INDICE DELLE ULTERIORI LETTURE 2013-2017; dal 2018 "ulteriori letture 2"
2013
1 - "SVEGLIATEVI!" DI PIERRE LARROUTOURU
2 - "CRITICA DELLA DEMOCRAZIA OCCIDENTALE” DI DAVID GRAEBER
3 - "LA PRIMA LEZIONE DI URBANISTICA" DI BERNARDO SECCHI
4 - GRAEBER, 5000 ANNI DI DEBITI E CONFLITTI
5 - FINALE DI PARTITO, SECONDO MARCO REVELLI
5 BIS - INGLEHART E LA POST-DEMOCRAZIA
6 - MATRIMONI
E PATRIMONI, RELIGIONI E MERCATO NELLE RICERCHE DI GERARD DELILLE
2014
7 - ESPLORAZIONE
E MONITORAGGIO DI QUARTIERI SOSTENIBILI, IN EUROPA, A CURA DI CECCHINI E
CASTELLI
8 - SETTIMO NON RUBARE, DI PAOLO PRODI
9 - IL PRECARIATO ANTI-LABURISTA DI GUY STANDING
10 - PAOLO LEON, IL CAPITALISMO E LO STATO
11 - LA CITTA' NECESSARIA DI GRAZIELLA TONON
12 - IL NOMADISMO SECONDO MICHEL MAFFESOLI
13 - IL RAPPORTO SUL CONSUMO DI SUOLO 2014
14 - "ROTTAMA ITALIA"
15 - IPERDEMOCRAZIA, SECONDO STEFANO RODOTA'
16 - PERCHE’ LE NAZIONI FALLISCONO, SECONDO ACEMOGLU E ROBINSON
2015
17- PIKETTY: IL CAPITALE NEL XXI SECOLO, E PRECEDENTI
18 - VECA E LE ALTERNATIVE
19 - IL LUNGO XX SECOLO DI GIOVANNI ARRIGHI
20 - L’UTOPIA ANTI-EROICA DI LUIGI ZOJA
21 - “ARMI, ACCIAIO E MALATTIE” NELLA STORIA MONDIALE DI JARED DIAMOND
22 - GOVERNARE IL CONSUMO DI SUOLO?
IL SAGGIO DI GIUDICE&MINUCCI E LA RICERCA EUROPEA OSDDT-MED
23 - REDDITO MINIMO GARANTITO IN EUROPA (MA NON IN ITALIA): “CONTRO LA MISERIA” DI GIOVANNI PERAZZOLI
24 - BIO-URBANISTICA A FAENZA, DI ENNIO NONNI&C.
25 - LO STATO INNOVATORE, DI MARIANA MAZZUCATO
26 - SOLIDARIETA', DI STEFANO RODOTA'
27 - MIGRAZIONI E LAVORI, NELLA RICERCA DI CAMILLA GAIASCHI
28 - L'ENCICLICA "LAUDATO SI'" DI PAPA BERGOGLIO
2016
29 - L'ULTIMA LEZIONE DI URBANISTICA DI BERNARDO SECCHI
30 - LA GRANDE FUGA, DI ANGUS DEATON
31 - LE CITTA' RIBELLI, RAPPRESENTATE DA DAVID HARVEY
32 - ERMANNO VITALE: UN ILLUMINISTA CONTRO IL BENE-COMUNISMO
33 - L’ANTROPOLOGIA, “CONTRO L’URBANISTICA” DI FRANCO LA CECLA
34 - L’UOMO COME TERZO SCIMPANZE’ SECONDO JARED DIAMOND
35 - LA "GLOBALIZZAZIONE INTELLIGENTE" DI DANI RODRIK
36 - “LE CITTA’ FALLITE” DI PAOLO BERDINI COME STIMOLO AD UNA VERIFICA FATTUALE
2017
36 - “IL TRAMONTO DELLA RIVOLUZIONE”, ED ANCHE DELLA MODERNITA’ (E DEL RIFORMISMO?) SECONDO PAOLO PRODI
37 - ” POSTCAPITALISMO – UNA GUIDA AL NOSTRO FUTURO” SECONDO PAUL MASON
38 - L’UOMO COME TERZO SCIMPANZE’ SECONDO JARED DIAMOND
39 - SETTE PASSI CON BECCHETTI PER CAPIRE L'ECONOMIA (O ALMENO PROVARCI)
40 - LA FILOSOFIA DEI BENI COMUNI RAPPRESENTATA DA LAURA PENNACCHI
DAL 2018 SEGUE SU "ULTERIORI LETTURE 2"
1 - "SVEGLIATEVI!" DI PIERRE LARROUTOURU
Stimolato dalla recensione/intervista su l’Unità, ho letto il breve pamphlet di Pierre Larrouturou “SVEGLIATEVI! (perché l’austerità non può essere la risposta alla crisi)” (editore PIEMME-ORA, 2012, pagg. 115, € 10,00).
Anche se in parte datato (inizio 2012, elezione di Hollande) e legato ad una specifica polemica da sinistra nella maggioranza presidenziale francese, da parte del gruppo “Roosvelt” (cui aderiscono anche Michel Rocard e Edgar Morin) mi sembra interessante per il respiro internazionale delle premesse e per la ricchezza delle proposte operative, per lo più a scala europea.
Riassumendo in breve, nella parte analitica, oltre a raccontare la crisi da sinistra nei termini che ormai conosciamo e condividiamo leggendo – ad esempio - Stigliitz e Gallino sul “finanz-capitalismo”, si sofferma in particolare sulla esplosività del debito americano e sulla (meno nota) bolla immobiliare cinese, paventandone anche una possibile via d’uscita militare/bellica.
Questi temi però non vengono ripresi nello svolgimento successivo del testo, che illustra una serie di interventi praticabili in Europa, e che a me – come credo a gran parte dell’opinione pubblica di sinistra - appaiono ragionevoli e condivisibili (anche se mi piacerebbe una più scientifica dimostrazione sulla fattibilità ed efficacia), ma che purtroppo non mi sembrano divenuti effettivo patrimonio programmatico delle forze politiche della sinistra europea (a partire dal governo Hollande, come denuncia lo stesso Larrouturou, senza però domandarsi perché ciò avvenga: il Partito Socialista francese è ingenuamente ottimista sul rilancio del vecchio modello economico, oppure ci sono ragioni sociali di rappresentanza e consenso che incidono sul suo pensiero e sulla sua azione? Se fosse così, come influenzarlo? Con la sola forza polemica del pamphlet?):
- Finanziamento del deficit pubblico pregresso a spese delle banche private (ipotizzando prestiti BCE attraverso la BEI a tassi prossimi allo Zero, come quelli concessi tra 2011 e 2012 al sistema bancario)
- Istituzione di un imposta minima europea sui dividendi, per evitare il “dumping fiscale” da parte dei singoli Stati
- Rivoluzione fiscale a danno dei più ricchi (agevolati negli ultimi decenni), con rimpinguamento delle casse statali
- Guerra ai paradisi fiscali, con boicottaggio alle imprese che vi tengono filiali e obblighi di trasparenza dei bilanci
- Tutela dai licenziamenti e lotta al precariato
- Salario ai disoccupati (modello danese)
- Separazione tra banche commerciali e banche d’affari
- Vera Tobin Tax europea, con aut aut alla Gran Bretagna
- Nuove norme ambientali e sociali nel commercio internazionale (e rispetto di quelle vigenti, violate da Cina ecc.), anche per frenare le de-localizzazioni
- Investimenti massicci in edilizia residenziale
- Green economy e Kioto 2 sul serio
- Sviluppo della “Economia Sociale e Solidale” (3° settore?)
- Ridistribuzione egualitaria dei tempi di lavoro e riduzione del ventaglio retributivo
- Costruzione dell’Europa Democratica, con governo sovranazionale e poteri al Parlamento
- Europa sociale (trattato specifico per dare contenuti ai diritti di cittadinanza).
Mi piacerebbe evidentemente vedere attuate queste direttive che potrebbero “ salvare” l’Europa. Ma come si salva il mondo se incombono anche i mostri del disavanzo americano e della bolla cinese?
2 - "CRITICA
DELLA DEMOCRAZIA OCCIDENTALE” di David Graeber ed. Eleuthera
David
Graeber, antropologo americano, entrato in contrasto con il sistema accademico
e divenuto ispiratore del movimento Occupy Wall Street, nel suo volumetto del
2007 (tradotto in Italia nel 2012 con il titolo “Critica della democrazia
occidentale”) offre spunti interessanti, ed in parte per me nuovi, di lettura
storica dei sistemi politici, anche se a mio avviso si chiude infine in una
visione anarchica di scarsa prospettiva.
Nella
rassegna storica presentata da Graeber emergono:
-
la confutazione della pretesa
continuità di un “modello occidentale” da
Atene a Roma e poi dal Rinascimento all’Illuminismo, a partire dai limiti
stessi della democrazia ateniese (sessista, schiavista, ostracista, bellicista,
ecc.) e considerando poi anzi:
o
il disprezzo della democrazia in molte
fasi della storia dell’Occidente, dalla stessa Roma al Cristianesimo, e poi
nelle fasi iniziali delle rivoluzioni liberali,
o
la sistematica repressione dei
movimenti democratici nelle colonie degli imperi occidentali;
-
la negazione del monopolio occidentale
dei valori democratici, con il richiamo invece ad altre fasi e luoghi di potere
diffuso, quali l’antica Mesopotamia, alcuni interstizi tra India e mondo
Mussulmano, l’assetto delle tribù Maya dopo la distruzione dell’omonimo impero;
-
il disvelamento di specifici influssi
esterni, nella formazione dei moderni stati occidentali, alternativi a quelli
ideologicamente sbandierati (Atene e Rom repubblicana), e solo in parte ammessi
od ammissibili dagli storici ufficiali, tra cui sugli stati nazionali europei
l’impero cinese e sui nascenti Stati Americani sia la federazione degli
irochesi (in particolare con il loro modello educativo non-repressivo) sia la
stessa comunità dei pirati atlantici.
Nel
suo ragionamento di fondo emerge a mio
avviso una giusta critica ai limiti teorici della stessa democrazia, in quanto
“voto a maggioranza tra eguali”, sia per la frequente irrealtà della
presupposta uguaglianza, sia per la violenza implicita nella decisione a
maggioranza (suo limite esemplare l’ostracismo verso le minoranze).
Secondo
Graeber tale assetto comporta o la diffusione del potere armato tra tutti i
partecipanti al potere democratico, oppure un potere armato concentrato nello
Stato per rendere effettive le decisioni della maggioranza.
Ne
consegue una visione anarchica, che contempla la diffusione ugualitaria del
potere in piccole comunità assembleari, dove si pratichi la ricerca del massimo
consenso e della tendenziale unanimità, e si evitino le “spaccature” che prima
o poi evocano la vendetta dei perdenti.
E
sopra nessuna delega, nessuno stato, nessuna burocrazia.
Apprezzo
questa attenzione all’inclusione (vedi Luigi Bobbio ed altri) ma non condivido
questa visione “zapatista” che non prospetta nessun orizzonte di convivenza per
i grandi gruppi sociali che la storia ha prodotto (vedi anche la mia recensione
su Magnaghi in PAGINE, PARTE TERZA); come burocrate, seppure in pensione, mi
sentirei inoltre assai disoccupato...
Mi
sembra inoltre che la visione di Graeber, forse anche perché americano,
trascuri parecchio la nostra esperienza europea:
-
di democrazia come stato di diritto (vedi
Costituzione Italiana) e non solo come regime di decisioni a maggioranza: e
quindi connotata innanzitutto da uno statuto dei diritti, sia delle persone che
delle comunità, in particolare se minoritarie;
-
della democrazia come “patto sociale”,
gestito storicamente dai corpi intermedi e capace in qualche misura di rendere
organici i conflitti (di classe e non solo) e di far loro sopravvivere la
convivenza statuale;
-
nonché, come mi segnala giustamente
Anna, la fondamentale conquista illuminista della laicità (seppure radicata in
alcuni aspetti della stessa etica cristiana), che differenzia parecchio
l’Occidente da altre storie seppur interessanti di diffusione del potere in
altre civiltà.
Suggerirei
infine di non farsi fuorviare dalla prefazione all’edizione italiana, di Stefano Boni, che piega il pensiero di
Graeber in direzione assai più “antagonista”, con motivazioni poco
condivisibili (del tipo, schematizzando: “lo scontro è necessario perché
altrimenti i media non ci vedono”), soprattutto per chi, come me, ha
attraversato l’estremismo degli anni ’70 con sofferenza e qualche
consapevolezza (anche se l’emendamento in senso non-violento alle tesi del 1°
congresso nazionale di Lotta Continua fu respinto, con qualche dileggio da
parte di Guido Viale sulla pelle del Segretario provinciale di Varese, che correttamente
aveva riportato la proposta votata dal congresso locale).
3 - LA PRIMA LEZIONE DI URBANISTICA DI BERNARDO SECCHI
Bernardo Secchi, “Prima lezione di urbanistica” – Laterza, Bari 2000 – pagine XI+200 - € 12,00 (e-book disponibile a 8,49 €)
Secchi è divenuto docente e preside della facoltà di architettura di Milano nella seconda metà degli anni 70, quando chi, come me, “aveva fatto il ‘68” si trovava già disperso sul territorio a rimasticare il “riflusso” (delle lotte ’60-‘70); nonché a fare, nel mio caso ed a mio modo, l’”urbanista condotto”.
Penso di non averlo nemmeno mai incontrato in convegni INU o regionali, ma l’ho man mano apprezzato, come uno dei maestri, qual è, dell’urbanistica italiana di fine ‘900, per i suoi testi pubblicati sulle riviste dell’INU (da ultimo a proposito del suo lavoro ad Anversa e Parigi, che ne testimoniano il ruolo internazionale, non comune tra gli urbanisti italiani) e, nel merito, per la sua attenzione “in alto” alle radici etiche epistemologiche della disciplina e “in basso” alla concretezza del progetto del suolo e della sua gestione quotidiana manutenzione (fatica quotidiana di cui nel mio piccolo mi sono occupato come tecnico comunale).
Solo nel 2011 mi sono tardivamente imbattuto nella sua “1^ lezione” ed ho volentieri compiuto un ampio ripasso in materia, convenendo con uno dei suoi assunti fondamentali, che l’urbanistica non è una scienza.
Il volume, benché di “sole” 200 pagine, è molto denso, e quindi difficile da riassumere (consiglio piuttosto di leggerlo integralmente); schematicamente si occupa di:
- Urbanistica (definizioni, origini storiche, rapporto con altre discipline)
- Figure retoriche del racconto urbanistico (continuità, frammento, regolarità, concentrazione/decentramento, equilibrio, processualità)
- Urbanisti (ruolo dialettico rispetto agli altri soggetti e agli altri saperi)
- Radici storiche e culturali: storia dell’urbanistica non è “storia della città”, bensì “sapere nomadico ed esogamico”, sintesi spuria tra scienze naturali, e scienze sociali, arti figurative;
- Città moderna e città contemporanea: ‘900 come transizione, disagio verso la modernità e sua nostalgia – aspetti fisici e sociali – esemplificazione su abitazioni, grandi contenitori, spazi aperti, dismissioni, mobilità;
- Progetti ovvero tendenze: post-moderno, neo-classico, “renovatio urbis”; il piano come “macchina non banale”
- Progetto della città contemporanea: “dispersione, frammentazione, eterogeneità, frammistione, accostamento paratattico e anacronistico di oggetti, di soggetti, di loro attività e temporalità, fanno sì che territori e città contemporanei non possono essere affrontati con progetti che si spingano in ogni punto ad un identico livello di definizione ---- ma ciò non significa che la città contemporanea non possa e non debba essere investita da un progetto concettualmente unitario” “Città contemporanea che già esiste, ma resta in attesa di un progetto ---“
- “Attraversare il tempo”: impossibilità di previsioni lineari e/o di prefigurazioni desiderabili – occorre costruire scenari, anche diversi ed alternativi, per far convergere, ne tempo e nello spazio, pluralità di attori singoli e divergenti (società di minoranze) – non tanto obblighi e divieti (inefficaci e contro-producenti) ma “esplorazioni progettuali”: l’urbanista, oltre che produttore di progetti con un elevato contenuto tecnico, è produttore di immagini, racconti, miti” per dare “unitarietà all’interazione sociale, rendendola possibile” – urbanistica come scrittura ”epica e polifonica, che trascende la contingenza.
- (Polifonia: l’intero testo è percorso da richiami e parallelismi con altre discipline scientifiche ed artistiche, tra cui la musica del ‘900, da Schonberg a Stravinski, a Berio, ecc.).
Il pensiero di Secchi cerca di superare una certa crisi dei modelli razionalisti e positivisti dell’urbanistica moderna, senza scadere nella accettazione acritica o peggio nella esaltazione della città caotica/diffusa/dispersa, alla ricerca di nuove e superiori razionalità (vedi POST su Boeri e gli ESPLORATORI DELLA CITTA' DIFFUSA, e PAGINE- PARTE 3^).
Non mi convince però il nocciolo della contrapposizione da Lui proposta tra “città moderna” e “città contemporanea”, perché la prima, in Europa, non è di fatto mai esistita, se non come idea o progetto, oppure come frammento: quartieri periferici, new towns, alcune ricostruzioni post-belliche o dopo disastri naturali, sempre però parti di realtà urbane più vaste e complesse; solo in altri continenti si sono realizzate – e si stanno realizzando - intere città di nuova fondazione, coloniali o post-coloniali (Brasilia, Canberra).
La quasi totalità dei sistemi urbani europei ha attraversato la modernità come trasformazione, sempre incompleta e contradditoria, dei loro precedenti assetti di città più o meno antiche.
E anche l’urbanistica del movimento moderno al di là dei piani utopici e delle semplificazioni teoriche, ha sempre dovuto nei fatti fare i conti con la complessa stratificazione storica del territorio reale, non solo in termini di riconoscimento (e poi di tutela) dei “centri storici”, ma anche riguardo a numerosi aspetti disciplinari, dalla conformazione delle reti di trasporto alla articolazione culturale dei bisogni (ad esempio a resistenza di parte degli ex-contadini ad inurbarsi in contenitori edilizi densi, con la propensione invece a varie tipologie di case, in rapporto residuale ma importante con il verde “agricolo”, seppur ridotto a orto o giardino: vedi INA-case, periferie a casette singole, villette a schiera).
In Italia, già la legge 1150 del 1942 (ma anche in nuce in parte i precedenti Piani Regolatori) prevedeva un approccio differenziato alla città “per parti”, e poi, dalla legge 765/67 (con il D.M. 2-4-1968) alle leggi regionali di prima generazione (es. Lombardia n° 51/75 e Piemonte n° 56/77), pur in un’ottica razionalista, i sviluppa un’attenzione al territorio piuttosto articolata, sia per tipo di aree (divise almeno in A-B-C-D-E), sia per problematiche, che iniziano ad essere variegate e “divergenti” da un’impostazione classica di puro disegno azzonativo: entrano l’idrologia, la geologia, l’ambiente, al tutela dei suoli agricoli …
Nel contempo irrompono nella prassi, con i movimenti degli anni ’60 e ’70, le soggettività dei bisogni, apparentemente “massificati” nelle tematiche (lavoro, casa, servizi, trasporti), ma nel profondo già ricche di elementi antropologici differenziati: ad esempio sul tipo di casa, sulla localizzazione di lloggi e servizi, sulla tipologia dei servizi ….
E con il “Rapporto di Roma” e la prima crisi energetica del 1973 anche la consapevolezza dei limiti delle risorse e della crescita.
Il periodo 1960-1980 a mio avviso contiene già gran parte degli elementi dialettici necessari per fronteggiare le tematiche attribuite da Secchi alla sola “città contemporanea” (eravamo già “contemporanei”, senza saperlo?).
E’ lo stesso concetto di “città contemporanea” ad essere oscuro, in quanto non opponibile alla “città moderna”: perché questa non esiste in quanto tale, in Europa, come sopra affermato, e perché comunque nella sua concretezza (diversamente che nelle teorie) la nostra modernità era già intessuta di contraddizioni tipicamente “contemporanee”.
Oltre alla relativa probabile obsolescenza dei termini (dopo il moderno è venuto il post-moderno; dopo il contemporaneo possiamo immaginare un “post-contemporaneo”?) mi permetto di avanzare il dubbio che il nocciolo della questione, per classificare storicamente le problematiche della evoluzione territoriale, risieda piuttosto nella diversa qualità dei modi di produzione (ad esempio città fordista e post-fordista, città in prevalenza industriale oppure terziaria), le cui dinamiche sono per altro differenziate nello spazio mondiale, nell’ambito del processo di globalizzazione, cosicché contemporaneamente coesistono fasi diverse (fenomeno più difficile da spiegare con la terminologia Moderno/Contemporaneo).
15-01-2011 20-03-2013
Attirato dalla favorevole recensione sull’Unità di Alessandro Bertante (luglio 2012), dopo il pamphlet contro la democrazia occidentale (vedi mio Post “Graeber, critica anarchica alla democrazia”), mi sono applicato a leggre anche la più impegnativa opera di David Graeber “DEBITO - I PRIMI 5000 ANNI” (Il Saggiatore, pagg. 521 – di cui 150 di note - € 23).
Mi ha interessato il testo dell’antropologo americano, sia perché l’Autore è considerato un ispiratore del movimento Occupy Wall Street, sia perché il tema del debito appare centrale nell’attuale fase di crisi economica e sociale (vedi anche Finanzcapitalismo di Gallino, da me recensito in uno specifico Post, nonché, sempre in questo Blog, in PAGINE, PARTE 1^).
Come osserva Bertante, Graeber propone “un affascinante viaggio nella storia delle diverse civiltà”, entro cui ”pone in serio dubbio l’esistenza stessa del baratto come modello di rapporto commerciale dominante” e quindi l’astrattezza del concetto di “mercato” (come scambio teoricamente tra eguali), su cui si fondano le discipline economiche e nel suo insieme la cultura egemone dell’Occidente (sia nella variante neo-liberista che – secondo Graeber – nelle modalità subalterne fatte proprie dal “movimento operaio”).
L’Autore soprattutto impiega il suo sapere antropologico, riferito sia alle civiltà antiche sia alle tribù primordiali esplorate negli ultimi decenni, per dimostrare quanto il baratto risulti marginale (limitato a parte degli scambi esterni alle comunità) rispetto ad assetti sociali impostati sulla comunanza delle risorse, sulla autorità “morale” e sugli incroci di “doveri” non quantificabili, ovvero di “debiti impagabili” (dall’amore materno/paterno/filiale alla riconoscenza per chi ti ha salvato la vita), che presentano pesanti smagliature solo nel trattamento da riservare al “nemico” (estraneo alla tribù), il quale può anche divenire schiavo ed essere considerato, conteggiato e scambiato come “numero” e non come “persona” (in tal modo, tra l’altro, lo schiavismo europeo nell’Africa nera riuscì ad avvalersi delle strutture tribali – al tempo stesso destabilizzandole - per approvvigionarsi di schiavi)
Graeber definisce tali società “econome umane”, cui contrappone (schematizzo) le economie dello scambio, soprattutto se monetario, in cui prevale la spersonalizzazione dei rapporti, la quantificazione dei debiti e il venir meno del criterio di onorabilità per l’accesso al credito.
Mi sembra meno convincente (per la forse eccessiva ricerca di paralleli e convergenze) l’ampio affresco storico con raffronti internazionali sull’intero pianeta, così riassumibile:
- Antichità, in cui tra l’altro, in Mesopotamia, come estensione del tempio e del palazzo, fondati sull’amministrazione dei beni comuni e sugli scambi di lavoro e cibo, emergono attorno al 3000 avanti Cristo anche i mercati ed i mercanti (nonché il prestito ad interesse), soprattutto in funzione del “commercio estero”, mentre ai margini si organizzano tribù di pastori/predoni antagonisti (inclusi coloro che sfuggono dalle città per evitare la servitù per debito);
- Imperi assiali (quasi contemporaneamente, dall’800 avanti Cristo al 600 dopo Cristo, nel Mediterraneo, in India, in Cina), caratterizzati da militarismo, schiavismo, monete coniate in metalli preziosi (per il soldo agli eserciti e la spendibilità immediata anche in luoghi remoti e tra sconosciuti) e dallo sviluppo di pensieri “speculativi” (sia nel senso di una filosofia laica, sia in quello del calcolo di convenienza);
- Periodi “medievali” successivi, con forme statali ed economiche più labili e “locali”, in cui le antiche monete restano comunità di conto, ma non circolano, e si diffondono invece forme cartacee di regolazione di debiti e crediti, mentre le grandi religioni (ed anche le rivolte contadine, in Cina) mettono in discussione schiavitù ed usura, con il grande sviluppo dei mercati e mercanti mussulmani, attorno all’Oceano Indiano, liberi dalle ingerenze dello stato ed operanti sulla fiducia e l’assenza di prestiti ad interesse e viceversa con lo sviluppo pre-capitalistico dei grandi templi buddisti, imprese collettive e tesaurizzatrici;
- Imperi coloniali e capitalistici “moderni” (dal 1450 d.C.), con il ritorno dei grandi eserciti, della monetazione metallica e della schiavitù (riservata, per i cristiani, alle razze inferiori ed esercitata in prevalenza fuori Europa) e con il progressivo “sdoganamento” dell’usura (sia per gli Ebrei che per i Cristiani, con le Riforme protestanti a fare da traino), fino all’affermarsi del paradigma indiscusso della presenza costante del prestito d interesse (e più modernamente con il connesso dogma della “crescita del PIL”); interessante vedere l’inizio della globalizzazione, dal 16^ secolo, con il flusso massiccio di argento dall’Europa e dall’Africa, e poi dalle Americhe, verso la Cina, bisognosa di moneta metallica ed esportatrice di merci pregiate;
- Età contemporanea o dell’incertezza (parole mie) ovvero “L’inizio di qualcosa ancora da definire”, a partire dall’abbandono americano della convertibilità dollaro-oro (1971) e dalla diffusione del debito privato (che i poveri però devono vivere come “colpa”, mentre banchieri e speculatori si fano rimborsare dagli stati) e pubblico, questo causato e ad un tempo e sorretto – per gli USA – dall’esercizio della loro forza militare mondiale.
Mi sembra meno convincente (per la forse eccessiva ricerca di paralleli e convergenze) l’ampio affresco storico con raffronti internazionali sull’intero pianeta, così riassumibile:
- Antichità, in cui tra l’altro, in Mesopotamia, come estensione del tempio e del palazzo, fondati sull’amministrazione dei beni comuni e sugli scambi di lavoro e cibo, emergono attorno al 3000 avanti Cristo anche i mercati ed i mercanti (nonché il prestito ad interesse), soprattutto in funzione del “commercio estero”, mentre ai margini si organizzano tribù di pastori/predoni antagonisti (inclusi coloro che sfuggono dalle città per evitare la servitù per debito);
- Imperi assiali (quasi contemporaneamente, dall’800 avanti Cristo al 600 dopo Cristo, nel Mediterraneo, in India, in Cina), caratterizzati da militarismo, schiavismo, monete coniate in metalli preziosi (per il soldo agli eserciti e la spendibilità immediata anche in luoghi remoti e tra sconosciuti) e dallo sviluppo di pensieri “speculativi” (sia nel senso di una filosofia laica, sia in quello del calcolo di convenienza);
- Periodi “medievali” successivi, con forme statali ed economiche più labili e “locali”, in cui le antiche monete restano comunità di conto, ma non circolano, e si diffondono invece forme cartacee di regolazione di debiti e crediti, mentre le grandi religioni (ed anche le rivolte contadine, in Cina) mettono in discussione schiavitù ed usura, con il grande sviluppo dei mercati e mercanti mussulmani, attorno all’Oceano Indiano, liberi dalle ingerenze dello stato ed operanti sulla fiducia e l’assenza di prestiti ad interesse e viceversa con lo sviluppo pre-capitalistico dei grandi templi buddisti, imprese collettive e tesaurizzatrici;
- Imperi coloniali e capitalistici “moderni” (dal 1450 d.C.), con il ritorno dei grandi eserciti, della monetazione metallica e della schiavitù (riservata, per i cristiani, alle razze inferiori ed esercitata in prevalenza fuori Europa) e con il progressivo “sdoganamento” dell’usura (sia per gli Ebrei che per i Cristiani, con le Riforme protestanti a fare da traino), fino all’affermarsi del paradigma indiscusso della presenza costante del prestito d interesse (e più modernamente con il connesso dogma della “crescita del PIL”); interessante vedere l’inizio della globalizzazione, dal 16^ secolo, con il flusso massiccio di argento dall’Europa e dall’Africa, e poi dalle Americhe, verso la Cina, bisognosa di moneta metallica ed esportatrice di merci pregiate;
- Età contemporanea o dell’incertezza (parole mie) ovvero “L’inizio di qualcosa ancora da definire”, a partire dall’abbandono americano della convertibilità dollaro-oro (1971) e dalla diffusione del debito privato (che i poveri però devono vivere come “colpa”, mentre banchieri e speculatori si fano rimborsare dagli stati) e pubblico, questo causato e ad un tempo e sorretto – per gli USA – dall’esercizio della loro forza militare mondiale.
Mi sembra molto valido il punto di vista non-euro-centrico dell’intero panorama geo-storico e l’approccio dialettico, che evidenzia i conflitti e le crisi, opponendosi a visioni tradizionali di sviluppo lineare e di progressismo ottimista e superando lo schematismo del Marx di “Forme economiche precapitalistiche” (da correlare però alle limitate conoscenze storiche ed archeologiche del tempo).
Meno valida invece la spiegazione della svolta capitalistica dell’Occidente cristiano (aggravata del traduttore che propone “avarizia” in luogo di “avidità”, probabilmente “greed” nel testo originale) che – anche prima della legittimazione luterana e calvinista del prestito ad interesse - ha visto svilupparsi nel suo ambito il successo economico e politico-militare dei banchieri (a partire da Firenze e Genova) e nonché forti correnti di imperialismo predatorio già prima del Rinascimento, con l’intreccio tra Crociate e repubbliche marinare/corsare, e poi – anche in piena area cattolica - con l’imperialismo coloniale.
Ancor meno convincente mi è sembrata la parte finale, che – forse anche per un’ottica nord-americana, che contempla sindacati deboli, proletari militaristi e indebitamento di massa – sottovaluta di fatto la contraddizione tra lavoro salariato e capitale (non solo in Occidente, ma nelle nuove città-fabbriche dell’ex “terzo mondo”), evidenziando - a mio avviso eccessivamente - gli sconfinamenti del primo nel ritorno allo schiavismo e del secondo nella pura rapina “a mano armata” (nel senso del sostegno politico-militare), e privilegiando la questione del debito, non tanto come struttura macro-economica (vedi Gallino), ma soprattutto a livello antropologico: la ricchezza come dono di Dio e il debito come colpa da espiare
Ad esempio evidenzia l’iniquità dei debiti di studio per gli studenti universitari anglo-sassoni, proponendo come via d’uscita (destabilizzante) l’azzeramento dei debiti stessi e non considerando altre alternative nell’ambito della ridistribuzione del reddito, quali la rivendicazione di salari più alti per i genitori oppure di borse di studio e/o gratuità degli studi superiori (perché comunque il capitalismo non potrebbe soddisfare richieste universaliste, senza andare in crisi).
“Debitori di tutto il mondo unitevi” sembra essere la parola d’ordine per la rivolta anticapitalista ed anti-statuale tratteggiata da Graeber, per ora solo in negativo: per l’Autore è preliminare demolire il paradigma culturale del baratto e del debito; dove andremo lo si scoprirà poi; forse a partire dall’Irak, dove il prestito ad interesse è stato inventato nel 4000 a.C. e poi sospeso per mille anni dai mussulmani; forse altrove.
L’insieme del messaggio mi sembra molto stimolante sotto il profilo culturale, come sollecitazione a rivisitare molte categorie del pensiero corrente esercitando una sorta di “microfisica del potere economico”; poco convincente sotto il profilo della proposta politica, perché se è vero che non si vedono in campo valide alternative di riformismo radicale adeguate alle dimensioni della crisi del finanz-capitalismo (vedi mia nota ai limiti della linea Gallino), pare difficile generalizzare come modello la rivolta dei contadini-debitori che incendiano il municipio con li registro dei debiti, oppure accontentarsi di un anarchismo de-costruttore, rinviando ad un domani imprecisato gli indirizzi per ricucire il tessuto sociale, cioè accelerare la crisi, in quanto ineluttabile, e prepararsi culturalmente alle bellezze di un nuovo medioevo.
09-05-2013
09-05-2013
5 - FINALE DI PARTITO, SECONDO MARCO REVELLI
Marco Revelli in “Finale di Partito” - Einaudi 2012, pagg. 117 - svolge una analisi approfondita e di taglio scientifico sul fenomeno della crisi dei partiti, andando oltre i facili scandalismi sulla “casta” ed oltre le schermaglie quotidiane del chiacchiericcio politico-giornalistico.
Benché ricco di note e citazioni, in quanto ancorato ad un vasto repertorio di dati elettorali e connessi nonché ad un solido retroterra di letture storiche e sociologiche (che includono alcuni degli autori recensiti nel mio blog, da Luciano Gallino a Zigmunt Bauman e che sono comparate criticamente, come anche a me piace fare), il libro risulta agile e leggibile, anche perché scritto con indubbie capacità narrative.
o globalizzazione (e crisi)
o salto tecnologico dei media e delle comunicazioni
o scolarizzazione di massa
o diffusione e poi incertezza del benessere
o frammentazione sociale e individualismo
si manifesta un inevitabile parallelismo tra crisi del modello produttivo “fordista” e del sistema statuale “burocratico-weberiano” e crisi dei partiti di massa in quanto “fabbrica della decisione e del consenso”, con crescenti manifestazioni di intolleranza da parte della base elettorale verso le espressioni oligarchiche del potere formalmente “democratico”.
L’aspetto rigido dell’organizzazione si accentua per i partiti rivoluzionari od antagonisti.
Sulla gerarchia funzionale tra base, quadri intermedi e vertice nazionale, si innestano tipici comportamenti psicologici, sia da parte delle masse (delega fideista e tendenziale culto della personalità) sia da parte dei capi, che – sulla scorta della professionalità acquisita - tendono inesorabilmente a considerarsi insostituibili e quindi rafforzano le loro posizioni con meccanismi di cooptazione.
(Silvano Andriani recentemente su “l’Unità”, appoggiando il tentativo di rifondazione del PD da parte di Fabrizio Barca, liquidava le tesi di Michels come non-attuali: potrei condividere questo giudizio, se venisse però dettagliatamente dimostrato, come Andriani non fa; lo stesso Barca nel suo documento “Un partito nuovo per un buon governo”, pur richiamando più volte il testo di Revelli, si defila in realtà dal confrontarsi a fondo nel merito della ineluttabilità o meno dell’oligarchia – vedi mio Post del 23-06-13)
Una tendenza che spiega perché i partiti, ormai ridotti ad uno stato tra il liquido e il gassoso, risultino compressi in una morsa triangolare, tra il potere economico, quello mediatico, ed i comportamenti sempre meno prevedibili della base elettorale
- la “democrazia del pubblico” secondo Bernard Manin, che non si riferisce ai “beni comuni”, bensì al pubblico delle rappresentazioni mediatiche, “audience” da conquistare da parte di “imprenditori politici” (l’Italia di Berlusconi e poi di Grillo&Casaleggio a mio avviso costituiscono validi esempi);
- la mitologia della democrazia “istantanea” secondo (per l’appunto) Grillo&Casaleggio, che attribuiscono alle nuove tecnologie un imminente salto sociale democratizzante, simile a quello della riforma luterana (resa possibile dalla stampa di Guttemberg), con un superamento dei vecchi media settoriali ed una esaltazione dei caratteri – post-ideologici e post-leaderistici (?!) – della “rete” e della sua trasparenza, accessibilità e immediatezza: ma – osserva lo stesso Revelli, già nel 2012 – lo stesso MoVimento 5 Stelle risulta esposto alle leggi della gerarchia, e la riduzione del confronto ad un Clik binario (si/no) ovvero referendario schiaccia tutte le necessarie mediazioni ed articolazioni, deprimendo il patrimonio stesso di un’utenza più istruita (Revelli trascura inoltre la scarsa trasparenza tecnica che può imperversare nel web proprio per le sue intrinseche complessità, e di cui lo spionaggio massiccio degli USA anche tramite i social-network tipo FaceBook, e la stessa opaca company di Casaleggio sono recenti esemplificazioni);
- la “contro-democrazia” di Pierre Rosanvallon, che non coincide con l’antipolitica, perché – malgrado i rischi del populismo – nelle società iper-complesse, dove regnano la fine dell’ottimismo tecnologico, il rischio e l’imprevedibilità economica, e vengono meno le “basi materiali della fiducia sociale”, tuttavia il “popolo”, consapevole di non esercitare “il potere”, sempre più svolge direttamente compiti di controllo, di “interdizione” , configurando una sorta di “democrazia negativa”, che cresce in proporzione alla “entropia rappresentativa” cioè al logorarsi delle forme tradizionali di rappresentanza; Revelli accenna su questo tema anche al dibattito tra Laclau, che intravede nel populismo una positiva ricostruzione del “noi” oltre l‘individualismo, e Zizek, che invece ne evidenzia le pericolose artificialità, trattandosi di forme di riunione di un popolo socialmente dissolto: sullo sfondo le “masse negative” di Elias Canetti (e di mio aggiungerei anche le riflessioni di Maffesoli sulle “nuove tribù);
- le forme di democrazia locale, care a Ulrich Beck (e anche a Magnaghi ed altri, vedi mio Post sul “Localismo cosmopolita” del 27-02-13), e verso cui propende forse lo stesso Revelli, che vedono una nuova cittadinanza attiva dal basso, preparata ed esigente, su livelli per il momento “orizzontali” e “sub-politici”, ma anche capace di protagonismi a scala nazionale, come i referendum sull’acqua, giustamente difesi – nota Revelli a inizio di volume – dalla Corte Costituzionale con una storica sentenza che esplicita i limiti di sovranità degli eletti rispetto alla sovranità degli stessi elettori (Revelli in una recente intervista non esclude nemmeno, dall crescita dei movimenti, una possibile rigenerazione dei partiti).
