelle scuole e nell'università,
nell'educazione permanente, nelle istituzioni della ricerca, nel tessuto
urbano, nei mezzi di informazione, sulla rete.”
Mi sembra molto interessante,
pur nella indefinitezza della prospettiva politica conflittuale, la articolazione
concreta delle proposte (largamente condivisibili) ed anche l’integrazione tra i
comportamenti direttamente praticabili ‘dai movimenti’ e dai soggetti economici
locali, il ruolo assegnato agli enti locali, e la rivendicazione di alcune leggi
progressive a livello di autorità superiori (regionali-nazionali-europee? –
vedi Parte Quarta).
Mi pare inoltre apprezzabile lo
sforzo di raffrontarsi dialetticamente con altre posizioni, come quella della
“decrescita felice”.
9 - GREEN LIFE OVVERO
L’OTTIMISMO TECNOLOGICO
Con una intensa pubblicistica, riassunta nel volumetto “Green Life”, Berrini e Poggio 2010, e che ha avuto buona risonanza con la omonima mostra alla Triennale di Milano nel 2010 (e nel relativo catalogo AAVV - Berrini e Colonetti 2010), intellettuali e organismi vicini a Legambiente, svolgono una meritoria campagna di informazione sulle esperienze internazionali (soprattutto europee) più avanzate in materia di:
-
risparmio
energetico nell’edilizia
-
quartieri
ecologici
-
trasporti
innovativi
-
politiche
urbane variamente virtuose in materia ambientale.
La
particolare arretratezza italiana, aggravata da una politica nazionale
errabonda in materia di incentivi energetici ed incline all’improvvisazione in
materia di incentivi alla rigenerazione urbana (Piani casa calati dall’alto per
decreto sulle autonomie locali, in assenza di una complessiva riforma delle
leggi per il governo del territorio), rende prezioso ogni suggerimento positivo,
finalizzato a concretizzare ed anticipare gli obiettivi europei in materia di
risparmio energetico e contenimento delle emissioni di CO2 ed altri gas
climalteranti.
Tuttavia, proprio perché l’Italia
parte da una situazione arretrata, sembrerebbe necessario approfondire meglio
quale sia la strada migliore da seguire per la realtà italiana, verificare dove
portano le esperienze straniere, capire se sia davvero possibile uno sviluppo
sostenibile, oppure se si rischia di ricopiare forme attenuate di congestione ed invivibilità.
Approfondimenti che mi pare manchino
presso gli autori citati, sostituiti da una sorta di ottimismo tecnologico (che
nella mostra milanese si proiettava anche acriticamente sui prodotti delle
aziende sponsorizzatrici).
E’ inoltre apprezzabile, contro
i teorici della “decrescita felice”, la citazione del compianto Alex Langer,
che già nel 1994 sosteneva che “la conversione ecologica potrà affermarsi solo
se apparirà desiderabile”: ma la conclusione di Poggio e Berrini, dopo aver correttamente
sostenuto che consumi individuali e collettivi più consoni alla scarsità delle
risorse non scaturiranno automaticamente dalla crisi in atto, e potranno
nascere solo dal combinarsi di una battaglia culturale dal basso (per ora
minoritaria) e di coerenti politiche
dall’alto (che non si intravvedono), sembra affidare le speranze di soluzione all’autogoverno
delle città, collegate tra loro su scala mondiale, come già nella retorica
visionaria di Peter Droege Droege 2008
e come faticosamente dalla conferenza di
Rio (1992) gli ecologisti, molte
amministrazioni locali e le Agende21 tentano di fare, agendo localmente e
pensando globalmente.
Manca invece l’approfondimento
sulle modalità di formazione del consenso sociale necessario a rendere egemoni
i comportamenti virtuosi auspicati, oppure la connessione ad una strategia
conflittuale, quale quella proposta da Guido Viale (paragrafo 8).
Il nodo austerità/democrazia è
invece ben vivo ai nostri tempi, e di difficile soluzione (vedi anche le
difficoltà di Berlinguer di fronte alla crisi degli anni ’70).
