P. 3^: SOSTENIBILITA' URBANA


PARTE TERZA: POSIZIONI SPECIFICHE (SOPRATTUTTO IN ITALIA) SULLA SOSTENIBILITA’ URBANA

INDICE DELLA PARTE TERZA
12 -  KHRONOPOLIS E NEW KABUL: UTOPIE METROPOLITANE UNILATERALI
13 - LO SVILUPPO LOCALE AUTOSOSTENIBILE , “LOCALISMO COSMOPOLITA”
14 -  LA RISCOPERTA DEGLI ARCHETIPI OVVERO GLI ASPETTI STRUTTURALI E MAGICI DELLO STATUTO DEI LUOGHI
15 - L’URBANISTICA RIFORMISTA
16 - I NUOVI STANDARD ECOLOGICI
17  - URBANISTICA E ARCHITETTURA – ARCHITETTURA DELLA CITTA’
18 - L’ESPLORAZIONE DELLA CITTA’ DIFFUSA COME PREMESSA PER NUOVE ALTERNATIVE

12 -  KHRONOPOLIS E NEW KABUL: UTOPIE METROPOLITANE UNILATERALI

Connessa a  “Green Life”, perché riportata nel suddetto testo e perché presente all’interno dell’omonima mostra del 2010 è l’ambiziosa proposta “Khrònopolis” di Fabio Casiroli, Casiroli 2008, che – partendo dalla sua cultura trasportistica e da una affascinante rappresentazione delle “città dei flussi” (simile nella spettacolarità alle rilevazioni di SENSEable City Lab, di cui al precedente paragrafo 10) - perviene ad una  organica formulazione di uno schema generale “disegnato” di rifondazione delle aree metropolitane (supportato dalle visioni architettoniche di grandi firme, da Burdett a Piano, da Foster a Rogers), che si articola  in moduli quadrati di 6 km di lato, affiancabili, caratterizzati da:

-          grande parco centrale (quadrato di lato 2 km, di estensione pertanto pari 400 ettari)

-          elevata densità (densità abitativa territoriale pari a circa 30.000 abitanti/km2 ovvero 300 ab/ettaro)

-          distribuzione reticolare degli insediamenti e delle funzioni governata dal sistema dei trasporti, articolata questa in:

o   reti super-efficienti e gerarchizzate di trasporti pubblici: ferrovia, metropolitana, monorotaia o bus-rapid-transit

o   percorrenze ciclo-pedonali, sostenute da una rete capillare di eco-stazioni per il noleggio di mezzi innovativi (“veicoli elettrici compatti”, bici elettriche)  e tradizionali (taxi)  per il “primo e l’ultimo miglio”

-          scoraggiamento, senza divieti, per l’automobile privata tradizionale.


Di questa formulazione, che stupisce non sia stata discussa sulle riviste di urbanistica, colpiscono, e non convincono, soprattutto i seguenti aspetti (pur nella consapevolezza del rapporto dialettico tra questa proiezione utopica e la prassi riformista degli urbanisti e ingegneri del traffico, a partire dallo stesso Casiroli, nella realtà concreta delle città esistenti, con esempi virtuosi quali in Europa Berlino, Bordeaux, ecc. e in America Latina Cutiriba, Medellin, ecc.) :

-          la proiezione utopica verso una  rifondazione complessiva dei tessuti urbani, contempla indicazioni sul modo di arrivare alla sostituzione  delle attuali città?

-          la densità proposta, che  risulta  al livello massimo  suggerito classicamente da Lewis Mumford, cioè 250 abitanti/ettaro (e più alta di quella generalmente realizzata in Europa nei più recenti eco-quartieri, che oscillano tra 110 e 170 ab/ha, esclusi pochi, Vailati e Vecchi 2010- riprodotto in appendice I), ma assai più bassa di quella rilevata da Jane Jacobs Jacobs 1969 - per assicurare la spontanea vivacità urbana/pedonale, oltre i 500 ab/ha, è verificabile sia rispetto alla sua accettabilità sociale, sia rispetto all’efficienza socio-economica (oltre che trasportistica)?

-          quale attenzione si intende riservare pertanto alle componenti sociali ed economiche della sostenibilità, nonché alle componenti ambientali diverse da quella trasportistica (ad esempio i consistenti parchi centrali non risultano collegati a corridoi ecologici di scala territoriale)?

-          la motorizzazione privata, da scoraggiare solo mediante un sistema complesso e massiccio di investimenti pubblici e privati in infrastrutture e nuovo assetto insediativo, non deve essere intaccata da alcuna attiva politica tariffaria o normativa?

-          non sono contestualmente da immaginare e verificare ragionevoli mutamenti di scenario nell’andamento dei prezzi dei carburanti, dei pedaggi e delle stesse auto?