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Sempre nella consapevolezza “scientifica” di stare nell’età dell’incertezza, e quindi di porsi domande senza essere sicuri di trovare le risposte.
06-07-13
Il testo prende le mosse, con un’apparenza di “instant book”, dagli “tsunami” elettorali del 2012 in Grecia (politiche ripetute) ed in Italia (amministrative), ma – pur non potendo prevedere i successivi sviluppi italiani del 2013 (recupero di Berlusconi e straripamento di Grillo alle politiche in febbraio, con successivi sgonfiamenti alle amministrative di maggio-giugno; “mancata vittoria” del PD a febbraio e sua tenuta, ma con perdita di voti assoluti, nelle comunali) - conserva la validità delle sue considerazioni di fondo sulla crisi dei partiti nella società occidentale post-moderna (rispetto al secondo Novecento), che si possono così schematizzare:
in un quadro sociale caratterizzato da:o globalizzazione (e crisi)
o salto tecnologico dei media e delle comunicazioni
o scolarizzazione di massa
o diffusione e poi incertezza del benessere
o frammentazione sociale e individualismo
si manifesta un inevitabile parallelismo tra crisi del modello produttivo “fordista” e del sistema statuale “burocratico-weberiano” e crisi dei partiti di massa in quanto “fabbrica della decisione e del consenso”, con crescenti manifestazioni di intolleranza da parte della base elettorale verso le espressioni oligarchiche del potere formalmente “democratico”.
L’intreccio tra impresa fordista, burocrazia moderna e partiti di massa è indagato da Revelli fin dal suo sorgere, nel primo Novecento, con il supporto tra l’altro del pensiero di Antonio Gramsci; nell’insieme queste forme organizzative tendono a “combinare un insieme complesso di uomini e di tecniche secondo un piano di perfetta razionalità, in modo tale da massimizzare i risultati minimizzando i costi”: economie di scala, specializzazione delle mansioni, gigantismo, integrazione verticale (fare tutto all’interno dell’azienda ovvero dell’organizzazione); sul finire del secolo invece, data l’insostenibilità dei costi fissi dell’impresa fordista a fronte della saturazione parziale e della volatilità dei mercati, emergerà il “toyotismo”, puntando invece su decentramento, delocalizzazione, esternalizzazione, “reti lunghe” e “autonomazione”, e arrivando a sostituire quindi la mano visibile dell’organizzazione (che faceva tutto in proprio con costi crescenti) con la “mano invisibile del mercato” (dove tutto può essere acquistato a prezzi decrescenti).
La “necessaria” deriva oligarchica dei partiti è descritta da Revelli appoggiandosi (a mio avviso su questo con limitato distacco critico), alle tesi espresse nel 1911-12 di Roberto Michels, intellettuale e attivista proveniente dalla socialdemocrazia tedesca, poi approdato al fascismo italiano passando, come Mussolini, dall’esperienza dell’anarco-sindacalismo di Sorel (e subendo l’influenza di Pareto e Mosca e delle loro teorie cinico-conservatrici sulla formazione e riproduzione delle élites).
Secondo Michels, in accordo con lo scientismo del suo tempo, esiste una “ferrea” legge che determina, dato l’alto numero dei simpatizzanti e militanti di base (e la assoluta ininfluenza che può esprimere l’azione di ciascuno di essi senza l’organizzazione), la necessità di una articolazione piramidale del partito, con organismi centrali in grado di controllare le strutture di servizio (finanziamento, stampa, sicurezza), le cariche elettive nelle istituzioni, e di assumere le decisioni, strategiche e tattiche, con la dovuta rapidità.L’aspetto rigido dell’organizzazione si accentua per i partiti rivoluzionari od antagonisti.
Sulla gerarchia funzionale tra base, quadri intermedi e vertice nazionale, si innestano tipici comportamenti psicologici, sia da parte delle masse (delega fideista e tendenziale culto della personalità) sia da parte dei capi, che – sulla scorta della professionalità acquisita - tendono inesorabilmente a considerarsi insostituibili e quindi rafforzano le loro posizioni con meccanismi di cooptazione.
(Silvano Andriani recentemente su “l’Unità”, appoggiando il tentativo di rifondazione del PD da parte di Fabrizio Barca, liquidava le tesi di Michels come non-attuali: potrei condividere questo giudizio, se venisse però dettagliatamente dimostrato, come Andriani non fa; lo stesso Barca nel suo documento “Un partito nuovo per un buon governo”, pur richiamando più volte il testo di Revelli, si defila in realtà dal confrontarsi a fondo nel merito della ineluttabilità o meno dell’oligarchia – vedi mio Post del 23-06-13)
Nelle trasformazioni del secondo Novecento, Revelli prende in considerazione diverse letture, da quella di Schumpeter che vede la democrazia rappresentativa come un’oligarchia temperata, con possibilità di scelta tra diverse élites, a quella di Sennet che evidenzia l’ipertrofia dell’Io, il crollo del confine tra sfera privata e sfera pubblica per i leaders, umanizzati dal gossip ma comunque separati in un “mondo a parte”, fino alla società liquida di Bauman (rimando al mio Post) e alle visioni di Ronald Inglehart sull’individualismo “metropolitano” e sulla prevalenza dei “bisogni immateriali” (che sgretola l’omogeneità dei bisogni materiali su cui si fondavano i partiti di massa).
Su questo sfondo, la ricerca di Revelli si concentra soprattutto sulla crisi dei partiti di massa della sinistra europea, travolti dalla crisi del fordismo nella capacità di rappresentare i bisogni sociali, colpiti dalla volatilità elettorale e – con il volontariato dei militanti in calo – stretti nella morsa tra i costi incomprimibili dell’organizzazione storica (i funzionari) ed i nuovi e crescenti costi esterni per la comunicazione specializzata sui media, che non può essere auto-prodotta (per questioni di professionalità, di tecnologia e di insediamento nel mercato dell’audience); con il tentativo delle primarie come evento democratico, che copre, ma non corregge, la rigidità delle oligarchie interne.
In particolare il testo analizza la curva esponenziale delle spese per le campagne elettorali, sia negli USA e Canada, sia in Europa, e individua una costante statistica per cui comunque risulta vincente il candidato che ha potuto spendere di più.Una tendenza che spiega perché i partiti, ormai ridotti ad uno stato tra il liquido e il gassoso, risultino compressi in una morsa triangolare, tra il potere economico, quello mediatico, ed i comportamenti sempre meno prevedibili della base elettorale
Nella parte finale di “Finale di partito”, Revelli si interroga sui possibili esiti delle evoluzioni in atto e sulla prospettiva di una democrazia senza partiti, così come la democrazia dei partiti sostituì quella dei notabili tipica dell’Ottocento (quando la base elettorale era ristretta dal censo e assai limitati erano i mezzi di comunicazione).
Tra le ipotesi considerate da Revelli:- la “democrazia del pubblico” secondo Bernard Manin, che non si riferisce ai “beni comuni”, bensì al pubblico delle rappresentazioni mediatiche, “audience” da conquistare da parte di “imprenditori politici” (l’Italia di Berlusconi e poi di Grillo&Casaleggio a mio avviso costituiscono validi esempi);
- la mitologia della democrazia “istantanea” secondo (per l’appunto) Grillo&Casaleggio, che attribuiscono alle nuove tecnologie un imminente salto sociale democratizzante, simile a quello della riforma luterana (resa possibile dalla stampa di Guttemberg), con un superamento dei vecchi media settoriali ed una esaltazione dei caratteri – post-ideologici e post-leaderistici (?!) – della “rete” e della sua trasparenza, accessibilità e immediatezza: ma – osserva lo stesso Revelli, già nel 2012 – lo stesso MoVimento 5 Stelle risulta esposto alle leggi della gerarchia, e la riduzione del confronto ad un Clik binario (si/no) ovvero referendario schiaccia tutte le necessarie mediazioni ed articolazioni, deprimendo il patrimonio stesso di un’utenza più istruita (Revelli trascura inoltre la scarsa trasparenza tecnica che può imperversare nel web proprio per le sue intrinseche complessità, e di cui lo spionaggio massiccio degli USA anche tramite i social-network tipo FaceBook, e la stessa opaca company di Casaleggio sono recenti esemplificazioni);
- la “contro-democrazia” di Pierre Rosanvallon, che non coincide con l’antipolitica, perché – malgrado i rischi del populismo – nelle società iper-complesse, dove regnano la fine dell’ottimismo tecnologico, il rischio e l’imprevedibilità economica, e vengono meno le “basi materiali della fiducia sociale”, tuttavia il “popolo”, consapevole di non esercitare “il potere”, sempre più svolge direttamente compiti di controllo, di “interdizione” , configurando una sorta di “democrazia negativa”, che cresce in proporzione alla “entropia rappresentativa” cioè al logorarsi delle forme tradizionali di rappresentanza; Revelli accenna su questo tema anche al dibattito tra Laclau, che intravede nel populismo una positiva ricostruzione del “noi” oltre l‘individualismo, e Zizek, che invece ne evidenzia le pericolose artificialità, trattandosi di forme di riunione di un popolo socialmente dissolto: sullo sfondo le “masse negative” di Elias Canetti (e di mio aggiungerei anche le riflessioni di Maffesoli sulle “nuove tribù);
- le forme di democrazia locale, care a Ulrich Beck (e anche a Magnaghi ed altri, vedi mio Post sul “Localismo cosmopolita” del 27-02-13), e verso cui propende forse lo stesso Revelli, che vedono una nuova cittadinanza attiva dal basso, preparata ed esigente, su livelli per il momento “orizzontali” e “sub-politici”, ma anche capace di protagonismi a scala nazionale, come i referendum sull’acqua, giustamente difesi – nota Revelli a inizio di volume – dalla Corte Costituzionale con una storica sentenza che esplicita i limiti di sovranità degli eletti rispetto alla sovranità degli stessi elettori (Revelli in una recente intervista non esclude nemmeno, dall crescita dei movimenti, una possibile rigenerazione dei partiti).
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Recentemente il vice-ministro Stefano Fassina, alla presentazione del libro di Pierre Carniti “La risacca – il lavoro senza lavoro“, ne raccomandava una sorta di obbligo di lettura per tutti i (numerosi) candidati alla Segreteria del PD; io volentieri (in attesa di leggere Carniti, anche se al PD non sono nemmeno iscritto) aggiungerei l’obbligo di leggere “Finale di Partito” di Revelli (e bibliografia connessa), nonché di girare per il Paese (come sta meritoriamente facendo Barca, pur senza candidarsi), per capire nel concreto la distanza tra “circoli” e società, e tra lo strato dei militanti/simpatizzanti ed il mondo del vertice nazionale del Partito.
Mi rendo conto di aver sempre un po’ sottovalutato il tema del Partito, dai tempi giovanili del collettivo Autonomo dii Architettura di Milano e di Lotta Continua, fino al mio saggio sulla Sostenibilità urbana (vedi pag. “Parte IV” e post “Proposte di legislazione ---“ del 15-03-13) privilegiando sempre i temi della società “tal quale” e – nel suddetto saggio – il problema “in astratto” della organizzazione del consenso e di un programma riformista radicale, senza analizzare la concretezza della sinistra italiana oggi.
Non sono forse in questo isolato; il tema dell’organizzazione politica è stato confinato a lungo, a sinistra, nell’ambito dell’ideologia oppure degli oscuri specialisti in statuti e regolamenti, salvo aprire – senza troppe riflessioni – ai maghi dei sondaggi e delle primarie (cioè in sostanza all’ideologia della comunicazione pubblicitaria): ed oggi sembra che nel PD (tranne Barca – con Civati nella sua scia - , Reichlin e pochi altri) si discuta di “regole” (a partire dallo stesso Matteo Renzi) solo per favorire o impallinare Matteo Renzi.
A sinistra del PD in merito non vedo molte luci (tranne gli intellettuali d’area, come Revelli), e all’orizzonte solo l’abbagliante deserto del non-statuto di Beppe Grillo (molti, troppi, gli accecati dai miraggi).
Revelli mi ha chiarito come pochi altri prima (ad esempio femministe ed operai nella dissoluzione di Lotta Continua attraverso il congresso di Rimini - 1975) lo spessore sociale della stessa questione del Partito (allora un partito presunto rivoluzionario, oggi uno o più partiti presunti riformisti).
Ne nasce uno stimolo – a mio avviso importante per tutta la sinistra – a considerare la continuità tra l’approccio scientifico/sociologico e quello storico/politico sia ai temi della società (e quindi dei programmi) sia ai temi dei soggetti politici (e quindi dell’organizzazione), senza artificiose e cristallizzate separazioni. Sempre nella consapevolezza “scientifica” di stare nell’età dell’incertezza, e quindi di porsi domande senza essere sicuri di trovare le risposte.
06-07-13
5 BIS - INGLEHART E LA POST-DEMOCRAZIA
Stimolato dai riferimenti bibliografici di Marco Revelli in “Finale di partito”, sono risalito ad una delle sue fonti di riflessione, “La società postmoderna” di Ronald Inglehart (Editori Riuniti – 1998 – pagg. 478), sociologo del Michigan e coordinatore a livello internazionale delle campagne di indagini demoscopiche “World Values Surveys”, svolte ripetutamente con domande identiche (o quasi) in 43 paesi.
In particolare il testo descrive ed analizza gli esiti dei rilevamenti del 1981 e del 1990, affiancandoli ad alcuni risultati – per il solo campo dell’Europa comunitaria – del cosiddetto “Eurobarometro” e ad altre ricerche più puntuali.
Anche se le valutazioni di Inglehart e collaboratori sono intrecciate con la lettura di altri dati statistici “oggettivi” (ad esempio la crescita del PIL, la demografia, i rivolgimenti politico-istituzionali), la materia prima dello studio è costituita dalle “opinioni” della popolazione, rilevate tramite questionari a campione, ed in particolare dai valori medi a livello nazionale (e talora a livello locale) delle diverse risposte, confrontate con quelle delle altre nazioni e nel divenire temporale, in parte anche prima del 1981 e dopo il 1990 (ma purtroppo non dopo il 1996, data della ricerca, la quale pertanto ha potuto misurarsi solo con alcune recessioni cicliche del secondo ‘900 in singole aree geografiche, ma non con il tema della grande recessione successiva al 2007).
La fede di Inglehart e degli altri ricercatori nelle opinioni e nelle “medie” risulta priva di qualsivoglia forma di dubbio, riserva o “istruzione per l’uso”: per esempio tra gli indicatori assunti figura la risposta a quesiti circa l’adesione degli intervistati ad organismi di volontariato, senza che vi sia alcun riscontro sul dato oggettivo delle iscrizioni effettive a tali associazioni; in generale non si da peso alla preoccupazione circa l’attendibilità delle riposte e circa le distorsioni tipiche che alcuni sondaggi comportano; le medie nazionali – ammette Inglehart - rischiano di rafforzare stereotipi e luoghi comuni, ma il rischio viene accettato senza specifici rimedi (quali ad esempio la rilevazione dell’ampiezza degli scostamenti rispetto alle stesse medie): pare che la raffinatezza degli algoritmi di calcolo appaghi i ricercatori riguardo alla scientificità del loro lavoro, come spesso accade negli ambiti specialistici.
(Accettando il criterio delle medie nazionali, appare alquanto affascinante la ricomposizione della costellazione dei risultati nelle illustrazioni tabellari, ovvero nello spazio cartesiano delle matrici dei dati: le nazioni formano nuove arcipelaghi ed i continenti sperimentano nuove derive nei quadranti delle opinioni).
L’assunto di fondo della ricerca consiste nella individuazione di un percorso “tipico” (e quindi addirittura prevedibile, per il futuro delle nazioni ancora sotto-sviluppate) nel processo di sviluppo economico delle singole nazioni, evidenziando che – salvo eccezioni, spiegate soprattutto con l’incertezza determinata da rivolgimenti politico-istituzionali (ad esempio Sud Africa ed Est Europa) - :
- nel passaggio dall’economia di sopravvivenza al decollo industriale si rilevano mutamenti nel sistema di pensiero, correlati al venir meno della preoccupazione basilare per la sussistenza, con l’abbandono delle ideologie tradizionali (in materia di religione, famiglia, autorità) e l’istaurazione di criteri “legal-razionali”, ma molto legati agli aspetti materiali dell’esistenza e con una prevalenza di componenti autoritario-burocratici;
- con il successivo raggiungimento di livelli diffusi di benessere materiale e quindi con il calare della “utilità marginale” della maggior ricchezza, insorgono invece valori cosiddetti “post-materialisti” o postmoderni, come l’attenzione alla libertà individuale (propria e altrui), all’ambiente ed alla qualità della vita, e l’insofferenza verso lo statalismo e l’eccesso di burocrazia (ed anche verso i partiti di massa): tra questi valori si afferma una qualche rivalutazione della famiglia e della religione, ma non in termini di riproposizione della cultura tradizionale (altra cosa è la rinascita dei fondamentalismi religiosi, che Inglehart vede come reazioni marginali alla progressiva secolarizzazione, forti solo in contesti ancora privi di una effettiva modernizzazione: tesi discutibile, ed in effetti contrastata da altri e diversissimi autori, da Samuel P. Huntington a Ulrich Beck));
- i mutamenti nel sistema di opinioni non sono lineari, ma subentrano con i ricambi generazionali, perché l’assetto ideologico delle persone si “cristallizza” per lo più all’età della formazione e poi tende a conservarsi con limitati aggiornamenti.
Altro aspetto ampiamente indagato è la natura delle correlazioni tra cultura e sviluppo, con una interpretazione che tende a superare la contrapposizione tra Marx (la struttura determina la sovrastruttura) e Weber (lo sviluppo capitalistico come prodotto dell’etica calvinista), rilevando invece le reciproche interferenze tra progresso materiale ed evoluzione culturale, soprattutto in termini di attenzione alle propensioni culturali, quali ad esempio la motivazione individuale al successo (contrastata spesso dalle culture religiose tradizionali) come premessa rilevante per lo sviluppo socio-economico.
Anche i rapporti tra le istituzioni democratiche ed il necessario substrato culturale di lungo periodo (ad esempio gli indicatori della fiducia nel prossimo e della partecipazioni ad associazioni), in relazione con lo sviluppo economico, sono studiati come interrelazioni aperte e non univoche (ad esempio risulta difficile la democrazia senza benessere, mentre è possibile il progresso economico senza democrazia).
Mi sono sembrati molto interessanti (anche in relazione al testo di Revelli), ma non del tutto convincenti, gli sviluppi della ricerca sui valori post-materialisti in campo politico, con le seguenti affermazioni principali:
- l’apprezzamento per la democrazia sarebbe comunque in crescita, pur in presenza di disaffezione al voto ed alla vita dei grandi partiti, perché nel frattempo aumenta l’attivismo e la partecipazione ad iniziative di tipo diretto
- l’ecologismo (con agli antipodi i localismi xenofobi di reazione alla modernità) si porrebbe come un nuovo asse discriminante, “ortogonale” alla tradizionale polarizzazione destra/sinistra.
L’analisi, riferita soprattutto all’Europa Occidentale (perché negli USA il bipartitismo formalmente tiene di più, anche per il sistema elettorale iper-maggioritario), coglie abbastanza bene la problematica specifica delle leadership dei partiti di sinistra, costretti a non correre troppo avanti, verso i giovani ed i nuovi ceti medi “post-materialisti” (problematiche di genere, ambientalismo, democrazia diretta), per il rischio di perdere i contatti con l’elettorato tradizionale dei lavoratori manuali più anziani, attratto anche dai populismi xenofobi.
Tuttavia mi sembra che la lettura di Inglehart sulla storia della sinistra europea sia troppo schematica, per esempio per l’accento da lui posto sulla tematica della “proprietà pubblica di mezzi di produzione”, che in realtà si è estinta abbastanza presto, nei primi decenni post-bellici, e per la difficoltà a spiegare come comunque il “quadrante” tra sinistra e nuovo polo “post-materialista” sia assai più fecondamente frequentato (vedi quanto meno in Germania e Francia) del contiguo quadrante tra destra e nuovo polo (forse l’asse non è così “ortogonale”?).
Peculiare l’errore storico, a pag.118, circa i post-comunisti italiani: Inglehart attribuisce il passaggio dalla sconfitta del 1994 al successo del 1996 ad un mutamento programmatico del PdS, mentre a mio avviso – a parità di evoluzione programmatica - vi fu soprattutto la formazione di un sistema di alleanze (in verità assai fragile) più consono alla legge elettorale maggioritaria, in una fase di temporaneo indebolimento dei legami Lega/Berlusconi sul fronte di destra.
Di specifico interesse mi è parsa, inoltre, la digressione iniziale sulla compresenza e divergenza tra il fenomeno effettivo della “post-modernità” (vedi quanto sopra riassunto come “post-materialismo”) e le ideologie dei pensatori post-moderni – Lyotard, Derrida - che Inglehart espone nel cap. I, mostrando di non ritenerli effettivamente rappresentativi della realtà in esame.
13-08-2013
13-08-2013
6 - MATRIMONI E PATRIMONI, RELIGIONI E MERCATO NELLE RICERCHE DI GERARD DELILLE
Attratto dalla recensione di Miguel
Gotor su “la Repubblica” dell’ormai lontano 21-agosto 2013, ho letto
“L’economia di Dio” di Gèrard Delille
(ed. Salerno, pagg. 276, € 16, e-book € 8,99), scegliendolo tra altri saggi
anche perché era tra i non molti disponibili su e-book (purtroppo in formato “pdf”, che – quanto meno sul mio lettore Sony -
perde qualche riga a inizio e fine-pagina se si sceglie un carattere
tipografico più grande dell’originale, obbligandomi così a leggerlo in
proporzioni micro)
8 - SETTIMO NON RUBARE, DI PAOLO PRODI
MARZO 2014
9 - IL PRECARIATO ANTI-LABURISTA DI GUY STANDING
Guy Standing, sociologo inglese e già collaboratore dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro, ha scritto nel 2011 il saggio “PRECARI – la nuova classe esplosiva” (tradotto nel 2012 da Il Mulino, Bologna, pagine 289, € 19,00), recentemente recensito con favore da l’Unità, che francamente non mi ha convinto per niente.
MAGGIO 2014
SETTEMBRE 2014
13 - IL RAPPORTO SUL CONSUMO DI SUOLO 2014
17- PIKETTY: IL CAPITALE NEL XXI SECOLO, E PRECEDENTI
FEBBRAIO 2015
18 . VECA E LE ALTERNATIVE
GOVERNARE IL CONSUMO DI SUOLO?
24 - BIO-URBANISITCA A FAENZA, DI ENNIO NONNI&C.
LUGLIO 2015
28 - L'ENCICLICA "LAUDATO SI'" DI PAPA BERGOGLIO
L’Enciclica “Laudato sì”, emanata nel maggio 2015 da Papa Francesco, è stata trattata a mio avviso in modo alquanto superficiale dalla stampa generalista, come uno dei vari aspetti innovativi della comunicazione di questo papato, senza coglierne le implicazioni profonde ed a suo modo rivoluzionarie; parimenti mi pare sia scivolata addosso senza conseguenze al mondo politico ed al mondo cattolico (e quindi in particolare al mondo politico cattolico), che infatti non mostrano di dare avvio ad alcuna “rivoluzione”, nemmeno culturale.
Secchi riassume in breve l’evoluzione delle città negli ultimi secoli, ed evidenzia il differente percorso tra
- le città americane (del Nord come del Sud America), in cui è prevalente il semplice rispecchiamento sul territorio della divisione tra le classi, con i crescenti fenomeni di insediamenti recintati, destinati ai più abbienti (ed ai ceti medi ad essi integrati) e preclusi ai meno abbienti, le cui abitazioni, segregate ai margini, sono però necessarie allo svolgimento dei ruoli servili e subalterni all’interno della società ed in particolare degli quartieri esclusivi,
- le città europee, nelle quali regge, almeno in apparenza, una lunga storia di integrazione e welfare urbano, minata però da nuove forme di frammentazione e discriminazione, quali da un lato la dispersione dei ceti medi nella “città diffusa” e dall’altro l’isolamento dei singoli gruppi etnici degli immigrati, per lo più nelle porzioni più degradate delle periferie ex-industriali, mentre aleggiano crescenti paure per ogni genere di “insicurezza” (dal terrorismo alla disoccupazione, dalla microcriminalità alla prevaricazione sessuale).
(In questa panoramica mi sembra che Secchi colga la compresenza tra le parti antiche, moderne e “contemporanee” dei fenomeni urbani, superando un certo schematismo che mi ero permesso di rilevare nella “Prima Lezione”).
La presentazione di Gotor mira alle
tesi sostanziali del testo di Delille, e cioè la correlazione tra “matrimoni” e
“patrimoni”, tra i precetti religiosi, soprattutto in materia di matrimoni tra
parenti (cognati, nipoti e zii) nelle 3 religioni monoteiste del mediterraneo
(ebraismo, cristianesimo ed islamismo) e l’evoluzione dei rapporti
socio-economici nelle correlate civiltà, nel corso degli ultimi 2 millenni ed a
partire dai precedenti assetti sociali e culturali.
Il testo di Delille, in realtà,
soprattutto nella prima parte, è anche e soprattutto un resoconto piuttosto
analitico sulle ricerche specifiche, dell’Autore e di altri soggetti, sulle
vicende dinastico-familiari in segmenti particolari delle suddette storie
millenarie: per un verso un po’ noiose, perché dilungano l’attesa del lettore
interessato alle conclusioni in materia di economia politica, e per altro verso
in sé talvolta divertenti, per la concretezza umana delle vicende indagate
(soprattutto quando si intravedono mascheramenti di matrimoni tra cugini, in
epoche e luoghi di proibizione, oppure palesi abbellimenti postumi di alberi
genealogici di dubbia certezza).
Ed il merito di Delille, a mio avviso,
è proprio quello di stare attinente al tema, pur suggerendo linee
interpretative di ampio respiro (in sintesi, il divieto di matrimoni
“endo-gamici” tra i cristiani per circa un millennio, dal 700 al 1700, motivato
forse dal tentativo di privilegiare i patrimoni ed i poteri delle istituzioni
ecclesiastiche, innesca di fatto un ruolo più autonomo della donna, una mobilità
dei patrimoni e alla fin fine l’autonomia dei mercati dai sovrani e
l’intraprendenza delle imprese capitalistiche) registrando però le aporie, le
contraddizioni e le incertezze degli sviluppi storici, in cui le correlazioni
tra dinamiche matri-patrimoniali ed assetti socio-politici non assurgono mai a
leggi oggettive ed univoche (come
invece traspare dalla recensione di Gotor).
Ad esempio, segnala Gotor, tra i cristiani
“il divieto di unione tra parenti e la capacità della donna di ereditare ---
hanno consentito una maggiore circolazione delle ricchezze e la formazione di
un mercato autonomo, ma anche l’unione di Regni diversi, senza guerra né
sangue, bensì per via matrimoniale”; laddove Delille rileva anche la
compresenza di tendenze opposte, e cioè il permanere della distinzione delle
eredità paterne da quelle materne, con la trasmissione separata a diversi
successori (esempio due fratelli), sia al livello delle massime potenze (vedi
la divisione tra Asburgo d’Austria e di Spagna dopo Carlo V e le successive
norme dinastiche in tal senso nelle principali monarchie) sia al livello
“molecolare” dei “masi” e di simili possedimenti agrari in diverse regioni
europee, dove vige il maggiorascato (e quindi un quasi-schiavismo verso i
cadetti), e però i singoli poderi non possono essere ridotte o ampliate fuori
da sostanziali parametri di equilibrio con le forze e i bisogni del nucleo
familiare e di equità tra i capo-famiglia.
Una limitazione comunitaria (non
comunista) alla proprietà fondiaria, che inibisce l’accumulazione di tipo
capitalista (limita le forme di schiavitù extra-familiari), e contrasta l’altra
linea di tendenza rilevata da Delille nel medio-evo cristiano (sulla scia di un
testo di Paolo Prodi che mi incuriosisce leggere), e cioè la trasformazione dei
feudi da beni imperiali a proprietà private, con la disgregazione definitiva
dello stato imperiale romano e del connesso sistema schiavistico.
Lasciando a parte l’ebraismo, di
forte interesse antropologico, ma di scarso peso socio-politico, trattandosi di
minoranze “in diaspora” senza un proprio stato fino alla metà del secolo XX
(seppur con forte impatto nelle società occidentali, dopo l’emancipazione dai
ghetti), il testo si profila in sostanza come una comparazione tra società
cristiane e società islamiche, individuando una sorta di arretratezza od
inferiorità crescente di queste ultime, tutt’ora in atto riguardo allo status
di inferiorità giuridica e sociale della donna ed alla mancanza di distinzione
tra stato e mercato, mentre ai cristiani, pur attribuendo anche a loro una
giusta dose di misfatti, Delille (sulla scia del suddetto Paolo Prodi),
riconosce meriti sostanziali, non solo sulle 2 questioni specifiche (donna e
mercato), ma sull’indotto effetto del dinamismo imprenditoriale (e parallela
crescita delle più diverse norme di regolazione dell’economia; fino alla fase
più recente della globalizzazione, in cui Delille rileva lo strapotere del
mercato e l’indebolimento delle regole).
Dietro questo giudizio (o
pre-giudizio?) ci sono a mio avviso un bel po’ di nodi da districare, a partire
dallo schiavismo, dissolto in Europa ma nel contempo decisivo per le “sorti
progressive” dell’umanità occidentale, fondate di fatto sull’espansione
coloniale ed imperialista, di nuovo schiavismo assai impregnata.
Mi sembra interessante in proposito il
parallelo oppositivo con i testi di Graeber, già da me recensiti, che viceversa
– fondandosi probabilmente su simmetrici pre-giudizi - esalta l’onestà e
funzionalità del mercato islamico (in assenza di prestiti ad interesse), e la
neutralità del potere politico e religioso verso di esso e vede nell’origine
teologica del capitalismo cristiano (attraverso il lungo dibattito sull’usura e
la finale vittoria della finanza) una solida ragione della sostanziale
nefandezza degli ultimi secoli di sviluppo della globalizzazione.
DICEMBRE 2013
7 - ESPLORAZIONE
E MONITORAGGIO DI QUARTIERI SOSTENIBILI, IN EUROPA, A CURA DI CECCHINI E
CASTELLI
Presentato
su “Urbanistica Informazioni” n° 248/2013 da una breve recensione di Paolo
Avarello, il volume “Scenari, risorse, metodi e realizzazioni per CITTA’ SOSTENIBILI”,
a cura di Domenico Cecchini e Giordana
Castelli (Gangemi editore 2013, pagg. 208, con DVD, € 25,00, non disponibile in
e-book), riprende aggiorna ed allarga la ricerca universitaria già pubblicata
nel 2010 sul n° 141 di “Urbanistica” su alcune realizzazioni di quartieri
“ecologici” in Europa, integrandola con alcuni saggi introduttivi e conclusivi,
interessanti ma non molto “sistemici”, di:
-
Lorenzo
Bellicini (CRESME) sui “cicli edilizi”, produttivi e finanziari, a partire dai
dati dello stesso CRESME, con specifiche riflessioni macro-economiche sul
“sesto ciclo” 1996-2012 spentosi nell’attuale e più generale crisi e sui nessi
tra demografia, migrazioni, domanda, risparmio, debito, produzione e bolle
speculative (il tema mi rammenta uno dei
miti culturali nei miei primi anni di università, ad architettura di Milano dal
1967, e cioè la “tesi-di-laurea-di-Ciro-Noja”);
-
Roberto
Camagni (Politecnico Milano) sulle potenziali modalità per prelevare dalla
rendita urbana, nelle fasi di trasformazione, le risorse necessarie alla
qualità dei servizi (come già ho osservato altrove, tale saggio non si estende
ad un esame della fiscalità ordinaria sulle transazioni immobiliari);
-
Francesco
Rubeo (Sapienza Roma) sul ruolo dei soggetti pubblici e privati e sulle nuove
regole necessarie per svilupparne la indispensabile collaborazione,
nell’attuale fase di carenza di risorse pubbliche;
-
Domenico
Cecchini stesso (Sapienza Roma) sulle tendenze evolutive delle città, mondiali
ed europee, con individuazione per queste – dopo le fasi dell’espansione
post-bellica e della “trasformazione” post-industriale – di un “ciclo della qualità
e della sostenibilità”, esplicitato nella Carta di Lipsia del 2007 e fondato
sull’integrazione delle funzioni, sulla rigenerazione ecologica e sulla ricerca
di qualità ed efficienza degli spazi pubblici e collettivi, cui l’Italia fatica
a partecipare;
-
Francesco
Prosperetti (ex dirigente ministeriale) sul ruolo inizialmente assunto dal
Ministero dei Beni Culturali nella ricerca in esame, in funzione dell’importanza
che la rigenerazione edilizia ed urbanistica, motivata a partire dalle
questioni energetica ed ambientale, assume anche ai fini della riqualificazione
del paesaggio urbano.
Al
centro del testo stanno le analisi – a tavolino e con sopralluoghi - sulla
genesi e gli sviluppi dei quartieri di Hammarby Sjostad (Stoccolma), Solar City
(Linz), Greenwich Millennium Village (Londra) e Parque Goya e Valdespartera
(Saragozza), già indagati nel suddetto saggio in “Urbanistica” n° 141, ma ora
ripresi con maggior approfondimento sia delle criticità intrinseche ai rispettivi
progetti, sia delle problematiche emerse nei primi anni di utilizzo e – in
parte – per i successivi ampliamenti, sia ancora, ove disponibili, dei dati
emersi dal monitoraggio scientifico del funzionamento degli insediamenti.
Ne
risulta un quadro complesso e ricco di chiaro-scuri, più utile probabilmente
per i lettori che non taluni resoconti sulle migliori pratiche di carattere
volutamente ottimistico o quasi agiografico.
(Spiace che il
raffronto non sia esteso ad altri casi molto noti in letteratura, come il GWL
di Amsterdam, a forte densità e connessa pedonalizzazione, oppure i quartieri
Vauban e Riesefeld di Friburgo, recentemente ri-esplorati da Fabiola fratini su
Urbanistica Informazioni n° 248).
Gli
elementi critici che a mio avviso emergono dall’insieme e che personalmente mi
sembrano meritevoli di sottolineatura sono:
-
I
necessari compromessi, già a livello progettuale, tra un’impostazione
strettamente “bio-edilizia” (esposizione lungo l’asse elio-termico,
massimizzazione delle prestazioni energetiche, pedonalità) e le altre polarità
di una progettazione urbana integrata, che determinano morfologie complesse e
---
-
I
livelli “relativi” degli obiettivi di risparmio energetico, più o meno avanzati
al momento della ideazione dei quartieri, ma oggi in gran parte superati dagli
sviluppi tecnologici, e la mancanza di predisposizione per successivi
adeguamenti delle parti già costruite (mentre traspare una discreta reattività
verso la correzione progettuale delle parti di successiva realizzazione)
-
Un
certo scarto tra gli obiettivi di rendimento energetico prefissati ed i consumi
effettivi, in gran parte addebitati ad un uso non corretto degli impianti e
delle strutture, il che a mio avviso è indice o di un progettazione non
adeguata alle effettive condizioni sociali e/o bio-climatiche, oppure di un
discreto insuccesso dell’aspetto educativo e socializzante nella costruzione di
queste porzioni di città.
