venerdì 26 maggio 2017

UTOPIA21 - MAGGIO 2017 - L’UOMO COME TERZO SCIMPANZE’ SECONDO JARED DIAMOND


Diamond ripercorre le tappe dell’evoluzione umana evidenziandone gli aspetti contradditori e non-lineari: in particolare riguardo al successo conseguito dai gruppi umani che svilupparono l’agricoltura, prevalendo sulle tribù di cacciatori/raccoglitori, ma consolidando nuovi problemi quali le disuguaglianze sessuali/sociali, fino al dispotismo, e più pesanti incidenze delle malattie.

Riassunto – La lunga storia della specie umana nel contesto delle altri specie animali, ed in particolare in relazione agli altri “primati”, con cui condividiamo un altissima percentuale del patrimoni genetico, ma da cui ci differenziamo nettamente per il comportamento, a partire dal linguaggio e dall’assetto del ciclo vitale   assomigliando invece in parte ad altri più remoti segmenti del mondo animale per alcune altre peculiarità. Le gravi conseguenze dell’arrivo dell’uomo in porzioni del pianeta prima abitate solo da altre specie animali, in termini di massicce estinzioni di consistenti quote di tali specie; il nesso tra razzismo e genocidio. La globalizzazione pone l’insieme degli uomini di oggi di fronte al pianeta Terra in una situazione concettualmente simile a quella degli abitanti di una remota isola: ormai conosciamo i limiti delle risorse ambientali e la nostra tendenza ad esaurirle, così come la nostra capacità di distruggere l’intero genere umano.

Jared Diamond,  laureato in medicina, come il padre, e divenuto ornitologo e poi geografo, svolgendo in seguito lunghe indagini in Nuova Guinea e altre terre “selvagge” , si sente antropologo e quant’altro occorre alla sua “storia mondiale” anche attraverso l’esperienza di una madre linguista e di una moglie psicologa.
Ben connesso, ma in parte sovrapposto, con il successivo “Armi, acciaio, malattie” del 1997 (vedi mia recensione in questo stesso numero di UTOPIA21) il testo “IL TERZO SCIMPANZÉ - Ascesa e caduta del primate homo sapiens” di Jared Diamond, pubblicato in Italia da Bollati Boringhieri nel 1994 e nel 2006, è stato recentemente editato anche in formato digitale, scelta che indica una fiducia dell’editore nella validità dei contenuti e la sua presentazione quasi come un classico: malgrado risultino superati dalle successive ricerche buona parte degli specifici approfondimenti (e i connessi ampli rimandi bibliografici) nelle singole discipline – biologia, etologia, antropologia, archeologia, paleontologia/paletnologia, genetica, linguistica, ecc. - su cui si appoggiano gli intenti divulgativi ed i ragionamenti di sintesi dell’Autore, ben esposti dal medesimo sia nell’introduzione che nella conclusione del testo.
Ed è perché anche a me appaiono seri e convincenti tali ragionamenti, nonché per la piacevolezza della lettura, che ritengo opportuno dedicare spazio nel recensire e segnalare “Il terzo scimpanzè”, che costituisce un ampio racconto attraverso la lunga storia della specie umana nel contesto delle altri specie animali, ed in particolare in relazione agli altri “primati”, con cui condividiamo un altissima percentuale del patrimoni genetico (fino al 98%), ma da cui ci differenziamo nettamente per il comportamento, a partire dal linguaggio e dall’assetto del ciclo vitale (cura dell’infanzia, struttura familiare, menopausa, longevità)  assomigliando invece in parte ad altri più remoti segmenti del mondo animale per alcune peculiarità, non tutte positive, come l’esercizio dell’agricoltura e dell’allevamento (presenti anche in certe specie di formiche), della tecnologia e dell’arte (vedi gli uccelli giardinieri), il consumo di droghe, ed anche la pratica del genocidio (presente tra altri animali ed anche, in piccola scala, tra i nostri cugini scimpanzé).
Con grande attenzione alle basi materiali (e sessuali) ed alle accumulazioni culturali e tecnologiche (e con una divertente digressione sulle ipotesi di incontrare o meno altre civiltà nell’universo, ragionando però sulla nicchia ecologica del picchio e sull’invenzione della radio)  Diamond ripercorre le tappe dell’evoluzione umana, soprattutto negli ultimi 40.000 anni, evidenziandone gli aspetti contradditori e non-lineari: in particolare riguardo al successo conseguito dai gruppi umani che svilupparono l’agricoltura, circa 10.000 anni addietro, prevalendo infine sulle tribù di cacciatori/raccoglitori, ma consolidando nuovi problemi quali le disuguaglianze sessuali/sociali, fino al dispotismo, e più pesanti incidenze delle malattie.
Tuttavia Diamond si oppone ad ogni visione idilliaca di remote “età dell’oro”: pur constatando la presenza, tra le popolazioni di cacciatori/raccoglitori – sia nei tempi antichi che tra le ultime tribù “selvagge” – di alcune tendenze “conservazioniste” nei confronti delle risorse ambientali, Diamond (anche per conoscenza diretta nelle zone interne della Nuova Guinea) segnala la prevalente spinta, anche tra questi gruppi umani, alla distruzione delle altre specie ed alla contrapposizione violenta tra gli abitanti di villaggi diversi.
In particolare l’Autore – pur scontrandosi talora con alcuni indizi contrastanti, esaltati da altri studiosi –evidenzia le gravi conseguenze dell’arrivo dell’uomo (e dei suoi simbionti, come gli specifici micro-organismi, e poi i ratti e altri animali rapaci) in porzioni del pianeta prima abitate solo da altre specie animali, in termini di massicce estinzioni di consistenti quote di tali specie, sia per sterminio diretto (non solo per scopi alimentari), sia per sottrazione ed alterazione degli habitat preesistenti: nelle Americhe, in Madagascar, in Australia e Nuova Zelanda, in molte isole del Pacifico (simile è la vicenda del predominio delle potenze coloniali europee negli ultimi 5 secoli a danno della restante umanità, cui l’Autore qui accenna, sviluppandola poi in “Acciaio-Armi-Malattie”; in questo testo Diamond approfondisce con molto vigore e rigore il nesso tra razzismo e genocidio, e le sue applicazioni in particolare nella genesi degli Stati Uniti d’America – con fulminante florilegio di pensieri di vari Presidenti statunitensi - e nello sterminio dei primitivi abitanti della Tasmania). 
Emblematico il caso dell’Isola di Pasqua, dove le grandi statue megalitiche, in parte incompiute ed in parte abbattute, testimoniano, insieme ad altri ritrovamenti stratigrafici, l’ascesa ed il declino nel giro di un millennio (tramite guerre e cannibalismo) di una civiltà che ha spinto lo sfruttamento delle risorse naturali, in particolare con l’abbattimento degli alberi di alto fusto, oltre la capacità di rigenerazione dello stesso equilibrio ambientale.
Analoghi i casi – non su isole ma su vaste oasi circondate da deserti - della deforestazione del contesto di Petra, nell’attuale Giordania, sviluppatasi dall’età del ferro fino all’impero bizantino (e rappresentativa di un declino geo-ambientale comune ad altre parti del Levante e del Medio Oriente), e dei “pueblos” degli Anasazi (antichi Navajo) nel New Mexico, che costruirono e poi abbandonarono costruzioni in pietra e legno alte fino a 5 piani e lunghe fino a duecento metri.
Illuminante – riguardo all’esaurimento delle risorse – la citazione di una lettera scritta nel 1855 dal capo indiano Seattle, della tribù Duwanish, al presidente USA Franklin Pierce: “Ogni parte della terra è sacra per il mio popolo. Ogni ago di pino scintillante, ogni nebbia nelle foreste buie, ogni radura e ogni insetto sono sacri nella memoria e nell’esperienza del mio popolo --- L’uomo bianco --- è uno straniero che viene nella notte e prende dalla terra tutto ciò di cui ha bisogno. La terra non è sua sorella ma la sua nemica --- Continuate a lordare il vostro letto, e una notte soffocherete soffocati dai vostri escrementi.”
L’attuale globalizzazione pone l’insieme degli uomini di oggi di fronte al pianeta Terra in una situazione concettualmente simile a quella degli abitanti di una remota isola: ormai conosciamo i limiti delle risorse ambientali e la nostra tendenza ad esaurirle, così come la nostra capacità di distruggere l’intero genere umano (se non addirittura ogni forma di vita) mediante le armi di sterminio di massa accumulati negli arsenali chimici, batteriologici e nucleari.
Di fronte a tale constatazione Diamond oscilla tra il pessimismo della ragione (non abbiamo imparato niente dalla precedente storia) e l’ottimismo della ragione stessa (abbiamo più strumenti conoscitivi che mai per imparare dalla precedente storia), e per questo dedica le sue riflessioni ai suoi figli ed alla loro generazione “per aiutarli a capire da dove siamo venuti e dove forse stiamo andando”.