10 - LA TERZA RIVOLUZIONE
INDUSTRIALE SECONDO JEREMY RIFKIN
Nel
filone dell’ottimismo tecnologico si può includere anche Jeremy Rifkin Rifkin 2003, 2011, profeta della Terza
Rivoluzione Industriale (“T.R.I.”), che vede la soluzione di ogni problema
nell’intreccio tra la produzione diffusa delle energie rinnovabili, il loro
accumulo tramite l’idrogeno ed il loro scambio tramite Internet (unitamente con la
elettrificazione delle automobili), e coglie nell’emergere di alcune forme
cooperative del nuovo sapere reticolare (es. Linux, Wikipedia) la sicura
tendenza alla trasformazione dall’accumulazione capitalista (propria delle
prime due rivoluzioni industriali, fondate sul carbone e sul petrolio) al
decentramento democratico di tutto quanto, conoscenza, produzione, potere, dalla
“T.R.I.” ad una imminente successiva età dell’oro, dove regnerà la fine del
lavoro e la concordia universale (con una
pacifica mutazione antropologica, simile a quella auspicata da Serge Latouche,
vedi paragrafo 6).
L’avvio
della “T.R.I.”, invece, secondo Rifkin garantirà a medio termine un incremento
complessivo dell’occupazione, anche nei paesi occidentali, sottraendo il
settore delle energie rinnovabili alle leggi economiche prevalenti (che a mio avviso spingono all’incremento della produttività in tutti i
settori, con appropriazione da parte delle imprese e difficilmente a vantaggio del
lavoro, costretto a breve termine
comunque alla subordinazione e precarietà), perché tutte o quasi le
negatività dell’attuale modello di sviluppo, per Rifkin, derivano dalla natura
fossile delle risorse energetiche che hanno connotato la prima e la seconda
rivoluzione industriale (carbone e petrolio).
Sulla profezia della fine del
lavoro, avanzata da Rifkin già nel 1995, non concordano sociologi più
documentati, come Manuel Castells e gli autori da lui richiamati Castells 2002 (vedi precedente
paragrafo 4).
Tra gli argomenti tipici di
Rifkin vi è inoltre l’affermazione che
non c’è più distinzione tra destra e sinistra, ma la spiegazione di tale
assioma consiste soprattutto in aneddoti, come ad esempio il fatto che il
sindaco di Roma Alemanno ha assegnato allo stesso Rifkin una consulenza sul
futuro della città eterna, mentre il leader laburista inglese Milliband lo ha
ricevuto sbrigativamente e sgarbatamente.
Poco utili sono a mio avviso le
proiezioni futuribili di Rifkin e associati sullo specifico urbano (ad esempio
master plan per la biosfera di Roma al 2050), che mischiano opzioni già note
sui fabbricati eco-energetici e sull’agricoltura peri-urbana, con improbabili
riconversioni di quartieri ed aree commerciali dismesse in orti urbani,
mantenendone però in piedi a scopo ornamentale le sole facciate lungo le
strade.
10 BIS - LA BLUE ECONOMY TEORIZZATA DA GUNTER PAULI
Un'altra variante
dell’ottimismo tecnologico è la “Blue Economy” proposta dall’economista belga
Gunter Pauli, segnalato da “Left” del 28-12-2013, e di cui ho trovato il testo
“Blue Economy/nuovo rapporto al club di Roma: 10 anni, 100 innovazioni, 100
milioni di posti di lavoro“ Edizioni Ambiente -2010 (vedi mio blog, PAGINA 2, PARAGRAFO
9) in ampi estratti sul sito ambientalista di Gianni Girotto (attualmente senatore M5S).
Al di là dell’ottimismo
complessivo e del tono propagandistico (ben
leggibili nel titolo), e delle puntuali ed interessanti singole “ricette”
scientifiche indirizzate alla innovazione tecnologica in disparati settori
della produzione e del consumo, mi
sembra rilevante l’assunto centrale, molto “ecologico” ed assai più ampio della
mera rivoluzione energetica di Rifkin (VEDI PARAGRAFO 10), ovvero, come
enunciato nell’introduzione, “far sì che i nostri sistemi produttivi siano in
grado di imitare al meglio ciò che la natura ha lungamente sperimentato in
miliardi di anni di evoluzione”.
Tale proposta di una
scienza “mimetica” guarda, più che al comportamento delle singole specie (che a
mio avviso spesso agiscono egoisticamente, ed infatti talvolta si estinguono,
oppure distruggono altri inquilini del pianeta) alle dinamiche complessive della
biosfera, ovvero al “sistema di flussi di nutrienti”, al “metabolismo altamente
efficace della natura ----- in cui il
concetto stesso di rifiuto non esiste” (perché il rifiuto degli uni divine il nutrimento degli altri, e
così via attraverso la catena ecologica).