Altro
dato in comune alle 4 realizzazioni in esame è il vantaggio (non facilmente
riproducibile) derivante dal basso costo di acquisizione dei suoli, di recupero
in 3 casi e su aree libere (già destinate ad espansione produttive) per Solar
City/Linz.
Riguardo
ai singoli quartieri ritengo opportuno rilevare, nell’ambito delle ampie
esposizioni di Giordana Castelli e degli
altri ricercatori, i seguenti aspetti specifici (sempre con la mia attenzione
agli aspetti più problematici):
-
Hammarby
sembra essere il caso di successo più completo ed equilibrato, anche se mi
sembra dubbio il consolidamento degli insediamenti commerciali funzionali al
quartiere;
-
Solar
City, tecnicamente corretto e molto monitorato (considerando però come positivo
uno scarto energetico vicino al 20%) pare soffrire della limitata attuazione
rispetto ad un progetto più vasto e quindi della forte pendolarità verso al
città, da cui provengono i nuovi abitanti, in prevalenze giovani coppie del
“ceto medio”; presenta inoltre una densità edilizia contenuta, e quindi non è
molto risparmioso di suolo;
-
Millennium
Greenwich sta criticando da se il primo “lotto”, prevedendo nelle successive
realizzazioni l’abbandono di una rigida pedonalità e diverse soluzioni
morfologiche e tipologiche;
-
Parque
Goya e Valdespartera, con base sociale assai più povera di Solar City (e con
tipologia edilizia che mi appare per l’appunto assai da “case popolari”)
evidenzia anche per questo alcuni insuccessi nella apertura degli spazi
semi-pubblici (con insorgere di recinzioni) e nell’uso scorretto delle serre
solari (con conseguente scostamento dai risultati bio-climatici attesi).
La
parte finale del testo affronta, con le dovute
riserve, alcuni casi italiani, però più recenti, e quindi senza profondità diacronica:
-
Spina
3 e l’Environment Park di Torino sono correttamente presentati come parte della
complessa e complessiva rigenerazione urbana post-industriale della metropoli
torinese; il frammento attuativo più analizzato è però molto particolare,
trattandosi di un parco tecnologico e non di una porzione più multifunzionale
della città;
-
I
quartieri Resia e Casanova di Bolzano (inseriti nella tradizione ormai consolidata
della normativa alto-atesina “CasaClima”, che coinvolge virtuosamente tutta
l’edilizia nella provincia) ed il quartiere Villa Fastigi di Pesaro (in
attuazione del PRG studiato da Bernardo Secchi ed allievi) sono interventi di
nuova costruzione su aree libere periferiche, eredi della migliore cultura dei
PEEP, che si caratterizzano sia sotto il profilo energetico e bio-climatico,
sia riguardo alla connessione e funzionalità degli spazi pubblici (anche
rispetto al contesto esterno) ed alla
qualità progettuale;
-
Il
quartiere Savonarola di Padova
rappresenta un caso esemplare di “Contratto di Quartiere”, imperniato sul
recupero urbano di un vecchio insediamento di case popolari, con una
progettazione integrata dagli aspetti fisici dei fabbricati e delle
urbanizzazioni a quelli più strettamente sociali.
Mancano più
ampie esplorazioni su realizzazioni e progetti in Italia: mi incuriosirebbe
capire quale sia il risultato complessivo del quartiere Albere (ex-Michelin)
progettato a Trento da Renzo Piano (dove pare che classe A sia indicativo anche
di una selezione sociale verso l’alto, determinata dai prezzi elevati) oppure
se il quartiere “Laguna Verde” di Settimo Torinese (master plan di Pier Paolo
Maggiora) stia per decollare effettivamente oppure sia ancora al PartiamPartiam
promozionale.
Nell’insieme
il testo risulta ben documentato e stimolante.
Proprio
per questo verrebbe voglia di chiedere di più, oltre all’estensione della
campionatura: ad esempio una definizione di indicatori ed una schedatura in parallelo
dei casi in esame (un modesto tentativo è
stato condotto dallo scrivente nel 2010, con Anna Maria Vailati, per alcuni
dati disponibili in letteratura – vedi Urbanistica Informazioni n°229 e nel mio
blog PAGINE-APPENDICE).
Forse
i tempi sono maturi perché il raffronto della casistica conduca anche a
riflessioni di sintesi, non in termini di “nuovi standard” (e nemmeno di
complicati epoca utili indici numerici riassuntivi), ma di una
sistematizzazione delle connessioni dialettiche e “multi-verse” tra le molte variabili
in campo (esempio: densità/consumo di suolo/pedonalità, mixitè/pendolarità/sicurezza,
forma-urbana/bio-clima/rendimento energetico, ecc.).
GENNAIO 2014
8 - SETTIMO NON RUBARE, DI PAOLO PRODI
“Settimo non rubare. Furto e
mercato nella storia dell’Occidente” di Paolo Prodi – Il Mulino, 2009, € 29,00,
pagg. 396 – costituisce un poderoso affresco sulle trasformazioni dell’Europa e
sulle contrapposizioni dialettiche tra potere civile, potere religioso e potere
economico dalla dissoluzione dell’Impero Romano ai giorni nostri.
L’assunto del testo (ampio e ben
leggibile anche se ricco di richiami ad una vastissima bibliografia e di
citazioni, comprese quelle non tradotte dal latino ed altre lingue) è ben
spiegato dallo stesso Autore all’inizio dell’ultimo capitolo: “Il processo di separazione tra il potere
sacro e quello politico che ha caratterizzato dopo la fine del primo millennio
la civiltà europea ---- ha permesso anche la nascita di un potere economico
distinto dal potere politico in quanto legato a un capitale mobile non
coincidente con il dominio o il controllo della terra --- elemento essenziale
di partenza per permettere la fondazione del sistema democratico e liberale
----“.
Paolo Prodi cerca di superare le
barriere specialistiche tra i diversi filoni di studi storici, orientati
rispettivamente al diritto o all’economia, ai ‘fatti’ oppure alle ‘idee’, e di
evidenziare i mutevoli rapporti tra le forze in campo nell’ultimo millennio,
privilegiando come tema di verifica dei cambiamenti sociali il tema della
trasgressione ai precetti e alle norme in materia economica e delle relative
sanzioni: pertanto la nozione e la percezione del “furto” (non solo in quanto
‘sottrazione di cose altrui’, ma anche come avidità, usura, frode,
prevaricazione sul mercato ed infine evasione del fisco), dapprima come
“peccato”, poi man mano anche come “colpa” (rispetto all’etica ‘professionale’)
e come “reato” (con l’evolversi ed il crescere della legislazione civile).
Pertanto tra le fonti di Prodi
rivestono un ruolo centrale, ma con importanza decrescente, i testi
ecclesiastici ed in particolare i ‘manuali dei confessori’, riguardo alla
classificazione delle infrazioni al 7° comandamento (con la faticosa
sublimazione del tasso di interesse fuori dal campo dell’usura), mentre a
partire dalla affermazione nel tardo medioevo di una prima “repubblica
internazionale del denaro” (con le sue fiere di cambio ed una sua sorta di “lex
mercatoria”) e dalla rottura della
cristianità con gli scismi protestanti, ed il contestuale sorgere degli stati
‘moderni’, la materia di studio si allarga ad un insieme assai più complesso di
dati e di testi.
Gli intrecci ed i conflitti tra
‘stati’ e ‘mercati’ sono profondamente indagati dall’Autore, che ne coglie
l’alterna oscillazione, portatrice da un lato dei benefici effetti in materia
di crescita dei diritti individuali e sociali, necessaria per la nuova
legittimazione del potere, e dall’altro di pericolose derive sia in termini di
oppressione autoritaria che di strapotere monopolistici:
-
dall’estremo del Guicciardini, che – attorno al
1530 scrive “--- el duca di Ferrara che
fa mercatanzia, non solo fa cosa vergognosa, ma è tiranno, faccendo quello che
è officio de’ privati e non suo: e pecca tanto verso i populi, quanto
peccherebbero e populi verso di lui intromettendosi in quello che è officio
solum del principe”, rilevando però che nei fatti già esisteva lo stato
mercantile,
-
all’estremo opposto di Fichte, che quasi 3
secoli dopo sostiene (riepilogo in italiano di Prodi): “L’economia e il commercio non possono non coincidere con la
nazione-patria, con le sue istituzioni, con i suoi costumi, con la sua
Polizei”, considerando “i commercianti alla strega di funzionari statali ---“ .
A margine delle argomentazioni
principali, nel testo si aprono
frequenti finestre su temi collaterali, non sviluppati, ma stimolanti, tra cui
(i primi due anche in rapporto alla mia precedente lettura del successivo testo
del Graeber sul “debito”):
- la assimilazione del furto e
del debito nella colpa e nel reato, la grande espansione e poi il superamento
della galera per i debitori;
- l’importanza del colonialismo e
dell’imperialismo per il consolidamento dei grandi stati europei (non è
affrontato invece specificamente il connesso tema dello schiavismo);
- l’accenno ad una
interpretazione dell’antisemitismo e della stessa shoah come estrema
espressione dello statalismo contro la “repubblica internazionale degli
affari”, incarnata dall’ebraismo;
- una lettura aperta ed assai
problematica della situazione attuale e dei possibili sviluppi: Prodi non vede
nella “globalizzazione” una riedizione della “repubblica medievale dei
mercanti”, bensì un intreccio confuso tra potere economico e potere politico (vedi
ad esempio i “fondi sovrani”) che rischia di negare sia la fisiologia dei
mercati sia le libertà democratiche (con l’Italia come utile paradigma degli
oscuri intrecci).
Inchinandomi davanti all’autorevolezza del testo e aderendo alle sue
dialettiche aperture, mi permetto di avanzare solo una critica marginale,
riguardo all’economia nella storia “antica”, che mi sembra sia indagata da
Paolo Prodi solo attraverso gli occhi dei teorici del tempo (pur autorevoli,
come Aristotele o Cicerone) e non con altri strumenti (usati invece per il
periodo successivo): il mio sospetto è che anche nell’antichità, pur in assenza
di un autonomo potere economico, con adeguato prestigio sociale e coerente ‘copertura ideologica’, alcune
leggi oggettive dei mercati, come in seguito delineate, già di fatto dovessero
funzionare, per sorreggere l’ampia rete di scambi in atto, sia pure sotto
l’egida dei poteri dell’aristocrazia terriera e militare.
Contestualmente ho letto anche il più breve “Non rubare“ – collana “I
comandamenti” Il Mulino, 2010, € 12,00, pagg. 169- , scritto dallo stesso Paolo
Prodi, che riassume il più ampio testo di cui sopra in un agevole “bigino” e da
Guido Rossi, che nella sua parte osserva da una angolazione laica la crescente
deriva “immorale” del capitalismo finanziario, vedendola – mi par di capire –
come una tendenza intrinseca ed irreversibile, e lasciando pertanto poche
speranze di redenzione.
Anche Prodi, nella conclusione del testo maggiore, non sembra affatto
“ottimista”: ma la sua visione storica di una continua contrapposizione di
forze contrastanti mi sembra lasci aperte diverse prospettive potenziali.
MARZO 2014
9 - IL PRECARIATO ANTI-LABURISTA DI GUY STANDING
Guy Standing, sociologo inglese e già collaboratore dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro, ha scritto nel 2011 il saggio “PRECARI – la nuova classe esplosiva” (tradotto nel 2012 da Il Mulino, Bologna, pagine 289, € 19,00), recentemente recensito con favore da l’Unità, che francamente non mi ha convinto per niente.
La descrizione dei vari fenomeni che – nell’ambito della globalizzazione - confluiscono nella crescente precarietà di larghe fasce delle classi subalterne nei paesi ricchi è ampia e documentata (in particolare riguardo a donne, giovani, anziani, migranti), e si estende in taluni casi ad aspetti a me poco noti, come la rilevante componente sommersa delle attività agricole ed alimentari nel Regno Unito (anche se il romanzo “La famiglia Winshaw” di Jonathan Coe mi aveva messo sull’avviso) oppure la rilevante protezione statale, in varie forme, degli emigranti da parte di potenze quali India e Cina.
Nel complesso però non aggiunge molto a ciò che già si conosce, non solo in letteratura (vedi post su Bauman, Castells, Gallino), ma nella cronaca quotidiana e nella conoscenza personale diretta.
In connessione ai rapporti di lavoro/non-lavoro ed alle condizioni sociali dei precari, Standing affronta anche le tematiche del controllo telematico/informativo/selettivo che pervade le nostre società (nota, a merito di Standing: il testo è stato scritto prima dello scandalo NSA), a scapito in particolare dei lavoratori, della assurdità dei sistemi formativi sempre più privatizzati ed inefficaci, nonché della degradazione del “tempo”, anche di non lavoro, che per i precari assorbe notevoli fatiche dispersive di “lavoro per il lavoro” (cioè per la ricerca del lavoro e/o dei sussidi).
Qualche dubbio sorge però sulla attendibilità delle informazioni riferite da Standing, dal momento che buona parte di quelle relative all’Italia, dall’Autore riportate con gran rilievo, non mi tornano in realtà così vere (mi sembra di essere un po’ come il protagonista del romanzo “Adua”, travolto nella omonima battaglia mentre constata che la ragione della disfatta sta anche nel fatto che i cartografi dello Stato Maggiore non hanno riportato correttamente le informazioni geografiche che lui stesso aveva comunicato): dal ruolo della Lega Nord contro i cinesi di Prato (luogo in cui la Lega è sempre rimasta ben sotto 10% dei voti) alle invettive di Berlusconi nel 2008 contro “l’esercito del male”, che per Standing coincideva con gli immigrati (mentre a mio avviso nella propaganda Berlusconiana corrispondeva alla sinistra, allargata semmai al terrorismo internazionale, avendo Forza Italia appaltato la questione migranti in prevalenza agli alleati Bossi&Fini), e per finire alla dimensione ed importanza dei cortei alternativi del 1° Maggio a Milano (San Precario, ma anche la solita extra-sinistra dei COBAS e dei Centri sociali) in confronto con i cortei ufficiali di CGIL-CISL-UIL (rammento che i sindacati principali da anni sono impegnati in quella data soprattutto con il concertone di Roma, operazione forse un po’ superficiale, però indirizzata proprio alla saldatura tra i lavoratori ed i giovani, anche non inseriti nel mondo del lavoro).
I limiti della posizione di Standing stanno soprattutto nelle sue sintesi.
A priori, nella lettura della divisione in classi delle attuali società occidentali, Standing rileva 7 gruppi:
- Élite di super-ricchi
- Tecno-professionisti
- Salariati (impiegatizi)
- Salariati manuali
- Precari
- Disoccupati
- Emarginati e Disagiati.
Stupisce, in questa scala, la totale assenza dei lavoratori autonomi e dei piccoli imprenditori, assai rilevanti invece, in specie in Italia, e mediamente assai lontani sia dagli interessi della super-élite, sia dal precariato, in cui pure in parte ora rischiano di sconfinare.
E colpisce la assimilazione dei salariati tra i detentori del capitale finanziario , anche se forse è giustificata dalla angolatura anglosassone dell’osservazione (fondi pensione e azionariato diffuso).
A posteriori, nelle conclusioni spiccatamente anti-laburiste, nella doppia accezione di negazione del lavoro produttivo come valore positivo e fattore “di felicità” e di contrapposizione a teorie e pratiche del Laburismo blairiano, in particolare riguardo al salvataggio delle banche con soldi pubblici (senza però nazionalizzarle), al coinvolgimento dei lavoratori nei privilegi dei benefit aziendali (che Standing vorrebbe tutti monetizzati, disvelando una piena mercificazione del lavoro), al miraggio di una ripresa con estensione del lavoro produttivo (e comunque del carico ambientale) e soprattutto nella “condizionalità” paternalistica con cui vengono gestiti i sussidi di disoccupazione, subordinandoli ad offerte di lavoro coatto e dequalificato.
(Obiettivamente forse in Italia la sinistra e i sindacati, nell’insieme e malgrado tutto, sono meno peggio, ed anche lo Stato, perché tra Tremonti-bonds e Monti-bonds, alle banche si è solo prestato e non regalato, e il Monte dei Paschi rischia tuttora la nazionalizzazione).
Standing coglie lucidamente come le tendenze in atto possano innescare sulla diffusione del precariato forme di populismo e rischi di involuzioni autoritarie (“Inferno”).
Ma, decretato il fallimento di ogni soluzione socialdemocratica (nei fatti incoraggiato in questo da molte concrete scelte delle storiche sinistre europee e dal Labour party in ispecie), delinea una alternativa esplicitamente utopistica (“Paradiso”), fondata a mio avviso su affermazioni, come l’analogia di ruolo con le teorie neo-liberiste di Milton Friedman &C., che alcuni decenni orsono erano state enunciate come posizione minoritaria, e poi invece non vedi che successo ….
I contenuti dell’alternativa prospettata da Standing, passando vagamente attraverso una autocoscienza di classe e auspicate ed imprecisate forme di rappresentanza del precariato, sono tutte macro-economiche, ovvero affidate ad una improvvisa nuova politica economica degli Stati nazionali: ferme restando le modalità di accumulazione del surplus, Standing ipotizza una armoniosa redistribuzione tramite il reddito minimo garantito (senza imporre a nessuno di lavorare, ma solo incentivarlo, ed impegnandolo, ma solo moralmente, a votare alle elezioni), un nuovo welfare universalistico, istruzione di qualità, valorizzazione del volontariato e di ogni prestazione socialmente utile, riqualificazione dei beni comuni e del tempo libero.
Come non essere d’accordo con tali orizzonti “Paradisiaci”?
Ma la loro enunciazione ci fa far qualche passo in avanti, considerando che tra coloro che non concordano c’è anche qualcuno che continua a “detenere il potere” (e a gestire consenso anche tra lavoratori e precari)?.
E perché mai, a fronte di un lungo processo di crisi delle rappresentanze dei lavoratori e delle sinistre, processo strettamente connesso alla globalizzazione e alla precarizzazione, dovrebbe venire facile impostare un sistema di rappresentanza del solo precariato? (vedi post su Maffesoli e su Revelli)
Se le nuove rappresentanze sono quelle del M5S, la cosa non promette bene.
E poi mi viene un altro dubbio fondamentale: se la “nuova classe esplosiva” si profila così forte, non può affrontare anche i contratti di lavoro, il conflitto tra salari e profitti, ed occuparsi della discussione su cosa produrre, come lavorare, come re-distribuire le mansioni scomode e dequalificate che qualcuno deve pur fare, possibilmente su scala globale?
Oppure ci va bene il reddito garantito in occidente, e la redistribuzione del capitale finanziario (sul modello dei fondi sovrani del petrolio norvegese o dell’Alaska, dice Standing), ma sulla pelle dei lavoratori sfruttati di Cindia e terzo mondo, che sono pure loro precari, però massicciamente sfruttati per salari da fame?
Personalmente penso che le riflessioni sulla concreta disarticolazione delle classi subalterne, sui contenuti sociali del lavoro produttivo ed “improduttivo”, del sapere e dell’ozio, sui rapporti di potere insiti nell’informazione e nell’informatica siano estremamente positive, ma che per passare nuovamente alla articolazioni di programmi da un lato convenga contemplare, se possibile, la riunificazione degli sfruttati (salariati e precari d’altronde convivono strettamente nelle famiglie e nel tessuto sociale, almeno in Italia), tendenzialmente su scala globale, e dall’altro capire come si può ri-organizzare la condivisione degli obiettivi, dal basso e dall’alto: con quali linguaggi, con quali rappresentanze, ed anche con quali utopie, se per caso le utopie possono essere utili; persino l’opposta utopia della ricerca della felicità nel lavoro (cara ad esempio anche ad Aldo Capitini) potrebbe disputarsi il diritto di cittadinanza.
MAGGIO 2014
10 - PAOLO LEON, IL CAPITALISMO E LO STATO
Paolo
Leon in “Il capitalismo e lo stato” (Roma, 2014 – Castelvecchi editore, pagg.
285 € 27,00) propone una analisi dettagliata delle trasformazioni del
capitalismo e del ruolo economico-finanziario dello stato dal dopoguerra ad
oggi, con i necessari richiami alle vicende della prima metà del novecento,
prima e dopo la precedente “grande crisi”, quella deflagrata nel 1929.
La
visione storica, articolata nelle fasi (mia schematizzazione):
-
1945-1971
“postumi del compromesso roosveltiano”
-
1971-1987
“la grande inflazione”
-
1987-2007
“globalizzazione e finanziarizzazione”
-
dal
2007 crisi e permanenza del modello global-finanziario,
serve
a Leon anche per contrapporsi a tutte le teorie economiche astratte, fondate su
un “equilibrio” che in realtà non esiste, mentre occorre comprendere le
specificità del funzionamento del sistema capitalistico nelle sue costanti
trasformazioni, da uno stato di squilibrio ad un altro stato di squilibrio
(trasformazioni incessanti anche a livello molecolare, così da rendere
inservibili strumenti concettualmente semplici, come la matrice
dell’interscambio tra i diversi settori, ideata da Leontieff, se la si volesse
utilizzare come strumento previsionale e non come semplice consuntivo; a
maggior ragione scendendo alla scala delle singole imprese).
Altro
tema cardine per Leon è per l’appunto quello della “scala”, e cioè
l’impossibilità di proiettare le teorie aziendalistiche e micro-economiche alla
scala della macro-economia, perché l’assetto complessivo dell’economia non
consiste nella sommatoria dei comportamenti “razionali” delle singole
imprese+consumatori, bensì coinvolge variabili specifiche, che ruotano comunque
attorno al ruolo dello stato, seppur tendenzialmente costretto dall’egemonia
neo-liberista ad uno spazio minimo-residuale.
Inoltre
Leon, riprendendo con diversi accenti Adam Smith e Carlo Marx, batte e ribatte
sulla “cecità” del singolo capitalista, i cui interessi non coincidono mai con
quelli generali dello stesso capitalismo (trascurando
un poco a mio avviso, i comportamenti dei conglomerati oligopolistici ed il
ruolo delle associazioni categoriali degli imprenditori, nonché dello stesso
stato, quando guidato da forze filo-padronali, che forse non sono sempre e del
tutto ciechi in materia di macroeconomia, almeno nell’interesse loro).
Il
testo costituisce un amplio manuale (direi
una summa del pensiero neo-Keynesiano), che non è quindi né possibile né
utile riassumere con questa recensione in tutti i suoi aspetti, ed è invece
utile comunque leggere per i profani, per capire il mondo in cui viviamo (anche
nei passi più ostici, come ad esempio quando spiega che è l’entità degli
impieghi bancari a determinare l’entità dei depositi, e non viceversa):
- le singole fasi storiche
vengono sistematicamente esaminate dall’Autore riguardo a tutte le seguenti questioni:
moneta – banca – finanza – forza lavoro – spesa pubblica – import export –
stato – impresa;
- dentro l’impresa Leon
illustra i diversi ruoli che assumono le varie direzioni aziendali:
ricerca&sviluppo-acquisti-gestione-personale-finanza-marketing ecc.;
- inoltre nel capitolo IV analizza con precisione i “fondamenti
macro-economici della micro-economia”, dai vari “moltiplicatori” alla “moneta
fiduciaria”, dala legge di Engel sull’evoluzione dei consumi alla “regola aurea”
che assegnerebbe ai salari gli incrementi di produttività e che – ovviamente –
costituisce una condizione di equilibrio, impossibile nel contesto della
globalizzazione, ed impossibile anche perché sgradita ai capitalisti stessi.
Mi
limito quindi a segnalare, oltre alle premesse generali su equilibri/squilibri
e su macro/micro-economia, i seguenti elementi peculiari:
-
la
lettura della fase global-finanziaria come trasferimento della supremazia dal
profitto alla valorizzazione patrimoniale, comunque conseguita, e quindi della
competizione tra capitalisti come sfida (senza limiti) nella accumulazione
della ricchezza (e del debito), strumento di potere in se, quasi a prescindere
dal possesso dei mezzi di produzione (non
capisco però, in questo quadro, la mancata citazione del concetto di
“finanz-capitalismo” e dell’omonimo testo scritto da Luciano Gallino nel 2008,
nonché ‘assenza di “7° - Non rubare” di Paolo Prodi nella bibliografia)
-
le
poco rassicuranti ed aperte pagine di conclusioni, che da un lato non escludono
un eventuale resipiscenza verso un approdo keynesiano (non mi sento di condividere, in tal senso, la certezza che un maggior
deficit oggi rientrerebbe automaticamente come maggior gettito fiscale domani,
in questo oggi ed in questo domani) ed in alternativa prospettano, oltre alla
prospettiva di un disordinato disastro anarco-capitalista, possibili scenari di
compromesso autoritario tra stato e mercato, di cui l’attuale Cina
costituirebbe un laboratorio sperimentale.
GIUGNO 2014
11 - LA CITTA’ NECESSARIA DI GRAZIELLA TONON
Con “LA CITTA’ NECESSARIA” (Mimesis/architettura Milano/Udine 2013,
pagg. 114, € 12,00) l’architetto prof. (e poetessa) Graziella Tonon riprende ed
ampia i temi di testi suoi e di
Giancarlo Consonni (anch’egli architetto, prof. e poeta) già da me considerati
al paragrafo 17 “Urbanistica e architettura-Architettura della Città” del mio
saggio sulla sostenibilità urbana (pag. 3 del blog “relativamente, sì”).
Il libro è articolato “a
sandwich” in 3 parti, quelle iniziale e finale dedicate ad analisi e proposte
in generale sulla degenerazione del territorio e del paesaggio metropolitano,
soprattutto in Italia, mentre una lunga parte centrale è costituita da un
racconto molto puntuale, ma non pedissequo, sulla complicità degli architetti e
urbanisti, dei diversi indirizzi culturali (razionalisti, novecentisti), nella
distruzione dei tessuti urbani milanesi pre-moderni sia negli anni ’20-30 (sventramenti
del piano Albertini, ai tempi del “piccone demolitore” e fascista) sia nel
dopoguerra (distruzioni belliche e modalità di ricostruzione).
Seguendo la narrazione stupisce
che con una intellettualità, anche progressista (tra cui – da giovane - anche
il maestro Piero Bottoni, successivamente pentito) così schierata in favore dell’automobile
e degli spazi ad essa dovuti (al punto di immaginare autostrade sotterranee in
luogo della metropolitana e lo smantellamento dei tram), il Comune di Milano,
in anni saldamente democristiani, sia riuscito invece a costruire un decente
embrione di servizio metropolitano, integrato con la permanenza di gran parte
della rete tramviaria pregressa.
Nelle parti più generali,
l’Autrice contrappone ai teorici contemporanei della “bellezza del caos
anti-urbano” una serie di corposi argomenti, fondati appunto sulla dimensione
del corpo umano e sul benessere della “mente”, negando che l’architettura e
l’urbanistica possano essere gestite come “produzione di oggetti artistici”
(analogamente a pittura e/o scultura) e tanto meno come occasioni per rappresentare
e celebrare il disordine della modernità (assecondando nel frattempo tutti i
più banali appetiti della speculazione fondiaria).
Richiamando l’armonia della città
antica (ed anche di quella ottocentesca) ed in particolare la sapiente
costruzione e/o progettazione degli spazi vuoti tra i fabbricati (cortili,
strade, piazze) come “interni urbani”, luoghi di vita e interazione sociale,
Graziella Tonon, oltre criticare con
veemenza le odierne periferie metropolitane, propone all’attenzione di
architetti e urbanisti la necessità di re-inventare nuovi spazi urbani
vivibili, mediante un approccio “olistico”, che superi la separazione (teorica
e pratica) tra l’architettura e l’urbanistica e tra una ragione astratta (che
isola le singole funzioni) e la concretezza della vita, che è mente e corpo (e
poesia).
Condividendo in gran parte queste
posizioni, innanzitutto per quanto riguarda la formazione dei progettisti, ne
individuo però i limiti – per quanto espresso in questo volume - nella mancanza
di una proiezione sociologica ed antropologica, cioè nel cercare di capire
perché in questa società (anche oltre le patologie specifiche italiane) le città
crescano in questo modo, con un sostanziale consenso, almeno iniziale, di gran
parte degli utenti (in quanto cittadini/elettori ed in quanto
consumatori/acquirenti sia dei prodotti edilizi sia delle merci e dei servizi
spacciati, ad esempio, nei centri commerciali o nelle multi-sale o in altri
divertimentifici artificiali); e quindi come questa giusta battaglia culturale
debba intrecciarsi con altre battaglie politiche, socio-economiche e culturali,
con quali forze e con quali soggetti attivi.
In assenza di questa ricerca,
anche lo sforzo progettuale più comprensivo della molteplicità degli aspetti
umani da riconnettere nella città rischia di essere troppo soggettivo ed
autoreferenziale.
Un breve commento specifico
vorrei riservarlo alla gradevole leggibilità del testo, ancorché irto di
citazioni e di contenute note (lodevolmente a piè di pagina), grazie ad uno
stile letterario alto ma non impervio.
A proposito di citazioni, ho
cercato di unire, come sulla settimana enigmistica, i puntini da 1 a N dei
“rimandi con favore” (es. Ceronetti, Baudrillard, Mumford, Galimberti, Arturo
Martini, Heidegger, Tessenow, Foucault, Huizinga, Nietzche) per cogliere un
pensiero di riferimento, che andasse oltre la ricchezza del retroterra
culturale ed umano dell’Autrice, ma non mi è sembrato di cogliere nessuna
figura generale (né filosofica, né socio-politica): il che rende a mio avviso
più ambiziosa, ma più fragile, la costruzione intellettuale di Graziella Tonon.
AGOSTO 2014
12 - IL NOMADISMO SECONDO MICHEL MAFFESOLI
Di Michel Maffesoli, di cui già ho recensito (alla
PAGINA 2 paragrafo 4) il più recente ed ampio “Il tempo delle tribù. il declino dell'individualismo nelle società postmoderne” (2004), nonché “Reliance. Itinerari tra modernità e
postmodernità” (2007), ho avuto modo di leggere anche il precedente “DEL NOMADISMO –
Per una sociologia dell’erranza”, edito nel 1997 (traduzione Milano, Franco
Angeli – 2000, pag. 167), che espone più radicalmente alcuni elementi fondanti
del suo pensiero:
-
l’insufficienza
della moderna razionalità universalista a comprendere i comportamenti erranti,
devianti e per l’appunto “nomadi”,
-
la presenza
latente ed oscillante, anche nelle società “stanziali”, al di sotto del loro
“morbido totalitarismo”, ed anche nei singoli individui, di elementi nomadi,
“politeisti” e dionisiaci, che si sottraggono alle logiche unitarie e
produttive.
-
le
molteplici radici storiche di tali forze alternative, ad esempio tra gli “ebrei
erranti” e tra i ”goliardi” medioevali, tra i monaci itineranti giapponesi e
tra gli esploratori portoghesi,
-
la recente
crescita di queste correnti, e la previsione dell’Autore di un ulteriore
crescita, in una nuova chiave femminile, cooperativa ed ecologica; in questo
ambito anche una qualche lettura positiva del fenomeno del lavoro precario,
visto come libera scelta soggettiva.
Benché ami
richiamare alcuni maestri della sociologia moderna, da Simmel a Durkheim, da
Weber ad Adorno (ben contro-bilanciati ovviamente da abbondanti citazioni di
Rilke, Nietzche, Cioran, Jung, ecc.), il testo di Maffesoli, letterariamente
affascinante e leggibile, rifiuta con evidenza qualunque riferimento
quantitativo e qualunque ragionamento sui dati materiali, e si presenta
soprattutto come un trattato antropologico, appoggiato alla storia quel tanto
che gli serve: non sempre con rigore, ad esempio:
-
quando nega
ogni pretesa di dominio nella storia antica del popolo ebraico;
-
quando
separa la mobilità medievale dai pellegrinaggi – esaminati a parte – oppure
ignora i fenomeni conseguenti all’assetto patrimoniale del maggiorascato, sia
tra i nobili, da cui la cavalleria (ed anche chierici non sempre “regolari”),
sia tra i piccoli possidenti contadini, da cui molti migranti, artigiani o
anche senz’arte;
-
quando
proclama, con la “modernità”, la fine del nomadismo, mentre di poveracci in
movimento è piena anche la storia del moderno lavoro salariato, che si nutre
all’origine dal pauperismo urbano post-medievale;
-
dove
identifica la riforma luterana con la piena razionalità monoteista, senza
cogliere quanti demoni e abissi risiedano nelle pratiche religiose del
nord-europa e quanto il mondo protestante sia stato specifico terreno di
cultura della psicanalisi, da Maffesoli ascritta correttamente (ma
ristrettamente) all’erranza ebraica..
Questo eccesso
di apriorismo è a mio avviso evidente,
riguardo all’oggi (e confrontando ad esempio le documentate posizioni di Manuel
Castells), soprattutto su tre fronti:
-
la libertà,
incertezza e promiscuità sessuale, cui l’Autore inneggia, appare come una
costante – pur oscillante – nei secoli, senza cogliere la fondamentale svolta
derivante dai metodi contraccettivi del secondo novecento, che offrono un ruolo
più indipendente alla donna e sottraggono in parte il maschio al dilemma
responsabilità/irresponsabilità (mentre in passato il libertinaggio costituiva
privilegio maschile);
-
la
prevalenza di valori positivi (femminili-cooperativi-ecologici) nei “nuovi
movimenti” mi sembra auspicabile ma difficile da dimostrare come dato di fatto,
sia nelle “tribù metropolitane” (si veda ad esempio la perdurante violenza
maschilista degli “antagonisti” oppure delle tifoserie “sportive”), sia nelle
avanguardie dei popoli oppressi e migranti, tra cui emergono per ora gli
estremisti islamici;
-
il
precariato dei rapporti di lavoro, pur apprezzato da consistenti minoranze
giovanili, si dimostra essere sempre più un obbligo derivante dalle “leggi del
mercato”, dettate da quei diversi nomadi che si chiamano capitale finanziario e
vari agenti della globalizzazione.
Pertanto
Maffesoli sul Nomadismo non mi ha convinto: ma ritengo che sollecitazioni di
questo tipo (condotte tra l’altro da Maffesoli con un linguaggio molto
“razionale”, diversamente dagli eccessi anche linguistici –ad es.- di Luc Nancy
oppure di Derrida) debbano essere raccolti da tutti i cultori della
razionalità, che non può limitarsi e farsi schiacciare nella difesa di un
vecchio e limitato ordine del pensiero (vedi ad esempio la trilogia senile di
Eugenio Scalfari), ma deve saper comprendere, con l’umiltà del saper-di-non-sapere, tutte le
problematiche umane, incluse le pulsioni dionisiache e le tendenze al
nomadismo, i demoni e gli abissi, il corpo e l’anima (come propone, parlando di
architettura e urbanistica, anche Graziella Tonon nel testo che ho poc’anzi
recensito).