Colpisce inoltre sul piano formale la non dichiarata analogia – fatta salva la diversità di scala - con il piano per la nuova Kabul, pubblicizzato dagli autori di AS. Architecture Studio A-S 2009 e con Stadtkronen di Bruno Taut  (1919) – vedi figura C (ALLA PAGINA FIGURE).


Architecture Studio propone le sue esperienze e riflessioni sulla città sostenibile a partire dalla scala edilizia, dove declina alcuni principi, comparabili quali  alternative ai precetti di Le Corbusier (Doppia pelle – Facciata attiva – Spazi tampone – Copertura dinamica), e spaziando sull’urbanistica, dagli eco-quartieri al rinnovo delle metropoli (sostenendo il ritorno a densità più elevate), ma culmina con la proposta di New Kabul che – se sarà realizzata nella difficile  situazione politico-militare afgana – prevede una occupazione ex-novo di 2.000 ettari:

 Quanto tale piano è coerente con il principio del  risparmio nel consumo di suolo?

Come si declina tale imperativo in presenza di pressioni demografiche ed insediative a noi sconosciute?

Simili dubbi – estesi anche alla compatibilità economica e sociale, nonché alla quantità di energia inglobata nel ciclo di costruzione delle città - sollevano altre proposte di nuove città super-ecologiche nel Medio e nell’Estremo Oriente: vedi in proposito l’articolo “Ecocittà” di Rosario Pavia su Urbanistica Pavia 2011, che in positivo segnala invece, tra l’altro, le proposte, soprattutto metodologiche, di Bernardo Secchi per Grand Pari(s): reti ecologiche, porosità ciclopedonale, trasporti pubblici a diverse maglie  e velocità, riuso del suolo e ricucitura urbana; in parte ricordano le ipotesi di Khronopolis, ma declinate sulla metropoli esistente, il che è assai più utile, almeno per le prospettive europee.

IN ROSSO GLI AGGIORNAMENTI SUCCESSIVI AL 2013

13 - LO SVILUPPO LOCALE AUTOSOSTENIBILE , “LOCALISMO COSMOPOLITA”

Si cimenta con l’utopia anche Alberto Magnaghi, in “Il progetto locale”  Magnaghi 2000 e 2010, ma nel senso di una visione di nuovi rapporti complessivi tra globale e locale, città e campagna, produzione e consumo, utili per facilitare la partecipazione e la crescita dei progetti locali di sviluppo auto-sostenibile.

Nel volume, difficile da riassumere, benché breve, perché denso e problematico, più delle visioni utopiche risultano interessanti le analisi e le riflessioni dialettiche aperte.

Mettendo in guardia da approcci scorretti alla sostenibilità, quali:

-          l’approccio funzionalista, che subordina le mitigazioni ambientali alle tendenze del mercato globalizzato, in una continua rincorsa inefficace

-          l’approccio ambientalista “bio-centrico”, che assume la natura “come soggetto vivente dotato di anima” (vedi precedenti paragrafi 3 e 4), ma non può giustificare scientificamente l’interpretazione umana dei mutevoli equilibri naturali e rischi o di dimenticare il sistema antropico, oppure di perdersi in battaglie settoriali,

-          (ed anche l’approccio proceduralista, che punta sulla partecipazione senza indicare contenuti, e quello realista-rinunciatario di chi “trova ritmi musicali nella città diffusa” – vedi successivo paragrafo 17),

Magnaghi contrappone l’approccio “territorialista o antropo-bio-centrico”, fondato su una lettura del territorio (antropizzato) come palinsesto storico di lunga durata, patrimonio di valori che vanno oltre quelli di scambio ed anche quelli di uso delle generazioni presenti (ma pur sempre solo da queste possono essere interpretati e tutelati).

Per Magnaghi la città-fabbrica fordista e la successiva metropolizzazione globalista  costituiscono un processo negativo di de-territorializzazione: massimizzazione del profitto a breve termina indipendentemente ed in danno dei valori peculiari dei luoghi, con progressivo impoverimento dell’ambiente naturale ed antropico.

Arrivando a definire il territorio “come soggetto vivente vivente ad alta complessità”, Magnaghi però si preoccupa ampliamente di individuare nelle “tensioni, comportamenti, culture brulicanti” nella e contro la globalizzazione i possibili soggetti sociali concretamente coinvolgibili nella costruzione, dal basso, di alternative fondate sulla “ri-territorializzazione”, progetti locali di sviluppo auto-sostenibile, da collegare in nuove reti “non gerarchiche”: agricoltori, artigiani, commercianti e altri lavoratori autonomi e micro-imprese, volontariato e terzo settore, abitanti e consumatori che intendono sottrarsi alle nuove povertà derivanti dal degrado metropolitano; e le loro aggregazioni locali, neo-municipali (da sottrarre al localismo identitario di tipo chiuso e “triste”).