Fonti:
1 - Jared Diamond “IL TERZO SCIMPANZÉ - Ascesa e caduta del primate homo sapiens” Bollati Boringhieri, Torino 1994 e 2006
2 - Jared Diamond “ARMI, ACCIAIO E MALATTIE - Breve storia degli ultimi tredicimila anni” – Einaudi, Torino 1997






 






UTOPIA 21 - MAGGIO 2017 - CONVERSAZIONE/INTERVISTA CON ARTURO LANZANI

Il convegno “Suolo bene comune”

Di suolo hanno trattato gli ultimi numeri di UTOPIA21, con gli articoli di Aldo Vecchi sulla limitazione al consumo di suolo nei numeri di ottobre e novembre, e quelli di Fulvio Fagiani nel numero di marzo. Il consumo di suolo è stato l’oggetto del convegno “Suolo bene comune” tenuto a Varese lo scorso 21 aprile, con il patrocinio del Comune e della Provincia di Varese.
Il convegno faceva parte dell’iniziativa “tre giorni del suolo”, a sostegno della campagna di raccolta firme “salva il suolo” per l’emissione di una direttiva europea a salvaguardia di questa risorsa.
Le presentazioni sono nella sezione “eventi” del sito di UTOPIA21 www.universauser.it/utopia21.html.
Il convegno, organizzato da UTOPIA21 e Legambiente, si è aperto con la relazione di Di Simine che ha sottolineato l’importanza e la limitatezza di questa sottile pellicola da cui dipende la nostra vita e di come in Europa sia minacciata in primo luogo dall’urbanizzazione, in assenza di tutele legislative organiche.
Salata e Gallego si sono concentrati su come si può misurare l’uso ed il consumo di suolo fornendo una ricca indicazioni di fonti nazionali ed europee.
Alberto Minazzi ha riportato l’attenzione sulla situazione della Provincia di Varese con un’ampia carrellata su casi, purtroppo, esemplari.
Infine Claudio Colombo si è soffermato sulla legislazione regionale, segnalandone difetti ed insufficienze.
Prima aveva parlato Arturo Lanzani, che riprende il filo del suo ragionamento in questa intervista ad Aldo Vecchi.

Conversazione-intervista con Arturo Lanzani
di Aldo Vecchi.

““Città territorio urbanistica tra crisi e contrazione”, è il testo scritto da Arturo Lanzani da cui muove la presente intervista, ai margini del convegno varesino “Suolo bene comune”, del 21 aprile 2017. La conversazione tende ad approfondire le specificità della situazione europea e di quelle italiane, nel contesto della crisi economica in atto, focalizzando flussi e rigidità nelle dinamiche tra i modi d’uso del suolo ed esemplificando i possibili strumenti di intervento nella legislazione e nella prassi urbanistica.

Riassunto – L’esaurimento del ciclo di espansione del dopoguerra, in Europa. Patrimoni territoriali inutilizzati e degradati e nuovi consumi di suolo: paesaggi italiani. Sviluppo, crescita e decrescita. La chiusura dei cicli ecologici, anche in edilizia.  L’orizzonte del saldo-zero nel consumo di suolo, tra recuperi, completamenti e ri-naturalizzzioni. Riforme possibili ed improbabili a livello nazionale ed europeo. I margini per incisive azioni locali e l’esperienza diretta dell’Autore nelle aree a nord di Milano.
Arturo Lanzani, urbanista e geografo, è professore ordinario al Politecnico di Milano.
Il suo testo “Città territorio urbanistica tra crisi e contrazione” (Franco Angeli editore - Milano, 2015) muove dalla considerazione che “l’urbanistica non potrà essere più quella di un tempo. L’esperienza della crescita ininterrotta dell’urbanizzato su cui questo sapere si è costruito, almeno in Europa va arrestandosi e si moltiplicano nel nostro continente le situazioni di contrazione, di dismissione  e abbandono, seppur in forme e con intensità diverse in relazione alla concomitante crisi economica” e – analizzata la specifica situazione dei paesaggi italiani - “propone degli spunti per perseguire una strada differente: avanza una differente agenda per la politica nazionale della città e del territorio, segnala qualche prima questione che emerge nel fare urbanistica a scala locale dopo l’esperienza della crescita, evidenzia l’inadeguatezza di alcuni quadri legislativi recentemente proposti”. Nel seguito D) segnala una mia domanda o commento, R) la risposta o osservazione di Lanzani.

D) Con riferimento al Suo testo “Città territorio urbanistica tra crisi e contrazione”, quanto la tematica del risparmio del consumo di suolo va connessa alle considerazioni relative agli equilibri ecologici del pianeta Terra (Antropocene) e quanto a constatazioni specifiche sul complessivo esaurimento, in Europa, di un lungo ciclo di espansione demografica ed economica?

R) Credo si debbano distinguere due situazioni idealtipiche differenti:
-          in una parte del mondo la questione è proporre modelli di urbanizzazione, che - pur comportando consumo di suolo - abbiano un profilo ecologicamente sostenibile (dal punto di vista del consumi energetici, dell’uso dell’acqua, della riduzione delle forme di mobilità più impattanti, ecc…).
-          all’altro estremo (grosso modo in Europa in Giappone e in alcune porzione del NordAmerica), il tema è bloccare il consumo di suolo e mettere in gioco i territori già urbanizzati o in alcuni casi operazioni concomitanti di rinaturalizzazione e di nuove urbanizzazioni (con impatto finale zero), per domande insediative comunque in mutamento.
Ciò non toglie che anche nei paesi emergenti vadano evitate operazioni di urbanizzazione puramente immobiliari (che generano città e intere urbanizzazioni che rimangono inutilizzate), come in taluni casi è assai evidente in Cina; e che le condizioni di nuova urbanizzazione, fuori dai paesi dove si è arrestato un lungo ciclo di crescita demografica, possano avere tratti assai differenti in ragione delle condizioni in cui si realizzano: si va delle new towns cinesi, ai processi di riforma delle urbanizzazioni informali del SudAmerica, ben documentate nell’ultima biennale, a forme di urbanizzazione precarie legate alla presenza di rifugiati da condizioni di guerra e di crisi ambientale in Africa.
In queste situazioni così diverse la ricerca di una chiusura dei cicli e di equilibrio ecologico non potrà che avvenire in forma plurale.

D) Nelle Sue analisi mostra l’affiancarsi di crescenti fattori (e settori e luoghi) di degrado e abbandono a ulteriori fenomeni o tentativi di espansione degli insediamenti (spesso non motivati da effettive esigenze economiche e sociali): si concretizza in queste contraddizioni un carattere strutturale e non “congiunturale” della crisi?

R) Concentrandomi sul primo mondo e sull’Europa, e sull’Italia in particolare. cerco di mettere in evidenza la necessità di chiudere i cicli in urbanistica, come sono parzialmente chiusi in altri processi economici. Noi non possiamo comprare un auto e lasciare al lato della strada la vecchia auto, disinteressandocene: possiamo farlo invece per un edificio residenziale o produttivo.
In passato cicli di urbanizzazione in contesti nuovi, ad esempio di fondovalle o di costa, si sono sviluppati in parallelo all’abbandono di borghi interni di collina. Molte di queste dinamiche (in parte inevitabili per rispondere alle domande di nuove forme dell’economia) hanno comportato la perdita di un patrimonio insediativo di grande valore culturale e storico e non sono avvenute conferendo nuove forme qualificate al territorio (urbane, paesistiche ed ecologiche). In questo ciclo insediativo non abbiamo saputo fare una nuova urbanizzazione di qualità, né rimettere in circolo i vecchi insediamenti entro i nuovi paradigmi produttivi e sociali. In Francia o in Germania ci sono parzialmente riusciti, a differenza che da noi.
Oggi mi sembra che siamo entrati in una stagione diversa:
-          da un lato gli elevati livelli di urbanizzazione e la precarietà delle condizioni ambientali, il livello di degrado idrogeologico, imporrebbero qualche tentativo di chiusura dei cicli. Se un nuovo insediamento della logistica chiede di consumare del suolo per un nuovo impianto e questo non può avvenire entro un’area industriale dismessa (poiché non presenta le condizioni tecniche ed urbanistiche favorevoli alla nuova attività), il nuovo intervento deve però farsi carico della rinaturalizzazione di una superficie già urbanizzata, non reinseribile nei cicli d’uso contemporanei, ma che, nel suo persistere come insieme di suoli impermeabili e di relitti carichi di sostanze inquinanti, non deve essere lasciato a degradarsi come un vecchio edificio rurale di montagna.
-          dall’altro lato in molte parti d’Italia e in non pochi paesi d’Europa, dismissione/abbandono e nuova urbanizzazione avvengono una a fianco dell’altra e solo la mancanza di giuste regole e di meccanismi di riequilibrio delle convenienze economiche  fa sì che rifiuti edilizi convivano a fianco di nuova edilizia. Questo non deve più avvenire perché è fonte di degrado non solo ambientale, ma anche urbano e di costi di gestione del territorio urbanizzato insostenibili. Il ripetersi di simili condizioni in quasi tutti i Comuni del nostro paese indica a mio parere una crisi strutturale della nostra economia e società.