Ne conseguono,
secondo Pauli, i seguenti indirizzi (rilevo però che - come spesso avviene - non
risultano accompagnati da indicazioni socio-politiche sulle vie per conseguire
il consenso per tali tipi di decisioni) :
“1.La
crescita della popolazione e del capitale deve essere rallentata, e infine
arrestata, da decisioni umane prese alla luce delle difficoltà future, e non da
retroazione derivante da limiti esterni già superati.
2.
I flussi di energia e di materiali devono essere ridotti aumentando l’efficienza
del capitale. In altri termini, occorre ridurre l’impronta ecologica e ciò può
avvenire in vari modi: dematerializzazione (utilizzare meno energia e meno
materiali per ottenere il medesimo prodotto), maggiore equità (ridistribuire i
benefici dell’uso di energia e di materiali a favore dei poveri), cambiamenti
nel modo di vivere (abbassare la domanda o dirottare i consumi verso beni e
servizi meno dannosi per l’ambiente fisico).
3.
Sorgenti e serbatoi devono essere salvaguardati e, ove possibile, risanati.
4.
I segnali devono essere migliorati e le reazioni accelerate; la società deve
guardare più lontano e agire sulla base di costi e benefici a lungo termine.
5.
L’erosione deve essere prevenuta e, dove sia già in atto, occorre rallentarla
e invertirne il corso.”
Mi
sembra una prospettiva affascinante, che trascura però:
-
il
conteggio dei flussi occupazionali, tra nuovi posti di lvoro che si creano e
quelli che necessariamente si distruggono
-
l’assetto
necessariamente instabile degli equilibri eco-sistemici, che non esclude
affatto le catastrofi, anche in assenza di specie particolarmente perturbative
quali l’uomo (ed altri prima di loro, come i dinosauri)
-
la
duplice valenza dell’uomo come specie invasiva e pensante, capace quindi forse
di sviluppare i precetti di Pauli, ma anche di seguire facilmente altri e forse
“più falsi” profeti, che pongono l’attenzione sugli interessi egoistici a breve
termine di singoli ristretti gruppi entro la più vasta umanità, oppure su punti
di vita comunque divergenti (basti pensare al rapporto tra religioni e
natalità).
11 – SMART CITIES OVVERO I
RISCHI DI UN ECCESSO DI INTELLIGENZA
Un’altra
versione dell’ottimismo tecnologico è quella che punta sulle tecnologie
informatiche, soprattutto sulla conoscenza interattiva in tempo reale tra
diversi attori su una pluralità di indicatori, resi disponibili dallo stesso
sviluppo tecnologico (ad esempio la localizzazione e l’utilizzo dei telefoni
cellulari oppure la localizzazione dinamica di veicoli tramite GPS), per
prospettare una gestione più consapevole e virtuosa dei comportamenti e dei
consumi urbani.
Tra
queste spicca la spettacolarità delle simulazioni effettuate dal SENSEable City
Lab del Masschusetts Institute of Technology, diretto da Carlo Ratti, di cui dà
conto Urbanistica Informazioni n°238/2011, con un servizio sulle applicazioni a
Roma, Singapore ed in Olanda (CurrentCity), e con una presentazione critica di Daniela
De Leo AAVV-DeLeo 2011, che mi sembra ampiamente
condivisibile:
-
“Si
tratta di progetti attraversati dal ‘mito dell’instantaneità’ e dalla
convinzione che una maggior disponibilità di dati consente di decidere insieme
oltre che meglio ----
una
straordinaria dose di ottimismo e fiducia nelle possibilità dell’innovazione
tecnologica di garantire un futuro migliore e più sostenibile alle città del
mondo, che non sembra , però, confortata dai trend attuali ----
le
innovazioni tecnologiche, da sole non sono affatto sufficienti a cambiare lo
stato attuale delle cose o a potenziare la partecipazione dei cittadini alle
scelte politiche pubbliche ---
la
forte valorizzazione estetica delle rappresentazioni dei dati digitali
finiscono con il ricondurre gli abitanti al ruolo (passivo) di spettatori,
oltre che di fornitori di dati su consumi e comportamenti.”
Di mio aggiungo solo che una
città “’smart’ è indubbiamente meglio di una città ‘non-smart’, ma che la
raccolta di immensi apporti di dati istantanei assomiglia alquanto al paradosso
‘borgesiano’ della carta geografica in scala 1:1, che impedisce di fatto una
effettiva conoscenza del territorio rappresentato Borges 1984.
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