Il testo articola il concetto del “progetto locale” a partire dallo Statuto dei Luoghi, in una concezione più amplia e radicale di quella enunciata dalla Legge Urbanistica Regionale Toscana, nei suoi aspetti conoscitivi, aggregativi, normativi, che attraversano la produzione, i consumi, la chiusura “breve” dei cicli ecologici, e gli insediamenti, compresa la crescita culturale verso un controllo comunitario delle tipologie edilizie e della qualità architettonica;  senza escludere un ragionevole consumo di suolo, qualora coerente con il “codice genetico” ovvero con le regole insediative del luogo.

Magnaghi non prospetta successi lineari né automatici, e neppure orizzonti messianici o rivoluzionari, in questa contrapposizione “lillipuziana” alla globalizzazione ed alla sua endemica crisi ‘di ambientazione’; egli stesso si pone infatti le seguenti domande, cui risponde in modo aperto e dialettico:

-          è possibile una globalizzazione dal basso? a quali condizioni?

-          che ruolo possono svolgere le autonomie municipali europee? come si pone il dialogo con le esperienze anti-globalizzazione del terzo mondo?

-          è pensabile una più alta “produttività” dei nuovi modelli insediativi legati in reti non-gerarchiche, anziché la ricaduta nello schema centro-periferico?


A fronte di questa prospettiva complessa e affascinante, mi sembra però opportuno esplicitare ulteriori problemi, cui Magnaghi in parte accenna, ma  forse sottovalutandoli:

- le tendenze in atto, misurate ad esempio da Manuel Castells Castells 2000 (in confronto con numerosi altri autori di ricerche – vedi paragrafo 4), non solo verso una ulteriore espansione delle metropoli, sia nella regioni sviluppate che in quelle meno sviluppate, ma anche, complessivamente (per il peso delle aree di nuove industrializzazione), all’incremento percentuale del lavoro salariato, sia pure in forme contrattuali più frammentate, ed alla limitazione ai paesi sviluppati dei fenomeni di maggiore articolazione dei rapporti di lavoro;

- le resistenze e alternative locali alla globalizzazione e de-territorializzazione rischiano pertanto di essere fenomeni di nicchia, e non bastano le parole per distinguere il localismo aperto da quello reazionario e xenofobo;

- la spinta alla competitività, sia in mercato locale che globale, connota comunque la micro-impresa, ed alimenta i conflitti tra soggetti forti e deboli dentro alle “comunità” locali; la dimensione locale può favorire chiusure corporative a danno dei soggetti deboli (es. lavoratori dipendenti);

- non si intravvedono strumenti certi per dare voce ai “soggetti silenti” nei processi di partecipazione;

- affidare alle forze neo-municipali il successo di progetti dal basso su “come, quanto e dove quali attività produttive insediare”, in Europa si scontra con il dogma ed il diritto della “libertà di impresa”, che forse può essere più facilmente compressa ed indirizzata ad obiettivi di riequilibrio ambientale e socio-economico (green economy) con una riconversione democratica dei poteri statali e comunitari (certamente sulla spinta delle nuove esperienze locali), rendendo intelligente l’enorme leva della tassazione e della spesa pubblica (in Europa vicina alla metà del PIL), nella direzione finora teorica o minoritaria della TOBIN TAX e della CARBON TAX (vedi successiva parte Quarta): il riformismo necessario è piuttosto radicale che “continuista”, ma questo è vero sia nell’approccio dal basso, dove i movimenti molecolari rischiano di non concretizzarsi in mutamenti stabili e profondi,  sia in quello dall’alto, che è meno probabile e reso difficoltoso anche dalla evanescenza dei poteri statali a fronte della globalizzazione finanziaria: merita forse di essere meglio valutata l’integrazione tra i due approcci (vedi il precedente paragrafo 7 sulle proposte del Wuppertal Institut e il paragrafo 8 sull’analogo localismo, ma più conflittuale, enunciato da Guido Viale – vedi mie proposte nella Parte Quarta).


14 -  LA RISCOPERTA DEGLI ARCHETIPI OVVERO GLI ASPETTI STRUTTURALI E MAGICI DELLO STATUTO DEI LUOGHI

Muovendo dal filone culturale di Magnaghi, Anna Marson in “Archetipi di Territorio” Marson 2008 approfondisce il rapporto storico tra uomo e luoghi, cercando nell’uno e negli altri gli “Archetipi” antropologici e territoriali, che hanno presieduto agli insediamenti umani, fino alla rottura concettuale del Rinascimento ed alla definitiva lacerazione in epoca moderna, anche per effetto della strasbordante potenza tecnologica.