D) Le Sue proposte di ricerca e valorizzazione di svariate risorse accumulate nei diversi “patrimoni territoriali” compongono un possibile scenario di uno “sviluppo” diverso (da adeguare a quella realtà di crisi e contrazione sopra richiamata): è qualcosa di diverso dalla parola d’ordine della “decrescita felice” di Latouche (e Pallante)?

R) A volte il tema della decrescita è caricato di immagini e retoriche che non mi appartengono. C’è però qualche sintonia. Credo che in modi diversi si stia pensando ad una economia e ad una urbanizzazione che vivano come un lago. C’è del movimento: entrano ed escano acque, ma il livello del bacino salvo piccole oscillazioni è in equilibrio. E’ una immagine di Ruffolo che mi piace, che può valere sia per l’economia che per l’urbanizzazione. Io aggiungo una considerazione altra al ragionamento di Ruffolo. Parte del patrimonio inutilizzato o sottoutilizzato del nostro paese può essere la “presa” per la sperimentazione di nuove forme di vita e di economia: offre dei potenziali, delle “prese”, è un mondo di cose - per dirla alla Bodei - che se non le guardiamo come oggetti in una prospettiva puramente utilitaristica, offre delle “riserve di senso”, dei “potenziali” per sperimentare nuove vie. Io credo, alla Mason, che il prossimo secolo sarà un secolo di sperimentazioni di un qualcosa di nuovo che non sappiamo cosa possa essere, ma sappiamo che dovrà prendere le distanze perlomeno dal modello economico sociale neoliberista dell’ultimo trentennio (e che non potrà nemmeno ripetere il modello keynesiano-welfarista del trentennio precedente) e che forse metterà in discussione alcuni aspetti dello stesso sistema capitalista degli ultimi secoli.

D) Nel multiforme inventario degli “attrezzi” da Lei sollecitati per una nuova e adeguata progettazione e gestione urbanistica è corretto individuare il risparmio del consumo di suolo come il probabile e auspicabile esito, il saldo tra complesse partite di “fare e disfare” (e cioè non come un orizzonte morale aprioristico)?

R) Direi proprio di sì.

D) Gli approfondimenti del Suo testo “Città territorio urbanistica tra crisi e contrazione” sono verificati nella sua concreta esperienza di urbanista (ed anche assessore) radicato nelle aree iper-urbanizzate a nord di Milano (Seregno, Desio, Monza), ma le parti più generali del testo sono riferite anche agli altri paesaggi italiani da lei tipizzati. Anche per queste diverse situazioni può valere l’auspicio di un buon saldo nei conflitti sul consumo di suolo?

R) Si, spesso a maggior ragione.

D) Il disegno di legge governativo sul consumo di suolo (ora arenato al Senato), ha subito molte critiche da parte degli urbanisti. Il movimento “Salviamo il paesaggio” giudica il testo sostanzialmente inemendabile e intende avanzare un autonomo testo di legge. Secondo Lei il ddl “Catania” è un bicchiere mezzo pieno, mezzo vuoto o è comunque meglio non berlo?

R) Mezzo vuoto. Con quel decreto non andiamo da nessuna parte. Tutto il sistema delle quote non produrrebbe un gran che, anzi probabilmente avrebbe effetti non voluti di tipo degenerativo. Io credo che le vie da perseguire siano altre, quelle che ho suggerito nel libro: nel breve periodo,  con una legge nazionale, l’immediato ribaltamento delle convenienze economiche nell’intervento su greenfield e brownfield, a prescindere da ciò che dicono e fanno i piani urbanistici comunali; nel medio periodo la riduzione dell’urbanistica comunale alla gestione del territorio già urbanizzato (e non più a quello urbanizzabile) ossia ai temi del riuso/riciclo e rigenerazione urbana, mentre eventuali  nuove urbanizzazioni con consumo di suolo dovranno essere possibili solo se decise a scala sovracomunale e finalizzate esclusivamente a spazi della produzione (con specifiche esigenze) e comunque con saldo zero (ossia impegni di rinaturalizzazione di aree non più riurbanizzate individuate nell’area vasta). Ed è una prospettiva parzialmente diversa da quella del movimento “salviamo il paesaggio”.

D) L’Europa ha enunciato negli anni scorsi importanti obiettivi sul risparmio di suolo, non tradotti però in direttive cogenti (come vorrebbe spingerla a fare la petizione “people-4-soil”); che evoluzione si può ipotizzare, tenendo conto che il quadro descrittivo della crisi è tendenzialmente omogeneo a scala continentale?

R) Non lo so, onestamente non credo sia possibile rispondere ad una simile domanda. Diciamo che non sono ottimista.

D) E nel resto del mondo, invece, dove urgono ancora fabbisogni di crescita demografica e di servizi urbani (che oggi confluiscono caoticamente in molte aree metropolitane con ampi margini a forte degrado, slums e discariche, spesso accoppiati), potrebbero tuttavia comporsi in un quadro risparmioso di suolo? Con quali accettabili densità edilizie?

R) Non credo che si debba approdare necessariamente ad alte densità. Una urbanizzazione a media e bassa densità ad alcune condizioni può essere ecologicamente virtuosa come quella ad alta (nella produzione di energia solare ed eolica dispersa, nel compostaggio dei rifiuti organici, nella più facile raccolta differenziata, ecc) a condizione che abbia una forma diramata (lungo alcune direttrici lineari) e quindi una qualche ossatura di trasporto collettivo e lento. Come ho già detto i modelli di nuova urbanizzazione ecologica possono e debbono essere plurali in relazioni di contesto assai diverse.

D) Tornando all’Italia, il quadro dei soggetti attivi sul fronte urbanistico da Lei descritto è alquanto impietoso: Con quali forze si può fondare, a livello locale, un programma ambizioso come quello da Lei delineato?

R) Non lo so. Non vedo forze politiche veramente attente a questi temi, anche se certamente  Sinistra-Ecologia -Libertà  e Movimento-Cinque-Stelle hanno manifestato una maggiore attenzione di altri in parlamento e nelle assemblee regionali. Il PD a livello nazionale ha sempre più ridotto la sensibilità verso questi temi, con una realtà comunale a macchie di leopardo: amministrazioni che sono tra le più virtuose e al tempo stesso amministrazioni tra le peggiori. Con pesi un poco meno positivi la cosa vale anche per le amministrazioni della LegaNord. Il resto del centro-destra invece ha sempre avuto un atteggiamento rapace verso il territorio e i beni pubblici e un atteggiamento anti-ecologista in Italia (cosa non scontata in Europa, dove la destra storica non infervorata dal peggiore e più furioso neoliberismo, ha saputo in passato promuovere politiche urbanistiche paesaggistiche ed ecologiche di un certo interesse in non pochi paesi).

D) Ed a livello nazionale (dove Lei ritiene altresì necessario riformare gli enti locali, con 1000 maxi-Comuni al posto degli attuali 8.000)?

R) La riforma degli enti locali è stata deludente. Mi sembra che l’esperienza volontaristica dell’unione o fusione di Comuni  non sia all’altezza dei problemi. A livello centrale o si interviene con il machete e in forme banali (come con le Provincie), o non ci si assume responsabilità di qualche disegno più ambizioso.

D) Su “Urbanistica” n° 154 i Suoi recenti piani di Desio e  Monza, con altri, sono indicati come l’emergere di un “nuovo paradigma”, fondato più sul governo del riuso, anche temporaneo, degli immobili, che non sulla distribuzione perequata dei diritti edificatori in funzione di grandi progetti di trasformazione urbana. Condivide questo giudizio?

R) Credo siano stati benevolenti i redattori. Non ci sono le condizioni per parlare di un nuovo paradigma. Semmai di qualche esperienza tentativa e solo parzialmente positiva: tra queste anche qualche mio lavoro.

D) La Sua breve ricostruzione storica sulle trasformazioni territoriali e legislative in Italia dal dopoguerra è particolarmente impietosa riguardo agli ultimi 30 anni; ma non sono stati anche gli anni di alcune innovative azioni regionali in materia di leggi sul suolo e di piani paesistici, del rilevante ingresso delle tematiche ambientali nei Piani e – almeno nel nostro contesto inter-lacuale – di positivi investimenti per lunghi-laghi, piste ciclabili, zone pedonali…?


R) Si, sono anni contradditori. Il quadro generale mi sembra negativo, ma ci sono state numerose innovazioni positive. Non credo tuttavia bastino buone pratiche locali.   In questo mi differenzio da molti colleghi e movimenti. Credo che senza alcune misure strutturali nazionali ed europee non si vada molto avanti

UTOPIA 21 - MAGGIO 2017 - IL DIBATTITO SULLA CRESCITA E SULLA SOSTENIBILITA’ DEI FENOMENI URBANI E METROPOLITANI (PARTE 1^).