SETTEMBRE 2014
13 - IL RAPPORTO SUL CONSUMO DI SUOLO 2014
Il “Rapporto 2014” del Centro di
ricerca sui Consumi di Suolo (costituito da INU, Dipartimento DAStU del
Politecnico di Milano e da Legambiente), edito on-line dall’INU e redatto da Arcidiacono,
Di Simine, Oliva, Pileri, Ronchi e Salata, con sottotitolo POLITICHE, STRUMENTI
E PROPOSTE LEGISLATIVE PER IL CONTENIMENTO DEL CONSUMO DI SUOLO IN ITALIA,
mantiene quanto promette:
- un ampio esame delle
problematiche teoriche relative alle modalità di misura del consumo di suolo (se
riguardi la sola superficie “coperta” da fabbricati, quella altrimenti
impermeabilizzata oppure quella a vario titolo “occupata” per gli usi urbani, e
come valutare in tale ambito, ad esempio, il verde pubblico) e sullo stato
dell’arte nella effettiva misurazione in Italia (con spiccate differenze tra
diverse regioni e realtà locali, ma con il recente apporto unitario di ISPRA e
quello promesso in futuro dall’ISTAT) ed in Europa, con lo standard comune
consolidato di “CORINE Land Cover” (che però utilizza un reticolo a larghe
maglie, con unità di 25 ettari), gli ulteriori approfondimenti con i progetti
LUCAS e HR Built-Up Areas (quest’ultimo con foto satellitari con risoluzione di
soli 20 metri);
- una rappresentazione sintetica
delle problematiche concrete del consumo di suolo in Italia (complessivamente,
secondo ISPRA, dal 3% negli anni 50 ad oltre il 7% attuale), in relazione ai
diversi usi del suolo e modelli insediativi, con attenzione alle differenze tra
regioni, nonché ai disturbi indiretti indotti dalla frammentazione del suolo
non occupato, e con approfondimenti specifici in territorio lombardo sulla
provincia di Lodi (e sugli effetti, talora perversi, del Piano Provinciale),
sulle nuove infrastrutture (assai “consumose”) e sui parchi regionali e
dintorni (in tali intorni si condensano specifiche pressioni differenziali);
- una articolata denuncia (soprattutto
da aprte di Paolo Pileri) del deficit istituzionale, ed anche culturale, che in
Italia impedisce una seria tutela della risorsa primaria costituita dal suolo
(in confronto con le esperienze europee più avanzate, a partire dalla
Germania), e che si annida soprattutto nella crescente e mal-intesa autonomia
decisionale dei singoli comuni, mentre i fenomeni ambientali prescindono dai
confini amministrativi;
- una rassegna delle iniziative e
proposte di legge in materia di risparmio nel consumo di suolo, a scala
regionale (seguita anche da interessanti contributi specifici per Lombardia,
Piemonte e Toscana) – finora per lo più solo buone intenzioni - ed a scala
nazionale, che testimoniano la crescita di una sensibilità diffusa
sull’argomento, cui non corrispondono finora interventi adeguati; con
approfondimento delle criticità del disegno di legge dell’ex ministro Catania (che al momento della stesura del Rapporto
era ancora all’ordine del giorno, mentre ora appare sepolto dalla nuova valanga
di cemento del decreto sblocca-Italia) i cui limiti principali
sembrerebbero il mantenimento di una logica incrementale per gli insediamenti
(seppure frenata) e la mancata assunzione del nuovo principio della
“rigenerazione urbana” come asse portante per il governo del territorio (nota: la logica “incrementale frenata” pare
insita anche nel Piano Territoriale Metropolitano di Barcellona, che a fine
volume viene presentato come innovativo, e di cui comunque si può apprezzare
l’incisività, rispetto alla fumosità prevalente nei Piani di Area Vasta
nostrani);
- la formulazione (Edoardo Zanchini e Federico Oliva) della
suddetta “rigenerazione urbana”, ovvero del risanamento complessivo dei tessuti
insediativi carenti sotto il profilo qualitativo ed energetico (e talora anche
statico/antisismico), come fronte di investimento (ma anche di risorse
endogene) per un nuovo sviluppo delle città all’interno dei loro confini,
alternativo ad ogni ulteriore espansione (una sorta di continuo flusso
temporale tra i diversi usi urbani, nello spazio consolidato delle città).
Nell’insieme questo testo costituisce un notevole contributo
teorico-pratico sulla questione del consumo di suolo e – assieme alla lettura
degli ultimi numeri delle riviste Urbanistica ed Urbanistica Informazioni (non
invece le ultime rassegne di Urban-promo, che nei fatti trattano in prevalenza
casi di ulteriori espansione) – conferma il deciso impegno sul tema di gran
parte degli intellettuali vicini all’INU.
Dovrebbe stupire pertanto il reciproco ignorarsi con il contiguo ambito
di “Salviamo-Il-Paesaggio” (cui pure aderiscono tra gli altri FAI, WWF, Italia
Nostra, Slow food e Legambiente, quest’ultima partner dell’INU nello stesso
CRCS), che si occupa del medesimo tema con iniziative concrete, locali e
nazionali, seppur forse un po’ velleitarie, come il censimento dal basso sul
consumo del suolo e l’ipotesi di un disegno di legge di iniziativa popolare.
E che da parte sua, oltre ad ignorare il CRCS, assume talvolta – a
scala locale – anche gli urbanisti dell’INU come bersaglio (vedi atti della
recente 3^ assemblea nazionale).
Manca invece qualsivoglia sforzo di entrare nel merito delle reciproche
posizioni teoriche generali.
E che sarebbe a mio avviso invece molto interessante, ad esempio,
approfondendo i giudizi sul disegno di legge di riforma urbanistica presentato
dal ministro Lupi: dalla lettura comparata, a distanza, infatti emerge una
visione possibilista dell’INU (vedi Oliva su UrbInf n° 255) ed una stroncatura
di Salv.Paes. che ha ospitato nel suo sito un documento critico firmato tra gli
altri da Vezio De Lucia e Francesco Indovina.
Riservandomi di esprimere anche qualche mia valutazione (soprattutto se
il testo Lupi diventerà nell’agenda-Renzi qualcosa di più di un soprammobile decorativo),
segnalo che qualche punto di contatto teorico si potrebbe paradossalmente
riscontrare addirittura tra la “liquidità immobiliare” di Lupi, che pure parte
dalla valorizzazione della proprietà, e la evanescenza del possesso, cui arriva
il prof. Maddalena (lectio magistralis alla suddetta 3^ conferenza di
Salv.Paes.), a partire dai “beni comuni”; e che forse una linea unitaria può
essere cercata tra tutti coloro che perseguono il risparmio del consumo di
suolo (e non possono esimersi dal valutare le modalità della connessa
“rigenerazione urbana”).
OTTOBRE 2014
14- "ROTTAMA ITALIA"
14- "ROTTAMA ITALIA"
Segnalato da Salviamo-Il-Paesaggio, ho scaricato e letto il libro istantaneo di diversi ed autorevoli autori “Rottama Italia - perchè il decreto Sblocca-Italia è una minaccia per il nostro futuro" (e-book a 2 €, edito da Altraeconomia, pagg.. 86), per approfondire i guasti minacciati dal Decreto Legge “Sblocca Italia”, e che si stanno pur troppo in gran parte confermando a causa della forzosa conversione in legge del decreto stesso, con poche modifiche, tramite l’abituale voto di fiducia.
Il volume tradisce un poco l’impostazione improvvisata e risulta costituito da una miscellanea di interventi non omogenei, né sotto il profilo della “scala” di approccio al testo legislativo (che alcuni autori colgono come pretesto per ribadire proprie teorie generali), né sotto quello dell’ispirazione politica, perché alcuni partono da una opposizione pregiudiziale a questo Governo ed altri più laicamente dalla realtà del Decreto: realtà che comunque emerge nell’insieme come un clamoroso marcia indietro per molti valori della sinistra (seppure già stemperati dai precedenti governi di centro-sinistra che hanno interpuntato il ventennio berlusconiano).
Per inciso, è sfuggita agli autori la gravità dell’art. 16, dove sottopone a oneri di urbanizzazione anche gli interventi di manutenzione straordinaria, finora gratuiti (invece di penalizzare le nuove costruzioni su suolo libero).
Dopo una introduzione di Tomaso Montanari ed una introduzione sull’aspetto comunicativo del giornalista di Altraeconomia Pietro Reitano, Giovanni Losavio (ex magistrato) interviene con puntualità a verificare se esistano i presupposti di omogeneità e di urgenza per la promulgazione del Decreto, che prosegue una pratica di dubbia costituzionalità perdurante da alcuni decenni (da quando sono emersi i concetti di “congiuntura avversa” e di crisi economica); tema ripreso più avanti, con diversa angolazione dal parlamentare PD ed ex-ministro della cultura Massimo Bray, che conviene con il Governo sulla necessita di aggiornare le procedure, ma in un insieme organico e non caso per caso con un provvedimento di urgenza abborracciato e privo della dovuta relazione di impatto della nuova normativa.
L’ex-vice presidente della Corte Costituzionale magistrato Paolo Maddalena contesta l’identificazione tra “ripresa delle attività produttive” e bene pubblico, a scapito di altri veri “beni pubblici”, quali la tutela del territorio e del paesaggio, ed estende le sue valutazioni esponendo – oltre ad una critica radicale al concetto di cartolarizzazione dei debiti - la sua tesi di interpretazione avanzata sull’art. 42 della Costituzione, sulla funzione sociale della proprietà, quando privata, fino a prevederne l’esproprio senza indennizzo quando inutilizzata: ipotesi molto interessante, ma che a mio avviso potrebbe camminare nel diritto solo se procedesse con forza nella società.
Più ideologico l’urbanista Edoardo Salzano, che tende a ricostruire una continuità ideologica, per l’appunto, da Craxi a Berlusconi fino a Renzi in materia di privatizzazioni, grandi opere e de-regulation, con l’occhio attento più al disegno di legge Lupi sul governo del territorio che non alle concrete contingenze del decreto Sblocca-Italia.
Paolo Berdini, urbanista, analizza i guasti di alcune deroghe alle norme urbanistiche e soprattutto la tendenzial degenerazione del “Financing project” per le grandi opere (tipo Brebemi o quadrangolo Marche-Umbria) dove a partire dalla de-fiscalizzazione e per finire con il subentro dello Stato a garanzia, è concreto il rischio di trasferire a carico del bilancio pubblico interventi vantati all’origine come prive di oneri per lo stato.
(Analogo lo specifico commento di Luca Martinelli sul progetto di autostrada Orte-Mestre).
Vezio De Lucia, ancora urbanista, ripercorre la complessa vicenda del recupero dell’area ex-industriale di Bagnoli e relative (mancate) bonifiche e denuncia il tentativo di ripartire da zero, accentrando le decisioni in capo a Commissari governativi e scavalcando il Comune e la vigente specifica pianificazione locale, aventi prevalenti contenuti di interesse pubblico.
Salvatore Settis, archeologo, riepilogando i tentativi finora falliti di estendere il principio del silenzio-assenso alle procedure relative ai beni culturali ed l paesaggio, evidenzia la forzatura prevista dallo Sblocca-Italia per alcune grandi opere, che trasferiscono di fatto le decisioni finali dalle Sovrintendenze ad altri organi governativi o loro emanazioni imprenditoriali.
Tomaso Montanari, storico dell’arte, affronta l’accelerazione e generalizzazione delle procedure di vendita o ”valorizzazione” (con cessione del solo diritto di superficie temporaneo) dei beni demaniali, con il coinvolgimento dei Comuni, e rivendica per contro una sacralità degli stessi immobili in quanto “beni comuni”: non mi convince, perché non è detto che tutte le ex-caserme, ad esempio, possano trovare immediata e valida utilità pubblica, in relazione ai bisogni, alle risorse e dalla capacità di intervento e di gestione degli enti locali; se non sempre “privato è bello”, anche il “pubblico a-priori” rischia di generare abbandono e degrado.
Anna Donati, ambientalista, esamina la politica dei trasporti nello Sblocca-Italia, avara verso il trasporto pubblico locale e prodiga verso alcune grandi opere, in modo diretto per la TAV e in modo indiretto per le autostrade, attraverso l’ipotesi di ampi rinnovi, senza gara, delle concessioni autostradali in scadenza, a fronte di vari progetti di potenziamento ed estensione della rete.
Maria Pia Guermandi, archeologa, illustra lo stato comatoso dell’archeologia in Italia (e dentro di esso il precariato povero dei giovani archeologi), la mancata ratifica italiana della Convenzione di Malta del 1992, che prevede il coinvolgimento preventivo dell’archeologia nella progettazione delle principali opere, al fine di monitorare e prevenire i conflitti tra lavori pubblici e tutela del patrimonio archeologico, mentre il decreto Sblocca Italia, a coronamento di una prassi incalzante in tal senso, asserisce di fatto a priori la compatibilità archeologica di qualunque progetto, costringendo le Sovrintendenza a organizzare in fretta e furia gli scavi “in emergenza” per rimuovere i reperti rinvenuti.
Pietro Donmarco, giornalista, espone la resa del Governo alle pretese delle compagine petrolifere per avere mani libere nelle prospezioni e trivellazioni per la ricerca ed estrazione di gas e petrolio, quali che siano i vincoli ambientali, anche se le quantità in gioco non saranno risolutive per il fabbisogno nazionale e comunque indirizzate ad aumentare enon a diminuire le emissioni di CO2).
Domenico Finiguerra, già Sindaco di Cassinetta di Lugagnano, segnala le forzature procedurali in favore degli inceneritori, sia ai fini della costruzione di nuovi impianti, sia per il mantenimento dell’utilizzo – ma in favore di altri territori - di alcuni impianti in via di superamento grazie al progresso della raccolta differenziata in numerose province.
Anna Maria Bianchi, documentarista, evidenzia il progressivo slittamento delle procedure contro l’autonomia delle amministrazioni preposte alla tutela dei vincoli, in favore dei privati che “auto-certificano” e contro la effettiva partecipazione popolare nelle decisioni sulle opere pubbliche, costretta nei tempi e surrogata da caricature di nuove forme di partecipazione, limitate alla manutenzione delle aree verdi con l’incentivo di sgravi fiscali.
Antonello Caporale, giornalista, se la prende in generale con la mania delle grandi opere urgenti, con la consueta scia di extra-costi e corruzione.
In conclusione Carlo Petrini, presidente di Slow Food, riepiloga le vicende del disegno di legge contro il consumo di suolo, proposto dal ministro Catania durante il governo Monti, in contrasto con il clima emergenziale di quella fase ed invece in sintonia con la lunga marcia culturale promossa dei movimenti per la valorizzazione della terra e del cibo, disegno di legge ancor vivo con i governi Letta e Renzi, rispetto al quale lo Sblocca-Italia ha rappresentato una brusca svolta, rilanciando cemento, autostrade e trivellazioni, e troncando le speranze riposte dai movimenti e dallo stesso Petrini. che conclude con un accorato e motivato appello alla ragione e alla coerenza per il nuovo corso renziano (verso il quale si dichiara non pregiudizialmente ostile), in nome della bellezza del paesaggio italiano e della peculiare creatività delle attività più legate al territorio, negate e frustrate dalle scelte dello Sblocca-Italia,.
OTTOBRE 2014
15 - IPERDEMOCRAZIA, SECONDO STEFANO RODOTA'
Ho letto il breve saggio di Stefano Rodotà
“Iperdemocrazia – come cambia la sovranità democratica con il web””, pag. 33,
e-book gratuito dell’editore Laterza, e vi ho trovato considerazioni sagge e
condivisibili, soprattutto nella prima parte, molto critica verso le
scorciatoie tecnologiche, che Rodotà analizza nel loro ruolo sociale,
comparando Internet all’uso della TV e dei sondaggi, e mettendo in guardia da
ogni fenomeno plebiscitario, in cui i cittadini, singolarmente isolati (ed in
un contesto storico di logoramento dei vecchi tessuti sociali, a partire dalle
fabbriche), non possono partecipare né alla formulazione delle domande né al
controllo sulle risposte.
Rodotà mette in evidenza
-
come
alla frantumazione sociale del cittadino-sovrano corrisponda una rincorsa
settoriale da parte dei politici, con i metodi del marketing e della
pubblicità, che mira ad una raccolta spregiudicata dei vari segmenti del
consenso, mentre viene meno ogni coscienza dell’interesse generale,
-
che
l’affiancamento dei continui sondaggi alle normali cadenze elettorali finisce
con il far prevalere questi su quelle, sia per l’influenza che i sondaggi
stessi esercitano sull’elettorato, sia per l’artificiosa suddivisione del corpo
elettorale in “sommatoria di campioni statistici”, e come in tal modo gli
interessi e le emozioni a breve termine sormontino ogni capacità di
programmazione e decisione strategica sui tempi lunghi (analogamente a quanto
accade nel mondo finanziario e spesso anche aziendale);
(parte
di questi temi sono ben presenti in “Finale di partito” di Marco revelli, da me
recensito, non presente però nella bibliografia del testo di Rodotà).
.
Nella seconda parte invece Rodotà illustra
alcuni casi, specifici e circoscritti ad ambiti locali ed a singoli temi (in
Olanda e negli USA), di positiva evoluzione verso forme di democrazia più
diretta e partecipata, anche attraverso l’uso, meditato e controllato, di
moderni strumenti di comunicazione informatica, ed analizza le potenzialità di
Internet soprattutto riguardo alla trasparenza della pubblica amministrazione
ed all’accesso alle informazioni (premessa per una effettiva partecipazione
popolare alle decisioni), segnalando però le distorsioni che possono derivare
-
dalle
resistenze degli apparati burocratici e dei centri di potere politici ed
extra-politico
-
dalla
esclusione degli strati sociali non alfabetizzati digitalmente
-
dii
rischi comunque incombenti di accesso diseguale alle informazioni e quindi di
rafforzamento di alcune èlites anziché effettiva ridistribuzione del potere.
Con cautela comunque Rodotà apre alle
speranze di una “ricomposizione del sovrano”, non derivante però automaticamente dall’adozione delle
nuove tecnologie (senza abbarbicarsi
all’attuale democrazia rappresentativa, di cui sono evidenti le distorsioni, come
invece fa ad esempio sempre sotto il
titolo “Iper-democrazia”, Luca Ricolfi in un intervento da me già negativamente
commentato).
Mi
sembra che manchi una terza parte, dove Rodotà esprima qualche giudizio – così
come fa ad esempio sulla meteora Ross Perot (elezioni presidenziali USA 1992 e
1996) - sul peculiare e più recente
fenomeno italiano del MoVimento 5 Stelle (di consistenza rilevante anche a scala internazionale), che ha
rapidamente esaltato ed anche dissipato le potenzialità di una comunicazione ed
organizzazione di massa “in rete”, bruciando sul cammino anche una candidatura,
forse improvvidamente accettata, dello stesso prof. Rodotà alla Presidenza della Repubblica..
OTTOBRE 2014
16 - PERCHE’ LE NAZIONI FALLISCONO, SECONDO ACEMOGLU E ROBINSON
Nel lontano 1970 partecipavo ad una “Commissione Riforme” del movimento
degli studenti di architettura di Milano, il cui assunto era - grosso modo -
quanto anche il capitalismo “avanzato” fosse piuttosto cattivo, e non ci fosse
da fidarsi delle sue “riforme”; rammento
che ai margini di quella ricerca mi rimaneva il dubbio (eretico) su perché
comunque in Scandinavia si vivesse (socialmente parlando) meglio che in Italia,
ma non ebbi molto tempo per coltivarlo, perché forti dosi di repressione erano
alle porte e con la crisi (non solo “petrolifera”) del 72-73 il riformismo in
Italia comunque non era più di moda.
Alle mie domande
di allora pensavo che potesse rispondere il ponderoso e celebrato saggio degli
accademici americani Daron Acemoglu (di origine turca) e James A. Robinson,
edito negli USA nel 2012 ed in Italia nel 2014 (“PERCHE’ LE NAZIONI FALLISCONO
- Alle origini di potenza, prosperità, e povertà” – Il Saggiatore - cartaceo €
22 - eBook €10.99), ma al termine delle oltre 400 pagine mi dichiaro abbastanza
deluso.
Il testo è di
facile lettura, in quanto povero di dati statistici e ricco invece di racconti
ed aneddoti, con numerose incursioni non-cronologiche su oltre 10.000 anni di
storia in tutti i continenti, (quasi in
antinomia speculare con “Debito: i primi 5.000 anni” di Graeber – vedi mio post
- e per me un utile ripasso per le vicende dell’emisfero nord, e informazioni
prima quasi sconosciute sull’emisfero sud), ma risulta anche ripetitivo,
assertivo e talora apodittico.
La
tesi degli autori (che ripeto qui anche se è già stato ben riassunta in altre
recensioni: segnalo in particolare quella de “IL POST”) è che il successo
economico (ed il benessere) delle nazioni non dipendono da clima&risorse,
né da fattori culturali (inclusa la presunta “ignoranza dei ceti dirigenti”),
bensì dalla qualità delle istituzioni politico-amministrative:
-
le istituzioni “inclusive” (ovvero
pluralistiche), attraverso la certezza del diritto (in primis di proprietà
privata) ed il possibile ricambio delle élites, consentono l’apertura al nuovo
e il benefico processo della “distruzione creatrice” e perciò l0 sviluppo
(paradigmatica l’evoluzione inglese, prima e dopo le rivoluzioni del 17°
secolo); occorre però la premessa di una
discreta centralizzazione dello stato;
-
le Istituzioni “estrattive” mirano solo ad
accumulare e perpetuare i privilegi delle élites, paventando le innovazioni e
bloccando gli accessi a nuovi metodi di valorizzazione delle risorse (esemplari
le chiusure contro l’introduzione di fabbriche e ferrovie da parte degli imperi
austro-ungarico, russo ed ottomano nel primo Ottocento); con il rischio che
nelle fasi di crisi succedano nuove élites altrettanto “estrattive” oppure che
il territorio si frammenti in spinte centrifughe, per effetto della ricerca
diffusa di poteri esclusivi (così sarebbe terminato l’impero dei Maya).
-
Le prove
addotte da Acemoglu e Robinson sono ampie (a partire dagli insediamenti
“natufiani” che nel medio oriente del 9500 a.C. pervennero all’agricoltura
previa formazione di villaggi stanziali, e non viceversa), ma non sempre
convincenti; ad esempio:
-
il paese di Nogales, diviso tra USA e Messico,
con crescenti divergenze nei livelli di prosperità: però dallo stesso testo
risulta che ambedue le comunità sono state fondate dopo la definizione del
confine (e non dividendo in 2 un preesistente insediamento), per cui diverse a
mio avviso sono state anche dall’origine
-
la colonizzazione del Sud e del Nord America, la
prima fondata sullo sfruttamento schiavistico degli indigeni sottomessi e sulla
depredazione delle risorse naturali, la seconda invece necessariamente basata
sul lavoro degli stessi coloni bianchi: Acemoglu e Robinson però trascurano il
particolare del genocidio perpetrato a danno dei più riottosi indigeni
“pellerossa” e isolano da questo ragionamento le loro pur ampie dissertazioni
sulla deportazione degli schiavi africani
-
il relativo successo del (solo) Botswana, che - dopo
l’indipendenza dal colonialismo britannico e grazie ad una qualche persistenza
di preesistenti strutture tribali di tipo “inclusivo” – avrebbe raggiunto un
PIL pro capite al livello di Lettonia o Ungheria, cioè assai alto se raffrontato
con il disastro di gran parte del restante continente africano, ma non con il
benessere di popoli ugualmente remoti, ma non assoggettati al colonialismo
europeo, come ad esempio il Giappone.
Più
interessante che non la tesi centrale del libro, è – a mio avviso – il metodo
di indagine sugli sviluppi storici (benché minato dalla separazione degli
argomenti e dalla mancata concatenazione di fondamentali fattori a livello
internazionale), che cerca di evitare ogni determinismo nella trasformazione
delle istituzioni, e di assimilare invece le acquisizioni tipiche della
genetica e della linguistica, e cioè la (piuttosto casuale) accelerazione delle
divergenze in presenza di particolari fasi critiche (ad esempio la “Peste Nera”
sul finire del Medioevo in Europa, che – riducendo drasticamente la forza-lavoro
disponibile - porta in Occidente alla estinzione della servitù della gleba ed
invece in Oriente ad una sua
recrudescenza).
Ma
tale raffinatezza di analisi (che contrasta con un certa grossolanità di
approccio – a mio avviso – sull’esperienza del comunismo sovietico e mostra la
corda nella difficoltà di interpretare l’odierno regime cinese, che secondo gli
Autori non potrà svilupparsi a lungo senza profonde riforme) non può superare
il peso
-
delle enormi carenze di lettura della storia
complessiva del mondo da parte degli Autori, e cioè la correlazione necessaria
tra il benessere degli uni (ad esempio gli anglosassoni, inclusivi a casa loro)
ed il malessere degli altri (direttamente colonizzati o sfruttati per inique
sperequazioni commerciali di carattere imperialistico, ad esempio dagli stessi
anglosassoni, estrattivi casa d’altri, a
partire dalla vicina Irlanda)
-
dei giudizi aprioristici e comunque non-dimostrati
quali quello sulla ricchezza materiale come unica misura del benessere, oppure
la necessità di proprietà privata ed incentivi economici per ogni sviluppo del
progresso umano (che dovrebbe quindi essere
assente anche nei “settori pubblici” delle società avanzate, mentre mi
pare che non manchi in università ospedali e centri di ricerca, anche poveri di
progressioni economiche, come spesso è in Europa) od ancora sulla “distruzione
creatrice”, che sempre agirebbe positivamente (mentre qualche volta distrugge
valori non riproducibili, sociali oppure ambientali).
-
Non mi
convince inoltre l’eccessiva autonomizzazione degli aspetti istituzionali dal
retroterra socio-economico (vedi un certo Marx) e dagli stessi fattori
culturali (ad esempio l’influenza dei movimenti di riforma protestante nelle
divergenze istituzionali e di sviluppo tra le diverse nazioni europee – vedi un
certo Weber).
Appendice: tra le numerose recensioni,
alcune encomiastiche, altre detrattive, e molte variamente dialettiche, mi
hanno colpito quelle su Repubblica nell’agosto 2012, a cura di Simonetta Fiori
l’una e di Francesco Domenico Moccia l’altra, che mi sono sembrate alquanto
distratte:
-
la prima
lamenta la mancanza di protagonisti italiani nelle storie (a parte Giulio
Cesare) e di autori italiani nella bibliografia, mentre a me risulta che sia
trattata ampliamente la Repubblica di Venezia e che tra gli autori (seppure di
testi in inglese) figurino almeno Tabellini e Guiso-Sapienza-Zingales
-
il secondo
trova il testo limitato alla fortuna delle nazioni intere e carente sulle
divergenze di sviluppo interne, mentre a me pare ben evidenziato il divario tra
stati del sud e del nord degli U.S.A., prima e dopo la fine dello schiavismo,
nonché qualche cenno ai divari interni, ad esempio, della Sierra Leone, del Sud
Africa, dell’Australia.
DICEMBRE 2014
17- PIKETTY: IL CAPITALE NEL XXI SECOLO, E PRECEDENTI
“Il Capitale nel XXI secolo” di Thomas Piketty (giovane economista francese di impostazione classica), edizione italiana Bompiani 2014, 635 pagg. , è un best seller mondiale, premiato alla fin fine come libro dell’anno in materia di economia dallo stesso Financial Times che aveva invano tentato di stroncarne l’attendibilità statistica (riguardo al crescente divario tra ricchi e poveri negli ultimi decenni), mentre Piketty ha scelto di rifiutare la “Legion d’Onore” dalla sua Republique.
Il successo di Piketty è a mio avviso ampiamente meritato, sia per la vastità ed originalità delle ricerche compiute e/o utilizzate (disponibili in Internet), sia per la chiarezza e scorrevolezza del testo, ben leggibile in tutte le numerose pagine (e note) ed anche attraverso le poche formule matematiche ed i molti grafici esposti per spiegare il cuore del problema, ovvero la costante tendenza alla accumulazione e concentrazione del capitale, che diviene massima quando la crescita (demografica e produttiva) è debole, cioè inferiore al 2% annuo (come si profila stabilmente nei paesi sviluppati dalla fine del XX secolo), mentre il rendimento medio dei capitali supera il 4% (con accelerazioni crescenti per i patrimoni più elevati).
Il libro è soprattutto un grandioso affresco sulla formazione ed accumulazione dei capitali (immobiliari e mobiliari) e della tassazione delle ricchezze (successioni, rendite, patrimoni, redditi) dal secolo XVIII al XXI.
Fonti primarie delle ricerche sottostanti alle elaborazioni di Piketty sono i dati derivanti dalla moderna imposizione fiscale, che non a caso ha origine con la Rivoluzione Francese, con divertenti escursioni verso la letteratura (soprattutto i romanzi di Jane Austen e di Honorè de Balzac, testimoni di entità e concezioni patrimoniali del XIX secolo) e verso altre fonti, tra cui hanno un ruolo defilato le teorie di altri economisti, contemporanei e non.
Tra questi Marx, che Piketty non assume come maestro, ma di cui mostra i conoscere le opere – diversamente da quanto affermano altri recensori -, rinfacciandogli in sostanza di sottovalutare la ricerca dei dati, pur allora in parte disponibili, in favore di pregiudizi ideologici o meglio di affrettate conclusioni politiche, e comunque di aver trascurato gli effetti complessivi delle mutazioni tecnologiche.
L’adesione alle statistiche fiscali, accessibili soprattutto nei paesi occidentali, ed in parte solo dal XX secolo ben inoltrato, è anche parziale spiegazione di una limitata attenzione dell’Autore a fenomeni non misurabili con tali strumenti, come:
- la quota di ricchezze che comunque sfugge al fisco (in taluni casi valutata da Piketty con stime indirette),
- i paesi poveri, che in genere non hanno sviluppato (e non per caso) una solida cultura fiscale, e conseguentemente anche il divario ricchi/poveri a scala mondiale, che è enunciato ma non approfondito (dopo l’epoca coloniale Piketty non riscontra flussi univoci nei trasferimenti internazionali), anche perché indica già come enorme e scandaloso la crescente polarizzazione all’interno dei paesi ricchi,
- la struttura sociale e ideologica delle “classi”, che Piketty, per ricerca di scientificità, per lo più riduce a fasce statistiche (il “decile”, il “centile”, il “millile” più ricco, e poi tutti gli altri, suddivisi tutt’al più in 2 parti, negli ultimi decenni, ovvero un ceto medio che possiede qualcosa, molto al di sotto delle vere élites finanziarie, ed i restanti che non possiedono pressoché nulla),
- sporadica, ma non assente, è pertanto anche la correlazione con i conflitti sociali,
- il valore effettivo delle grandezze economiche, sempre esaminate nella loro misura monetaria (espressa in potere d’acquisto, depurato dall’inflazione), e quindi inclusive di bolle speculative così come di sostanziali dis-valori (il tema dei rischi ambientali del pianeta è però accennato da Piketty in termini di potenziale erosione del capitale).
Riassumendo schematicamente l’evoluzione storica rappresentata nel testo (e ignorando qui le peculiari differenze nazionali, ben indagate nel testo), si può affermare che:
- nel XIX secolo si ha una costante concentrazione dei capitali (prima fondiari e poi in prevalenza mobiliari) ed una crescita mediamente bassa, con i ceti medio-bassi schiacciati in una sostanziale povertà; la tassazione, anche dove colpisce i patrimoni nelle successioni, è bassa e non proporzionale; lo Stato limitato alle funzioni basilari (esercito, giustizia, infrastrutture);
- all’inizio del XX secolo le differenze in favore di coloro che vivono di rendita (“rentiers”) si accentuano e si affacciano, ma vengono per lo più respinte, le prime proposte di tassazioni universali e progressive sul reddito;
- il periodo 1914-1950, con le 2 guerre mondiali, la rivoluzione sovietica e la grande crisi del ’29, ha – attraverso turbolenti rivolgimenti - l’effetto di un temporaneo (ed “involontario”) “suicidio del capitale”, variamente colpito da distruzioni belliche e svalutazioni intrinseche, inflazione al galoppo e prelievi fiscali talvolta molto severi;
- i successivi “trenta anni gloriosi”, tra il 1950 ed il 1980, a partire dalla ricostruzione nei paesi più distrutti, vede una forte crescita (con medie del 5% annuo, al netto dell’inflazione talora però rilevante), la piena affermazione di uno “stato sociale” (istruzione, sanità, pensioni), minori disuguaglianze (più giustificate, anche verso l’alto dalle differenze nei redditi da lavoro) ed una accumulazione più lenta del capitale;
- a partire dal 1980, con la svolta pro-capitalistica di Thacher e Reagan (anche per reagire ad un declino di USA e GB) e poi con il crollo del blocco sovietico, si sviluppa e si consolida un nuovo assetto, caratterizzato dal contenimento delle funzioni statali, la riduzione delle tasse e del controllo sui capitali, una netta ripresa della accumulazione e concentrazione delle ricchezze, nonché delle disuguaglianze sociali (inclusi redditi da lavoro, ora rilevanti anche tra i ceti più ricchi, ma connessi ad una forte selezione sociale nell’accesso ai livelli di istruzione più elevati e conseguenti carriere) in un contesto di modesta inflazione e bassa crescita (esclusi i paesi emergenti).
- (lungo il percorso storico Piketty si applica anche – dati alla mano – a confutare diffusi luoghi comuni diffusi, talvolta ad arte, lungo i 350 anni in esame: dalla propaganda della Terza Repubblica francese su una uguaglianza già conseguita dai “cittadini” nella rivoluzione di un secolo addietro al mito degli USA come società aperta alla mobilità sociale, che era forse vero nell’Ottocento ma è radicalmente smentito dai dati degli ultimi decenni).
In assenza di sconvolgimenti (ed escludendo di fatto l’ipotesi teorica di una sovrabbondanza “infinita” di capitale, capace di abbassarne la rendita), Piketty prevede per i prossimi decenni un proseguire della prevalenza del tasso di rendimento del capitale sul tasso di crescita, e quindi un progressivo aggravamento della polarizzazione delle ricchezze in favore di ristrette minoranze, con conseguenze economiche e sociali non sostenibili (cioè foriere per l’appunto di ”sconvolgimenti”) e quindi propone una cura drastica, mediante una “tassazione mondiale progressiva” sui capitali (da integrare con imposte progressive sui redditi e sulle successioni), previo conseguimento di una totale trasparenza internazionale su tutti i movimenti finanziari.
Consapevole del carattere utopico della proposta (ma, rammenta Piketty, anche la tassazione progressiva dei redditi rimase assai a lungo un’utopia, prima di essere realizzata nel cuore del Novecento), l’Autore articola anche soluzioni intermedie, in parte articolate sulle situazioni specifiche dei paesi poveri (dove – India compresa, ma non la Cina, il problema primo è la mancanza di un moderno stato, fiscale e sociale), degli USA e del mondo anglo-sassone e soprattutto dell’Europa, con i suoi problemi specifici di debiti, austerità e unione monetaria incompiuta (su cui il libro sviluppa una trattazione estesa, ma concisa, che raccomando alla lettura – capitolo 16 --, e su cui non mi soffermo per non dilungare troppo questa recensione)
Diversamente dal suo non-maestro Karl Marx, Thomas Piketty non si spinge a occuparsi del percorso politico necessario per arrivare alla svolta auspicata e degli enormi problemi sociologici ed antropologici connessi, ma rivendica illuministicamente l’utilità del suo contributo nella battaglia ideologica contro le false rappresentazioni dominanti sulla diffusione e sviluppo della ricchezza; nella conclusione Piketty sollecita gli economisti ad uscire dalla pseudo-scienza degli algoritmi micro-economici ed a riconoscersi all’interno delle altre “scienze sociali”.
FEBBRAIO 2015
18 . VECA E LE ALTERNATIVE
Ho letto, ma non sto a recensire nel dettaglio,"Non c'è alternativa: Falso!" di Salvatore Veca, (Laterza, 2014) perché mi è sembrato essenzialmente una elegante tautologia del concetto espresso nel titolo: attraversando un continuo tessuto di citazioni colte, Veca sostiene giustamente che l'attuale sistema di potere e connesso pensiero unico molto si sorreggono sulla convinzione che non ci siano alternative (convinzione di soggetti che sono convinti e di soggetti che riescono a convincere il resto della società).
Veca ritiene che sia fondamentale iniziare a pensare che le alternative siano possibili.
Anch'io lo considero necessario, ma - mi sembra -alquanto non sufficiente.
FEBBRAIO 2015
19 - IL LUNGO XX SECOLO DI GIOVANNI ARRIGHI
Laddove Hobsbawn vedeva il
Novecento come secolo “breve”, focalizzando l’attenzione sulle vicende
politico-sociali, ed individuandone pertanto l’inizio con la prima guerra
mondiale e la rivoluzione di ottobre, ed il termine con la caduta del muro di
Berlino e la dissoluzione del “socialismo reale”, lo sguardo multidisciplinare
di Giovanni Arrighi (“Il lungo XX secolo
– denaro, potere e le origini del nostro tempo” – Il Saggiatore, Milano 2014,
pagine 435, disponibile anche in e-book) identifica il Novecento come la
fase di accumulazione capitalistica ad egemonia USA, con prodromi ancora nel
XIX secolo e sentori crepuscolari a cavallo tra il XX ed il XXI.