L’accattivante racconto attraversa dapprima Acqua, Terra, Aria, Fuoco, e poi Centro, Confine, Giardino, Selva, alla ricerca delle tracce archeologiche e storiche e delle speranze di rifondazione (in una nuova sacralità laica) dei principi ecologici nelle relazioni tra uomo/donna  e ambiente e delle radici antropologiche nella concezione dell’abitazione e dell’urbanità, rivisitando numerose ricerche e scuole di pensiero (tra cui spiccano quelle di Gustav Jung, Marija Gimbutas, Giovanni Ferraro e Joseph Rykwert, Martin Heidegger e Christian Norberg-Schulz - Christian Norberg-Schulz 1979 Ferraro 2001 Rykwert 2003).

Marson propone una nuova cultura della progettazione, che preliminarmente ascolti con umiltà i sussurri e le grida dei Quattro Elementi, della terra e del fuoco,  nonché “quelle conoscenze, almeno parzialmente inconsce e poco codificate, che ognuno di  noi, come essere umano, porta con se geneticamente”, per – non solo – “adattarsi ai progetti che la natura ha già disegnato, ma di dialogarvi a partire dalle esigenze umane e quindi sociali essenziali, sedimentate nella stratificazione storica degli insediamenti a partire dalla quale possiamo ritrovare regole di lunga durata, codificate negli archetipi di territorio”.

Il  limite dell’opera mi pare stia nella mancanza di indicazioni sociologiche e politiche per portare questa appassionante battaglia culturale fuori dalle accademie, e costruire consenso e tendenze alternative negli utenti (e quindi poi forse nei committenti) delle case, delle città e delle metropoli.

Considerando che l’individuo/consumatore può essere ancora facilmente indotto a pensare, acquistando od abitando o anche solo desiderando ad esempio una villetta a schiera - e quindi mentre concorre a distruggere o dissipare suolo, paesaggio, risorse naturali - di attingere privatamente a gran parte degli archetipi in questione, ma sotto la forma caricaturale di Piscina, Barbecue, Orto, Recinzione, “Godimento esclusivo terra/cielo” (come dice la pubblicità immobiliare), probabilmente con qualche forma di architettura vernacolare che risalga anche alla storia locale, e vantandosi di risparmiare energia perché la costruzione ricade in “classe A”.

Da valutare a parte il recente impegno diretto della professoressa Marson come Assessore Regionale al territorio per la Toscana (mentre la scuola territorialista di Magnaghi si cimenta attivamente con la redazione dei Piani Territoriali e Paesaggistici di importanti territori, dalla provincia di Prato alla Regione Puglia), in analogia storica con l’impegno politico-amministrativo diretto di importanti maestri dell’urbanistica riformista, da Astengo a Detti, da Campos Venuti (e di molti suoi allievi milanesi) a Cervellati, nonché Lodovico Meneghetti (di cui sono stato allievo), che in proposito ha anche teorizzato il ruolo dell’”urbanista condotto”.


15 - L’URBANISTICA RIFORMISTA

Giuseppe Campos Venuti, con l’articolo “Città sostenibili e austerità”, Campos Venuti 2011, tende a riallacciare il ciclo di esperienze dell’urbanistica riformista (da Bologna anni 60 al paradigma INU per il nuovo piano a metà anni ’90 alle successive verifiche e riflessioni) alla battaglia culturale di Enrico Berlinguer (rimasta minoritaria anche a sinistra)  per “l’austerità” in risposta alla crisi degli anni ’70, così sintetizzata: “non una generica riduzione dei consumi ma la limitazione di quelli improduttivi e parassitari, allargando quelli produttivi e sociali”.

Rivendicando di aver affiancato la posizione berlingueriana, in particolare  con il volume “Urbanistica e austerità”, Campos Venuti ripercorre la “lunga marcia della sostenibilità urbanistica in Italia”, dalla riduzione all’indispensabile delle espansioni private al contenimento delle densità eccessive, dalla conquista degli standards di spazi pubblici alla tutela delle aree agricole “per la produzione alimentare e la difesa ambientale”, dall’attenzione al paesaggio alla introduzione “del verde indispensabile ad assorbire l’anidride carbonica emessa dalle nuove auto nei percorsi urbani”, fino al recepimento delle norme europee per la qualità energetica degli edifici.