Preliminare al dibattito su quanto le città siano oggi sostenibili, e su quanto lo saranno in futuro, è chiarire cosa sono divenute “città” e “campagna”, in scenari di crescenti “metropolizzazioni”, ma molto differenziati nei diversi continenti.
Quel che conta alla fine è il saldo della impronta ecologica di ogni porzione di territorio rispetto al resto del pianeta.
Questo articolo propone una rassegna critica delle principali teorie in materia di sostenibilità urbana, iniziando in questo numero dalle discipline più generaliste e passando poi nelle successive due puntate agli approcci più strettamente disciplinari proposti da urbanisti e dintorni.
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Riassunto:
la premessa: citta’ e campagne, oggi
la decrescita felice
l’approccio illuminista del Wuppertal Institut
il movimentismo di Guido Viale
l’ottimismo tecnologico: Legambiente e Green Life; il Manifesto della Fondazione per lo Sviluppo Sostenibile
l’ottimismo tecnologico: Jeremy Rifkin e la terza rivoluzione industriale 
l’ottimismo tecnologico: Smart Cities ovvero i rischi di un eccesso di intelligenza
il pessimismo antropologico di La Cecla, contro l’urbanistica e contro l’urbanesimo

 
PREMESSA: CITTA’ E CAMPAGNE, OGGI

Nel dibattito sulla sostenibilità ambientale dei futuri sviluppi dei sistemi urbani si manifesta una immediata contrapposizione tra chi demonizza la città come fenomeno essenzialmente anti-ecologico (per l’insieme degli impatti ambientali, per gli stili di vita e di consumi) 1 e chi invece vede proprio nelle città i luoghi privilegiati dell’innovazione, sia tecnologica che sociale, anche nella direzione di una maggior efficienza energetica e produttiva, abitativa e trasportistica 2
La crescita delle città appare ineluttabile, e negli ultimi decenni si susseguono le ricerche statistiche – per il passato ed il presente - e le proiezioni e previsioni – per il futuro -, su quanta parte dell’umanità si concentri nelle aree urbane (parrebbe dal 50% di oggi al 75% nel 2050) e sulla dimensione demografica delle diverse metropoli; mobilitando scienziati di diverse discipline, non sempre convergenti né per metodi né per contenuti: geografi e demografi, urbanisti e antropologi, economisti e paesaggisti, sociologi ed ecologi.
Nella crescita urbana si sovrappongono diversi fenomeni: il classico inurbamento di popolazione che immigra da territori circostanti oppure remoti; la conurbazione tra porzioni edificate di compagini urbane contigue; la “metropolizzazione”, intesa come interrelazione profonda tra poli urbani fortemente attrattivi ed aree abitate, anche non contigue, ma coinvolte da un processo osmotico di flussi di persone/cose/informazioni: interrelazione che diffonde nei fatti un complessivo stile di vita urbano in territori differenziati, per caratteristiche e densità, ma gravitanti attorno ad uno o più nuclei,  riconoscibili come centrali.
Ci troviamo quindi di fronte a nuove e più complesse nozioni di città: metropoli, megalopoli, post-metropoli… 3-4-5-6-7-8-9-10-11-12
E tali definizioni vanno diversamente declinate a seconda che si parli del mondo occidentale (comunque con forti differenze ancora tra Europa ed America), di altri paesi a forte sviluppo economico consolidato (Australia, Giappone, Corea, Taiwan, Singapore, Emirati Arabi, ecc.), della specifica dinamica della Cina, oppure delle restanti parti del mondo dove, a diverse dinamiche socio-economiche, corrisponde comunque un diffuso inurbamento assai disordinato (forse meno in Russia, Iran, Turchia) e caratterizzato da vaste sacche di slums (spesso associate a discariche di rifiuti), dal sub-continente Indo-Pakistano e contiguo sud-est Asiatico, a gran parte dell’America Latina, per finire al Medio-Oriente e  all’Africa, regioni in cui spesso la spinta all’inurbamento è moltiplicata dagli effetti di endemiche condizioni di guerra. 13

La comprensione dei fenomeni urbani si integra con la analisi dei territori circostanti, dove ad un certo punto la città finisce, ma non è più così chiaro ed univoco se inizia la “campagna” e di quale campagna si tratti.
Permane nella nostra visione mentale di occidentali contemporanei la concezione di un rapporto complementare tra città e campagna, dove la prima consuma, trasforma e dirige la produzione di materie prime, alimentari e non alimentari, di cui la campagna dominata cede il surplus (rispetto ai suoi fabbisogni elementari e/o compressi), ricevendone in cambio servizi e protezione: una narrazione valida forse per il Medio Evo, ma largamente sconvolta sia dal lungo processo della rivoluzione industriale sia dall’intensificazione degli scambi commerciali (già fiorenti per altro nel mondo antico, anzi dalla preistoria, e non eclissati più di tanto nello stesso medio-evo), che negli ultimi decenni hanno raggiunto lo stadio della cosiddetta “globalizzazione”.
Cosicché la pera cilena è ugualmente consumata in diverse città del mondo, ma anche nelle campagne attigue, i cui prodotti sono a loro volta distribuiti a distanze variabili a seconda delle convenienze di imprese e mercati ed in relazione all’efficienza del sistema dei trasporti, innervato sì attorno alla rete dei nodi urbani, ma senza una chiara ed univoca gerarchia radiale tra la singola città ed il “suo contado”: non tutto il riso prodotto nelle risaie vercellesi deve transitare necessariamente dai magazzini di Vercelli.
Solo in parte, pertanto, è possibile ricostruire un modello di scambi ecologici “classici” tra una città che inquina ed un territorio esterno che subisce la domanda di acqua, cibo e altri materiali, energia, aria pulita, e smaltisce rifiuti solidi, liquidi e gassosi (in particolare è divenuto opportuno per alcune grandi città italiane esportare a grande distanza i rifiuti solidi eccedenti…); occorre invece considerare come tali “territori esterni” a loro volta possono inquinare, per il carattere intensivo delle produzioni agro-alimentari ed industriali insediate, per il carico insediativo disperso e le connesse reti di trasporto, per la minor efficienza energetica di strutture edilizie ed impianti idraulici e termici (si pensi ad esempio alle emissioni in atmosfera da stufe e camini alimentati a legna, oppure all’immissione nel suolo i liquami poco depurati): cioè sia per alcune componenti “cittadine”  diffuse in campagna, sia per alcune specifiche arretratezze “campagnole”.
Nella grande varietà degli assetti territoriali, possiamo trovare campagne vampirizzate o sminuzzate dal rapporto soffocante con l’invadenza metropolitana e/o turistica, campagne coltivate e/o industrializzate ma asservite a processi produttivi remoti, campagne marginalizzate dal disinteresse attuale dei mercati per le loro capacità produttive, insediative e logistiche. 

La questione della “sostenibilità urbana” è quindi a mio avviso strettamente intrecciata a quella più complessiva della “sostenibilità territoriale”, e cioè, alla fin fine, al saldo dei flussi ecologici tra ogni porzione di territorio, ragionevolmente individuabile ai fini conoscitivi e di governo (e comprendente, per lo più, sia il dentro che il fuori delle “città”), ed il resto del pianeta; ovvero alla cosiddetta “impronta ecologica”: quanto suolo e quante risorse, anche remoti, sono variamente asserviti alla sopravvivenza dell’insediamento umano in esame, per tutti i suoi bisogni (e sfizi),  materiali ed immateriali. 14
Ciò dipende sia dagli assetti geo-politico-economici complessivi (e conflittuali) del consorzio umano a scala planetaria (ovvero: quanto finanz-capitalismo e quanta globalizzazione; quanto “sviluppo” tra paesi emergenti, emersi e sommersi; quanto degrado energetico ed ecologico; quante migrazioni e quanto “welfare”; quante guerre ed armamenti, convenzionali e non; ecc.) sia dalla evoluzione specifica, nelle varie parti del mondo, di singole filiere “produttive”: informazione e comunicazioni, automazione, energia, alimentazione, mobilità, edilizia, salute, ecc.; nonché dei settori più ampi e “trasversali”, quali la logistica, l’istruzione  e la ricerca scientifica e tecnologica. 15-16-17
 
Tuttavia in questa prospettiva universale e onnicomprensiva, in cui francamente è difficile dire “da dove iniziare” a capire e ad agire (ma questo sito sta tra coloro che si sforzano per orientarsi almeno un po’), esiste anche, con qualche legittimità culturale, uno spazio specifico di dibattito sulle questioni urbane ed urbanistiche, in chiave di sostenibilità.
Con la riserva di tenere presente comunque quanto finora esposto in termini di correlazione tra città e territorio e tra politiche insediative e contesto socio-economico complessivo, nel seguito di questo contributo mi propongo di passare in rassegna criticamente (in corsivo le mie critiche) quelle che mi sembrano le principali teorie in argomento: in questa prima parte con attenzione ai risvolti territoriali di proposte politico economiche più generali, e sui due prossimi numeri con attenzione alle posizioni più aderenti ai confini disciplinari dell’urbanistica (anche se si tratta di una distinzione più pratica che teorica).