Il fluido e poderoso racconto di
Arrighi (economista italiano, 1937-2009, emigrato
dapprima nell’Africa post-coloniale e poi negli Stati Uniti, con un importante
intermezzo a cavallo del ’68 a Trento ed a Cosenza, nonché come animatore del
“Gruppo Gramsci”) colloca il ciclo statunitense nell’ambito di una
successione di cicli di accumulazione finanziaria e di potere lunga cinque
secoli, quanto la storia dell’odierno capitalismo, a partire dal tardo medioevo
ed attraverso le seguenti fasi, che riassumo schematicamente come segue, in
parte con parole mie:
-
Periodo della “nazione genovese”(dal Cinquecento
all’inizio del Seicento), che – malgrado la sconfitta ed il ridimensionamento
della repubblica di Genova nel confronto con Venezia e nell’esito del conflitto
totale (ma non privo di fasi cooperative) tra le città-stato italiane (tra cui
primeggiarono anche Firenze e Milano) ed i loro ceti mercantili – inventando la
moderna finanza, imparando dagli errori e dai fallimenti dei banchieri
fiorentini e acquisendo la capacità di lucrare sui prestiti agli stati, ed in
particolare al nascente impero spagnolo, trasformò le risorse accumulate con il
commercio attraverso il Mediterraneo, ormai calante, in strumento di egemonia
delle famiglie genovesi (anche in esilio) sul nascente mercato finanziario
mondiale, a partire dalle “fiere di cambio” e attraverso il monopolio
dell’argento che fluiva dalle Americhe all’impero spagnolo;
-
Periodo olandese (fino a metà Settecento),
caratterizzato dall’intreccio tra la capacità di intermediazione finanziaria
(mutuata dai genovesi ed iniziata anche con i loro stessi capitali) ma anche
commerciale (con i magazzini globali nei porti olandesi) ed una organizzazione
politica e militare pubblico-privata con ascendenze nel modello veneziano (le
Compagnie delle Indie), pragmatica e “spietata”, perché efficacemente orientata
al profitto anziché a miti astratti di dominio e proselitismo qual’era quella
degli imperi iberici, dagli olandesi direttamente sfidati ed in parte
soppiantati, dal mare del Nord agli oceani;
-
Periodo britannico (fino all’inizio del
Novecento), derivante da un lungo periodo di incubazione, dopo le sconfitte (e
i conseguenti indebitamenti) dei Tudor sui fronti continentali, attraverso
l’accorta politica e la fortuna
marinara&piratesca di Elisabetta I e sir Francis Drake, con stabilità
monetaria e precoce industrializzazione, che ha portato a cavallo del periodo
napoleonico a valorizzare la posizione insulare ai margini dell’Europa e le
basi coloniali in tutto il mondo (malgrado l’indipendenza degli Stati uniti
d’America, comunque rimasti terra di investimenti britannici) per impostare un
nuovo sistema complessivo di dominio commerciale, industriale, finanziario e
diplomatico (ed anche militare, per quanto necessario) imperniato sulla City,
il libero scambio, la conversione aurea della moneta, il Parlamento e la
collaborazione delle borghesie delle altre nazioni “liberali” (e bianche), con
una molteplicità di imprese flessibili (ed un uso strumentale e temporaneo dei
monopoli delle Compagnie), surclassando
infine i rivali olandesi (parziali finanziatori della stessa City);
-
Periodo americano, fondato sulla crescita di un
enorme mercato interno, affacciato su due oceani, e sulla organizzazione di
grandi compagnie (anche sul modello delle industrie tedesche, protette dallo
Stato bismarckiano nella vana rincorsa verso la supremazia britannica),
divenute poi trasnazionali ed in grado quindi di inglobare i costi delle
transazioni con l’estero; gli U.S.A., dapprima finanziati da Londra, ne
divengono finanziatori per le immani spese britanniche nella 1^ guerra mondiale
(e poi nella 2^) e subentrano alla Gran Bretagna nel ruolo di egemonia e
dominio sul “mondo libero” in relazione alle vicende politico-militari delle
suddette guerre mondiali (che li coinvolgono senza scalfirne il territorio),
della decolonizzazione e della “guerra fredda” contro l’impero
socialista-sovietico, in un quadro di liberismo parziale (mischiato al
protezionismo) e di definitivo abbandono della convertibilità aurea della
moneta.
In questa periodizzazione
Arrighi, sulla scorta di fondamentali ricerche storiche di Fernand Braudel e di
impulsi del suo collega in ricerche socio-economiche “africane” Immanuel Wallerstein
e di Beverly Silver, e attingendo a numerosi studi di autori anglosassoni
contemporanei (ma non trascurando i contributi più datati di Marx, Weber,
Pirenne, Polanyi, Gramsci, ecc.) mette in evidenza:
-
come ad
una fase “centrale” di massimo impiego diretto dei capitali nelle attività
commerciali/produttive specifiche di ciascun ciclo di accumulazione, segua – a
partire da una prima “crisi di avvertimento”, che ha a che fare con la “caduta
tendenziale del saggio di profitto”, ovvero con la concorrenza eccessiva e la
saturazione dei mercati maturi - una fase “autunnale” di massimo splendore
“culturale” e però di turbolenza economica, che sfocia in una elevata
volatilità dei capitali, una ricorrente “finanziarizzazione”, che di fatto
finisce per favorire i poteri nascenti di nuovi soggetti e di nuovi paradigmi
politico-economico-finanziari;
-
come la durata temporale dei cicli capitalistici
in esame sia andata accorciandosi e come si siano sviluppate inclusioni ed
antinomie nelle rispettive modalità organizzative (ad esempio i britannici
sconfiggono gli olandesi copiandone solo in parte i modelli, ma recuperando
anche alcune flessibilità tipiche dei genovesi, e così via);
-
quanto la crisi dell’espansione post-bellica
maturata negli anni ’70, con lo shock petrolifero e la sconfitta in Vietnam, ed
il successivo rilancio neo-liberista ed iper-finanziario dell’egemonia USA
assomigli ai momenti “autunnali” dei precedenti cicli (ed in particolare alle
fasi di crisi del secondo ottocento e successivo splendore apparente della
“Belle époque”).
Arrighi non propone assolutamente
considerazioni meccaniche e deterministiche per prevedere il futuro sulla base
dell’esperienza passata, ma – limitandosi a formulare alcune ipotesi
alternative sulle tendenze in atto - fornisce strumenti di interpretazione
molto utili sul presente, con analisi molto dettagliate sui rapporti tra
economia statunitense e “tigri asiatiche” (Giappone, Corea del Sud, Hong-Kong,
Taiwan), purtroppo limitate sul versante della Cina e sulla valutazione della
ulteriore crisi finanziaria iniziata nel 2008 a causa della prematura scomparsa
dell’Autore nell’anno 2009, data a cui risale l’epilogo del testo, impostato
nelle sue parti principali nel 1994.
Per motivi di spazio non riassumo
qui le parti più aperte, problematiche e forse meno mature del testo di Arrighi,
relative alla seconda metà del Novecento ed all’inizio di questo secolo, che
ritengo comunque molto stimolanti, soprattutto laddove delinea un ruolo, forse
subalterno e però per alcuni aspetti anche decisivo, ai conflitti di classe e
dalla “resistenza” degli sfruttati, nonché dove intravvede tra le possibili
variabili discriminanti per ulteriori cicli di egemonia globale (in alternativa
ad un altrettanto possibile caos) la capacità di “internalizzare” nei cicli
economici, dopo i costi di produzione, commercializzazione e finanziarizzazione
(quanto avvenuto dal Cinquecento ad oggi), anche i costi di “riproduzione” non
solo della forza-lavoro ma dell’insieme umano e ambientale del mondo intero.
Alcuni critici di sinistra hanno
imputato ad Arrighi una sottovalutazione programmatica dei conflitti sociali,
in coerenza ad una sua esperienza e visione “terzo-mondista” (ad esempio nei
suoi precedenti studi sulla proletarizzazione senza sviluppo delle periferie
del mondo capitalista ed in generale nell’assegnazione di un ruolo parziale all’industria
ed ai rapporti di produzione).
A mio avviso lo sforzo di
comprensione inter-disciplinare di Arrighi è già molto vasto ed una attenzione
di altri autori sulle lotte sociali potrebbe integrarne la sua lettura di
questa storia di mezzo millennio di capitalismo, probabilmente senza smentirla
(come afferma anche Mario Pianta nella prefazione al testo edito in Italia nel
2014, indicando anche altre significative direzioni di ulteriore ricerca a
partire dalle acquisizioni ed intuizioni di Arrighi).
Così come tale lettura mi sembra
conciliabile con altre ricerche da altri punti di vista parziali, da me
recentemente apprezzate, quali quelle di Luciano Gallino e di Paolo Leon (sul
finanz-capitalismo di oggi, ma senza i precedenti storici pluri-secolari), di
Thomas Piketty (sulla accumulazione del capitale dal Settecento, ma con poca
attenzione alle dinamiche ed alle transazioni internazionali), di Paolo Prodi
(sulla genesi dei mercati dal Medioevo, nella emancipazione dai poteri
religioso e politico); mi sembra inoltre un utile correttivo ai contributi
ancor più parziali (e da me meno apprezzati), ma comunque originali ed utili, di
Graeber sul debito nei secoli e di Acemoglu&Robinson sui governi “estrattivi”
e la benefiche distruzioni creatrici del capitalismo.
MAGGIO 2015
20 - L’UTOPIA ANTI-EROICA DI LUIGI ZOJA
Ho letto “UTOPIE MINIMALISTE – UN
MONDO DESIDERABILE ANCHE SENZA EROI” di Luigi Zoja (ChiareLettere, Milano 2013,
pagine 232) a seguito dell’intervista e segnalazione nel programma televisivo
“Scala Mercalli”, dell’omonimo metereologo ed ecologista Luca Mercalli.
Programma che ho trovato
gradevole e non gridato (come invece le Gabanelli e gli Jacona della medesima
fascia oraria su RaiTre) e spero quindi che sia risultato credibile ed efficace
anche verso spettatori non pregiudizialmente ecologisti.
Nel taglio giustamente
divulgativo, ma abbastanza approfondito, del programma di Mercalli non ho
trovato molti spunti per ulteriori letture (se non già indotte da precedenti
interventi di Mercalli presso FabioFazio), ma mi ha incuriosito la
presentazione del testo di Zoja, sia per il gradualismo proposto, sia per
l’approccio psicologico ed antropologico.
Luigi Zoja, psichiatra di scuola
Junghiana e laureato dapprima in economia, percorre in lungo ed in largo i temi
socio-economici e politici nel passaggio dal secolo XX al XXI, dalla caduta del
comunismo e di ogni mitologia rivoluzionaria alla crisi dello stato sociale,
dalla globalizzazione finanziaria allo stress ambientale del pianeta terra,
cercando di applicare alla storia del mondo alcune categorie di interpretazione
proprie della sua esperienza di
psicanalista (junghiano): a mio avviso con risultati alterni.
I contenuti più strettamente
descrittivi delle contraddizioni e disuguaglianze nel mondo contemporaneo, ed a partire dal crollo
del blocco sovietico, mi sono sembrati corretti, ma non particolarmente
originali.
Pregevole mi è parso il tentativo
di contrapporre al liberista ed anti-solidale “Tax Freedom Day” (il giorno
dell’anno in cui il contribuente ha finito di lavorare per pagare tasse e
contributi) un calcolo dei pochi giorni che all’uomo occidentale bastano ogni
anno per procurarsi quanto è veramente necessario; più scontate le
considerazioni sul disagio fiscale verso le odierne nazioni, scavalcate dalla
globalizzazione, a fronte di una accettazione più facile del carico fiscale con
istituzioni locali forti e federate (esempio svizzero).
Più interessanti, ma discutibili,
le considerazioni antropologiche e psicologiche.
Un assioma di fondo di Zoja (pag.
206) è che “tenere un diario, annotare i propri sogni, o comunque
cercare di conoscere meglio se stessi, col tempo finirà coll’essere
anche per la società un contributo più importante che il partecipare a
manifestazioni rumorose”; raggiungere “l’individuazione” (cioè in sostanza la
pace con se stessi) è la premessa ad una vera empatia sociale ed ambientale,
fondata più sulla “vergogna” della corresponsabilità nei mali del mondo che
sull’indignazione per il male altrui.
Per altro, dice Zoja, il
raggiungimento dell’individuazione non si può programmarlo (mi sembra che
assomigli un po’ alla grazia divina calvinista).
Pur comprendendo l’importanza dei
riti e dei miti (archetipi junghiani) correlati alla militanza rivoluzionaria,
Zoja considera molto dannosi i comportamenti astrattamente e “alienatamente”
altruisti, propri del ciclo storico comunista, e propone la ricerca di un culto
più intimista e rilassato di “utopie minimaliste”; confidando che nella
rassegnata resistenza passiva della “generazione indifferente” possano maturare
(anziché il narcisismo egoista, che a me sembra comunque incombente)
comportamenti solidali, secondo la “naturale socialità dell’uomo” cara a Jung, ed alternativi alla omologazione consumista,
incontrando anche altre culture e altri archetipi: la natura, grande madre,
ufficializzata anche nelle costituzioni delle nuove democrazie andine, e la
comunità dei viventi, animali e vegetali inclusi, propria delle religioni
orientali.
(Temi che Zoja ritrova nella
cultura occidentale solo di recente, con Peter Singer e Paolo De Benedetti,
considerando Francesco d’Assisi come un eccezione isolata: trascura invece
importanti pensatori e testimoni del Novecento, cresciuti tra cristianesimo ed
illuminismo, come Albert Schweizer e Aldo Capitini, quest’ultimo rilevante non
solo per il vegetarianesimo e la non-violenza come strumento di lotta, ma anche
per la ricerca della felicità entro il lavoro, “endoponia”, che può
assomigliare alla “individuazione”, su un versante più laburista).
Proseguendo un ragionamento di Freud, Zoja contempla uno sviluppo a tappe del
superamento dell’ego-centrismo occidentale attraverso Galileo e Copernico (la
terra perde il centro nell’universo), Darwin (anche l’uomo appartiene al regno
animale), Freud stesso (l’io razionale come parte minoritaria della psiche) per
arrivare ad un pieno rispetto di tutte le specie viventi e degli equilibri
dell’ecosfera.
Correlato è il percorso culturale
proposto attraverso:
- Thoreau e Chomsky (contro
Foucault, per il socialismo libertario, senza paradigmi preconcetti ed
anche come autorealizzazione
dell’individuo),
- Borges (sorprendentemente anti-nazionalista)
- Enzensberger sul minimo di
civiltà (le condizioni per la convivenza civile, assicurate in ristretti luoghi
del globo) e sulle contraddizioni del superfluo, che portano alla povertà di
spazio e di tempo.
Con ulteriori riflessioni di Zoja
sull’attesa che divora la vita, vuoi per eccesso di pretese (ad esempio la non
accettazione dell’invecchiamento), vuoi invece per carenze di garanzie (il
precariato).
Mi sembra interessante la
proposizione dei “diritti dell’uomo dell’ambiente” non solo come difesa dagli
inquinamenti, ma come “diritti positivi” all’acqua, all’aria respirabile, al
cibo, alla luce ma anche al buio ed al silenzio, al poter camminare sulla
superficie terrestre senza pericoli e barriere: il tutto anche come diritto
alla salute psichica (e qui però mi sarei aspettato di apprendere maggiori dati
sulla concretezza del disagio e del benessere per l’umanità urbana
contemporanea).
Più debole invece mi pare la
proposizione dei diritti della natura, che non solo sono indeboliti, come dice
Zoja, perché gli animali non votano, ma anche (tema ignorato da Zoja) per i
rischi di fondamentalismo impliciti in ogni rappresentanza della natura assunta
da gruppi umani (rischi maggiori, secondo me,
di quelli insiti nelle militanze
rivoluzionarie socialiste dei precedenti due secoli; perché alla fin fine i
poveri, votando, magari in modo sbagliato, possono liberarsi dei falsi
rappresentanti: i criceti invece no).
Non mi ha convinto affatto la sua
semplificazione sulle “generazioni”: la “generazione impegnata”, dal dopoguerra
agli anni 70, che lottava contro le disuguaglianze in un periodo in cui il
capitalismo, mitigato dalla socialdemocrazia, consentiva il massimo di relativa
uguaglianza, e la successiva “generazione indifferente”, che non lotta più,
mentre le disuguaglianze nei paesi sviluppati tornano ad espandersi ai massimi
livelli.
Avendo appartenuto alla prima,
rammento benissimo che la componente “impegnata” riuscì, chiassosamente e
capillarmente, a conquistare una centralità politica e mediatica: ma era una
componente minoritaria dell’universo statistico dei giovani di allora (ad
esempio sono certo che la maggioranza dei miei compagni di liceo non ha mai
preso parte ad alcuna manifestazione), e mi sembra scorretto confondere la
parte con il tutto, trascurando i conflitti interni alle generazioni.
Non mi convince nemmeno il
paradigma di Che Guevara come padre irresponsabile sia verso i suoi figli
naturali che verso i suoi figli politici, anche se appare efficace la descrizione
della parabola discendente del militante rivoluzionario frustrato (e non
eroicamente caduto), che diviene incapace di leggere la realtà e di abbandonare
strumenti concettuali ormai fallimentari e controproducenti: tutte queste
critiche mi sembrano efficaci applicandole a chi ha scelto una militanza
volontaria, molto meno per tutti coloro che hanno lottato, e lottano,
semplicemente prendendo coscienza della loro oggettiva condizione subalterna e
di sfruttamento (ed a cui manca il tempo forse per sfogarsi sul lettino dello
psicanalista).
Per finire, anche se è chiaro il
fallimento del comunismo nel tentativo di realizzare un uomo nuovo (da Stalin a
Pol Pot) ed anche l’effetto controproducente dell’estremismo rivoluzionario
(Che Guevara), occorre forse chiedersi se le mitigazioni di tipo
socialdemocratico al capitalismo nel periodo 1945-75 (nei soli paesi
sviluppati) sarebbero state possibili senza che aleggiasse altrove lo “spettro
del comunismo”; ed infatti con il declino e poi il crollo del blocco sovietico
abbiamo assistito ad un rilancio del liberismo finanziario selvaggio.
D’altro canto la strada di
migliorare l’uomo per migliorare il mondo, pur in chiave diversa dalla
“individuazione” junghiana, è stata
lungo predicata dal cattolicesimo democratico (quando la Chiesa ha perso il
potere temporale e la pretesa di insegnare ad obbedire ai sovrani cattolici),
ma non mi sembra con grandi risultati sociali, almeno all’interno dei paesi
ricchi.
Forse anche il riformismo, per
essere efficace, ha bisogno di qualche dose di utopia non troppo minimalista e
di una dimensione collettiva ed in qualche misura militante, a partire dagli
interessi concreti dei soggetti sociali (probabilmente a partire dai paesi
poveri, e sperabilmente in armonia con la grande-madre-terra).
MAGGIO 2015
21 - “ARMI, ACCIAIO E MALATTIE” NELLA STORIA MONDIALE DI JARED
DIAMOND
Non ricordo più da dove ho tratto
la segnalazione di questo libro che risale al 1997 (nel 1998 premio Pulitzer, e
traduzione italiana presso Einaudi, pagg. 366, con il sotto-titolo “Breve
storia del mondo negli ultimi tredicimila
anni”), ma l’ho trovato attuale e interessante, anche se forse le
scienze specialistiche su cui si appoggia (archeologia, linguistica, genetica, ecc.)
hanno compiuto ulteriori importanti acquisizioni nei successivi diciotto anni.
Sono materie abbastanza lontane
dalle mie abituali letture dirette, ma per ricostruire uno scenario di insieme
in tali campi mi avvalgo, per interposta persona, dei più vari interessi
culturali di Anna, mia moglie e compagna di vita culturale; imitando, nel mio
piccolo, lo stesso Diamond, che – laureato in medicina, come il padre, e
divenuto ornitologo e poi geografo, svolgendo poi lunghe indagini in Nuova
Guinea e altre terre “selvagge” – si sente antropologo e quant’altro occorre
alla sua “storia mondiale” anche attraverso l’esperienza di una madre linguista
e di una moglie psicologa.
Al culmine di una carriera multidisciplinare e di una vita cosmopolita,
Diamond ha scritto questo testo (attribuendo grande importanza al precedente
“Storia e geografia dei geni umani” di L. Luca Cavalli-Sforza&C, uno dei
pochissimi italiani citati nell’ampia bibliografia) per rispondere alla domanda
posta dal suo amico guineano Yali: perché gli occidentali hanno tutto e noi
quasi nulla? E soprattutto per non rispondere che tale divario dipende da
diversità razziali innate, bensì essenzialmente dai condizionamenti ambientali.
Ripercorrendo le varie
combinazioni di opportunità e casualità che hanno determinato i diversi
sviluppi della specie umana negli ultimi millenni nei 5 continenti abitati
(così come in generale l’evoluzione delle altre specie), e soprattutto nel
passaggio da uno stile di vita paleolitico (raccoglitori-cacciatori in
prevalenza nomadi) alle varie forme del neolitico (attraverso la stanzialità,
la domesticazione di piante ed animali e quindi la pastorizia e l’agricoltura),
Diamond individua il salto di qualità verso l’accumulazione tecnologica nella
peculiare dislocazione orizzontale (nella direzione dei paralleli) delle
civiltà eurasiatiche, contro la dislocazione verticale (nella direzione dei
meridiani) per Africa, Americhe e – interposti mari, in antico più “stretti” –
area indonesiana/oceanica.
La contiguità su fasce
“orizzontali” con climi analoghi e ragionevolmente temperati dal Mediterraneo
(nord-Africa incluso) al Giappone, passando per la “Mezzaluna fertile” del
Medio- Oriente (ora assai meno fertile) e la Cina, avrebbe consentito in Eurasia un
frequente scambio (e/o imitazione od imposizione) di innovazioni colturali e
culturali (tra cui la ruota, la scrittura e le armi in acciaio), approfittando
al massimo della offerta naturale di specie vegetali ed animali oggettivamente
domesticabili (il cui numero del mondo è comunque assai limitato), mentre negli
altri continenti, frequentati dall’homo sapiens in tempi antichissimi (Africa,
origine del Sapiens, ma anche Australia) o più recenti (Americhe), la minore
offerta delle suddette opportunità è rimasta molto più circoscritta ai singoli
popoli, per la difficoltà di trasmissione attraverso fasce climatiche contigue
troppo disparate sull’asse nord-sud.
Contestualmente la prossimità e
promiscuità con gli animali addomesticati avrebbe portato le popolazioni
eurasiatiche ad accumulare intensi focolai di malattie contagiose, con
frequenti crisi demografiche e però con progressiva crescita di molte specifiche, anche parziali, immunità a
tali epidemie, che si sono invece poi scatenate con esiti letali ai primi
contatti con le popolazioni esterne al mondo eurasiatico; e solo in alcune
regioni africane le malattie locali (malaria, febbre gialla) sono risultate
quasi insuperabili per la colonizzazione da parte dei “bianchi”.
Il testo di Diamond approfondisce
le vicende preistoriche dei vari continenti, con particolare attenzione al
rapporto Europa/America (molto bello lo zoom sulla conquista spagnola del Perù,
con i 168 armigeri corazzati ed i cavalli di Pizarro contro gli 80.000 inca di
Atahualpa e conseguenti inganni e stermini e schiavizzazione – nonché epidemie -, il tutto in nome di Cristo) ed al
laboratorio genetico e linguistico dell’Oceania, colonizzata in parte dapprima
da uomini paleolitici (con scarsissima successiva evoluzione, soprattutto, ad
esempio, in Tasmania), poi da “austronesiani”, neo-litici di origine
probabilmente cinese, dotati di canoe a bilanciere, a partire dal 2000 a.C.
(Indonesia) fino al 500 d.C. (Isola di Pasqua, ma anche – ad ovest e presso
l’Africa – il Madagascar), e da ultimo dai bianchi occidentali, spesso
sterminatori, dal 18° secolo, con svariati esiti dovuti in gran parte alle
differenti condizioni ambientali.
Meno approfonditi mi sono
sembrati i racconti sull’Africa e sulle dinamiche interne all’enorme complesso
eurasiatico (e quasi nulla è detto sull’India): in particolare solo
nell’epilogo Diamond tende a rispondere ad un'altra fondamentale domanda, cioè
perché a metà dell’ultimo millennio gli europei svilupparono aggressivamente il
loro (più tardivo) accumulo di tecnologie verso il resto del mondo, mentre gli
imperi orientali (Cina e Giappone) rallentarono i loro sviluppi e subirono l’iniziativa
occidentale; la spiegazione abbozzata da Diamond fa riferimento alla
articolazione e varietà geografica dell’Europa (catene montuose, però
valicabili, isole e penisole) a fronte di una sostanziale continuità geografica
e ad un maggior relativo isolamento (catena himalayana e deserti dell’Asia
centrale) del territorio cinese: da qui una unificazione politico-culturale
relativamente più facile per la Cina ed i progressi tecnologici assoggettati ai
capricci delle élites centralistiche (ad esempio la distruzione della flotta
transoceanica nel 15° secolo, e l’abbandono di orologi e filatoi ad acqua;
analogamente in Giappone per le armi da fuoco), contro la permanente
frammentazione e contrapposizione dei singoli stati europei post-medievali, che
non permetteva a nessuno di essi lunghe fasi di isolazionismo e protezionismo
anti-tecnologico, pena la subordinazione ai voraci vicini.
Tale spiegazione mi sembra
parziale, ed a mio avviso è meritevole di essere verificata e/o integrata con
altre considerazioni, ad esempio, sul ruolo dei mercati e dei mercanti, delle
religioni e delle ideologie, delle famiglie e degli stati, del debito e
dell’accumulazione del capitale (vedi tra le mie recensioni i contributi di
Paolo Prodi, David Graeber, Gerard Delille, Acemoglu&Robinson, Giovanni
Arrighi).
Parimenti interessante, ma a mio
avviso troppo schematica, è nel testo di Diamond la proposizione di una
evoluzione dell’organizzazione socio-politica della specie umana in 4 tappe:
-
la banda, costituita da pochi gruppi familiari e
senza una sistematica divisione del lavoro;
-
la tribù, più numerosa, ma dove comunque tutti
si conoscono, e dove il capo è - inter
pares – uno dei capo-famiglia;
-
la “chefferie” (che io tradurrei in “signoria”),
che raggruppa più tribù e più villaggi sotto il comando di un solo capo, con
potere spesso assoluto ed ereditario, ed una sostanziale specializzazione nei
mestieri, tra cui quello del soldato, mediante prelievi dal surplus produttivo
dell’agricoltura;
-
lo stato, caratterizzato da una burocrazia
permanente ed articolata, sorretta da un sistema organico di tassazione (e
sostanzialmente dalla presenza della moneta e dalla spersonalizzazione dei rapporti di lavoro e di scambio).
Anche se queste fasi sono
collocate su un percorso crescente “dall’uguaglianza alla cleptocrazia”, e
malgrado la simpatia dell’Autore verso gli uomini più primitivi da lui
personalmente incontrati, Diamond si distanzia dalla nostalgia dell’età “dell’oro
e della pace” propria di molti antropologi con (limitate) esperienze sul campo,
soprattutto perché evidenzia i gravi limiti di insicurezza nella gestione dei
conflitti con gli ”altri” nelle fasi primordiali, non appena la densità del
popolamento renda frequenti i contatti tra bande e tribù diverse e con essi gli omicidi come causa prima e
crescente di morte; solo la “chefferie” e poi lo stato, monopolizzando la
violenza legale, riesce a disinnescare la catena aggressiva delle “molecole
sociali” primitive, al prezzo della estrazione del surplus produttivo, con
tassi variabili di depredazione aristocratica o ridistribuzione socializzante
(e parallelo esercizio più o meno feroce della violenza legalizzata)
all’interno della compagine, e rovesciando fuori dai confini (di comunità più
vaste) la carica di aggressività (guerre, schiavitù).
Nel finale Diamond si occupa soprattutto del futuro
della storia come disciplina scientifica (forse perché come
geografo/biologo/ecc. si sente respinto dall’attigua accademia degli storici) e
meno del futuro dell’umanità, sul quale
a mio avviso il vasto paesaggio storico/geografico di questo testo può aiutare
a porre importanti domande (pur senza alcuna meccanicistica risposta).
GIUGNO 2015
22 - GOVERNARE IL CONSUMO DI SUOLO?
IL SAGGIO DI GIUDICE&MINUCCI E LA RICERCA EUROPEA OSDDT-MED
IL SAGGIO DI GIUDICE&MINUCCI E LA RICERCA EUROPEA OSDDT-MED
Su questo argomento pochi mesi addietro ho recensito il “Rapporto 2014”
del Centro di ricerca sui Consumi di Suolo (più recente ed anche più esaustivo),
e sono in attesa di conoscere gli atti del convegno tenuto a Milano nello
scorso maggio 2015, a cura dell’istituto ISPRA (Ministero Ambiente) in
collaborazione con “Salviamo il Paesaggio”.
Il testo “Governare il consumo di
suolo” di Mauro Giudice e Fabio Minucci edito nel 2013 da Alinea editrice di
Firenze (pagg. 133) è distribuito insieme con il volume “Il consumo di suolo
dalla Provincia di Torino all’arco Mediterraneo” (sempre a cura di Giudice e
Minucci, pagg. 69), che riassume la ricerca europea “OSDDT-MED”, ed insieme costituiscono
una buona panoramica sulla questione
suolo, da un ottica tipicamente INU/Poli Torino (purtroppo la lettura è talora disturbata dai numerosi refusi, insoliti
per l‘editore Alinea e contrastanti con la valida impaginazione e presentazione
grafica di ambedue i libri).
Il primo testo, che chiamerò
“volume 1”, è più teorico e di inquadramento generale, anche se a mio avviso talvolta un po’ verboso e non stringente.
Nelle parti introduttive si
occupa in prevalenza di:
-
Percezione e misurazione (e comunicazione) del
fenomeno del consumo di suolo;
-
Connessione tra consumo di suolo e limiti delle
risorse (alimentari, energetiche, ecc.), riportando, senza approfondirli, i
tentativi di calcolo della cosiddetta “impronta ecologica” (la superficie di
suolo pro capite mediamente necessaria per l’insieme dei consumi e degli
smaltimenti);
-
Frammentazione fisica e istituzionale, che
favorisce il consumo di suolo;
-
Norme sulla finanza degli enti locali, che
incentivano le nuove costruzioni, alimentando la spesa corrente con gli oneri
di urbanizzazione;
-
Dialogo volontario tra le regioni del
nord-Italia (dialogo a mio avviso
sopravvalutato nei suoi effetti)
Nella parte più narrativa non si comprende bene, a mio avviso, il
perché delle tendenze della “città post-fordista” allo spreco di suolo e allo
“sprawl” extra-urbano, e della difficoltà a realizzare “città attraenti”
(funzionali anche alla concorrenza virtuosa tra territori): la frammentazione
istituzionale, i costi di insediamento (vedi volume 2) e la finanziarizzazione
del mercato immobiliare mi sembrano cause insufficienti per un fenomeno così
globale, in cui entrano a mio avviso fattori antropologici e sociologici qui
non indagati, e che prendono la mosse dalla stessa città fordista, quando gli
operai, oltre a produrre automobile, cominciano anch’essi a possederle e ad
usarle (ovvero: perché ha successo di
mercato la città diffusa?)
Seguono nel “volume 1” contributi
concreti sulla situazione e sulle
iniziative delle regioni italiani più sensibili all’argomento, che riassumo
brevemente:
-
Piemonte (autore lo stesso Giudice): contiene
fondate critiche all’intero ciclo della vita effettiva della legge regionale
56/77, che il buon padre Astengo aveva pensato per tutelare il suolo, fino
all’ultima revisione, positiva ma non cogente;
-
Lombardia (autore Andrea Arcidiacono - vedi
“Rapporto 2014”): illustra le analitiche campagne di misurazione condotte in
Lombardia e le finora scarse conclusioni operative contro il consumo di suolo
(senza poter arrivare alla recentissima apposita legge regionale, la prima in
Italia, che però fa salve ed addirittura “blindate” tutte le previsioni di
espansione dei vigenti piani comunali) ;
-
Veneto (autrice Laura Fregolent): focalizza le tendenze allo spreco di suolo sull’asse
padano Verona-Treviso e l’insorgere di conflittualità sociali sugli ulteriori
progetti rilevanti di insediamento e infrastrutturazione;
-
Emilia Romagna (autrice Graziella Guaragno,
funzionaria regionale): esamina i
risultati assai parziali della Legge Regionale del 2000 e dei conseguenti PTCP
provinciali (rallentamento ma conferma dei meccanismi espansivi) ed illustra le
nuove migliori intenzioni della legge del 2009 e del Piano Territoriale
Regionale del 2010 (interessante l’attenzione alle “città effettive”), mentre
ci si interroga sul divenire dei necessari “piani di area vasta” vista la
riforma nazionale che semi-abolisce le Provincie;
-
Toscana (autrice: Chiara Agnoletti): evidenzia
l’inerzia delle tendenze alla espansione urbana nei piani comunali, malgrado il
succedersi di leggi regionali che invitano i comuni stessi a contrastarla
(l’articolo non prende ancora in esame
il recentissimo Piano Paesaggistico Regionale ed i suoi sperabili effetti in
materia).
Il tratto comune a questi rendiconti regionali è la constatazione che
forse si inizia a predicare bene (cambiando lingua comunque ad ogni confine di
regione), ma ovunque si fatica a smettere di razzolare male.
Nella parte finale del “volume 1”,
più programmatica, a partire dal concetto che la limitazione del consumo di
suolo può derivare solo da un insieme articolato di azioni, e non solo da puri
vincoli normativi e settoriali, gli Autori illustrano strumenti e strategie,
tra cui (riassumo in parte con parole mie):
-
Provvedimenti legislativi nazionali,
intersettoriali (riassetto enti locali, economia, agricoltura) coordinamento tra le regioni;
-
Aggregazioni intercomunali e piani di area vasta
(per superare confini artificiosi e perniciose concorrenze campanilistiche),
con vera ed efficace Valutazione Ambientale Strategica, da cui derivare la
verifica del carico ambientale di ogni scelta insediativa;
-
Idonea fiscalità “di scopo”, con la sostanziale
avocazione delle plusvalenze immobiliari alla finanza pubblica;
-
Pianificazione integrata, con priorità alla
manutenzione del territorio, alla rigenerazione urbana ed agli interessi
pubblici e non in rincorsa agli investimenti privati;
-
Sviluppo partecipato della conoscenza delle
problematiche ambientale e della tutela del suolo
Il “volume 2” (“Il consumo di
suolo dalla Provincia di Torino all’arco Mediterraneo”) ha un taglio più pratico e racconta il progetto europeo di
ricerca OSDDT-MED (acronimo che significa: occupazione del suolo e sviluppo
durevole del territorio sull’arco mediterraneo).
La parte iniziale del testo
espone le tendenze al consumo di suolo a scala europea e contiene un
approfondimento sulle tendenze in atto nella provincia di Torino (ed in
particolare nelle aree pianeggianti e di prima collina), esprimendo
preoccupazione per i dati medi di consumo di suolo fino al 2006, poi attenuati
(vuoi per la crisi, vuoi per più virtuose politiche, consolidate
successivamente dal nuovo PTCP provinciale del 2009-2010), ma anche per le
residue previsioni dei piani comunali vigenti, che non saranno però cancellate
né dal “PTCP2” né dall’ultima versione della legge regionale “tutela ed uso del
suolo”
La parte centrale del “volume 2”
descrive gli indicatori quantitativi sperimentati dai vari partner internazionali
del progetto, che risultano più raffinati che non la semplice quantità di consumo del suolo, la
sua dinamica temporale e la media pro capite, perché includono:
-
La articolazione per suolo fertile, per fasce altimetriche,
per incidenza su aree a rischio idro-geologico, a rischio di incidenti, oppure variamente
soggette a tutela
-
Indicatori di dispersione (sprawl)
-
Indicatori di frammentazione: per infrastrutture
lineari, per “fattore di forma” degli abitati (rapporto perimetro/superficie,
che premia le forme compatte, a mio
avviso però con un notevole schematismo rispetto alla concretezza delle
geografie e delle storie)
Al termine del “volume 2” sono
esposte alcune indicazioni programmatiche, simili in gran parte a quelle del
“volume 1” (tra cui: una effettiva conoscenza eco-sistemica del territorio;
concertazione e partecipazione; progettazione integrata multi-criteri), tranne
la rivendicazione di un quadro normativo superiore, che qui assume scala
continentale (direttiva europea), anziché solo nazionale, e quella di adeguati
incentivi finanziari agli enti locali interessati alla nuova pianificazione,
che forse nella situazione italiana suona troppo ottimistica.
GIUGNO 2015
23 - REDDITO MINIMO GARANTITO IN EUROPA (MA NON IN ITALIA): “CONTRO
LA MISERIA” DI GIOVANNI PERAZZOLI
Il testo di Giovanni Perazzoli
“CONTRO LA MISERIA – viaggio nell’Europa del nuovo welfare” (Editori
Laterza, Bari 2014, pagg. 150)
costituisce una valida panoramica del welfare europeo sul fronte della disoccupazione, con excursus storici a partire
da Bismarck (Germania fine Ottocento: impostazione assicurativa-corporativa,
limitata alla perdita del posto di lavoro per le singole categorie) a Beveridge
(Gran Bretagna metà Novecento: universalità e permanenza dei sussidi, a
sostegno di una sostanziale piena occupazione), senza dimenticare il ruolo delle concessioni di tipo
social-democratico nella sfida tra Occidente e blocco sovietico.
La rassegna di Perazzoli entra
nel dettaglio delle soluzioni adottate dai principali paesi del nord-europa
(Francia compresa), accomunate da alcuni capisaldi sostanzialmente costanti:
-
l’universalità e la permanenza (o ripetibilità),
come già accennato, con offerta di sussidio a tutti i cittadini maggiorenni
privi di reddito (a fianco di sistematiche sovvenzioni per gli studenti, non
indagate dal testo);
-
l’affiancamento con altri specifici canali di
sostegno, per la casa, la salute, i figli ed altri specifici bisogni;
-
l’intervento attivo di agenzie per la formazione
ed il collocamento.