Affronta poi, in sintonia con il recente 27° congresso INU di Livorno, il tema della crisi urbana sullo sfondo della nuova socio-economica e finanziaria mondiale e nell’intreccio, specificamente italiano, con il peso del debito pubblico, la debolezza  dei bilanci comunali ed il ruolo delle rendite, finanziaria e fondiaria, proponendo interessanti elementi di riflessione (anche per il superamento di alcuni carenze e difetti applicativi delle leggi regionali ispirate dal modello INU), sui seguenti problemi, inerenti alle modalità attuali dela pianificazione urbana e territoriale in Italia:

-          rafforzamento del carattere  non-conformativo delle previsioni di trasformazione dei piani strutturali e del carattere attuativo dei piani operativi (da non sovradimensionare e con scadenza della edificabilità non utilizzata nel quinquennio),

-          gestione attiva e non solo “regolativa” degli interventi sui tessuti esistenti,

-          “compensazione perequativa” e “contributi  di sostenibilità” finalizzati al contenimento della rendita ed al suo  recupero in favore della città pubblica e gli obiettivi ecologico-ambientali,

-          pianificazione di area vasta (integrati a tutti gli aspetti paesistici e ambientali) adeguata a fronteggiare e governare la “metropolizzazione”, sostituendo – ove necessario - i troppo angusti piani comunali, e connessa con piani regionali concentrati sulla localizzazione delle risorse di livello regionale/statale/comunitario.

In tal modo, secondo Campos Venuti,  l’urbanistica (e quindi, come soggetto, gli enti locali virtuosi e l’arco delle forze politiche e sociali connesse) può contribuire ad una uscita positiva dalla crisi, combattendo la rendita che (resta) “la causa di fondo della crisi urbana, strettamente integrata alla crisi  economica, entrambe legate alle scelte improduttive della finanza” “probabilmente la prima non si potrà risolvere separata dalla seconda”.

Le formulazioni più generali dell’Urbanistica Riformista (come sopra riassunte da Campos Venuti), senza assolutamente voler trascurare i meriti acquisiti per come concretamente continuano a sperimentare e teorizzare la possibilità di migliorare i piani urbanistici e tramite di essi la realtà urbana, mi sembra pongano la necessità di approfondire le seguenti riflessioni di fondo, che trascendono in parte la specificità disciplinare (in parte già lasciate aperte dallo stesso Campos Venuti):

-          la metropolizzazione può effettivamente essere governata ed “umanizzata” dalla pianificazione, in Italia ed altrove (sviluppando proposte tipiche dell’urbanistica riformista, come le nuove polarità ed il trasporto pubblico su rotaia)?

-          quali sono le forze, le alleanze e le modalità per suscitare il necessario consenso sociale nella battaglia per piegare la rendita a finalità urbane pubbliche ed ecologiche?

-          risulterà possibile, con queste battaglie locali, salvare il welfare urbano nello scontro economico e finanziario a livello “globale”?

-          la contrapposizione alle rendite può aprire la strada ad uno sviluppo veramente sostenibile, oppure i limiti ambientali comportano una più radicale revisione del concetto di sviluppo?


16 - I NUOVI STANDARD ECOLOGICI

Federico Oliva, in quanto presidente dell’INU, ha svolto considerazioni analoghe a quelle di Campos Venuti nell’articolo richiamato (a parte la nostalgia berlingueriana) nella relazione introduttiva al 27° Congresso dell’INU, Livorno 2011, mentre nel precedente 26° Congresso ad Ancona nel 2008 l’INU aveva promosso una larga integrazione delle tematiche ambientali nel dibattito sulla pianifciazione urbanistica e territoriale; inoltre, con precedenti testi  Oliva&C 2005 e con le pubblicazioni sui piani progettati, tra cui quello di Reggio Emilia, AA.VV.- Galuzzi 2008 aveva assunto frontalmente parte della tematica ecologica nella teoria e nella prassi dei piani comunali urbanistici, proponendo una precisa gamma di densità edilizie (per Reggio Emilia comprese tra 0,3 e 1,2 m3/m2 di densità territoriale)  e formulando nuovi standard specifici di verde pubblico e privato (con quantità minime di piantumazioni, arboree ed arbustive), al fine di raggiungere un equilibrio tra emissioni ed assorbimento di CO2.

Tali prescrizioni di Oliva&C hanno il pregio di essere concrete e precise; però si pone il dubbio se non comportino:

-          alcune semplificazioni positivistiche (assumendo di fatto come costanti le variabili relative a motorizzazione, modalità di trasporto, emissioni in atmosfera di case e  veicoli);

-          qualche sottovalutazione delle problematiche

o   del consumo di suolo, perché non spingono a densità molto elevate (anche riguardo ai livelli necessari per conseguire una efficienza del trasporto pubblico e per innescare positivi effetti di multi-funzionalità e  vivacità urbana,

o    della rete ecologica, perché tendono ad equiparare il verde urbano (pubblico, privato e condominiale) al verde agro-forestale, sostenendo anzi che il verde urbano inquina meno di certa agricoltura intensiva (e per giunta assistita). Ciò può essere vero oggi, ma “la continuità dei suoli agricoli extra-urbani dovrebbe essere considerato come un valore positivo, paesaggistico ed ambientale (come il buio ed il silenzio, necessari per valorizzare il suono e la luce) ed inoltre ‘un’altra agricoltura è possibile’ (vedi gli esperimenti di “Terra madre” e di “Kilometro zero”), per cui occorrerebbe conservare questi spazi come riserva strategica per una possibile alternativa verso una relativa auto-sufficienza alimentare alla globalizzazione, attualmente drogata dalla esternalizzazione dei costi ambientali dei trasporti su terra e su mare; il che sembra più difficile (ma forse non impossibile) a partire dal verde pubblico e condominiale” (Vailati-Vecchi 2010)