LA DECRESCITA FELICE

Una lezione tenuta a Parma da Serge Latouche nel febbraio 2011 nell’ambito di un convegno sulle “Politiche di sviluppo sostenibile per le piccole comunità urbane sfavorite” 18, che quindi sollecitava a pronunciarsi anche sugli aspetti territoriali della questione, conferma le sue teorie, riassunte nell’occasione da Paolo Ventura come “orizzonte di obiettivi di lungo periodo da conseguire progressivamente al fine di ritrovare una ’impronta ecologica’ sostenibile”, con la seguente articolazione:
-          “uno sviluppo urbano tale da ridurre i trasporti (privati) e rilocalizzare le attività;
-          il rilancio dell’agricoltura contadina;
-          la trasformazione degli incrementi di produttività in riduzione dei tempi di lavoro ed in crescita dell’occupazione;
-          il rilancio della produzione di ‘beni relazionali’;
-          la riduzione degli sprechi di energia;
-          la riduzione del ruolo della pubblicità;
-          il ri-orientamento  della ricerca tecnica e scientifica;
-          la protezione dallo scambio ineguale delle attività economiche minori tramite ‘monete locali’ e ‘monete complementari’.”
In questo elenco – tranne forse sull’ultimo punto, più originale e più nebuloso - credo possano riconoscersi in larga misura anche tutti i sostenitori delle più tradizionali concezioni dello sviluppo sostenibile (es. carta di Aalborg del 1994, e Aalborg commitments del 2004): si sbagliano forse, perché questo insieme di misure comporta necessariamente la ‘decrescita’?
Dove sta la specificità della proposta della decrescita felice, recentemente ribattezzata “dell’abbondanza frugale” (andando oltre la formulazione piuttosto autarchico-solipsista e passatista esposta da Maurizio Pallante 1)?
Latouche articola la “strategia” essenzialmente in due ambiti:
-          quello africano, o terzo-mondista, dove in sostanza non si ha nulla da perdere e tutto da guadagnare in una rapida “fuori-uscita dallo sviluppo”, anche approfittando dell’attuale crisi come favorevole occasione
-          quello euro-occidentale in cui più è difficile la disintossicazione dai falsi bisogni e dove quindi si ipotizza un lungo percorso verso la de-mercificazione, da un lato tramite la battaglia culturale per cambiare l’immaginario collettivo, e da un altro lato tramite la sperimentazione di  “alleanze” con “le imprese miste”, gli alter-mondisti e i sostenitori dell’economia solidale.
La proposta, comunque poco articolata riguardo alla operatività concreta per le città occidentali, risulta più chiara nella sua parte analitica e critica sugli eccessi del consumismo e sui paradossi della “crescita” del PIL e francamente ancora piuttosto oscura nei suoi sviluppi propositivi, perché non spiega quali soggetti, muovendosi dalle proprie idee oppure anche dai propri interessi, possano riuscire a conseguire un progressivo consenso maggioritario, nelle aree attualmente sviluppate, in favore della “decrescita felice”, né tanto meno quali siano le possibili tappe intermedie, ragionevolmente equilibrate, di tale processo.
E neppure ipotizza esplicitamente che la sottrazione delle aree terzo-mondiali più sfruttate dal circuito dello sviluppo possa accentuarne la crisi producendo squilibri forse drammatici, ma potenzialmente a lieto fine.
In assenza di una esplicita teorizzazione di possibili fasi di rotture catastrofiche dell’attuale sistema sviluppista, da gestire con segno alternativo, oppure direttamente rivoluzionarie, ne risulta una sorta di “riformismo estremista”, ma con un orizzonte senza tempo, e soprattutto senza specificazioni riguardo alle modalità felici di accettazione della decrescita da parte dei popoli più “sviluppati”, se non attraverso l’auspicio di uno spontaneo mutamento dei paradigmi culturali dalla competizione alla collaborazione.
Anche nei successivi saggi 19, Latouche cerca – con risultati a mio avviso poco risolutivi - di dimostrare la compatibilità della decrescita sia con il capitalismo che con la democrazia, e l’inutilità di una ricerca dei “soggetti sociali protagonisti”, affidandosi invece alla sola crescita culturale degli “individui”.


L’ILLUMINISMO DEL WUPPERTAL INSTITUT

Orientamenti comparabili figurano nei saggi del Wuppertal Institut a cura di Wolfgang Sachs e collaboratori 20-21, commissionati nel 2005 e nel 2010 in Germania da organismi ambientalisti e religiosi, e promossi in Italia da “Terra Futura”, cui aderiscono tra gli altri ACLI, CISL, Caritas e ARCI.
Sachs&C. non si occupano dettagliatamente delle città (indicate come meta obbligata dei contadini espulsi dalle campagne a causa dell’agricoltura monoculturale orientata alle esportazioni e/o dall’impoverimento delle risorse naturali determinato da dighe e attività estrattive ed industriali inquinanti), pur individuando significative articolazione locali delle strategie proposte:
-  politiche urbane ecologiche in materia di energia, trasporti, approvvigionamenti di materie e gestione  dei rifiuti,
- enti locali come possibile soggetto di nuovi equilibri ecologici,
- “regionalizzazione” degli scambi economici come necessario temperamento agli eccessi della globalizzazione (anche con la sperimentazione di ‘monete locali’ – vedi precedente paragrafo),
- cooperazione locale in materia di acquisti, impiego del risparmio, gestione dei beni comuni, scambi non mercantili di tempo di vita ed iniziative dal basso.
Sachs &C affrontano con sistematicità ed equilibrio tutti gli aspetti della sostenibilità ambientale, economica e sociale nella biosfera di oggi e di domani, ed in particolare:
- i limiti, non ancora conosciuti e non rigidi, ma ineluttabili, delle risorse disponibili e rigenerabili
- le differenze crescenti di benessere, non solo tra gli stati, ma tra i diversi gruppi sociali all’interno degli stati
- gli effetti perversi degli scambi commerciali “alla pari” tra economie  e società intrinsecamente differenti
ed individuano un orizzonte, necessario e forse possibile, di convergenza dei livelli di pressione ambientale tra paesi ricchi e paesi poveri su un livello medio virtuoso (con difficile ricerca di standard di sostenibilità, quali ad esempio 2.000 km annui di mobilità individuale oppure 2.000 Watt annui di consumo energetico pro-capite), da conseguire combinando
- innovazione tecnologica,
- efficienza anti-sprechi
- e soprattutto “sufficienza” (cioè sobrietà) dei consumi, non solo da parte delle minoranze privilegiate dei paesi ricchi, ma anche da parte
§  dei ceti emergenti dei paesi in via di sviluppo, la cui imitazione dei livelli occidentali di opulenza avrebbe effetti pesanti sugli equilibri ecologici e  sociali,
§   della massa dei consumatori dei paesi sviluppati, proponendo in sostanza una riduzione degli orari di lavoro ed in parallelo anche dei salari medi.
Sachs&C. approfondiscono in particolare le contraddizioni del diritto internazionale, tra i principi fondatori dell’ONU sui diritti dell’uomo (1948) e gli sviluppi ambientalisti della Conferenza di Rio (1992 e seguenti fino ed oltre Kyoto - 1997), da un lato, e l’insieme degli accordi commerciali, dal GATT al WTO, dal lato opposto; tali trattati - pur riportando nelle premesse alcuni riconoscimenti sui diritti dei popoli e delle persone - definiscono un sistema giuridico ed operativo rigidamente liberista e di fatto impermeabile alle ragioni di tutela delle comunità locali, dei loro prodotti e dei loro saperi, con effetti spesso distruttivi delle basi di sopravvivenza delle formazioni sociali più deboli, e di impoverimento dei paesi più poveri. 
Gli autori sembravano riporre nel 2005 specifiche speranze nell’Europa, in quanto originaria ‘patria del cosmopolitismo’ e per gli sprazzi di autonomia dall’egemonia USA, manifestati ad esempio contro la guerra in Irak ed in favore degli accordi sul clima; nel 2010 appaiono più pessimisti, in considerazione dei comportamenti egoistici che anche l’Europa continua a manifestare nei rapporti di scambio commerciale con i paesi poveri, a partire dal settore agro-alimentare.
Sachs&C. articolano le loro proposte operative, da rendere tendenzialmente compatibili con un’economia di mercato ricondotta ‘a ragione’ sia ‘dall’alto’, con nuove norme (nazionali ed internazionali), incentivi e politiche di persuasione, sia ‘dal basso’, con suggerimenti per iniziative a livello locale ed anche per un diverso comportamento soggettivo dei singoli cittadini, in quanto consumatori e risparmiatori, bricoleurs e potenziali ciclisti.
Ma nei loro testi, permeati da appelli kantiani alla giustizia e ad un “nuovo cosmopolitismo”, l’analisi sui soggetti sociali e politici  che – nei diversi contesti nazionali - potrebbero essere protagonisti delle svolte invocate, si riduce all’appello ad una “Nuova Internazionale”, ovvero il collegamento - innanzitutto  via Internet - tra molteplici minoranze illuminate, che sperimentano comportamenti virtuosi in campo agricolo oppure energetico oppure tecnologico (ed anche nella finanza equa e solidale) e in tal modo maturano le risposte per illuminare e influenzare le parti restanti e resistenti delle diverse società nazionali, incalzandole in particolare man mano che vengono al pettine i nodi della crisi di esaurimento delle risorse, del clima e dell’attuale modello di sviluppo.
Diverso sarebbe il mio giudizio se tali proposte fossero fatte proprie pienamente da forze politiche di massa in grado di contendere il governo nei principali paesi europei; di mezzo ci sono ancora enormi problemi di egemonia e di orientamento culturale e antropologico dei segmenti sociali potenzialmente interessati: se appare possibile  diffondere modelli di consumo più bio-compatibili, equi e solidali, assai più difficile mi sembra promuovere in occidente un progetto generale di  austerità, fondato sulla riduzione di salari ed orari di lavoro.
Poco sviluppata mi sembra anche l’attenzione alla crisi socio-economica e finanziaria in atto, ben indagata quale effetto dello sviluppo industrialista e finanziario, liberista e neocolonialista, ma non altrettanto esaminata come possibile crogiolo di mutamenti drammatici, non necessariamente nella positiva direzione auspicata.