Pensate all’origine come
intervento massiccio ma collaterale, nel contesto di tendenziale piena
occupazione tipico del periodo post-bellico, tali politiche hanno subito
revisioni e restrizioni nelle recenti fasi di crisi:
-
per la difficoltà a far fronte alla spesa
complessiva,
-
per la minor efficacia del reddito minimo come
incentivo alla ricerca del lavoro in un mercato che offre spesso sotto-salari,
-
per il crescente dissenso di tali misure a
favore dei disoccupati (e peggio se immigrati) tra altri strati di lavoratori
ed imprenditori impoveriti;
da qui le esperienze tedesche dei
“mini-job” e quelle inglesi di rafforzamento degli obblighi ad accettare i
lavori offerti; l’Autore evidenzia però la
sostanziale permanenza del sistema di welfare consolidato e la sua
attuale efficacia, anche come stimolo alla affermazione individuale per i
soggetti interessati, che solo marginalmente risultano rassegnati ad
approfittare a lungo della condizione di assistiti.
Perazzoli richiama anche, seppur non in modo sistematico, le
diverse correnti ideologiche che attraversano la pratica del reddito minimo
garantito nord-europeo, e che mi sento di riassumere come segue:
-
liberale: sostegno al lavoro “vero” e alla
produttività aziendale; scommessa sull’iniziativa individuale degli assistiti;
funzionalità del mercato del lavoro coniugata alla flessibilità dei lavoratori;
-
socialdemocratica: inclusione e universalità;
socializzazione delle fluttuazioni settoriali; spinta indiretta alla crescita
dei salari minimi per gli occupati;
-
teorici della “fine del lavoro” e sostenitori
del “reddito di cittadinanza” (esteso teoricamente anche ai ricchi, salvo
recuperarlo con maggiori tasse), tra Pierre Rosanvallon e Ulrich Beck (e ci
aggiungerei Guy Standing), i quali in sostanza sostengono che il settore
produttivo, ad alta produttività, può e deve farsi carico di tutto il resto
della baracca, che comunque gli è necessaria per il consenso e per una più
ampia “produttività sociale”;
oltre ovviamente ad una opinione
pubblica reazionaria che semplicisticamente ritiene necessario tagliare il più
possibile i sussidi “ai fannulloni”.
In contrappunto al (nord)Europa,
Perazzoli tratteggia la diversa vicenda italiana, con i successivi fallimenti
della commissione Aragona nel dopoguerra, della commissione Onofri (a metà anni
’90, 1° Governo Prodi) e del dossier Biagi (primi anni 2.000, governo
Berlusconi) e – a mio avviso senza i
necessari approfondimenti sulla concomitante assenza o carenza di reddito
garantito anche in Grecia, Spagna e Portogallo e parte dell’Est-Europa –
attribuisce le ragioni di tali insuccessi ad un mix di fattori sociali: il
familismo, il corporativismo ed il clientelismo portano a conservare la discrezionalità nelle erogazione dei sussidi (in opposizione
alla universalità) come elemento di forza del sistema di potere (e dei partiti
in particolare), alimentando fenomeni assistenziali, quali le pensioni di
invalidità (anche ad alcuni validi), i lavori finti, gli aiuti per i “poveri”,
la cassa integrazione da decidere di volta in volta, la permanenza dei giovani
nelle famiglie di origine, fenomeni che ben si
intrecciano anche con la pratica del lavoro in nero.
Un sistema vischioso, che appare
insuperabile, e che Perazzoli vorrebbe scardinare con l’universalità del
reddito minimo garantito.
I MIEI DUBBI IN PROPOSITO
Per parte mia non ho dubbi sulla preferibilità del modello nord-europeo
rispetto alla attuale situazione italiana, ma ho qualche dubbio sia sulla
esportabilità del modello in Italia (1), sia su alcuni aspetti intrinseci del
modello di welfare proposto (2-3-4):
1-
se in
Italia (come in altri paesi mediterranei) gli attuali sussidi coesistono con il
lavoro in nero (che nel contempo a mio avviso gonfia oltre il credibile le
statistiche dei giovani che “né studiano né lavorano”), come potrebbe invece il
reddito minimo garantito ed universale escludere di affiancarsi di fatto
anch’esso al lavoro in nero?
2-
Il mondo
delle aziende produttive deve essere considerato come un ambito superiore, dove
tutti (gli inclusi) si realizzano in serenità e pace (e che può esternalizzare
come tasse i costi del mantenimento degli esclusi tramite welfare) oppure comunque genera conflitti e disagi
(competitività, super-lavoro, stress) che in una più equa ripartizione del
lavoro potrebbero stemperarsi a vantaggio di tutti (i già inclusi e gli
includibili), sia con progressive riduzioni degli orari e contratti di
solidarietà (e staffette giovani/anziani), sia internalizzando parte del
welfare e cioè ponendo a carico delle aziende quote di assunzioni “sociali”
(come in parte già avviene con i disabili)?
3-
le
esperienze di ripartizione sociale del lavoro fuori dalle aziende, cioè nel
settore pubblico e neL “terzo settore”, come i “lavori socialmente utili”
ed il servizio civile, sono da
considerare “assistenzialisti”, mentre l’erogazione di sussidi universali,
senza chiedere contropartite in lavoro (ed in parallela seria frequentazione di
corsi formativi), non lo sarebbe
4-
stanti
le difficoltà della finanza pubblica, se si trovassero le risorse per allargare
progressivamente le indennità di disoccupazione, perché non coniugare questa
spesa sociale con l’enorme fabbisogno arretrato di manutenzione gestione dei
beni comuni (territorio, ambiente, beni culturali)?
Il
tema, che ho già affrontato recensendo “Precari, la nuova classe esplosiva” di
Guy Standing, è assai complesso, ed intendo ritornare ad affrontarlo,
soprattutto riguardo alla separatezza tra lavoro produttivo e “beni comuni”: a
mio avviso anche la produzione deve essere considerata un “bene comune” e mi pare
che ci sia qualche cenno nella Costituzione (articoli 1, 42 ed altri).
GIUGNO 2015
24 - BIO-URBANISITCA A FAENZA, DI ENNIO NONNI&C.
Il volume “Biourbanistica –Energia e Pianificazione”, di Ennio Nonni (dirigente del comune di Faenza) ed altri autori coinvolti nella pianificazione urbanistica ed energetica della città romagnola, edito dal Comune di Faenza e stampato nel 2013 dalla Tipografia Valgimigli di Faenza (pagine 224 in carta patinata con llustrazioni e testo a fronte in inglese) rientra nel progetto Europeo EnSURE, (Energy Saving in Urban Quarters trough Rehabilitation and New Ways of Energy Supply).
Di Ennio Nonni avevo già letto precedenti interventi sulle riviste dell’INU e dintorni, apprezzando in particolare la sua concretezza, legata all’esperienza militante di pubblico funzionario (simile alla mia, nel mio piccolo), e però connessa ad una visione urbanistica di ampio respiro, che ha anticipato di alcuni anni la tematica del risparmio del suolo, intrecciata con le problematiche energetiche ed ambientali (infatti Nonni auto-cita suoi testi del 1990).
Ora Nonni tenta una sintesi più ambiziosa di tali percorsi, introducendo il concetto di “bio-urbanistica”: come afferma il Sindaco Giovanni Malpezzi nell’introduzione del testo, “quanto messo in campo è il tentativo di evitare la semplificazione per cui se tutti isolano la propria casa, la città sarà più sostenibile e più attrattiva” (tema su cui ho avuto occasione di esercitarmi anch’io, sempre nel mio piccolo).
Il testo esplica puntualmente le operazioni svolte dalla città di Faenza per dotarsi di una peculiare pianificazione energetica, con analisi dettagliata dei tessuti edilizi (e – ad esempio –con ulteriore articolazione della classe energetica “G” nazionale, la peggiore, in ulteriori 6 sotto-classi, per meglio definire le condizioni e le azioni di intervento sui tessuti edilizi più datati e più dissipatori di energia), affiancando tale ricerca (che mi è sembrata accurata, ma non molto diversa da altri Piani Energetici Comunali), presentata da Federica Drei (funzionaria comunale) e Massimo Alberti (ingegnere consulente) con interessanti approfondimenti teorici di Alessandro Rogora e Matteo Clementi (Politecnico di Milano), nonché Nicola Marzot (Architettura Ferrara), che evidenziano le interrelazioni tra consumi energetici, microclima, tipologie edilizie e morfologia urbana, mostrando come l’impostazione progettuale per la riqualificazione energetico-ambientale della città esistente debba affrontare olisticamente numerosi fattori anche conflittuali.
In particolare, il saggio del prof. Rogora pone al centro dell’attenzione (richiamando altri autori contemporanei, tra cui Sergio Los) il clima dell’ambiente urbano esterno ai fabbricati, cercando di definirne, attraverso un ampio excursus storico e geografico, una sorta di teoria generale alla ricerca del miglior equilibrio tra compattezza urbana e soleggiamento/ombreggiatura, particolarmente importante nelle fasce del globo a clima temperato, dove gli spazi urbani esterni sono potenzialmente più vivibili in modo sociale; l’Autore affronta le singole variabili: altitudine (assoluta e relativa, in situazioni vallive), ventilazione (naturale ed indotta dagli stessi insediamenti), acque superficiali, vegetazione ed alberature, in correlazione con le opzioni tipologiche e morfologiche (ad esempio case a torre e corti urbane alla maniera di Cerdà), ideali e reali, ed alle possibili modifiche, sempre assumendo come unità minima l’aggregazione urbana (la strada o la piazza) e non il singolo fabbricato.
(La parte analitica di questo saggio mi appare illuminante e paragonabile alle lezioni del compianto Gianfranco Caniggia* sulle regole basilari degli insediamenti, in particolare riguardo ai crinali/versanti/fondovalle; un poco deludente è forse la parte finale, dove le proposte operative per i Regolamenti Edilizi si arenano su un meccanismo di punteggi, poco gerarchizzato, per cercare di contemperare le diverse componenti conflittuali della progettazione; d’altronde anche in Caniggia la parte propositiva non è appagante come quella analitica).
L’intervento di Nicola Marzot si sviluppa con analoghe finalità, focalizzandosi sulle alternativa morfologiche per gli isolati urbani densi e sulla capacità degli stessi di generare ombra e ventilazione, illustrata attraverso esempi recenti di nuovi quartieri europei sorti (o progettati) nel recupero di aree produttive dismesse.
Matteo Clementi espone criteri di valutazione ambientale per la progettazione degli interventi di trasformazione urbana impostati su un concetto di “sostenibilità forte”, con calcolo sia delle emissioni di CO2 che dall’impronta ecologica complessiva degli insediamenti, includendo tutto il ciclo dei consumi di risorse indotti dallo “stile di vita” degli abitanti, esemplificato su una ipotetica “persona media” di Faenza, e mostra l’incidenza di fattori come il trasporto privato, che possono essere ridotti solo con la nuova organizzazione di una città densa (e resiliente, citando ancora Sergio Los).
Nelle parti redatte direttamente, Ennio Nonni espone una compiuta proposta di “nuova urbanistica” che, marginalizzando le tecniche perequative (in quanto tipiche dell’urbanistica espansiva), da cui riprende però compensazioni ed incentivazioni, ed esaltando una seria valutazione ambientale (vedi sopra Clementi), non ridotta alla santificazione ex-post delle scelte di piano (come di frequente purtroppo avviene), affida in buona misura alla spontaneità dei singoli interventi (anche in auto-costruzione) il conseguimento di una nuova bellezza ed attrattività della città, attraverso l’imposizione di alcune fondamentali nuove regole e la contestuale liberazione da alcune vecchie regole errate.
Limitandomi alle indicazioni più originali (e dando per scontato quanto riguarda la sicurezza sismica ed idrogeologica, il risparmio energetico, ecc.), segnalo:
- Recingere la città esistente con una cintura verde invalicabile (con il valore iconico e quasi sacrale delle mura medievali) e costringerla a crescere all’interno del recinto, soddisfacendo i nuovi bisogni con il riuso delle aree dismesse e/o sotto-utilizzate;
- Riqualificare la campagna, finalizzandola alla produzione alimentare per la città, e sopprimere anche con incentivi di compensazione edilizia (in città) gli interventi edilizi sparsi, incongrui e dissipatori di energia trasportistica;
- Favorire lo sviluppo degli orti urbani e di ogni forma di gestione creativa delle aree verdi, pubbliche e private;
- Consentire la densificazione edilizia, sopprimendo gli obblighi di distanza tra fabbricati (restano però le norme nazionali) e gli indici di densità edilizia, e indicando solo allineamenti, altezze e coperture (nonché indici di permeabilità del suolo e di piantumazione minima), facilitando e quasi imponendo nel contempo il mix funzionale, soprattutto riguardo alle funzioni non residenziali nei piani terra fronte strada;
- Sostituire le norme prescrittive con obiettivi prestazionali, dinamizzando così la progettazione con incentivi qualitativi, premiando sia i miglioramenti ambientali e sicuritari (es. anti-sismici) sia quelli identitari (arte e attrattività urbana);
- Generalizzare le alberature in tutte le strade e rallentare il traffico con la compresenza di varie funzioni ed utenze nelle aree stradali (senza specializzarle tra pedonali e veicolari, queste pericolosamente e inutilmente veloci);
- Dare spazio all’arte ed ai creativi, comunque attratti da una città compatta e vivace, e capaci di renderla ancor più attrattiva.
Dall’insieme di tali complesse politiche innovative, secondo Nonni, matura una sinergica crescita della bellezza della città compatta e della qualità della vita, con miglioramento energetico anche riguardo ad una minore e migliore mobilità.
Nonni sostiene anche che i valori positivi insiti in queste scelte non sono soggettività estetiche, ma opzioni auto-evidenti: “si preferisce vivere a Siena o nella periferia nebulosa?” è per Nonni una sorta di domanda retorica.
Ed è qui che meno mi convince. Perché a mio avviso è invece palese che non solo per una congiura di immobiliaristi o di vetero-urbanisti, ma per una spontanea adesione degli utenti, il modello della villetta continua a permanere come mito antropologico, e non nascono facilmente nuove Siene.
(D’altronde non è escluso che un tessuto di villette sia dotato di viali alberati e gradevoli spazi pubblici, anche se restano tutti i problemi trasportistici e sociali della basa densità).
Non mi convince nemmeno la densificazione delle espansioni novecentesche attuata a colpi di interventi edilizi singoli, senza una pianificazione dettagliata di quartiere (anche come guida ad eventuale auto-costruzione): probabilmente è anche necessaria una potente leva finanziaria per acquisire immobili da demolire e/o accorpare e poi rivendere/ri-assegnare .
E a questo punto mi incuriosirebbe un sopralluogo a Faenza, perché gli “urbanisti condotti” sono molto più esposti alla verifica nei fatti degli urbanisti privi di responsabilità gestionali.
Infine mi sembra un po’ meccanico associare strettamente la battaglia per limitare il consumo di suolo con la delimitazione della città esistente: occorre forse una pianificazione d’area vasta, fondata sui flussi delle areee trasformabili, ma un po’ più flessibile, perché non ovunque coincidono la domanda di nuovi insediamenti l’offerta di aree dismesse o sottoutilizzate (comprese le residenze del secondo dopoguerra).
*Gianfranco Caniggia e Gian Luigi Maffei “Lettura dell’edilizia di base” e “Il progetto nell’edilizia di base” Marsilio, Padova 1979 e 1984
LUGLIO 2015
25 - LO STATO INNOVATORE, DI MARIANA MAZZUCATO
Il testo “Lo stato innovatore”
(Laterza, Bari pagg. 351) di Mariana Mazzucato è uscito (tradotto) in Italia
nel maggio 2014 (in USA e Gran Bretagna nel 2013) ed ha suscitato l’anno scorso
un discreto dibattito, tra gli
specialisti e sui media, sia per l’autorevolezza dell’Autrice, ricercatrice e
docente italo-americana e cattedratica dell’Università del Sussex, sia per la
chiarezza e nettezza dei contenuti.
Spiace constatare che, passato il clamore mediatico, il dibattito
politico-economico nostrano (ed europeo) resti incagliato sui consueti temi,
senza apparenti scalfitture e però anche senza serie confutazioni delle tesi
della Mazzucato.
Dimostrando le sue affermazioni
con documentate ricerche, proprie ed altrui, l’Autrice tende a smontare alcuni
miti ricorrenti nel pensiero economico e nella pratica politica di molti paesi;
tra questi:
-
che la piccola impresa sia comunque e sempre da
privilegiare perché dinamica e creativa;
-
che il successo delle nuove imprese (tipo Silicon
Valley) sia effettivamente sostenuto dagli investimenti del “venture capital”,
il quale invece interviene solo in fase di imminente decollo della
commercializzazione di nuovi prodotti (senza scommettere sulla ricerca di base),
per poi uscirne al più presto con la quotazione in borsa o cessione/fusione
delle nuove aziende (con il rischio di stroncarne l’effettiva capacità
innovativa);
-
che la crescita e l’innovazione siano
direttamente proporzionali al numero dei brevetti (i quali invece divengono
spesso elementi di freno e ingabbiamento della ricerca) ed all’entità della
spesa ufficialmente definita di
“Ricerca&Sviluppo”, mentre tale importo può includere mere spese di
marketing e commercializzazione: è invece decisivo distinguere la qualità delle
connessioni che si istaurano tra università, enti di ricerca ed aziende (la
rete eco-simbiotica dell’innovazione).
Viceversa la Mazzucato,
attraversando in lungo ed in largo le vicende dello sviluppo tecnologico ed
economico dei trascorsi decenni, si impegna a dimostrare il ruolo,
indispensabile e spesso misconosciuto, svolto da specifiche agenzie e
iniziative statali, nella liberistica America (anche sotto i presidenti
repubblicani) e altrove, per la realizzazione dei più importanti percorsi
strategici dell’innovazione, quali ad esempio:
-
informatica e internet, dalla Darpa americana
(iniziata a fine anni 50 in risposta ai successi tecnologico-militari
dell’Union Sovietica, al tempo degli Sputnik) alla concertazione Stato-imprese
peculiare del Giappone e della Corea;
-
energie rinnovabili, dalla Germania alla
Danimarca, e poi in Cina ed in Brasile, ma anche con grandi investimenti
pubblici, ancorché discontinui (anche per le resistenze delle lobbies
carbon-petrolifere), e per questo meno efficaci, degli stessi USA;
-
bio-tecnologie, nanotecnologie, ricerca
farmaceutica per le malattie rare.
In tutti questi (ed altri) casi,
secondo la Mazzucato, solo lo Stato può avere le risorse, il coraggio e la
pazienza per sostenere ricerche di base ed applicative senza immediato sbocco,
con grossi rischi di fallimenti (vedi il caso dell’aereo Concorde), che però lo
Stato stesso può bilanciare con l’insieme dei risultati positivi del suo ruolo
di Grande Innovatore.
La Mazzucato non intende sminuire
il compito centrale delle imprese private nello sviluppo commerciale dei nuovi
prodotti, ma sottolinea come lo Stato, oltre ad assicurare le funzioni
fondamentali del vivere civile ed a sobbarcarsi i costi delle infrastrutture
materiali ed immateriali di scarso rendimento finanziario (dalle ferrovie
all’istruzione), oltre a regolare ed orientare i mercati – e quindi anche la
domanda dei nuovi prodotti – con le norme ed il fisco, oltre ad agevolare
l’iniziativa delle imprese stesse ed a smorzarne i rischi o gli effetti dei
fallimenti, deve intervenire pesantemente e costantemente nella promozione dei
nuovi fronti di ricerca, per assicurarsi il conseguimento di obiettivi generali
(dalla egoistica supremazia politico militare del proprio stato ai più nobili
fronti della qualità ambientale e della salute e del benessere dei cittadini).
Il testo si occupa in particolare
del successo della Apple (anche perché tanto pubblicizzato dall’azienda stessa)
per indicare quanto i nuovi prodotti dell’azienda di Cupertino siano in realtà
fondati su fondamentali scoperte messe a disposizione della ricerca pubblica,
dai micro-processori agli schermi a cristalli liquidi, da internet al GPS (per
citare solo 4 dei 12 capi d’accusa); ed analizza Apple anche come tipico
esempio di multinazionale che de-localizza il lavoro ed elude il fisco
(giocando anche tra le diverse aliquote di imposta tra California e Nevada),
comprime i salari e le carriere dei livelli medio-bassi a vantaggio di
top-manager e azionisti, in un processo complessivo di privatizzazione dei
guadagni e di socializzazione dei costi (analogo e forse più spudorato processo
è quello illustrato dall’Autrice per il settore farmaceutico).
Un altro lungo capitolo (molto interessante per chi abbia
sensibilità ecologiche) è dedicato alle strettoie, tecnologiche e finanziarie,
del difficile cammino verso un’industria energetica non inquinante.
Nella parte conclusiva il testo
propone alcuni criteri per la riappropriazione pubblica dei benefici derivanti
dall’impegno innovatore dello Stato (del tipo royalties sulle scoperte della
ricerca di base, restituzione a lungo termine dei fondi iniziali di sostegno
alle nuove imprese oppure mantenimento di quote azionarie) in un quadro
generale di riequilibrio fiscale, fondato su una corretta ri-considerazione del
premio da riconoscere al rischio (non dei soli azionisti e top-manager, ma
anche dei lavoratori e dello stesso Stato) e finalizzato a sostenere una
copiosa e costante politica di investimento
nell’istruzione e nella ricerca (anche e
soprattutto nei paesi più deboli dell’Europa, tra cui l’Italia, dove invece si
punta solo a ridurre l’insieme della spesa pubblica).
Complessivamente “Lo Stato Innovatore” si configura a mio avviso soprattutto
come uno strumento di battaglia culturale per la de-mistificazione di alcuni
fondamenti del pensiero e della propaganda neo-liberista (del tipo “stato
minimo e briglia sciolta alle imprese”, “tutto il merito va al venture capital,
quindi detassateci”, “il valore azionario premia il rischio” ), e la sua
importanza risiede anche nella autorevolezza della Mazzucato all’interno del mondo accademico
anglosassone.
L’ottica della Mazzucato resta comunque “sviluppista” ed assume la
sostenibilità ambientale solo quale ragionevole ed auspicabile scelta di uno
stato innovatore, e non come una necessià oggettiva, correlata ai limiti delle
risorse.
Tuttavia, nel debole panorama delle serie alternative allo “stato di
cose presente”, cioè del finanz-capitalismo e della privatizzazione imperante,
la posizione della Mazzucato si differenzia dalla mera riproposizione delle
ricette neo-keynesiane (rilancio dei consumi e della spesa pubblica, anche in
deficit) così come dalla generica invocazione di una “politica industriale” e
di un rilancio degli investimenti pubblici, perché mostra precisamente in quali
fasi del processo di ricerca e di nascita di aziende innovative si collochi il
necessario ed insostituibile intervento dello Stato, che rischia e che sceglie,
guidato da una visione generale di lungo respiro.
(Che per l’Europa, se sopravvive alla crisi greca, dovrebbe secondo me
assumere una dimensione continentale)
Intanto in Italia, paese ideologicamente orientato in prevalenza verso
le privatizzazioni (ma in realtà tuttora permeato da ENI ENEL FS POSTE
FINMECCANICA MUNICIPALIZZATE ecc.), ed attraversato da inestricabili gorghi
corruttivi, la proposta di nuove connessioni tra pubblico e privato, con la
discrezionalità e l’agilità suggerite dalla Mazzuccato, non può che spaventare:
cosicché gli intrecci di fatto continuano, mentre manca un trasparente
confronto sul miglior orientamento delle risorse pubbliche (a partire da quelle
esistenti) nella direzione di una effettiva e strategica innovazione.
LUGLIO 2015
26 - SOLIDARIETA', DI STEFANO RODOTA'
26 - SOLIDARIETA', DI STEFANO RODOTA'
“Solidarietà. Utopia necessaria” di Stefano Rodotà (Bari, Laterza - 2014 – pag. 141) è un nitido e appassionato racconto storico sull’evoluzione giuridica del concetto di solidarietà, ed un appello alla sua attuazione anche in questa fase di crisi economica e sociale.
Rodotà evidenzia come la solidarietà emerge, in un storia piena di contraddizioni e conflitti, qualificandosi ad un tempo come dovere dei ricchi e diritto dei poveri, e differenziandosi quindi da tutte le forme di beneficienza e carità, che – pur esprimendo sentimenti positivi di fratellanza da parte del ricco – non contemplano come carattere fondamentale del rapporto di redistribuzione delle risorse la dignità del povero.
La solidarietà ha radici nell’illuminismo e nelle dichiarazioni dei diritti che punteggiano le rivoluzioni americana e francese, ma ben presto si eclissa con il fallimento della “fraternité”, che già in periodo napoleonico non affianca più “liberté” ed “egalité”, sostituita dalla borghese “proprieté” e quindi da una concezione contrattualistica dei rapporti umani (che di fattore restringe anche la libertà e l’uguaglianza).
Nel difficile cammino verso una universalità dei diritti, secondo Rodotà, è interessante la tappa costituita dal Codice Civile del nascente regno d’Italia, che nel 1865 riconobbe i diritti civili anche agli stranieri (anche per l’influenza culturale di Pasquale Stanislao Mancini), e che solo dal Fascismo fu limitato agli stranieri degli stati amici.
Successive tappe importanti sono state le nuove costituzioni di Italia e Germania dopo il 1945, l’una fondata sul lavoro e l’altra sulla dignità umana, e da qui un nuovo ruolo positivo del “costituzionalismo” nella costruzione del diritto, che arriva – per Rodotà – ad una svolta decisiva riguardo alla solidarietà con la vigente Carta Europea dei Diritti, annessa al Trattato di Lisbona, e dunque vincolante, in teoria, per tutti gli stati dell’Unione Europea – e per la stessa Unione - , che invece spesso la ignorano, ma possono già essere richiamati con successo ricorrendo alla Corte Europea di Giustizia.
Anche se il testo di Rodotà talora si libra su elevati concetti giuridici e si appoggia su un’ampia e raffinata bibliografia internazionale, resta di agevole lettura e ci conduce infine al nocciolo della questione, ovvero se sia possibile, nel contesto della globalizzazione, della prevalenza dei valori economico-finanziari e della relativa scarsità delle risorse pubbliche, affermare, nella lotta politica e con gli strumenti del diritto (a partire da quello costituzionale) una “riserva” in favore di una solidarietà sociale come “bene comune”, non mercificabile, e come diritto di cittadinanza, tendenzialmente universale.
Rifiutando invece una visione riduttiva del benessere sociale come variabile totalmente dipendente dalla “crescita”, che quindi confina di fatto il ”welfare state” in una felice parentesi storica ormai esaurita (anche grazie alla caduta della paura del comunismo); e affidando agli afflati positivi del volontariato un ruolo complementare rispetto ai doveri solidali della “cosa pubblica” nei confronti dei diritti fondamentali di una vita dignitosa per tutti gli uomini (migranti compresi).
E per una volta, in queste recensioni, non ho nulla da obiettare con i miei corsivi.
LUGLIO 2015
27 - MIGRAZIONI E LAVORI, NELLA RICERCA DI CAMILLA GAIASCHI
LUGLIO 2015
27 - MIGRAZIONI E LAVORI, NELLA RICERCA DI CAMILLA GAIASCHI
“La geografia dei nuovi lavori.
Chi va, chi torna, chi viene” è il
titolo di un e-book di 94 pagine, edito nel 2015 dalla Fondazione Giangiacomo
Feltrinelli di Milano, che raccoglie
un’agile ed efficace ricerca condotta dalla giovane sociologa/giornalista
Camilla Gaiaschi.
Il testo alterna felicemente (pur con qualche refuso di troppo)
l’analisi e la comparazione di dati quantitativi da diverse fonti, riferimenti
bibliografici ad altre autorevoli ricerche sociologiche e brevi e spigliati
racconti “giornalistici”, mirati sui casi concreti di diversi migranti
coinvolti nei diversi flussi esaminati dal libro.
Nelle Conclusioni, da pag. 83 a
pag. 88, la stessa Autrice riassume con molta chiarezza il testo, che mi
sforzerò di riassumere ulteriormente:
- La prima parte (“da”) esamina i nuovi flussi di emigrazione degli italiani verso l’estero, evidenziando che si tratta in prevalenze di giovani, istruiti, sia maschi che femmine, provenienti dal Centro-Nord, motivati dalla ricerca di un lavoro migliore (ma anche disposti a mansioni umili nella fase di ricerca) e diretti per lo più verso le aree metropolitane più dinamiche e/o ospitali, tra cui Londra, Berlino, Parigi, Barcellona, ma anche Dubai e Shangai; si muovono attraverso reti amicali oppure attraverso approcci individuali al web, od ancora, almeno inizialmente, al seguito di imprese italiane esportatrici.A fianco di queste correnti più innovative e caratteristiche di questo inizio di secolo, con accelerazione negli anni di crisi dal 2007, si affianca il rinverdire di flussi più tradizionali di migranti a basso livello di istruzione, in prevalenza dalle regioni del Sud.Le quantificazioni ufficiali degli emigranti iscritti come “residenti all’estero” (nell’ordine di quasi 100.000 all’anno) risultano sotto-stimate, fino ad un raddoppio del flusso effettivo, perché la facilità dei trasporti e la temporaneità degli impieghi spingono spesso a mantenere vivi i legami con le famiglie e le città di origine ed inalterate le iscrizioni anagrafiche.
- La seconda parte (“a”) si occupa degli immigrati, i cui flussi di arrivo sono decisamente diminuiti dopo il 2010, mentre è aumentato il numero degli stranieri che lasciano l’Italia o per tornare al paese di origine oppure per trasferirsi in altri paesi europei, più floridi e/o accoglienti; la crisi inoltre ha indotto una crescente mobilità degli immigrati all’interno dei confini italiani, per inseguire le occasioni di lavoro e non perdere i permessi di soggiorno, accettando anche de-mansionamenti e altre forme di peggioramento contrattuale (ad esempio trasferendosi dalle industrie del Nord al bracciantato stagionale nell’agricoltura del Sud).(Il testo non affronta la recente ondata di sbarchi di profughi e migranti irregolari, orientati per altro tendenzialmente verso il Nord Europa).
- La terza parte (“in”) osserva la ripresa delle migrazioni interne, soprattutto dal Sud al Nord (anzi al Nord-Est), già in atto dagli anni Novanta, ed ora in accelerazione (ancora vicino ai 100.000/anno) , sia tra i lavoratori qualificati (in parte già insediati al Centro-Nord come studenti universitari fuori-sede) sia per le mansioni medio-basse; anche qui sia maschi che femmine, anche senza la tradizionale subalternità della “moglie che segue il marito”.Le mete di questi immigrati, per lo più giovani e single, sono soprattutto le città del Centro-Nord, che hanno ripreso ad aumentare la popolazione, anche se nel contempo continua l’esodo verso i rispettivi hinterland, soprattutto per le famiglie con figli; tra queste città le più attrattive risultano essere – oltre a Milano e Torino – Bologna e altri centri emiliani, ed il Triveneto, con Trento in evidenza.Su questo tema l’Autrice sviluppa un approfondimento, sulla correlazione tra nuove imprese innovative (“start up”) e flussi di immigrazione a mio avviso non troppo convincente in termini quantitativi ma indubbiamente interessante sul piano qualitativo.In termini quantitativi infatti, Camilla Gaiaschi propone, a pag. 69, alcuni grafici che collocano le regioni e le provincie italiane, avendo sull’asse y l’immigrazione e sull’asse x la densità di “start-up” e tende a leggere un allineamento del conseguente “sciame di dati” lungo una retta virtuosa: ma a mio avviso tali sciami risultano troppo larghi e sgranati per confermare una attendibile legge statistica (ovvero lasciano troppi casi di notevole immigrazione con poche start-up oppure di poca immigrazione con molte start up).Sul fronte qualitativo, invece, l’indagine risulta interessante, soprattutto quando illustra le motivazioni di insediamento di nuove aziende creative a Bologna, tra cui le infrastrutture informatiche pubbliche, l’ambiente stimolante e l’alta velocità con Roma e con Milano, oppure quando tratteggia il “modello Trento” (istituti di ricerca, investimenti pubblici, welfare) senza tacerne le potenziali criticità (incidenza di una spesa pubblica forse non confermabile, poteri locali un po’ ingessati, ambiente provinciale al di sotto di una soglia “metropolitana”).
AGOSTO 2015
28 - L'ENCICLICA "LAUDATO SI'" DI PAPA BERGOGLIO
L’Enciclica “Laudato sì”, emanata nel maggio 2015 da Papa Francesco, è stata trattata a mio avviso in modo alquanto superficiale dalla stampa generalista, come uno dei vari aspetti innovativi della comunicazione di questo papato, senza coglierne le implicazioni profonde ed a suo modo rivoluzionarie; parimenti mi pare sia scivolata addosso senza conseguenze al mondo politico ed al mondo cattolico (e quindi in particolare al mondo politico cattolico), che infatti non mostrano di dare avvio ad alcuna “rivoluzione”, nemmeno culturale.
Ed il limite principale della predicazione di papa Bergoglio è probabilmente proprio quello di non sviluppare, finora, gli strumenti per tradurre le sue parole in opere, né in gran parte della sua Chiesa (a partire dalla Curia romana), né attorno ad essa.
Tuttavia, stimolato anche dal riassunto pubblicato da Fulvio Fagiani sul sito www.agenda21laghi.it (riassunto che allego IN APPENDICE, risparmiandomi la fatica di elaborarne uno mio), ho letto integralmente il testo dell’enciclica e l’ho trovato di grande interesse (anche per chi come me si colloca tra i laici-non-credenti) per i seguenti motivi:
1 – recepisce dalla scienza, con una apprezzabile umiltà, e con utile sintesi divulgativa, i termini attuali della crisi ambientale complessiva (e non solo climatica) del pianeta Terra;
2 – evidenzia le strette connessioni dei problemi ecologici con i problemi sociali, e cioè come i poveri (tanto nei paesi poveri quanto nei paesi ricchi) siano le principali vittime ad un tempo sia dello sfruttamento economico, sia del degrado urbano e ambientale; tanto che, riferisce Bergoglio, “i Vescovi della Nuova Zelanda si sono chiesti che cosa significa il comandamento ‘non uccidere’ quando « un venti per cento della popolazione mondiale consuma risorse in misura tale da rubare alle nazioni povere e alle future generazioni ciò di cui hanno bisogno per sopravvivere »”.
3 – sottopone, non solo ai fedeli, ma a tutti gli uomini, non credenti e credenti di ogni fede, la necessità di un piano di azione radicale per la salvezza del pianeta (ivi compresa la decrescita dei consumi opulenti), “prima che le nuove forme di potere derivate dal paradigma tecnico-economico finiscano per distruggere non solo la politica ma anche la libertà e la giustizia”;
4 - coglie i limiti e l’inefficacia di una “ecologia evasiva” e di facciata, da parte di governi e imprese, che è prevalente in quanto è intrinsecamente diffuso, nel sentire comune dei paesi dominanti, il modello culturale consumista ed il mito della crescita infinita (malgrado l’evidenza delle crisi);
5 – tenta di fondare una nuova etica della sobrietà (derivante per i cristiani dai valori religiosi), da applicare anche a livello personale, ma finalizzata alla cooperazione solidale, arrivando ad esempio ad un utilizzo consapevole del potere collettivo dei consumatori; tale etica include anche le raccomandazioni pratiche per la vita quotidiana, che riproduco in appendice (e che non mi risulta siano ancora diventate pratica prevalente in ambito cattolico occidentale).
Di minor interesse operativo per i non-credenti, ma comunque rilevanti sotto il profilo culturale, sono ampie parti del documento, di impostazione più strettamente religiosa:
- sia dove Bergoglio allinea a suo sostegno numerose citazioni dalle Sacre Scritture, dal pensiero di teologi e santi del passato (Francesco d’Assisi in primis) e soprattutto dalle encicliche dei suoi ultimi 4 o 5 predecessori e dalle conferenze episcopali di varie parti del mondo (con qualche citazione anche di testi laici),
- sia dove il Papa parla da Papa ed afferma apodittiche manifestazioni su questa terra della presenza di Dio, nelle persone del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo (nonché della Sacra Famiglia), tutte convergenti verso l’eco-teologia.
Ad esempio : “Le Persone divine sono relazioni sussistenti, e il mondo, creato secondo il modello divino, è una trama di relazioni. Le creature tendono verso Dio, e a sua volta è proprio di ogni essere vivente tendere verso un’altra cosa, in modo tale che in seno all’universo possiamo incontrare innumerevoli relazioni costanti che si intrecciano segretamente.”