17  - URBANISTICA E ARCHITETTURA – ARCHITETTURA DELLA CITTA’

Un limite delle posizioni teoriche dell’Urbanistica Riformista di Campos Venuti e Oliva, anche se più varia è la prassi, e vivace l’attenzione culturale dell’INU da loro guidato (vedi le riviste dell’Istituto, ed anche il convegno di Genova nel 2006 sul ‘Progetto urbano’), è la separazione  tra pianificazione e architettura urbana: la giusta considerazione sulla inefficacia dei Piani Regolatori Generali “disegnati” e la coerente separazione tra Piani Strutturali e Piani Operativi  rischia di impoverire ambedue i livelli riguardo alla necessaria attenzione alla ‘forma’ della città e di delegare tutte le scelte tipologiche e morfologiche, relative ai fabbricati ed agli spazi pubblici, al momento della progettazione architettonica, isolata dal dibattito generale sulla trasformazione urbana, e quindi alla auto-referenzialità degli architetti ed all’impronta costruttiva dei committenti (immobiliaristi, imprese, singoli privati).

Il tema sembrerebbe non riguardare strettamente la sostenibilità, mentre a mio avviso è centrale per cercare di perseguire una effettiva vivibilità collettiva degli spazi urbani, e quindi valori culturali e sociali che sono però anche ambientali (paesaggio urbano, qualità edilizia, qualità della vita) ed economici (efficacia della densificazione, successo della mobilità ‘dolce’, costi e benefici delle aree ed attrezzature ad uso collettivo).

Lo affronta con brillante esposizione Graziella Tonon con l’articolo “Urbanistica e architettura: un rapporto da rinnovare”, Tonon 2011, che è però limitato dall’orizzonte, pur importante, dell’insegnamento nelle facoltà di Architettura e di Pianificazione, mentre Giancarlo Consonni, nel testo “La difficile arte. Fare città nell’era della metropoli” Consonni 2008 articola in modo più completo la proposta di una diversa urbanistica che divenga architettura della città (ripresa organicamente anche da Graziella tonon nel 2014 con "LA CITTA' NECESSARIA" -vedi mia recensione alla pagina ULTERIORI LETTURE - 11):

-          sia nella lettura della genesi storica della metropoli contemporanea (a partire dagli opposti caratteri della città antica e medioevale, e dallo sviluppo e crisi della città industriale) e dei limiti della risposta che architetti e urbanisti del “movimento moderno” fanno dato ai problemi della modernità (con Jane Jacobs e Ildefonso Cerdà – tra gli altri - contro il Le Corbusier teorico dei CIAM ed i suoi epigoni, e soprattutto contro i contemporanei cantori della bellezza del caos e del frammento, tipo Koolhaas): schematicamente si può riassumere che per  Consonni la metropoli contemporanea tende a innestare contenitori isolati (architettura dei bunker) su una ipertrofica rete di trasporti e comunicazioni, finendo per consumare, con lo sprawl, non solo lo spazio (frammentato e disperso dalle reti),  ma  anche il tempo (spostamenti obbligati su lunghe distanze, congestione), degradando la campagna e disperdendo gli spazi della socialità, della convivenza tra diversi e della conseguente sicurezza spontanea, surrogata dalla segregazione e “militarizzazione”;

-          sia nella formulazione di criteri alternativi per la progettazione, come “luoghi” a misura d’uomo  degli spazi urbani e paesaggistici, valorizzando la complessità dei “contesti” (cum-texere: operare su tessuti storicamente stratificati, polimorfi e polifonici), spaziando, con ampia competenza letteraria e poetica (vedi soprattutto il cap. “L’ospitalità dei luoghi – la riconquista possibile”)  anche sui campi attigui delle altre arti: danza, teatro, romanzo, musica: secondo Consonni (se mi è possibile riassumere in breve prosa una poetica espressa in linguaggio letterario alto) è necessario e possibile ricreare, anche nella modernità, isole urbane a misura pedonale, orientate alla liberazione del tempo, riconfigurandone la stratificazione diacronica con la progettazione di nuovi spazi di relazione (archetipo della “radura” e ripristino di corretti rapporti tra cielo e terra, tra verticale e orizzontale) e collegandole con “strade vitali”; contro l’isolamento estremizzato di tecnica (funzionalismo), natura (illusione della città giardino) e storia (mimesi stilistica), occorre trovare l’equilibrio tra opposte polarità, quali artificio/natura, ordine/complessità, aperto/chiuso, moto/quiete (ecc.), riscoprendo - nella massima attenzione alla dimensione sociale (necessità che la VAS sia “Valutazione Sociale Strategica) - altri archetipi progettuali, tra urbanistica ed architettura: la soglia, la penombra, l’interferenza, la permeabilità.   