IL MOVIMENTISMO DI GUIDO VIALE

Guido Viale (mezzo secolo addietro tra i fondatori di Lotta Continua ed ora economista specializzato sul “riciclo” ed intellettuale in una sinistra inquieta, tra Tsipras ed “Il manifesto”) si distingue anche dalla parola d’ordine della “decrescita felice” (vedi sopra) e dichiara: “Non sono un fautore della decrescita. Trovo questo concetto povero di contenuti; inutilizzabile, se non impresentabile, nelle situazioni di crisi (quando a essere messi in forse sono redditi e posti di lavoro); ambiguo (in quanto speculare, anche se opposto, a quanto ci viene proposto dagli economisti mainstream). Non credo che le otto "R" di Latouche (rivalutare, riconcettualizzare, ristrutturare, ridistribuire, rilocalizzare, ridurre, riutilizzare, riciclare) apportino al dibattito politico molto più di un chiarimento concettuale. Però, quando si scende - se mai si scende - sulle cose da fare o proporre è molto più facile ritrovarsi d'accordo al di là delle formulazioni dottrinarie. Ma questa diffidenza non significa certo accettazione del diktat della crescita.” 22-23-24
Nel frattempo, in qualche modo “a prescindere” da una soluzione generale, quasi che a quel livello oggi si possa dire, come Montale sotto il fascismo, solo “ciò che noi non siamo e ciò che non vogliano” 25, Viale cerca di offrire un orizzonte complessivo ai “movimenti” (dal referendum sull’acqua ai difensori di altri “beni comuni”, come “Salviamo il Paesaggio” che propugna una battaglia contro il consumo di suolo, dai Gruppi di Acquisto Solidali agli agricoltori “a Km zero”), con una interpretazione più conflittuale delle ‘reti della nuova internazionale’ di Sachs&C. (vedi al precedente paragrafo) e del “localismo cosmopolita” proposto da Magnaghi (vedi seconda parte): infatti ritiene che “mano a mano che i processi molecolari si concretizzano, unificano e rafforzano, i movimenti vengono a confronto ed entrano in conflitto con il potere della finanza internazionale e dei governi che ne sono mandatari a livello statuale”.
Ed individua, in tale prospettiva, i seguenti 6 “pilastri”:
1.    “La conversione ecologica” come “processo di riterritorializzazione, cioè di riavvicinamento fisico ("km0") e organizzativo (riduzione dell'intermediazione affidata solo al mercato) tra produzione e consumo: processo graduale, a macchia di leopardo e, ovviamente, mai integrale. Per questo un ruolo centrale lo giocano l'impegno, i saperi e soprattutto i rapporti diretti della cittadinanza attiva, le sue associazioni, le imprese e l'imprenditoria locale effettiva o potenziale e, come punto di agglutinazione, i governi del territorio: cioè i municipi e le loro reti, riqualificati da nuove forme di democrazia partecipativa.” Con “il passaggio, ----- dal gigantismo delle strutture proprie dell'economia fondata sui combustibili fossili alle dimensioni ridotte, alla diffusione, alla differenziazione e all'interconnessione degli impianti, delle imprese e degli agglomerati urbani rese possibili dal ricorso alle fonti rinnovabili, all'efficienza energetica, a un'agricoltura e a una gestione delle risorse (e dei rifiuti), dei suoli, del territorio e della mobilità condivise e sostenibili.”
2.    “Per operare in questa direzione è essenziale che i governi del territorio possano disporre di "bracci operativi" : ovvero “i servizi pubblici” locali, “restituiti, come disposto dal referendum sull’acqua, a un controllo congiunto degli enti locali e della cittadinanza, cioè sottratti al diktat della privatizzazione.”, nonché al patto di stabilità, rinegoziando i debiti ai danni della “bolla finanziaria”
3.     “l'arresto del consumo di suolo”: se le strutture e i suoli inutilizzati “non vengono resi disponibili dal vincolo che lega il bene al suo proprietario occorre procedere con una politica di espropri e rivendicare una legislazione che la renda praticabile.”
4.    “Il suolo urbano libero da costruzioni e quello periurbano possono essere valorizzati da un grande progetto di integrazione tra città e campagna, tra agricoltura e agglomerati residenziali. Un'integrazione che è stata il pilastro delle civiltà di tutto il mondo prima dell'avvento della globalizzazione”: “orti urbani, disseminazione dei Gas, farmer's markets, mense scolastiche e aziendali, marchi di qualità ecologica per la distribuzione, gestione dei mercati ortofrutticoli: quanto basterebbe per cambiare l'assetto dell'agricoltura periurbana e per ri-orientare l'alimentazione della cittadinanza con filiere corte”.
5.    “La mobilità sostenibile (attraverso l'integrazione intermodale tra trasporto di linea e mobilità flessibile: car-pooling, car-sharing, trasporto a domanda e city-logistic per le merci) e la riconversione energetica (attraverso la diffusione degli impianti alimentati da fonti rinnovabili e la promozione dell'efficienza nelle abitazioni, nelle imprese e nei servizi) costituiscono gli ambiti fondamentali per sostenere le imprese e l'occupazione in molte delle fabbriche oggi condannate alla chiusura.”
6.    “La conversione ecologica è innanzitutto una rivoluzione culturale che ha bisogno di processi di elaborazione pubblici e condivisi e di sedi dove svilupparli. ---- nelle scuole e nell'università, nell'educazione permanente, nelle istituzioni della ricerca, nel tessuto urbano, nei mezzi di informazione, sulla rete.”
Mi sembra molto interessante, pur nella indefinitezza della prospettiva politica conflittuale, la articolazione concreta delle proposte (largamente condivisibili) ed anche l’integrazione tra i comportamenti direttamente praticabili ‘dai movimenti’ e dai soggetti economici locali, il ruolo assegnato agli enti locali, e la rivendicazione di alcune leggi progressive a livello di autorità superiori.


L’OTTIMISMO TECNOLOGICO: LEGA AMBIENTE E GREEN LIFE; IL MANIFESTO DELLA FONDAZIONE SVILUPPO SOSTENIBILE

Con un’intensa pubblicistica, riassunta nel volumetto “Green Life” 26 di Berrini e Poggio, e che ebbe buona risonanza con la omonima mostra alla Triennale di Milano nel 2010 (e nel relativo catalogo 27), intellettuali e organismi vicini a Legambiente, svolgono una meritoria campagna di informazione sulle esperienze internazionali (soprattutto europee) più avanzate in materia di:
-           risparmio energetico nell’edilizia
-           quartieri ecologici
-           trasporti innovativi
-           politiche urbane variamente virtuose in materia ambientale.
La particolare arretratezza italiana, aggravata da una politica nazionale errabonda in materia di incentivi energetici ed incline all’improvvisazione in materia di incentivi alla rigenerazione urbana, rende prezioso ogni suggerimento positivo, finalizzato a concretizzare ed anticipare gli obiettivi europei in materia di risparmio energetico e contenimento delle emissioni di CO2 ed altri gas climalteranti.