Mi convince meno il testo del Papa laddove, criticando la cultura consumista e sviluppista, ne individua le radici in un eccesso di antropocentrismo, diffidando nel contempo dal “bio-centrismo” di quegli ecologisti che pongono la natura al di sopra dell’attenzione per il benessere di tutti gli uomini
Anch’io, nel mio piccolo, vedo dei pericoli nel bio-centrismo, in quanto comunque interpretato da uomini e non direttamente dai lombrichi, dai batteri e dai fenicotteri (vedi un questo blog la scheda su “Dellavalle: L’ecologia tra soggettività e fondamentalismo”, oppure la "pagina 1" del saggio sulla sostenibilità urbana).
Ma la condivisibile visione umanistica e rispettosa verso la natura, illustrata dal Papa, si fonda soprattutto nel rapporto (subordinato) dell’uomo con la divinità: “Non possiamo sostenere una spiritualità che dimentichi Dio onnipotente e creatore. In questo modo finiremmo per adorare altre potenze del mondo o ci collocheremmo al posto del Signore, fino a pretendere di calpestare la realtà da Lui creata, senza conoscere limite”.
Pur rilevando che sono difficili e poco praticate le strade alternative al paradigma tecnocratico/sviluppista a partire dai deboli presupposti dei pensieri scettici e relativisti (di chi è agnostico o comunque non credente), mi permetto rispettosamente di rivendicarne la dignità concettuale.
Proprio perché non abbiamo certezze, nemmeno più sappiamo “ciò che non siamo e ciò che non vogliamo”, nella laica ricerca del bene comune ci viene difficile cadere nel delirio di onnipotenza che pone l’uomo al di sopra della natura.
Il riconoscimento dell’interdipendenza tra tutti gli uomini e dei fragili equilibri e squilibri degli ecosistemi, mi sembra possano essere premessa sufficiente per la cooperazione fraterna verso la possibile salvezza del pianeta.
Ben vengano le religioni a mettersi alla guida della necessaria e pacifica “rivoluzione” ecologica, vista l’esiguità delle forze non-religiose in campo (ed invece di incitare al reciproco sgozzamento come spesso hanno fatto, e talune tuttora fanno).
Ma nel perseguire l’idea di fratellanza tra tutti gli uomini, e tra gli uomini e gli altri viventi, mi pare che ci siano spazio e motivazioni per tutti, anche per i laici, gli agnostici ed i non credenti.
IL DECALOGO DELLE RACCOMANDAZIONI ECOLOGICHE QUOTIDIANE DI PAPA FRANCESCO
coprirsi un po’ invece di accendere il riscaldamento,
evitare l’uso di materiale plastico o di carta,
ridurre il consumo di acqua,
differenziare i rifiuti,
differenziare i rifiuti,
cucinare solo quanto ragionevolmente si potrà mangiare,
trattare con cura gli altri esseri viventi,
utilizzare il trasporto pubblico o condividere un medesimo veicolo tra varie persone,
piantare alberi,
spegnere le luci inutili,
riutilizzare qualcosa invece di disfarsene rapidamente.
ESTRATTO DA FULVIO FAGIANI SU ENCICLICA “LAUDATO SI’”
L’enciclica è articolata su un’introduzione e sei capitoli che delineano questo percorso:
1. Quello che sta accadendo alla nostra casa. Si ricapitolano le principali emergenze ambientali e sociali e si stigmatizza la debolezza delle reazioni;
2. Il Vangelo della creazione. Si ragiona sul ruolo della religione, rifacendosi a testi biblici e ad eminenti commenti;
3. La radice umana della crisi ecologica. Si riconducono le due crisi, ecologica e sociale, viste come intreccio inestricabile, alla dominanza del “paradigma tecnocratico”, a sua volta manifestazione di una profonda crisi culturale;
4. Un’ecologia integrale. La sfida complessa richiede una risposta di pari complessità, ecologica, sociale e culturale;
5. Alcune linee di orientamento e di azione. Vengono proposte soluzioni puntuali, ricavate dal vasto campo dell’esperienza, ma soprattutto è condotta una critica sferzante al dominio dell’economia sulla politica e della finanza sull’economia e al mito della crescita illimitata;
6. Educazione e spiritualità ecologica. E’ il tema della “rivoluzione culturale” sollecitata dal Papa, con l’invito ad uscire da individualismo e consumismo a favore di una “cultura della cura”.
Colpisce innanzitutto la modernità di un approccio alla crisi ambientale non settoriale, in cui ogni singola crisi (i cambiamenti climatici, la perdita di biodiversità, l’inquinamento, ecc.) sono visti in modo integrato, come parti di un’unica azione di pressione esercitata sulle risorse del pianeta. Chi ha familiarità con la newsletter di Agenda21Laghi ricorderà il modello dei “confini planetari” molte volte richiamato, che esamina i nove processi biofisici essenziali per la vira sul pianeta.
La crisi ecologica, poi, viene associata alla crisi sociale, particolarmente all’inequità, come è proprio del pensiero più evoluto, che non a caso ha incoraggiato le Nazioni Unite a dar vita ad un sistema di obiettivi ambientali e sociali insieme, chiamati SDG (Sustainable Development Goals).
Le cause delle due crisi sono attribuite a fattori economici e politici, la dominanza del cosiddetto paradigma tecnocratico, che si fonda sulla potenza della tecnica e diffonde il mito della crescita infinita e le abitudini consumistiche. Il Papa si scaglia più volte contro questo pensiero, invocando il limite che deve essere opposto, la subordinazione della proprietà privata agli interessi pubblici, la necessità di riconoscere e proteggere i beni comuni.
E’ interessante osservare che anche nel capitolo più dottrinale, il secondo, le argomentazioni principali sono dedicate a confutare l’idea antropocentrica dell’uomo dominatore (“Noi non siamo Dio”) e a sottolineare il “valore intrinseco del mondo”. Sembra di ascoltare una lezione di Scienza del Sistema Terra (Earth System Science), che studia il pianeta come un sistema complesso, con le sue regole di funzionamento, non manipolabile a piacimento come invece vorrebbe la scienza economica corrente.
Le soluzioni indicate sono certamente quelle veicolate dal pensiero della sostenibilità (fonti rinnovabili, efficienza energetica, protezione, agricoltura sostenibile, e così via), ma accompagnate da limiti e vincoli posti all’operare economico, fino a propugnare una forma di decrescita nei paesi più ricchi per lasciare spazio alla crescita dei più poveri.
Anche la politica è chiamata alle sue responsabilità, con la sollecitazione ad una governance dei beni comuni e al rafforzamento delle istituzioni internazionali, vista la sottomissione degli Stati nazionali agli imperativi della finanza.
Trovo però che il cuore del documento sia il capitolo finale, il sesto, che reclama una “rivoluzione culturale”, una “conversione ecologica”. Una sollecitazione ad uscire dal dominio delle ideologie consumiste ed individualiste per approdare a nuovi stili di vita, ispirati alle virtù della sobrietà e della semplicità, a ricercare l’equilibrio con l’ambiente, con sé e con gli altri, ad impegnarsi nell’azione sociale con lo spirito di apertura al mondo che viene dal rendersi conto che viviamo in un pianeta interdipendente e che condividiamo con l’intera umanità (e con le future generazioni) un destino comune.
Non manca, infine, una strigliata ai cristiani, alcuni dei quali “spesso si fanno beffe delle preoccupazioni per l’ambiente. Altri sono passivi”, invitati a “rivalutare l’amore nella vita sociale – a livello politico, economico, culturale - facendone la norma costante e suprema dell’agire”.
In poche parole: gesti quotidiani, grandi strategie, cultura della cura.
Fulvio Fagiani
29 - L'ULTIMA LEZIONE DI URBANISTICA DI BERNARDO SECCHI
RECENSIONE PUBBLICATA SU "URBANISTICA INFORMAZIONI" N° 266 - MARZO/APRILE 2016
RECENSIONE PUBBLICATA SU "URBANISTICA INFORMAZIONI" N° 266 - MARZO/APRILE 2016
“La città dei ricchi e la città dei poveri” di Bernardo Secchi (Laterza, Bari 2013, pagg. 78) è l’ultimo contributo teorico, pubblicato prima della sua scomparsa (settembre 2014), dal grande urbanista, milanese e soprattutto europeo, di cui già ho recensito “La prima lezione di urbanistica” (testo del 2000).
Questa “ultima lezione” del maestro Secchi è un agile volumetto, di lettura assai più facile dei precedenti testi di Secchi (ma denso di stimolanti rimandi bibliografici), che rimette in evidenza le questioni fondamentali nella formazione delle città, come il succedersi di diverse modalità di separazione e segregazione tra i ceti sociali, rispolverando concetti spesso dimenticati dal linguaggio e dalla narrazione prevalente sui media (ma anche nella politica e nelle accademie), quali l’esistenza e la diversità di vita tra i “ricchi” ed i “poveri”.
- le città americane (del Nord come del Sud America), in cui è prevalente il semplice rispecchiamento sul territorio della divisione tra le classi, con i crescenti fenomeni di insediamenti recintati, destinati ai più abbienti (ed ai ceti medi ad essi integrati) e preclusi ai meno abbienti, le cui abitazioni, segregate ai margini, sono però necessarie allo svolgimento dei ruoli servili e subalterni all’interno della società ed in particolare degli quartieri esclusivi,
- le città europee, nelle quali regge, almeno in apparenza, una lunga storia di integrazione e welfare urbano, minata però da nuove forme di frammentazione e discriminazione, quali da un lato la dispersione dei ceti medi nella “città diffusa” e dall’altro l’isolamento dei singoli gruppi etnici degli immigrati, per lo più nelle porzioni più degradate delle periferie ex-industriali, mentre aleggiano crescenti paure per ogni genere di “insicurezza” (dal terrorismo alla disoccupazione, dalla microcriminalità alla prevaricazione sessuale).
(In questa panoramica mi sembra che Secchi colga la compresenza tra le parti antiche, moderne e “contemporanee” dei fenomeni urbani, superando un certo schematismo che mi ero permesso di rilevare nella “Prima Lezione”).
La riflessione di Secchi, che riconosce un valore tutto sommato positivo all’esperienza “riformista” dell’urbanistica europea del Novecento (pur con tutte le ingenuità e gli errori del Movimento Moderno), è orientata soprattutto allo sforzo necessario per comprendere, e rendere palesi, le nuove linee di frattura e discriminazione sociale nelle situazioni concrete dei tessuti urbani e territoriali, e per adeguare in modo efficace i possibili strumenti di ricucitura (trasporti e percorsi, scuole e servizi, progetti di effettiva urbanità), al fine di restituire “porosità” e permeabilità, fisica e sociale, al caotico coacervo delle metropoli contemporanee, ed in particolare alle periferie.
Il testo – data la sua brevità - si limita ad una descrizione complessiva dei fenomeni ed alla enunciazione dei nuovi orientamenti necessari, senza esemplificarli nel dettaglio, ma suggerendo i percorsi di ricerca da praticare.
Il testo – data la sua brevità - si limita ad una descrizione complessiva dei fenomeni ed alla enunciazione dei nuovi orientamenti necessari, senza esemplificarli nel dettaglio, ma suggerendo i percorsi di ricerca da praticare.
La lettura a mio avviso offre conforto postumo a quanti di noi hanno vissuto – politicamente e professionalmente – il tema delle differenziazioni sociali nell’urbanistica dei trascorsi decenni (dai PEEP ai Piani di Recupero nei tessuti degradati, dalla mobilità debole alle moschee), e quindi non lo trovano “nuovo”; però si devono rendere conto che torna ad essere argomento “nuovo” proprio perché troppi altri hanno dimenticato addirittura l’esistenza dei “poveri” (ad esempio, di cosa si sta occupando il design italiano contemporaneo?).
Inoltre Secchi mostra come l’argomento sia comunque oggettivamente “nuovo” per tutti, perché “nuovi” in qualche misura sono sia gli attuali ricchi che gli attuali poveri - anche per la difficoltà di riconoscere gli ultimi quando sono “diversi” (migranti, profughi, islamici, rom…) – e nuove le forme degli insediamenti umani sul territorio.
15-03-2016
30 - LA GRANDE FUGA, DI ANGUS DEATON
RECENSIONE PUBBLICATA SU "URBANISTICA INFORMAZIONI" N° 266 - MARZO/APRILE 2016
40 - LA FILOSOFIA DEI BENI COMUNI RAPPRESENTATA DA LAURA PENNACCHI
Inoltre Secchi mostra come l’argomento sia comunque oggettivamente “nuovo” per tutti, perché “nuovi” in qualche misura sono sia gli attuali ricchi che gli attuali poveri - anche per la difficoltà di riconoscere gli ultimi quando sono “diversi” (migranti, profughi, islamici, rom…) – e nuove le forme degli insediamenti umani sul territorio.
15-03-2016
30 - LA GRANDE FUGA, DI ANGUS DEATON
RECENSIONE PUBBLICATA SU "URBANISTICA INFORMAZIONI" N° 266 - MARZO/APRILE 2016
“LA GRANDE FUGA – salute,
ricchezza e origini della disuguaglianza” (2013 – traduzione italiana “IL
MULINO” – Bologna 2015, pagine 381) è un ampio saggio, di taglio divulgativo,
scritto dall’economista Angus Deaton, con origini scozzesi e carriera a
Princeton (USA), premio Nobel 2015 e per questo pluri-recensito e pervenuto
alla mia attenzione.
Il libro è un grande affresco – costruito più con il commento a ricerche
altrui che non mediante proprie originali elaborazioni – sulla storia
mondiale del benessere (prosperità economica, salute e longevità), soprattutto
a partire dalla svolta europea nell’età moderna, con approfondimenti su
natalità e mortalità, sulle diseguaglianze in USA e nel mondo e soprattutto sul
tema degli “aiuti” ai paesi poveri.
Parte del testo risulta
indirizzata, con dovizia di esempi (iniziando dalla storia della sua famiglia)
e di ragionamenti fondati sul buon senso, a convincere di elementari verità,
del tipo che oggi si vive meglio e più a lungo che in passato, che si è fortunati
a vivere in Occidente anziché altrove e che in generale chi ha più ricchezza ha
anche più salute, e ne è contento (il tutto probabilmente in contrapposizione,
non esplicitata, a chi critica lo stile di vita occidentale o ne sottolinea guasti
ed alienazione); nel contempo Deaton non si mostra per nulla fiducioso in un
futuro altrettanto fortunato per l’umanità, né intera né per parti.
Accanto a queste affermazioni,
Deaton approfondisce anche elementi dialettici
e contradditori, quali ad esempio la correlazione non costante, nei paesi attualmente
emergenti, tra incremento del reddito medio e diffusione del benessere
sanitario (quando ne manchino le condizioni ambientali e/o organizzative),
oppure tra PIL e percezione della “felicità” (con una attenzione tutta
anglosassone, ed a mio avviso
spropositata, allo strumento dei sondaggi demoscopici – vedi anche mia recensione di Inglehart).
L’autore mette in evidenza come,
nel passaggio (tardivo) dai paesi ricchi ai paesi poveri delle esperienze di
prevenzione medica della mortalità infantile, si sia determinato un rapido
allungamento dell’età media su scala planetaria, con il derivante boom
demografico, e però senza il paventato impoverimento generalizzato per carenza
di risorse alimentari (smentendo quindi le pratiche di limitazione alla
natalità imposte dall’esterno o dall’alto, e constatando invece che a medio
termine la natalità comunque diminuisce una volta assestato il calo della mortalità
infantile), sia per l’incremento della produttività agricola, sia per la
laboriosità delle nuove leve di “mancati morti infantili”; e come nel permanere
delle disuguaglianze sociali tra i vari paesi e dentro di essi, grandi masse
(di asiatici) siano state liberate dalla fame con il progresso economico
globale degli ultimi decenni (pur nella contradditorietà di diversi percorsi,
quali quelli di Cina ed india).
Mentre nei paesi ricchi gli
ingenti sforzi impiegati per l’ulteriore benessere sanitario, essendo applicati
agli adulti (data la marginalità residuale della mortalità infantile), comportano
limitati avanzamenti statistici della “aspettativa di vita”.
Alquanto disarmante invece mi è
sembrato il testo sia dove affronta le disuguaglianze interne agli USA, sia
dove tenta – rinunciandovi – a tracciare una sintesi sulla povertà residua di
grandi masse nel mondo, soprattutto africane.
Deaton illustra i limiti, le contraddizioni
ed i paradossi dei parametri utilizzati dagli istituti pubblici per individuare
ed aggiornare le “soglie di povertà” (anche in quanto oggetto di permanenti
scontri politici tra gli opposti interessi dei ricchi e dei poveri) accontentandosi
infine di esibire come socratica saggezza la consapevolezza di non saperne più
di tanto (da un Nobel mi aspettavo
francamente di più): pare comunque che – pur verificandosi la “grande fuga”
di qualche miliardo di uomini dalla fame e dall’indigenza, (e soprattutto dal
feroce dolore della diffusa mortalità infantile), le disuguaglianze tra i più
poveri ed i più ricchi continuino ad aumentare, perché i più ricchi divengono (quasi
ovunque) enormemente tali e parte degli strati sociali più bassi restano quanto
meno stazionari (manca nel testo una lettura della “povertà relativa”, che è
invece di uso comune tra gli istituti statistici europei).
Riguardo in particolare alla stratificazione dei redditi negli USA, mi ha colpito come
l’insoddisfazione di Deaton e altri per le statistiche ufficiali (immobili dagli
anni ‘60 sull’indice di povertà assoluta, salvo correttivo inflazionistico, e limitate ad interviste a campione per
articolare i redditi tra i “decili” più o meno ricchi ai fini del calcolo
dell’indice di Gini) sia stata in parte colmata, ma solo in anni recenti, dal giovane
ricercatore francese Piketty (da noi noto
per il successivo “Capitale nel XXI secolo”, vedi mia recensione), che – in
collaborazione con istituti americani -, ha avuto finalmente la brillante idea
di utilizzare le dichiarazioni dei redditi per scovare, all’interno del 10% più
ricco, le curve di accumulazione della ricchezza delle frazioni più elevate (il
centile ed il millile) (a quando il Nobel
a Piketty?): accumulazione di ricchezza
e potere che – conviene Deaton - capovolge il mito americano delle
“uguali opportunità” (infatti anche nelle carriere per merito e nei redditi da
lavoro primeggiano i soli figli delle élites)
e può determinare un tappo alla crescita complessiva degli USA (Deaton in
sostanza ritiene ineliminabili le disuguaglianze in fase di sviluppo iniziale,
ma sostiene che solo la loro riduzione consenta ulteriori sviluppi socio-economici).
Il pezzo forte di Deaton è invece
la critica agli aiuti ai paesi poveri; oltre ad evidenziarne la capricciosa
distribuzione , a partire da statistiche errate e dal combinarsi degli interessi
politici dei paesi donatori (esempio: anticomunismo ed antiterrorismo) e delle
élites dei paesi beneficiari, Deaton ne esamina la generale inefficacia, con
una molteplicità di esempi concreti, affermando che in ogni caso non riescono
ad innescare autonomi meccanismi di crescita, ma solo talvolta ad alleviare specifiche
emergenze, mentre in generale tendono
rafforzare le politiche di corruzione, rapina ed autosussistenza delle
forze locali dominanti nei paesi più poveri, soprattutto nell’Africa
subsahariana (con vari rimandi ad Acemoglu e Robinson, già da me recensiti).
La proposta di Deaton (che costituisce
la parte più originale, anche se discutibile della “GRANDE FUGA”) è di un taglio netto alle attuali forme di aiuto,
spostando le energie su altre forme indirette (ma che incontrerebbero le stesse
resistenze, all’interno dei paesi donatori), quali diverse regole per il
commercio estero, incentivi internazionali alla ricerca di farmaci specifici,
facilitazioni alla emigrazione con borse di studio, ecc.
Non ho una preparazione sufficiente per valutare la bontà o meno della
provocazione di Deaton (condivisa invero anche da autorevoli intellettuali dei
paesi “aiutati”: vedi ad esempio già nel 1993 lo scrittore di origini somale
Nuruddin Farah in “Doni”), anche se ritengo apprezzabili, ma intrinsecamente deboli,
quanto ad attuabilità, le sue proposte correttive.
Mi permetto però di rilevare alcuni limiti generali del suo approccio,
abbastanza tipici degli accademici anglosassoni (vedi Inglehart e Acemoglu, ad
esempio), che – pur criticando alcuni effetti devastanti del dominio
capitalista – non ne esaminano alla radice le cause, insite a mio avviso in fenomeni da
loro non studiati, come lo scambio ineguale tra capitale e lavoro, la scala
falsamente meritocratica delle retribuzioni, il permanere dell’imperialismo
economico anche in era post-coloniale (rileggere Marx?).
Un breve appunto anche sulla bibliografia di Deaton, che - tranne un breve cenno al demografo Livi
Bacci, trascura totalmente gli autori italiani contemporanei (figurano solo
Wilfedo Pareto e Corrado Gini); mentre nelle mie letture ho trovato grande
chiarezza in autori come Paolo Prodi (sulle origini del mercato), Giovanni
Arrighi (sugli sviluppi dell’accumulazione finanziaria internazionale) e
Luciano Gallino (sulle recenti degenerazioni del finanz-capitalismo): tutti
autori la cui bibliografia è viceversa riccamente internazionale.
E’ vero che l’Italia è provincia dell’Impero Americano, ma a mio parere
anche taluni accademici anglosassoni rischiano altrettanto provincialismo.
22-04-2016
31 - LE CITTA’ RIBELLI, RAPPRESENTATE DA DAVID HARVEY
31 -
“CITTA’ RIBELLI – i movimenti
urbani dalla Comune di Parigi a Occupy Wall Street” (pagg. 194) è un testo del
2012, tradotto per il Saggiatore nel 2013 e rieditato come e-book nel 2016. L’autore,
David Harvey, è un geografo, accademico anglo-americano, piuttosto impegnato su
un fronte neo-marxista.
Gran parte del testo è costituito
da una attualizzazione del pensiero marxista riguardo al processo di
circolazione ed accumulazione del capitale, con particolare attenzione ai cicli
degli investimenti immobiliari e nella ristrutturazione urbana.
L’obiettivo di Harvey sembra
essere soprattutto quello di confutare la visione ristretta di alcuni residui
teorici marxisti “ortodossi”, che limitano la contrapposizione di classe alla sfera
della produzione e non colgono le funzioni di dominio e sfruttamento che
completano il capitalismo nelle fasi di “riproduzione della forza-lavoro”
attraverso l’abitare ed il consumare, ecc.; senza però confondersi con coloro
che stemperano la condizione operaia nelle più generiche “moltitudini”
subordinate all’Impero (Toni Negri e Michael Hardt).
Mi sembra che tale polemica sia oggettivamente piuttosto superata,
soprattutto in Italia, dove, quando ancora c’era una corposa sinistra “di
classe”, le tematiche dello sfruttamento esterno al ciclo produttivo sono state
ampiamente indagate e praticate, sia in versione “riformista” (dal ruolo
storico del PCI ed altri nei quartieri al “pan-sindacalismo” della FLM – e non
solo -, con rivendicazioni su casa scuola e trasporti), sia in versione
“rivoluzionaria” (da Lotta Continua di “prendiamoci la città” alle migliori
elaborazioni di Manifesto/PDUP): semmai dovrebbe essere di stimolo riflettere
sul sostanziale fallimento storico di tali esperienze italiane, a mio avviso non dovuto ad errori nella analisi
sui flussi del capitale, bensì ai limiti di comprensione antropologica della
cultura marxista rispetto alla complessità dei fenomeni sociali e culturali
(cosicché dagli anni ’80 i partiti più votati dagli operai possono essere stati
di volta in volta persino la LegaNord o ForzaItalia…).
Più interessante e aggiornata, ma
ancora frammentaria, mi è apparsa la lettura di Harvey sui processi di
appropriazione capitalistica (talora anche predatoria)
-
sia dei “valori urbani” monetari, materialmente
spremibili torchiando inquilini e mutuatari (ma in Europa, Spagna esclusa, non
abbiamo esperienza di così selvagge e massicce rapine legalizzate ai danni
degli utenti poveri del bene casa, quali quelle raccontate da Harvey per gli
USA),
-
sia dei “valori urbani immateriali” espressi
dagli usi alternativi popolari dei beni pubblici, che spesso vengono
incorporati nell’immagine vendibile di nuovi quartieri alla moda (da cui però
gli stessi ceti poveri – originari promotori dei valori creativi - vengono
espulsi mediante l’innalzamento dei fitti e dei prezzi).
Meno convincente risulta a mio parere il tentativo di recuperare le
categorie di interpretazione di Henry Lefebvre sul “diritto alla città”, il cui
soggettivismo è difficilmente emendabile.
Alle varie modalità di
manifestazione (e mascheramento) dei conflitti di classe riguardo alla
formazione e all’accesso ai “beni comuni”, nel tentativo di proporre una
unificazione classista di tutte le lotte di cittadinanza, si agganciano le
parti propositive del testo di Harvey, che si appoggiano però soprattutto su
una sua lettura “finalistica” di un secolo e mezzo di rivolte urbane (come dice
il sottotitolo, dalla Comune di Parigi a Occupy Wall Street), a mio avviso con colossale abbaglio riguardo al segno e alle
prospettive della più recente ondata del 2012 (dalle primavere arabe alle
sommosse di Londra), come possiamo meglio vedere esaminando gli esiti di tali
singole ribellioni pochissimi anni dopo, e soprattutto riscontrando che non
maturano convergenze effettive, ad esempio,
tra gli antagonisti di El Alto (Bolivia) e gli ex dimostranti di piazza
Tahrir.
Sulla credibilità di una simile narrazione, pesano inoltre a mio avviso
i riscontri puntuali possibili a scala locale per il lettore italiano, che
francamente non ha visto nelle precedenti tappe della ribellione urbana né 3
milioni di pacifisti in piazza a Roma nel 2003, né lo sviluppo di contro-poteri
territoriali nella rossa Bologna di alcuni
anni prima (così come - leggendo Guy Standing, un altro teorico del precariato
come classe rivoluzionaria - non ha trovato riscontro al sorpasso delle
manifestazioni alternative per il 1° Maggio, in Italia, rispetto a quelle
ufficiali del sindacato, secondo Standing già avvenuto da alcuni anni).
Harvey mostra nel corso del testo
come siano impossibili isole produttive anti-capitaliste (autogestione,
cooperazione, ecc.) perché circondate dal mercato finanziario; ed evidenzia i
limiti di un federalismo localista come proposto da Murray Bookchin ed altri
(vale anche per il territorialismo di Alberto Magnaghi & C: ?)
D’altro canto 70 anni di
“socialismo reale” hanno mostrato (anche ad Harvey) l’insuccesso della
proprietà pubblica dei mezzi di produzione e della “dittatura del
proletariato”; mentre in Cina resta abbastanza dittatura, ma la proprietà dei
mezzi di produzione è più capitalista che altrove.
Che le rivolte più significative in questa società globalizzata ed
urbanizzata possano avvenire nelle città anziché nelle campagne, pare una
inutile tautologia: non mi pare premessa sufficiente per dimostrare che a forza
di ribellioni urbane si riesca a costruire una alternativa al capitalismo (per
quanto predatorio esso sia); e nemmeno per dimostrare che ciò sia auspicabile, come invece Harvey dà per
scontato, ma senza spiegare quale sia l’organizzazione sociale e politica alternativa
oggi effettivamente praticabile a partire dalle probabili ribellioni.
Occupy Wall Street ha dimostrato a mio avviso tutta la sua debolezza
(una Comune di Parigi che si ripete in farsa, potrebbe dire lo stesso Marx): se
il suo frutto più significativo fosse l’inatteso consenso elettorale verso Bernie
Sanders, il cui programma socialista è però chiaramente di carattere riformistico
(salvo che poi oggettivamente la sua candidatura rischi di favorire il successo
di Trump---), sarebbe una ulteriore lezione da approfondire sulle rivolte
urbane, da un lato, e sulle possibili correzioni non-rivoluzionarie al
capitalismo, dall’altro.
32 - ERMANNO VITALE: UN ILLUMINISTA CONTRO IL BENE-COMUNISMO
febbraio 2017
maggio 2017
32 - ERMANNO VITALE: UN ILLUMINISTA CONTRO IL BENE-COMUNISMO
Il volumetto “CONTRO I BENI
COMUNI – UNA CRITICA ILUMINISTA” di Ermanno Vitale (filosofo/giurista allievo
di Norberto Bobbio) – Editori Laterza 2013 pagg. 124 – costituisce una sorta di
contro-proclama rispetto a “BENI COMUNI - UN MANIFESTO” di Ugo Mattei (Laterza
2011) e più in generale contro la pubblicistica e le posizioni dei “bene-comunisti”,
la cui radice ideologica Vitale ravvisa soprattutto nel Toni Negri (con Michel
Hardt) di “Impero” “Moltitudine” e soprattutto di “Comune. Oltre il privato e
il pubblico” (Rizzoli 2010).
Se la polemica Vitale/Mattei
risulta un po’ datata al 2011/2013, con il rilievo che il vittorioso referendum
sull’acqua conferì al “bene-comunismo”, ed il tentativo politico di A.L.B.A.
(Alleanza Lavoro BeniComuni Ambiente), poi confluito (con poco successo) nella
lista “L’altra Europa con Tsipras”, la tematica mi sembra comunque attuale,
perché la bandiera dei “BeniComuni” è talora sollevata da movimenti di lotta ed
occupazione, più o meno antagonistici, e perché alcuni argomenti sopravvivono
un po’ confusamente nella non-ideologia del Movimento5Stelle (di cui non a caso
Mattei si è dichiarato sostenitore alle recenti elezioni comunali di Torino).
Il testo è molto chiaro e molto
denso, per cui mi è difficile riassumerlo puntualmente e con altrettanta
efficacia: comunque ci provo.
Il professor Vitale sottopone a
stringente critica “Un Manifesto” di Mattei, pur imbattendosi in difficoltà
linguistiche e concettuali, perché il pensiero “olistico” dei beni comuni tende
strutturalmente a sfuggire alla logica giuridica e filosofica di stampo
illuministico, rifiutando già la distinzione tra soggetto ed oggetto ed
attribuendo priorità invece alle relazioni circolari: talché è difficile
delimitare il campo degli stessi “beni comuni”, che possono essere materiali
(come la famosa acqua, l’aria, il cibo), oppure immateriali, come la rete, il
sapere, fino - immagino – alla “felicità”, anche se la loro qualità politica,
da conquistare, è quella di differenziarsi sia dai “beni privati” che dai “beni
pubblici”, gestiti dall’esecrato “Stato” (e dai partiti che lo hanno
lottizzato).
Ancor più sfuggente risulta la
prosa assai dialettica e letteraria di Negri&Hardt, dove, rileva Vitale,
“comune” è ad un certo punto “la città” ed in altro punto “la natura”, per cui
per proprietà transitiva città e natura sarebbero uguali, mentre l’insofferenza
delle “moltitudini” può generare indifferentemente riforme o rivoluzioni.
Vitale preliminarmente cerca di smontare l’ascendenza del
bene-comunismo nel pensiero di Elinor Ostrom, premio Nobel 2009 per l’economia
(e in particolare per i suoi studi sui beni comuni), perché la Ostrom, secondo
Vitale, ha ben evidenziato il carattere particolare (e non generalizzabile)
delle esperienze di autogestione di beni comuni e soprattutto la
non-universalità dei beneficiari e quindi la tendenziale presenza di fenomeni
di esclusione (parimenti Vitale contesta la visione di Garret Hardin come
effettivo nemico del bene-comunismo); inoltre approfondisce la questione
storica delle “enclosures”, le recinzioni che misero fine ai pascoli e boschi
comuni nell’Inghilterra tardo-medioevale, evidenziando come non vi fosse alcun
egualitarismo tra i titolari dei precedenti diritti, bensì feroci differenze di
potere e di reddito, in un quadro complessivo di bassa produttività agricola, e
quindi di miseria per i più poveri. preoccupandosi soprattutto di evidenziare
che i postulati del costituzionalismo di derivazione illuminista non coincidono
con la difesa della proprietà e del capitalismo finanziario neo-liberista.
Contro la mitologia nostalgica
delle comunanze medioevali, Vitale schiera anche Marx ed Engels, sia per le
specifiche affermazioni sulle “enclosures”, sia per la visione complessiva
della borghesia come classe emancipatrice e disvelatrice dello sfruttamento di
classe (prima occultato dalle ideologie religiose e corporative dell’ancien
regime) nonché Stefano Rodotà, giurista interessato all’evoluzione ed
estensione dei diritti di accesso universale ai beni fondamentali della persona
ed anche alla articolazione costituzionale tra beni pubblici e beni comuni (con
sana diffidenza verso le nebulose descrizioni dei nuovi beni immateriali) , ma
comunque preoccupato sia di prevenire tendenze alla esclusione di soggetti
deboli nella fruizione di specifici beni (che
anche a mio avviso è il limite delle pratiche di occupazione, se vanno oltre la
fase di una lotta dimostrativa) sia di garantire la titolarità individuale
dei diritti.
Vitale riporta anche, traendoli
da articoli su “Il Manifesto” nel 2012, severi giudizi contro il bene-comunismo
da posizioni marxiste o post-marxiste, quali quelle di Rossana Rossanda,
Alberto Asor Rosa e dello stesso Guido Viale, che in sostanza vedono nella concezione
comunitaria di Mattei&C.un sostanziale interclassismo, che nasconde
nell’apoteosi della riappropriazione locale dei beni-comuni i conflitti tra i
diversi soggetti sociali
Per parte sua Vitale (ricostruendo
in breve la storia del pensiero giuridico, politico e filosofico dell’Occidente
da Platone e Aristotele a Norberto Bobbio, attraverso Giustiniano, Hobbes,
Locke e Rousseau ecc.) è soprattutto interessato a denunciare i pericoli di
derive plebiscitarie e autoritarie che si nascondono dietro le pratiche di
comunanza uomo-natura, di assemblearismo unanimista e di democrazia partecipata
(sia in chiave riformista che in chiave rivoluzionaria), in danno alle
prerogative inalienabili dell’individuo, che a suo avviso possono essere
comunque la base per un solidarismo progressista, occupandosi soprattutto di
evidenziare che i postulati del costituzionalismo di derivazione illuminista (ad
esempio come ridefiniti dal giurista Luigi Ferrajoli) non coincidono con la
difesa della proprietà e del capitalismo finanziario neo-liberista.
In tal senso sviluppa la seconda
parte del volume, che qui non sto a riassumere né a commentare, perché
costituisce – nei suoi termini descrittivi – una esplicita parafrasi di
“Finanz-Capitalismo” di Luciano Gallino (Einaudi 2011 - già da me recensito e
apprezzato), affiancata da alcune indicazioni operative sul “che fare”, cui mancano però, a mio avviso, le gambe su
cui camminare, e cioè l’individuazione dei possibili soggetti sociali e
politici – nel 2013 come nel 2016 - di una forma così avanzata di riformismo
radicale.
Non molto corretto mi pare il tentativo di Vitale di isolare
l’Illuminismo (ed il pensiero analitico/speculativo occidentale) della colpe
coloniali dell’Occidente, mentre riserva agli avversari l’opposto trattamento di
verificarne la prassi, sia riguardo alla persona di Mattei ed al bene-comunismo
italiano, sia riguardo agli esiti di alcune esperienze sud-americane di
democrazia partecipativa (Porto Alegre) e di costituzionalismo olistico-ambientalista
(la Pacha-Mama e le costituzioni di Ecuador e Bolivia).
&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&
Nell’insieme condivido la necessità di un approccio critico alle forme
totalitarie che assumono le nuove proposizioni di democrazia diretta e partecipata,
se contrapposte ai diritti costituzionali, ma rimango interessato (come Rodotà)
alle possibili evoluzioni che possono indicare, nel costume e nel diritto,
intendendole come sperimentazioni oltre i limiti oggi assai palesi della
democrazia rappresentativa e della società capitalista post-fordista.
GIUGNO 2016
33 - L’ANTROPOLOGIA, “CONTRO L’URBANISTICA” DI FRANCO LA CECLA
“Contro l’urbanistica. La cultura
delle città” dell’antropologo Franco La Cecla è un agile libretto (150 pagg.
nel formato tascabile della collana “Le Vele” dell’editore Einaudi – Torino
2015), che coinvolge anche temi molto importanti, forse più grandi del testo stesso, nel senso che richiederebbero un
maggior approfondimento, critico e bibliografico (e non solo dotte citazioni
volanti).
All’inizio del testo, che è
intervallato da piacevoli resoconti di viaggio in diverse città del globo (invero non sempre pertinenti alle parti più
strettamente saggistiche), La Cecla prende spunto dai movimenti delle masse
che in anni recenti hanno occupato piazze e parchi, in Egitto, Turchia, Hong
Kong (e U.S.A., con una qualche
sopravvalutazione, a mio avviso, del movimento Occupy Wall Street), per
evidenziarne la “corporeità”, in contrasto con i teorici di una realtà sociale
ormai solo virtuale e “smart”.