Le riflessioni e proposte di Tonon e Consonni non sono scevre dalla consapevolezza delle ragioni strutturali della crisi della città e delle dominanti socio-economiche (con frequenti riferimenti a Mc Luhan) ed anche ideologico-culturali (il “nemico … non sta solo fuori di noi …: è la diffusa perdita di senso”; mentre outlets, centri commerciali e cinema multi-sale godono di un effettivo successo di massa), che rendono difficile l’immane compito di “civilizzare” la metropoli contemporanea.

Ma gli autori sembrano concentrati soprattutto ad un approccio intellettuale, sia ‘dall’alto’ (interessanti considerazioni, e suggerimenti ai legislatori, sui limiti concettuali della attuale legislazione sul suolo, ridotto a concetto catastale-geometrico, e sulla mancanza di relazioni tra “beni paesaggistici” e “beni culturali”, e cioè di attenzioni ai luoghi, ai tessuti e per l’appunto alle stesse “relazioni” tra i diversi elementi di interesse), sia ‘dal basso’, ma limitatamente ad una battaglia per culturale per “addetti ai lavori”, progettisti e amministratori, senza una prospettiva di articolazione strategica dei modi e dei mezzi, dei soggetti e delle alleanze, per avvicinarsi alla rifondazione urbana e paesaggistica auspicata (e dichiarata, ma non dimostrata, necessaria e possibile).

Valgono quindi, a maggior ragione, le domande poste nel precedente paragrafo all’Urbanistica Riformista.

Ho scelto di commentare Tonon e Consonni (oltre che per personale simpatia ed antica vicinanza studentesca), per il peculiare fascino della loro scrittura, ma è doveroso segnalare che analoghe proposte orientate alla qualità urbana della città compatta sono avanzate in Italia, da diverse altre scuole (vedi ad esempio AAVV-Dal Pozzolo 2002, Giovannini 2009, AAVV-Colarossi e Latini2009) e che a simili attenzioni si perviene anche attraverso i ragionamenti eretici di Marco Romano Romano 2004 , nonché – a mio avviso – seguendo gli esiti meno formalistici e auto-referenziali della scuola di Aldo Rossi e della sua “Architettura della Città” Rossi 1965 (meno meccanicista nella parte propositiva della “analisi urbana” di Muratori e Caniggia, ritenuta da Consonni inadeguata a descrivere “le manifestazioni mature della metropoli contemporanea” Caniggia e Maffei 1979 ).

 Un percorso analogo di riflessione sulla città sostenibile, in quanto eco-sistema, e non semplice sommatoria di macchine per abitare energeticamente virtuose, si trova nel testo “Ecopolis” di Sergio Lironi Lironi 2011,  che parte dalla critica al funzionalismo del Movimento Moderno, cui contrappone la concezione olistica ed organica di Mumford e Geddes, ed approda ad una proposta attenta agli aspetti comunitari e partecipativi, affiancata da una recensione sugli sviluppi concreti della bio-architettura e degli eco-villaggi europei negli ultimi decenni.



AGGIORNAMENTO GENNAIO 2014
Nel numero 150-151 di "Urbanisitca", il contributo teorico di Ennio Nonni sulla “bio-urbanistica” (qualcosa di molto diverso dalla sommatoria di tante bio-architetture), cerca di abbracciare in uno stesso discorso le metropoli dei paesi ricchi (che consumano suolo per l’irrazionalità delle espansioni periferiche a volumi isolati oppure a villette, ma garantiscono servizi e spazi pubblici) e quelle dei paesi poveri (che si espandono per l’inarrestabile migrazioni nelle baraccopoli) e – valutando comunque criticamente la praticabilità dell’obiettivo del risparmio di suolo a fronte della pressione migratoria, che non è esclusa neanche per le città del mondo ricco – propone di perseguirlo, nella nostra realtà, sostituendo le periferie esistenti con organismi urbani compatti ed integrati (simili ai nostri “centri storici” ma anche all’urbanità che esprimono le stesse favelas); la proposta mi sembra convergente con quelle che ho riepilogato come “architettura della città”, e mi pare presenti – come le altre da me ivi riepilogate – un sostanziale difetto, e cioè di non spiegare come si può conseguire tale indirizzo, nelle nostre società, in termini di consenso antropologico (ancor prima che politico e di mercato).