Tuttavia, proprio perché l’Italia parte da una situazione arretrata, mi sembrerebbe necessario approfondire meglio quale sia la strada migliore da seguire per la realtà italiana, verificare dove portano le esperienze straniere, capire se sia davvero possibile uno sviluppo sostenibile, oppure se si rischia di ricopiare forme attenuate di congestione ed invivibilità.
Approfondimenti che mi pare manchino presso gli autori citati, sostituiti da una sorta di ottimismo tecnologico (che nella mostra milanese si proiettava anche acriticamente sui prodotti delle aziende sponsorizzatrici).
E’ inoltre apprezzabile, contro i teorici della “decrescita felice”, la citazione del compianto Alex Langer, che già nel 1994 sosteneva che “la conversione ecologica potrà affermarsi solo se apparirà desiderabile”: ma la conclusione di Poggio e Berrini, dopo aver correttamente sostenuto che consumi individuali e collettivi più consoni alla scarsità delle risorse non scaturiranno automaticamente dalla crisi in atto, e potranno nascere solo dal combinarsi di una battaglia culturale dal basso (per ora minoritaria)  e di coerenti politiche dall’alto (che non si intravvedono), sembra affidare le speranze di soluzione all’autogoverno delle città, collegate tra loro su scala mondiale, come già nella retorica visionaria di Peter Droege 2 e come faticosamente dalla conferenza di Rio (1992)  gli ecologisti, molte amministrazioni locali e le Agende21 tentano di fare, agendo localmente e pensando globalmente.
Manca inoltre una qualche riflessione sulle modalità di formazione del consenso sociale necessario a rendere egemoni i comportamenti virtuosi auspicati, oppure la connessione ad una strategia conflittuale, quale quella proposta da Guido Viale (vedi sopra).
Una elaborazione più aggiornata e completa di questo approccio un po’ ottimista alla green economy, estesa ai temi della riqualificazione bio-climatica ed energetica dei fabbricati e della rigenerazione urbana, è stata recentemente espressa dalla Fondazione per lo Sviluppo Sostenibile (presieduta da Edo Ronchi) con l’ambizioso titolo “LA CITTA’ FUTURA - MANIFESTO DELLA GREEN ECONOMY  PER L’ARCHITETTURA E L’URBANISTICA” 28, alla cui lettura integrale rimando perché si tratta di un testo breve, conciso ed esauriente, ma non scevro dai limiti politici ed antropologici di cui sopra.


L’OTTIMISMO TECNOLOGICO: JEREMY RIFKIN E LA TERZA RIVOLUZIONE INDUSTRIALE

Tipico esempio dell’ottimismo tecnologico è Jeremy Rifkin, profeta della Terza Rivoluzione Industriale (“T.R.I.”), 29-30 che vede la soluzione di ogni problema nell’intreccio tra la produzione diffusa delle energie rinnovabili, il loro accumulo tramite l’idrogeno ed il loro scambio  tramite Internet (unitamente con la elettrificazione delle automobili), e coglie nell’emergere di alcune forme cooperative del nuovo sapere reticolare (es. Linux, Wikipedia) la sicura tendenza alla trasformazione dall’accumulazione capitalista (propria delle prime due rivoluzioni industriali, fondate sul carbone e sul petrolio) al decentramento democratico di tutto quanto, conoscenza, produzione, potere, dalla “T.R.I.” ad una imminente successiva età dell’oro, dove regnerà la fine del lavoro e la concordia universale (con una pacifica mutazione antropologica, simile a quella auspicata da Serge Latouche, vedi sopra).
L'«Internet delle cose», un'infrastruttura intelligente formata dal virtuoso intreccio di Internet delle comunicazioni, Internet dell'energia e Internet della logistica, avrà l'effetto di spingere la produttività fino al punto in cui il costo marginale di numerosi beni e servizi sarà quasi azzerato, rendendo gli uni e gli altri praticamente gratuiti, abbondanti e non più soggetti alle forze del mercato, bensì “beni comuni”.
L’avvio della “T.R.I.”, secondo Rifkin, garantirà a medio termine un incremento complessivo dell’occupazione, anche nei paesi occidentali, sottraendo il settore delle energie rinnovabili alle leggi economiche  prevalenti (che a mio avviso invece spingono all’incremento della produttività in tutti i settori, con appropriazione da parte delle imprese e difficilmente a vantaggio del lavoro, costretto a breve termine  comunque alla subordinazione e precarietà), perché tutte o quasi le negatività dell’attuale modello di sviluppo, per Rifkin, derivano dalla natura fossile delle risorse energetiche che hanno connotato la prima e la seconda rivoluzione industriale (carbone e petrolio).
Sulla profezia della fine del lavoro, avanzata da Rifkin già nel 1995 (ed in parte condivisa, tra gli altri, da Paul Mason 31 – vedi recensione su UTOPIA21 di marzo 1917), non concordano sociologi a mio parere più documentati, come ad esempio Manuel Castells 32.
Tra gli argomenti tipici di Rifkin vi è inoltre l’affermazione che non c’è più distinzione tra destra e sinistra, ma la spiegazione di tale assioma consiste soprattutto in aneddoti, come ad esempio il fatto che il sindaco di Roma Alemanno ha assegnato allo stesso Rifkin una consulenza sul futuro della città eterna, mentre il leader laburista inglese Milliband lo ha ricevuto sbrigativamente e sgarbatamente.
Poco utili, ma significative, sono a mio avviso le proiezioni futuribili di Rifkin e associati sullo specifico urbano (ad esempio master plan per la biosfera di Roma al 2050), che mischiano opzioni già note sui fabbricati eco-energetici e sull’agricoltura peri-urbana, con improbabili riconversioni di quartieri ed aree commerciali dismesse in orti urbani, mantenendone però in piedi - a scopo ornamentale - le sole facciate lungo le strade.


L’OTTIMISMO TECNOLOGICO:  “SMART CITIES” OVVERO I RISCHI DI UN ECCESSO DI INTELLIGENZA

Un’altra versione dell’ottimismo tecnologico è quella che punta sulle tecnologie informatiche, soprattutto sulla conoscenza interattiva in tempo reale tra diversi attori su una pluralità di indicatori, resi disponibili dallo stesso sviluppo tecnologico (ad esempio la localizzazione e l’utilizzo dei telefoni cellulari oppure la localizzazione dinamica di veicoli tramite GPS), per prospettare una gestione più consapevole e virtuosa dei comportamenti e dei consumi urbani.
Tra queste spicca la spettacolarità delle simulazioni effettuate dal SENSEable City Lab del Massachusetts Institute of Technology, diretto da Carlo Ratti, 33 su cui condivido il giudizio critico di Daniela De Leo 34:
-           “Si tratta di progetti attraversati dal ‘mito dell’instantaneità’ e dalla convinzione che una maggior disponibilità di dati consente di decidere insieme oltre che meglio ----
una straordinaria dose di ottimismo e fiducia nelle possibilità dell’innovazione tecnologica di garantire un futuro migliore e più sostenibile alle città del mondo, che non sembra , però, confortata dai trend attuali ----
le innovazioni tecnologiche, da sole non sono affatto sufficienti a cambiare lo stato attuale delle cose o a potenziare la partecipazione dei cittadini alle scelte politiche pubbliche ---
la forte valorizzazione estetica delle rappresentazioni dei dati digitali finiscono con il ricondurre gli abitanti al ruolo (passivo) di spettatori, oltre che di fornitori di dati su consumi e comportamenti.”
Di mio aggiungo solo che una città “’smart’ è indubbiamente meglio di una città ‘non-smart’, ma che la raccolta di immensi apporti di dati istantanei assomiglia alquanto al paradosso ‘borgesiano’ della carta geografica in scala 1:1, che impedisce di fatto una effettiva conoscenza del territorio rappresentato.35


IL PESSIMISMO ANTROPOLOGICO DI LA CECLA, CONTRO L’URBANISTICA E CONTRO L’URBANESIMO

L’antropologo Franco La Cecla, in “Contro l’urbanistica. La cultura delle città”, 13 prende spunto dai movimenti delle masse che in anni recenti hanno occupato piazze e parchi, in Egitto, Turchia, Hong Kong e U.S.A. (con una qualche sopravvalutazione, a mio avviso, di tali movimenti, ed in particolare di Occupy Wall Street), per evidenziarne la “corporeità”, in contrasto con i teorici di una realtà sociale ormai solo virtuale e “smart”.
L’argomento più rilevante, esplicitato nei capitoli centrali del libro (che forse andava intitolato ”Contro l’urbanesimo”, se non sembrasse nostalgia di Bottai), è però quello della crescita tendenziale degli insediamenti urbani, che l’organizzazione dell’ONU HABITAT presenta come inevitabile ed auspicabile, fonte di universale prosperità, mentre La Cecla, anche sulla scorta dei divergenti rapporti di altri organismi internazionali (e più in generale appoggiandosi, senza svilupparlo, al pensiero alternativo di correnti come TERRA MADRE), non ritiene invece:
-           né ineluttabile, perché incentivato dalle politiche di sostegno all’agricoltura capitalistica monocolturale che espelle di continuo i piccoli agricoltori dalle campagne (espulsione accentuata dai mutamenti climatici indotti dallo stesso sviluppo agri-intensivo ed urbano-centrico),
-           né positivo, perché l’incremento della popolazione inurbata, nella maggior parte delle aree metropolitane, va solo ad ingrossare gli “slums”  e la povertà di massa.
Nella sua urbano-clastia, La Cecla sbeffeggia le teorie e le consulenze di Richard Florida 36 sulla cresta dell’onda delle “classi creative”, secondo La Cecla   travolte inesorabilmente dalla crisi iniziata nel 2007, e stigmatizza più in generale tutta la competizione verso il “marketing urbano” delle “città mondiali”, sul modello drogato di Barcellona/Olimpiadi   (e qui secondo me va ascoltato solo in parte, perché guardando a Torino/Olimpiadi ed a Milano/Expo, pur nutrendo molti dubbi sul rapporto costi-benefici, caricando sui costi non solo gli investimenti, ma anche l’innegabile consumo di suolo agricolo o forestale, resta da valutare un indubbio salto di quantità e di qualità permanente riguardo ai flussi turistici acquisito, nel bene e nel male, dalle due città).
Inoltre La Cecla si spinge a censurare gli studi di Saskia Sassen 10 , a suo avviso troppo spinti verso la previsione di una tendenziale prevalenza delle metropoli, anche se in realtà la Sassen ne ipotizza il successo in contrapposizione al declino degli Stati nazionali, e richiama l’attenzione alle nuove disuguaglianze ed alle aree di povertà interne alle metropoli, in sostanziale consonanza con le argomentazioni dello stesso La Cecla. 
Perché comunque è proprio nella vitalità degli slums, ed in generale nelle componenti corporali ed informali del vivere urbano (ad esempio elogiando il cibo di strada, la cui qualità è garantita dall’immediato giudizio dell’utenza popolare – argomento a mio avviso non scevro da un certo liberismo -), che La Cecla vede i materiali di una vera cultura delle città, contro le mortificazioni dei regolamenti di igiene e polizia e contro le colpevoli acquiescenze degli urbanisti verso gli interessi del capitale immobiliare.
Non illuminata dalla capacità di ascolto e dalla curiosità girellona degli antropologi, l’urbanistica, che è l’esplicito bersaglio del testo di La Cecla, si sforza invano di interpretare la realtà urbana, usando statistiche, grafici e paradigmi astratti; e – quando è costretta ad esperire la “partecipazione” – la stinge in modalità edulcorate ed inautentiche, dimenticando le lezioni di Jane Jacobs 37 e i meriti storici di alcuni precursori (in Italia: Doglio, De Carlo) e non seguendo l’esempio di “Architecture for Humanity”, organizzazione non profit di progettisti di architetture al servizio dei bisogni delle comunità locali, finanziata mediante lasciti e donazioni di fondazioni filantropiche (non importa se emanazioni di imprese multinazionali).
Soprattutto in Italia, dove si manifesta resistenza ad introdurre lo strumento nord-europeo della Valutazione di Impatto Sociale, che verrebbe disciolta nella più generica valutazione ambientale (La Cecla, pur cogliendo giustamente una certa strumentalità rutinaria nelle applicazioni della Valutazione Ambientale Strategica per i Piani ed i Programmi,  non si misura con la vigente normativa sulla VAS, che ben ne delineerebbe anche le componenti sociale ed economica e la fondamentale chiave partecipativa, e da ultimo gli obblighi di terzietà nel procedimento, rispetto agli autori dei piani).


Fonti:
1.    Maurizio Pallante “LA DECRESCITA FELICE” - Edizioni per la decrescita felice, Roma 2011
2.    Peter Droege “LA CITTÀ RINNOVABILE” - Edizioni ambiente, Milano 2008
3.    Peter Hall “LE CITTÀ MONDIALI” - Il saggiatore, Milano 1966
4.    Jean Gottmann “MEGALOPOLI – funzioni e relazioni di una pluri-città” - Einaudi, Torino 1967
5.    Francoise Choai “LA CITTÀ: UTOPIE E REALTÀ” – Einaudi, Torino 1973
6.    Paolo Perulli “VISIONI DI CITTÀ. Le forme del mondo spaziale” Einaudi, Torino 2009
7.    Neil Brenner “STATO, SPAZIO, URBANIZZAZIONE” - Guerini scientifica, Milano 2016
8.    Francesco Indovina (2014) “LA METROPOLI EUROPEA. Una prospettiva” - Franco Angeli, Milano 2014
10. Saskia Sassen  “LA CITTÀ NELL’ECONOMIA GLOBALE” - Il Mulino, Bologna 2010
11. Eugenio Turri “LA MEGALOPOLI PADANA” – Marsilio, Padova 2000
12. AA.VV., a cura di Aldo Bonomi “LA CITTÀ INFINITA” - Bruno Mondadori, Milano 2004
13. Franco La Cecla “CONTRO L’URBANISTICA. La cultura delle città” – Einaudi, Torino 2015
14. Marco Bagliani, Fiorenzo Ferlaino, Salvatore Procopio (2001) “L’IMPRONTA ECOLOGICA: Analisi regionale e settoriale” - IRES Piemonte, Working Paper N. 152, Ottobre 2001
15. Luciano Gallino “FINANZCAPITALISMO” - Einaudi, Torino 2008
16. Manuel Castells  “LA CITTÀ DELLE RETI” – Marsilio, Padova 2004
17. Joseph Stiglitz  “Globalizzazione” Donzelli, Roma 2011
18. Serge Latouche “DECRESCITA, DISUGUAGLIANZE E POVERTÀ” intervista rilasciata a Paolo Ventura in “AL” n° 482 del 2011
19. Serge Latouche  “PER UN’ABBONDANZA FRUGALE: malintesi e controversie sulla decrescita“ - Bollati Boringhieri, Torino 2012
20. Wolfgang Sachs e Tilman Santarius  (2007) “PER UN FUTURO EQUO. Conflitti sulle risorse e giustizia globale” Feltrinelli, Milano 2007
21. Wolfgang Sachs e Marco Morosini (2011) “FUTURO SOSTENIBILE” Edizioni Ambiente, Milano 2011
22.  Guido Viale “LE SBERLE DELL’ECONOMIA” su “Il Manifesto” quotidiano del 18-06-2011; anche sul sito www.eddyburg.it
23. Guido Viale “I SEI PILASTRI DELLA CONVERSIONE” su “Il Manifesto” quotidiano del 02-02-2012; anche sul sito www.eddyburg.it
24. Paolo Cacciari “CARO VIALE, LA DECRESCITA È NECESSARIA” su “Il Manifesto”
quotidiano del 18-06-2011; anche sul sito www.eddyburg.it
25. Eugenio Montale “OSSI DI SEPPIA”  (“Non chiederci la parola”) - Gobetti, Torino 1925, ripubblicato variamente ed in antologie
26. Maria Berrini e Andrea Poggio “GREEN LIFE” - Edizioni Ambiente, Milano 2010
27. AA.VV. a cura di Maria Berrini e Aldo Colonetti “GREEN LIFE. Costruire città sostenibili.“ Catalogo della mostra (Milano, 5 febbraio-28 marzo 2010) - Editore: Compositori, Milano 2010
29. Jeremy Rifkin “LA TERZA RIVOLUZIONE INDUSTRIALE” – Mondadori, Milano 2011
30. Jeremy Rifkin “LA SOCIETÀ A COSTO MARGINALE ZERO. L'Internet delle cose, l'ascesa del Commons collaborativo e l'eclissi del capitalismo” - Oscar Mondadori, Milano 2015
31. Paul Mason “POSTCAPITALISMO. Una guida al nostro futuro” – Saggiatore, Milano 2015
32. Manuel Castells “LA NASCITA DELLA SOCIETÀ IN RETE” - EGEA  UniBocconi, Milano 2002
33. Anna Frisa, Carlo Ratti “PROGETTARE LA CITTÀ: COME?” Dipartimento Interateneo Territorio, Politecnico di Torino - School of Architecture and Planning, MIT, 2001 www.senseable.mit.edu/.../20011116_Frisa_Ratti_ProgettareCitta_Proceedings CittaDiffusa
34. AA.VV. a cura di Daniela De Leo  “FUTURECITIES/CITTÀ FUTURE?” in Urbanistica informazioni n° 238 del 2011
35. Jorge Luis Borges “DEL RIGORE NELLA SCIENZA”, in “L'artefice” - Adelphi, Milano 1984
36. Richard Florida  "LA NASCITA DELLA NUOVA CLASSE CREATIVA" – Mondadori, Milano 2002

37. Jane Jacobs “VITA E MORTE DELLE GRANDI CITTÀ” - Einaudi, Torino 1969