18 - L’ESPLORAZIONE DELLA CITTA’ DIFFUSA COME PREMESSA PER NUOVE ALTERNATIVE


Interessanti mi sembrano i tentativi di esplorare e comprendere non solo in generale, ma analiticamente e nel concreto, con strumenti adeguati e senza demonizzazioni, le fattispecie della realtà metropolitana e della circostante “città diffusa”, non per elogiarla acriticamente (alla maniera di Koolhaas), ma per fondare proposte alternative specifiche, da sottoporre al confronto con i soggetti presenti in tali territori (vedi ad esempio in campo teorico i lavori del Gruppo di Lavoro INU sulla ‘città diffusa’ Piazzini 2010).


Abbastanza rappresentativo di tali attenzioni, sul versante più proclive a ‘lisciare il pelo’ allo ‘stato di cose presente’  è il testo “L’anticittà” di Stefano Boeri Boeri 2011, che, riprendendo precedenti scritti e ricerche, e con l’ambizione di proporre radicali mutamenti dei punti di vista e di interpretazione della realtà urbana, individua come “anticittà”


-          sia i fenomeni di emarginazione ed antagonismo (anche illegale) di una periferia che non è più “una cintura” bensì un “arcipelago”,


-          sia le “presenze edilizie solitarie ed ammassate senza una logica evidente” di villette, palazzine, capannoni, centri commerciali, disseminati nel territorio, in un processo di “erosione”, “frammentazione”, “dissipazione” e “diluizione delle relazioni urbane”: “un fiume che raccoglie in rivoli le energie vitali --- e le spinge verso l’individualismo e la frammentazione”.


Il testo espone una  ricognizione su vari e nuovi modi di lettura e interpretazione del mondo attuale e in particolare della città europea, su come:


-          osservare (dall’alto, da mezza altezza, dal basso, in diagonale),


-          denominare (città e periferia, confini e flussi, modi di abitare e coabitare),


-          fotografare e narrare (per indizi, per campioni, per sequenze)


mirando così a costruire e valorizzare “atlanti eclettici” :


“la moltitudine si ricompone in un numero ridotto di figure spaziali introverse e ripetute all’infinito, specializzate anche se ibride”, “razionalità settoriali che condensano la moltitudine dei sussulti individuali”; “un arcipelago di sottosistemi decisionali, protagonisti di una competizione orizzontale”.



Il testo, nel proporre i nuovi punti di vista, mostra una costante e variamente motivata insoddisfazione per il sapere consolidato (che a mio avviso nel frattempo si è evoluto e non è rimasto poi così bi-dimensionale e zenitale come Boeri racconta, dalla “forma della città” secondo Aldo Rossi alle applicazioni terragne ed oblique di Google-earth, passando anche per i migliori piani comunali e di area vasta), e talora banalizza il pensiero altrui (ad esempio attribuendo a Manuel Castells una concezione dello ‘spazio dei flussi’ come “liscio --- supporto piano e orizzontale” che non ho trovato nei suoi testi, molto attenti invece alle differenze locali e globali, ed a cui Boeri contrappone l’esistenza di corrugazioni, muri e recinti, a mio avviso già ben presenti in Castells così come in Saskia Sassens - Perulli 2009).



Verso la conclusione il testo assume ‘d’ufficio’ un punto di vista ambientale (criteri di sostenibilità pienamente condivisibili, ma non desunti dal racconto dell’Anticittà) ed avanza una serie di proposte praticabili, per valorizzare le spinte spontanee dell’Anticittà (e riconciliarle alla Città?), proposte denominate nell’insieme “urbanistica dei luoghi”, che si articolano in:


-          promuovere comunità locali di impresa,


-          sviluppare la democrazia deliberativa dal basso, in nuovi municipi entro le aree metropolitane,


-          produrre e scambiare energia attraverso una rete di edifici virtuosi,


-          limitare il consumo di suolo e valorizzare l‘agricoltura peri-urbana ed intra-urbana come produttrice di alimenti e benessere,


-          trasformare in vegetali parti minerali della città (tetti e muri verdi, boschi-in-città),


-          accettare la rinaturalizzazione selvaggia di parte dei vuoti urbani (secondo le intuizioni di Gilles Clément), 


-          densificare gli insediamenti se prossimi ai nodi del trasporto pubblico,


-          prevenire l’abbandono di parti di città con una attiva politica immobiliare e di housing sociale.

Si tratta di un paniere di proposte in gran parte presenti negli altri testi esaminati in questa rassegna, o comunque con essi compatibili: sfugge però in questa parte del testo la peculiarità dell’asse politico-culturale avanzato da Boeri in relazione alle premesse descrittive specifiche, ovvero al dualismo tra città ed anticittà ed alla pretesa insufficienza delle altre scuole di pensiero.

Nessun commento:

Posta un commento