L’argomento più rilevante, esplicitato
nei capitoli centrali del libro (che
allora forse andava intitolato ”Contro l’urbanesimo”, se non sembrasse
nostalgia di Bottai), è però quello della crescita tendenziale degli
insediamenti urbani, che l’organizzazione dell’ONU HABITAT presenta come
inevitabile ed auspicabile, fonte di universale prosperità, mentre l’Autore,
anche sulla scorta dei divergenti rapporti di altri organismi internazionali (e
più in generale appoggiandosi, senza svilupparlo, al pensiero alternativo di
correnti come TERRA MADRE), non ritiene invece:
-
né ineluttabile, perché incentivato dalle
politiche di sostegno all’agricoltura capitalistica monocolturale che espelle
di continuo i piccoli agricoltori dalle campagne (espulsione accentuata dai
mutamenti climatici indotti dallo stesso sviluppo agri-intensivo ed urbano-centrico),
-
né positivo, perché l’incremento della
popolazione inurbata, nella maggior parte delle aree metropolitane, va solo ad
ingrossare gli “slums” e la povertà di
massa (La Cecla accenna all’eccezione di Singapore, che immagino dirigista ed ecologica, ma da La Cecla di più non è dato
di sapere).
Nella sua urbano-clastia, La
Cecla sbeffeggia le teorie e le consulenze di Richard Florida sulla cresta dell’onda
delle “classi creative”, secondo La Cecla
travolte inesorabilmente dalla crisi iniziata nel 2007, e stigmatizza
più in generale tutta la competizione verso il “marketing urbano” delle “città
mondiali”, sul modello drogato di Barcellona/Olimpiadi (e qui
secondo me va ascoltato solo in parte, perché guardando a Torino/Olimpiadi ed a
Milano/Expo, pur nutrendo molti dubbi sul rapporto costi-benefici, caricando
sui costi non solo gli investimenti, ma anche l’innegabile consumo di suolo
agricolo o forestale, resta da valutare un indubbio salto di quantità e di
qualità permanente riguardo ai flussi turistici acquisito, nel bene e nel male,
dalle due città).
Inoltre La Cecla si spinge a
censurare gli studi di Saskia Sassens, a suo avviso troppo spinti verso la
previsione di una tendenziale prevalenza delle metropoli, anche se in realtà la Sassens ne ipotizza il successo in
contrapposizione al declino degli Stati nazionali, e richiama l’attenzione alle
nuove disuguaglianze ed alle aree di povertà interne alle metropoli, in
sostanziale consonanza con le argomentazioni dello stesso La Cecla.
Perché comunque è proprio nella
vitalità degli slums, ed in generale nelle componenti corporali ed informali
del vivere urbano (ad esempio elogiando il cibo di strada, la cui qualità è
garantita dall’immediato giudizio dell’utenza popolare – argomento a mio avviso non scevro da un certo liberismo -), che La
Cecla vede i materiali di una vera cultura delle città, contro le
mortificazioni dei regolamenti di igiene e polizia e contro le colpevoli
acquiescenze degli urbanisti verso gli interessi del capitale immobiliare.
Non illuminata dalla capacità di
ascolto e dalla curiosità girellona degli antropologi, l’urbanistica, che è
l’esplicito bersaglio del testo di La Cecla, si sforza invano di interpretare
la realtà urbana, usando statistiche, grafici e paradigmi astratti; e – quando è
costretta ad esperire la “partecipazione” – la stinge in modalità edulcorate ed
inautentiche, dimenticando le lezioni di Jane Jacobs e i meriti storici di
alcuni precursori (in Italia: Doglio, De Carlo) e non seguendo l’esempio di
“Architecture for Humanity”, organizzazione non profit di progettisti al
servizio dei bisogni delle comunità locali, finanziata mediante lasciti e
donazioni di fondazioni filantropiche (non
importa se emanazioni di imprese multinazionali).
Soprattutto in Italia, dove si
manifesta resistenza ad introdurre lo strumento nord-europeo della Valutazione
di Impatto Sociale, che verrebbe disciolta nella più generica valutazione
ambientale (La Cecla, pur cogliendo
giustamente una certa strumentalità rutinaria nelle applicazioni della
Valutazione Ambientale Strategica per i Piani ed i Programmi, non si misura con la vigente normativa sulla
VAS, che ben ne delinea anche le componenti sociale ed economica e la
fondamentale chiave partecipativa, e da ultimo gli obblighi di terzietà nel
procedimento, rispetto agli autori dei piani).
***************************************************************************************
Non ritengo necessario espormi troppo nella difesa degli urbanisti
italiani, anche perché ha già in buona parte provveduto autorevolmente Federico
Oliva (già presidente dell’Istituto Nazionale di Urbanistica ed ora direttore
della rivista “Urbanistica”) sul n° 263 del 2015 di “Urbanistica Informazioni,
con l’articolo “Per l’urbanistica”, distinguendo anche riguardo alle effettive
responsabilità storiche dei progettisti nella formazione delle “periferie
operaie” [vedi allegato PDF……??? ].
Per parte mia, pur dichiarandomi positivamente stimolato dalle
osservazioni e provocazioni di La Cecla, mi sentirei di testimoniare però:
- che esperienze di “committenza alternativa” sono praticabili anche al
di fuori del modello “Emergency” di “AFH”: ad esempio lavorando come tecnici
negli enti locali, alle dirette dipendenze dei rappresentanti dei cittadini,
come mi è capitato di fare nei trascorsi decenni (ma anche nel mondo
cooperativo);
- che quasi tutti i contenuti critici ed alternativi di La Cecla li ho
potuti conoscere da tempo, oltre che talora sul campo, proprio sulle riviste
dell’INU (se gli urbanisti spesso razzolano male, quanto a prediche almeno mi
sembrano parecchio aggiornati);
- che anche La Cecla
(come già Guy Standing e David Harvey), mi sembra cadere nella “prova locale”,
cioè laddove anch’io, come altri lettori, pur con modesti occhi non
specialistici, ho potuto osservare gli stessi fenomeni descritti dall’Autore;
mi riferisco alla descrizione di Milano, in coda al capitolo 8, che per La
Cecla è vivace solo nei luoghi dei nuovi immigrati (via Padova, via Paolo
Sarpi) e per il resto solo insieme di luoghi di shopping devitalizzato (e per
giunta con i marciapiedi in asfalto): a me invece negli ultimi anni è parso che
milanesi e turisti vivano con una certa soddisfazione, non sempre mercantile,
la molteplicità degli spazi e dei percorsi pedonali (e delle panche e sedili
pubblici, e dei dehors di bar e ristoranti) che si sono aggiunti al
tradizionale asse Castello-Duomo-S.Babila, e cioè ad esempio, quanto meno, da
un lato la Darsena/PortaTicinese e dall’altro, malgrado la discutibilità delle
torri con e senza alberi sui balconi di piazza Aulenti, il tracciato
Garibaldi-Como-Isola.
(nota: a pag. 98 La Cecla afferma perentoriamente che “Milano non ha
mai avuto un piano regolatore un progetto pubblico per il suo futuro”; ciò non
è vero, e a mio avviso sarebbe più utile conoscerli, i Piani passati e presenti di Milano, per
criticarne meglio la discutibile trasformazione).
novembre 2016
34 - L’UOMO COME TERZO SCIMPANZE’
SECONDO JARED DIAMOND
Ben connesso, ma in parte
sovrapposto, con il successivo “Armi, acciaio, malattie” del 1997 (già da me
recensito) il testo “Il terzo scimpanzé”
di Jared Diamond NOTA 1, pubblicato in Italia da Bollati Boringhieri nel 1994 e
nel 2006, è stato recentemente editato anche in formato digitale, scelta che
indica una fiducia dell’editore nella validità dei contenuti e la sua
presentazione quasi come un classico: malgrado
risultino superati dalle successive ricerche buona parte degli specifici
approfondimenti (e i connessi ampli rimandi bibliografici) nelle singole
discipline – biologia, etologia, antropologia, archeologia, paleontologia/paletnologia,
genetica, linguistica, ecc. - su cui si appoggiano gli intenti divulgativi ed i
ragionamenti di sintesi dell’Autore, ben esposti dal medesimo sia
nell’introduzione che nella conclusione del testo.
Ed è perché anche a me appaiono seri e convincenti tali ragionamenti,
nonché per la piacevolezza della lettura, che ritengo opportuno dedicare spazio
nel recensire e segnalare “Il terzo scimpanzè”, che costituisce un ampio
racconto attraverso la lunga storia della specie umana nel contesto delle altri
specie animali, ed in particolare in relazione agli altri “primati”, con cui
condividiamo un altissima percentuale del patrimoni genetico (fino al 98%), ma
da cui ci differenziamo nettamente per il comportamento, a partire dal
linguaggio e dall’assetto del ciclo vitale (cura dell’infanzia, struttura
familiare, menopausa, longevità) assomigliando invece in parte ad altri più
remoti segmenti del mondo animale per alcune peculiarità, non tutte positive,
come l’esercizio dell’agricoltura e dell’allevamento (presenti anche in certe
specie di formiche), della tecnologia e dell’arte (vedi gli uccelli
giardinieri), il consumo di droghe, ed anche la pratica del genocidio (presente
tra altri animali ed anche, in piccola scala, tra i nostri cugini scimpanzé).
Con grande attenzione alle basi
materiali (e sessuali) ed alle accumulazioni culturali e tecnologiche (e con
una divertente digressione sulle ipotesi di incontrare o meno altre civiltà
nell’universo, ragionando però sulla nicchia ecologica del picchio e
sull’invenzione della radio) Diamond
ripercorre le tappe dell’evoluzione umana, soprattutto negli ultimi 40.000
anni, evidenziandone gli aspetti contradditori e non-lineari: in particolare
riguardo al successo conseguito dai gruppi umani che svilupparono
l’agricoltura, circa 10.000 anni addietro, prevalendo infine sulle tribù di
cacciatori/raccoglitori, ma consolidando nuovi problemi quali le disuguaglianze
sessuali/sociali, fino al dispotismo, e più pesanti incidenze delle malattie.
Tuttavia Diamond si oppone ad
ogni visione idilliaca di remote “età dell’oro”: pur constatando la presenza,
tra le popolazioni di cacciatori/raccoglitori – sia nei tempi antichi che tra
le ultime tribù “selvagge” – di alcune tendenze “conservazioniste” nei
confronti delle risorse ambientali, Diamond (anche per conoscenza diretta nelle
zone interne della Nuova Guinea) segnala la prevalente spinta, anche tra questi
gruppi umani, alla distruzione delle altre specie ed alla contrapposizione
violenta tra gli abitanti di villaggi diversi.
In particolare l’Autore – pur
scontrandosi talora con alcuni indizi contrastanti, esaltati da altri studiosi
–evidenzia le gravi conseguenze dell’arrivo dell’uomo (e dei suoi simbionti,
come gli specifici micro-organismi, e poi i ratti e altri animali rapaci) in
porzioni del pianeta prima abitate solo da altre specie animali, in termini di
massicce estinzioni di consistenti quote di tali specie, sia per sterminio
diretto (non solo per scopi alimentari), sia per sottrazione ed alterazione
degli habitat preesistenti: nelle Americhe, in Madagascar, in Australia e Nuova
Zelanda, in molte isole del Pacifico (simile è la vicenda del predominio delle
potenze coloniali europee negli ultimi 5 secoli a danno della restante umanità,
che l’Autore qui accenna, sviluppandola poi in “Acciaio-Armi-Malattie”; in
questo testo Diamond approfondisce con molto vigore e rigore il nesso tra
razzismo e genocidio, e le sue applicazioni in particolare nella genesi degli
Stati Uniti d’America – con fulminante florilegio di pensieri di vari
Presidenti statunitensi - e nello sterminio dei primitivi abitanti della
Tasmania).
Emblematico il caso dell’Isola di
Pasqua, dove le grandi statue megalitiche, in parte incompiute ed in parte
abbattute, testimoniano, insieme ad altri ritrovamenti stratigrafici, l’ascesa
ed il declino nel giro di un millennio (tramite guerre e cannibalismo) di una
civiltà che ha spinto lo sfruttamento delle risorse naturali, in particolare
con l’abbattimento degli alberi di alto fusto, oltre la capacità di
rigenerazione dello stesso equilibrio ambientale.
Analoghi i casi – non su isole ma
su vaste oasi circondate da deserti - della deforestazione del contesto di
Petra, nell’attuale Giordania, sviluppatasi dall’età del ferro fino all’impero
bizantino (e rappresentativa di un declino geo-ambientale comune ad altre parti
del Levante e del Medio Oriente), e dei “pueblos” degli Anasazi (antichi
Navajo) nel New Mexico, che costruirono e poi abbandonarono costruzioni in
pietra e legno alte fino a 5 piani e lunghe fino a duecento metri.
Illuminante – riguardo all’esaurimento
delle risorse – la citazione di una lettera scritta nel 1855 dal capo indiano
Seattle, della tribù Duwanish, al presidente USA: “Ogni
parte della terra è sacra per il mio popolo. Ogni ago di pino scintillante,
ogni nebbia nelle foreste buie, ogni radura e ogni insetto sono sacri nella
memoria e nell’esperienza del mio popolo --- L’uomo bianco --- è uno straniero
che viene nella notte e prende dalla terra tutto ciò di cui ha bisogno. La
terra non è sua sorella ma la sua nemica --- Continuate a lordare il vostro letto,
e una notte soffocherete soffocati dai vostri escrementi.”
L’attuale globalizzazione pone
l’insieme degli uomini di oggi di fronte al pianeta Terra in una situazione
concettualmente simile a quella degli abitanti di una remota isola: ormai
conosciamo i limiti delle risorse ambientali e la nostra tendenza ad esaurirle,
così come la nostra capacità di distruggere l’intero genere umano (se non
addirittura ogni forma di vita) mediante le armi di sterminio di massa
accumulati negli arsenali chimici, batteriologici e nucleari.
Di fronte a tale constatazione
Diamond oscilla tra il pessimismo della ragione (non abbiamo imparato niente
dalla precedente storia) e l’ottimismo della ragione stessa (abbiamo più
strumenti conoscitivi che mai per imparare dalla precedente storia), e per
questo dedica le sue riflessioni ai suoi figli ed alla loro generazione “per
aiutarli a capire da dove siamo venuti e dove forse stiamo andando”.
NOTA 1: dalla mia recensione di
“ARMI, ACCIAO, MALATTIE” : “--- laureato in medicina, come il padre, e divenuto
ornitologo e poi geografo, svolgendo poi lunghe indagini in Nuova Guinea e
altre terre “selvagge” , si sente antropologo e quant’altro occorre alla sua
“storia mondiale” anche attraverso l’esperienza di una madre linguista e di una
moglie psicologa.
novembre 2016
35 -”LA GLOBALIZZAZIONE INTELLIGENTE” DI DANI RODRIK
La rigorosa e
argomentata critica alla globalizzazione e dei suoi colleghi economisti da
parte di un Autore accademico e non certo anti-capitalista; i limiti delle sue
proposte correttive ed il ruolo dell’Europa.
Riassunto
– L’incapacità di spiegare le crisi da parte del pensiero economico dominante,
schiacciato sulla globalizzazione “a prescindere”. La storia dei mercati,
sempre creati da un ruolo specifico della mano pubblica. Il “trilemma”
globalizzazione/democrazia/stati nazionali, dove uno dei tre poli è sempre
incomodo. L’impossibilità di un governo mondiale e i limiti dell’esperienza
europea. Consigli per una globalizzazione ben temperata. Dubbi e
diverse opinioni del recensore.
Dani Rodrik, economista
accademico statunitense di origini turche, è divenuto abbastanza popolare
presso i “sovranisti” e gli anti-europei per le sue critiche alla
globalizzazione in parte già anticipate in un testo del 1997 e pienamente
sviluppate nel saggio del 2011 “La globalizzazione intelligente” (Laterza,
Bari, pagg. 323), rieditato nel 2014 con una ulteriore prefazione dedicata alla
crisi dell’Europa.
Il bersaglio contro cui Rodrik
lancia le sue acuminate frecce polemiche, tutte ben documentate, è il pensiero
pseudo-scientifico prevalente tra i suoi colleghi economisti che sostengono la
globalizzazione “a prescindere”, quale buona in sé, così come continuano
imperterriti ad esaltare l’automatica intelligenza dei mercati, che nel
frattempo, di crisi in crisi, combinano invece immensi guai, sfuggendo alle
presuntuose previsioni degli apprendisti stregoni delle Facoltà di
economia.
Già nell’introduzione del 2011
Rodrik sintetizza il suo pensiero, sia riguardo all’inefficienza di una
globalizzazione spinta, perché foriera di instabilità dei mercati e soprattutto
del mercato dei capitali, sia riguardo al conflitto tra
globalizzazione/democrazia/stati nazionali, un “trilemma” in cui, secondo
Rodrik sono possibili equilibri ed effettive conciliazioni solo assumendo i
termini a due a due: il connubio tra globalizzazione e stati nazionali tende a
comprimere la democrazia, la quale può svilupparsi entro gli stati solo
difendendosi da troppa globalizzazione, mentre una globalizzazione democratica
sarebbe immaginabile (ma secondo Rodrik non è realizzabile) solo disciogliendo
gli stati in solide istituzioni planetarie.
Ma il saggio di Rodrik è anche
molto di più di questo schema, perché si articola in un lungo e puntuale
percorso storico sulla evoluzione del rapporto tra stati e mercati (dopo il
medioevo) e – dopo una ricca analisi delle contraddizioni contemporanee di
economia ed economisti – si conclude con una ambiziosa gamma di proposte
operative.
Poiché “La globalizzazione
intelligente” è già stato recensito prima di me da altri più validi autori, cui
rimando (vedi “Fonti” in appendice), non mi dilungo più di tanto nel
riassumerlo.
Mi
sembra rilevante però segnalare che l’Autore, critico della globalizzazione ma
convinto sostenitore del capitalismo (come esplicita a chiare lettere nel capitolo
XI) ed anche dei vantaggi derivanti dal commercio internazionale (se
opportunamente “dosati”), legge correttamente, cioè con il dovuto realismo, i
rapporti tra stato e mercato (in termini non dissimili dall’anti-capitalista
David Graeber) e le vicende del colonialismo e dell’imperialismo (anche
post-coloniale) come un regime di scambi iniqui tra paesi dominanti e dominati
(con valutazioni non lontane da quelle dell’anti-imperialista Giovanni
Arrighi), ed in questo si differenzia nettamente dai pregiudizi correnti tra
gli economisti anglo-americani, come ad esempio il suo connazionale di origine Acemoglu oppure lo
stesso Deaton..
Nella parte storica, infatti, Rodrik
evidenzia il ruolo preminente degli stati nazionali, e soprattutto delle
potenze coloniali, nel costituire le premesse per l’esistenza stessa dei
mercati e per il progressivo abbattimento dei “costi di transazione”, che non
sono solo i dazi e le monete, bensì le barriere linguistiche e culturali, le
incertezze giuridiche e soprattutto la sicurezza/insicurezza militare, ecc.
Malgrado l’orientamento
mercantilista dei singoli stati, più favorevoli ai propri monopoli che alla
libera concorrenza, nell’Ottocento, sotto l’egemonia dell’imperialismo
britannico, sembra affermarsi (più culturalmente che nei fatti, segnala Rodrik)
una fase di libero-scambio, connessa alla convertibilità delle monete nazionali
in oro (gold standard): ma questa “prima globalizzazione” crolla nei conflitti
protezionistici che confluiscono nella prima guerra mondiale ed i suoi principi
liberisti non riescono a risollevarsi nelle successive crisi, che precipitano
nel secondo conflitto mondiale.
Il nuovo ordine mondiale
(emisfero comunista escluso) progettato nel 1944 a Bretton Woods dai banchieri occidentali,
influenzati da Keynes, è oggetto di attenzioni e simpatie da parte di Rodrik,
che sottolinea come lo sviluppo di più intensi scambi commerciali tra gli stati
industrializzati venga affiancato da un rigoroso controllo dei movimenti dei
capitali e da regimi commerciali differenziati con i paesi sottosviluppati che
– mentre proteggono l’agricoltura dei paesi ricchi – non escludono per alcune
aree del terzo mondo l’avvio di politiche industriali protette, sia per la
sostituzione delle importazioni, sia per alcuni tentativi di fondare imprese
esportatrici (Taiwan, Sud-Corea e altre “tigri del pacifico”, nel cui successo però Rodrik non sembra
cogliere l’importanza del favore geo-politico e militare offerto dagli U.S.A.
in chiave anti-comunista, similmente a quanto accaduto per l’Europa occidentale
– e in particolare per i paesi sconfitti, Germania Ovest ed Italia - e analogamente
a oriente per il Giappone).
Alla crisi degli anni ’70 in
occidente, che Rodrik presenta soprattutto sul versante finanziario, con
l’eccesso di “petro-dollari” ed “eurodollari” derivante dagli sbilanci
commerciali degli U.S.A., (ma che a mio
avviso include intraprendenza sindacale e ribellismo giovanile, autonomia dei
paesi produttori di petrolio, lotte anti-coloniali e sconfitta nel Vietnam)
e a fronte del successivo crollo del blocco sovietico, si risponde con l’abbandono
delle regole di Bretton Woods (e della convertibilità aurea del dollaro),
promuovendo la piena libertà di movimento dei flussi finanziari ed una
crescente riduzione delle barriere daziarie (prima con gli Accordi G.A.T.T. e
poi con l’Organizzazione Mondiale del Commercio), mentre il Fondo Monetario
Internazionale e la Banca Mondiale (ed
il coro dei principali economisti, Milton Friedman in testa) affermano il
cosiddetto “Washington Consensus”, che prescrive, uniformemente per tutti i paesi ricette di
privatizzazioni, liberalizzazioni e globalizzazione come garanzie di sicuro
successo.
All’opposto, Rodrik rammenta
che ogni scelta innovativa di maggior libertà commerciale (ad esempio la
riduzione di un dazio) – così come le innovazioni tecnologiche – deve essere
valutata nel concreto, misurando tutti i possibili ”benefici comparati”,
tenendo conto degli interessi dei vari soggetti sociali coinvolti (imprese,
lavoratori dei diversi settori economici; famiglie e consumatori), e che gli
economisti non dovrebbero mai innamorarsi di uno specifico paradigma,
scambiando così la parte per il tutto.
Proprio nella fede univoca
negli automatismi positivi dei mercati, secondo Rodrik, si annida il nocciolo
degli errori, che diviene cecità nell’incapacità di vederne i limiti nelle
crisi, non solo locali, che si manifestano dagli anni ’90, specificamente
analizzate dal testo in esame, dalle stesse “tigri asiatiche” all’Argentina,
mentre, nota Rodrik, il diverso sviluppo di India e Cina (ed in passato del
Giappone) dimostra proprio di avvenire in contrasto con le regole liberiste e per la Cina, in particolare, con un uso
parziale, pragmatico e spregiudicato degli strumenti offerti dalle esperienze
capitalistiche dell’Occidente.
Ulteriore e definitiva
controprova dell’insuccesso delle dottrine globaliste/neo-liberiste, per Rodnik
è poi ovviamente la grande crisi innescata nel 2007 dai “mutui sub-prime” e dal
fallimento di Lehman Brothers, nonché in particolare dai suoi inviluppi
nell’area euro, dove Rodnik (come esplica pienamente nella prefazione del 2014)
vede confermata la sua teoria del “trilemma” (incompatibilità del “rapporto a
tre” tra globalizzazione/stati nazionali/democrazia), perché l’Europa, pur
avendo impiantato poderose istituzioni sovranazionali a sostegno della
unificazione dei suoi mercati, non ha conseguito ancora la natura di
super-stato federale ed integralmente soggetto al controllo democratico dei
suoi cittadini: da ciò le sorti divergenti delle singole economie nazionali e
l’abbandono dei paesi più deboli alla loro sorte (Rodrik però erroneamente. a pag. 253, trascura alcuni fatti, come il
flusso di aiuti europei in favore della Spagna e delle sue banche, superiore a
40 miliardi di € tra 2012 e 2013 – pag. 253).
Anche
dai limiti dell’esperienza dell’Unione Europea, l’Autore rafforza la sua
convinzione che la soluzione ai problemi emersi nel dilagare della
globalizzazione non possa essere la progressiva estensione dei flebili poteri
delle autorità sovranazionali, sostanzialmente tecnocratiche, tipo Fondo
Monetario Internazionale, Banca Mondiale, Organizzazione Mondiale per il
Commercio (ma anche la stessa
ONU) bensì una serie di correttivi che restituiscano una parziale maggior
autonomia agli stati nazionali, soggetti al controllo democratico: ambiti
consolidati, in cui credibili autorità possono far valere gli standard di
qualità dei prodotti e dei modi di produzione (anche riguardo ad ambiente,
salute, lavoro), del tutto aleatori, secondo Rodrik, a scala internazionale.
(Per inciso, Rodrik, per nulla interessato alle tematiche dei
limiti ecologici allo sviluppo, affronta il tema del riscaldamento globale
come problema comune dell’umanità, ma solo per usarlo come esempio di
collaborazione internazionale necessaria e possibile – con un generico ottimismo in proposito -, diversamente
dell’economia, che per Rodrik non può essere in quanto tale un “bene comune
sovranazionale”, bensì in prevalenza a carattere nazionale).
Nella parte finale del saggio,
Rodrik specifica con un certo dettaglio le sue proposte di “globalizzazione
intelligente” (ovvero temperata da una minor pretesa di omogeneità normativa e
da un maggior spazio per le autonomie nazionali), che però mi sembra oscillino tra il puro buon senso ed una discreta
dose di velleitarismo illuminista (non inferiore a mio avviso a quello esibito
dai “sovranazionalisti”) e quindi mi risultano assai meno convincenti delle sue
analisi.
Ad
esempio Rodrik ipotizza la facoltà di deroga temporanea unilaterale per i
singoli stati dai trattati di libero scambio, a protezione di specifici settori
economici, perché confida che tali deroghe sarebbero comunque moderate dal
confronto interno allo Stato promotore, nell’emergere dei diversi interessi,
poniamo, dei produttori piuttosto che dei consumatori.
Oppure
suggerisce agli stati più progrediti di programmare significativi tassi di
immigrazione, legale e temporanea, di lavoratori dai paesi poveri, nell’ordine
di un 3%, per favorire il contestuale sviluppo sia delle economie avanzate che
di quelle arretrate.
In
entrambi i casi mi pare che Rodrik, dopo aver censurato i teorici della
perfetta razionalità dei mercati, cada nel simile errore di sopravvalutare la
razionalità dei processi politici, trascurando invece i meccanismi reali di cui
è fatto il consenso nei paesi democratici (e ne sono recente testimonianza sia
il suo paese natale, con Erdogan osannato da una tenace maggioranza
nazional-islamista, sia il suo paese di adozione, che ha appena eletto Trump
sia pure con risicata maggioranza dei soli “grandi elettori”), e non disponendo
d’altronde di alcuna ricetta risolutiva per gli stati autoritari (salvo
rifiutare loro clausole commerciali di favore da parte degli stati più
democratici).
Altrettanto
velleitarie mi sembrano da ultimo le proposte per “ammansire” la Cina,
convincendola a rinunciare a politiche commerciali aggressive (quali la
persistente sottovalutazione della sua moneta) e il conseguente surplus della
bilancia commerciale, accettando invece ampie deroghe in favore degli “aiuti di
stato” nelle politiche industriali (che a mio modesto avviso avrebbero lo
stesso effetto di dumping sui prezzi).
Cioè,
mi chiedo, dacché la globalizzazione finora conosciuta arranca o sta fallendo, applicando
invece le ragionevoli prescrizioni di Rodrik, una volta svuotate le pretese
pan-razionali dell’Organizzazione Mondiale per il Commercio, si possono
veramente esorcizzare i rischi di ritorni a forme di protezionismo e
mercantilismo aggressive, e con le guerre commerciali, i conseguenti rischi di
fomentare anche le guerre guerreggiate (che già dilagano come conflitti di
origine regionale e pseudo-religiosa)?
E
– velleitarismo per velleitarismo, utopia per utopia – mi chiedo invece se la
strada giusta non possa essere quella tentata dalla vituperata Europa (ora
purtroppo veramente in ribasso) e cioè aggregare in forma federale le realtà
statuali a scala dei singoli continenti, riducendo il numero dei grandi
soggetti mondiali, sia nei mercati che negli interessi geo-politici, e quindi
così disinnescare alla radici le ragioni dei conflitti tra nazioni, sia
economici che militari. Dando spazio invece ad uno sviluppo delle
contraddizioni sociali, attorno alle ragioni del buon vivere e quindi con un
debito ascolto alla sofferenza dei poveri ed alla crisi ecologica del pianeta
su cui abitiamo.
Fonti:
- Dani
Rodrik - “LA GLOBALIZZAZIONE INTELLIGENTE” - Laterza, Bari 2014
- David
Graeber – “DEBITO. I PRIMI 5.000 ANNI” - Il Saggiatore, Milano 2012
- Giovanni
Arrighi - “IL LUNGO XX SECOLO. Denaro, potere e le origini del nostro
tempo” – Il Saggiatore, Milano 2014
- Angus
Deaton - “LA GRANDE FUGA – salute, ricchezza e origini della
disuguaglianza” - Il Mulino, Bologna 2015
- Daron Acemoglu e James A. Robinson - “PERCHE’ LE NAZIONI FALLISCONO - Alle origini di potenza, prosperità, e povertà” – Il Saggiatore, Milano 2014
- Recensioni sui precedenti testi su questo blog in appositi POST e in questa pagina ULTERIORI LETTURE.
dicembre 2016
Le scarse speranze su
un futuro ruolo dell’Europa, per il venir meno delle spinte autenticamente rivoluzionarie
e della tensione tra religiosità e laicità, nel “testamento culturale” dello
studioso da poco scomparso.
.
Riassunto
– L’Autore riprende i suoi fondamentali contributi storici sulla peculiarità
dell’Occidente tra religione (utopie) e potere (varie forme del potere).
Puntualizza tale storia attraverso i suoi momenti rivoluzionari per inquadrare
la perdita di ruolo dell’Europa a fronte delle odierne tendenze: da un
lato alla omologazione dei poteri
economici/mediartici a scala internazionale; dall’altro alle
ribellioni-senza-rivoluzione, per carenza di profezie, utopie o ideologie che
delineino un mondo diverso. Dubbi e diverse opinioni del recensore (cui
rimangono aperture di credito verso il terzo mondo).
Il breve testo di Paolo Prodi
“IL TRAMONTO DELLA RIVOLUZIONE” (Il Mulino, Bologna 2015, pagg. 110)
costituisce in qualche misura una sintesi di precedenti lavori (tra cui
“Settimo non rubare”, già da me recensito,
sulla genesi dell’autonomia dei mercati in Occidente, ed i suoi studi di storia
della giustizia e di storia delle religioni) nonché – purtroppo – un testamento
culturale per lo studioso recentemente scomparso.
Il testo è incardinato sulla
storia dell’Europa, soprattutto nel secondo millennio, ed anche in relazione
agli altri grandi soggetti storico-geografici, il mondo islamico ed il mondo
cinese, di cui Prodi sottolinea – rispettivamente - l’origine profetica di
eresia rispetto al monoteismo ebraico ed a quello dell’impero cristiano
orientale, per l’islamismo, e la sottostante continuità confuciana per la
moderna Cina.
Prodi esalta la peculiarità europea
derivante dal dualismo e dalla distinzione dialettica tra religione e politica,
e delle susseguenti distinzioni, maturate nei secoli, tra reato e peccato, tra legge
e coscienza, tra diritto canonico e legge civile, tra il potere statale, il
potere religioso e il nascente potere economico, tra i diversi poteri dello
stato (compresa l’autonomia delle istituzioni universitarie).
In tale processo, non lineare
bensì fortemente conflittuale, l’Autore, sulla scorta di altri autori
(H.G.Berman, E. Rosenstock-Huessy) individua sei fasi di vera e propria
“rivoluzione”, anche se le prime ai loro tempi assunsero il nome di “riforma”:
la lotta per le investiture ovvero “riforma gregoriana” nel secolo XI, la
“riforma protestante” nel XVI e la “glorious revolution” (ma così denominata a
posteriori) nell’Inghilterra del XVII, ed infine la sequenza delle rivoluzioni “ufficialmente
tali” in America, in Francia ed in Russia tra fine Settecento ed inizio
Novecento.
Paolo Prodi insiste molto sulla
necessaria precisione del concetto di rivoluzione, individuandone i connotati
non solo nei concreti rivolgimenti politici e militari, ma anche nella presenza
operativa di una speranza ideale di cambiamento, articolata come profezia e/o
utopia e/o ideologia; e quindi nega il carattere di rivoluzione al semplice
ribellismo, alle agitazioni ed ai moti di piazza privi di un programma; su
profezia ed utopia Prodi approfondisce, dalla Bibbia ai nostri tempi,
l’evolversi della prima nella seconda con la “secolarizzazione” e l’emergere
una concezione di un tempo non più ciclico bensì tendenzialmente progressivo.
Le libertà conquistate nella
storia d’Europa, che oggi contempliamo come ordine costituzionale e giuridico e
come diritti individuali, non si fondano su un equilibrio statico, bensì sul
succedersi delle suddette tensioni rivoluzionarie (e pertanto non sono
“esportabili” dove non c’è questa storia di specifiche tensioni).
Pertanto Prodi (a mio avviso in non casuale sintonia con
l’Enciclica Laudato sì” di Papa Bergoglio) esprime grande preoccupazione
per le attuali tendenze del mondo occidentale a stingere le storiche
distinzioni in un emergente potere-e-pensiero-unico, tecnologico ed economico,
dove gli stati perdono sovranità, il sapere perde consapevolezza storica e gli
individui, ridotti a consumatori, perdono cittadinanza; in assenza di nuove
profezie od utopie rivoluzionarie, adeguate ad affrontare gli insorgenti
problemi ambientali, sociali ed etici.
(L’Autore non si sofferma
sulla specificità del “riflusso” derivante dalla delusione per i fallimenti
delle rivoluzioni socialiste, né sul possibile ruolo attuale delle Chiese,
fermandosi a commentare positivamente la svolta conciliare del cattolicesimo,
nell’accettazione della laicità dello stato e nel relativismo ecumenista, con
particolare riguardo all’apertura anche all’Islam).
Ed in presenza degli altri
soggetti, quali Islam e Cina, con un diversa storia ed una differenziata
aggressività, Prodi teme una decadenza dell’Europa, prima ancora che in termini
di potenza economica o politico-militare, come declino del suo specifico ruolo
di sperimentazione rivoluzionaria degli assetti sociali e culturali; più che il
tramonto dell’Occidente, Prodi vede e teme il “tramonto della modernità” (e in tutt’uno, mi pare di aver capito, con
il riformismo ed i margini di ottimismo, che invece ad esempio caratterizzano
il più noto fratello Romano Prodi, economista e politico, pure lui di matrice
cattolico-democratica-dossettiana).
Non
sono certo all’altezza di poter confutare le conoscenze storiche di Paolo
Prodi, né ho l’autorità per contrapporre al suo pessimismo radicale un
pessimismo un po’ meno radicale; tuttavia mi permetterei di segnalare che a mio
avviso l’Autore, dopo aver ascritto all’Europa anche rivoluzioni leggermente eccentriche
come quelle americana di fine ‘700 e quella russa all’inizio del ‘900, trascura
un po’ troppo gli apporti offerti successivamente alla scena mondiale (a mio
avviso anche della stessa “modernità) dal resto del mondo, ma non senza
influssi dalla storia europea (e quindi un domani anche viceversa?):
-
dalle varianti “rurali” del marxismo in Cina (che
magari in futuro rilascerà elementi critici nell’attuale ordine
“neo-confuciano”) ed a Cuba (che qualche sedimento riformista originale sta
trasponendo in altri paesi latino-americani, quali Uruguay, Bolivia, Equador,
tutti paesi cari a papa Bergoglio), e che certo Prodi ben conosceva attraverso
al frequentazione di Ivan Illich (vedi intervista a Gnoli….)
-
al
versante non-violento delle lotte anticoloniali ed antisegregazioniste,
soprattutto in India ed in Sudafrica,
dove ben presente è l’impronta di utopie profetiche e religiose, diverse ma non
estranee alla cultura occidentale e cristiana, come mostrano ad esempio le
biografie di Gandhi, Mandela e Desmond Tutu.
Perché,
se verranno ancora delle rivoluzioni, penso che saranno più autentiche se
promosse dagli ultimi della terra (i più colpiti anche dalle crisi ambientali),
che non dai penultimi (al momento attratti da ambigue forme di populismo
autoritario o dal mito del salario di cittadinanza, ma per i soli cittadini del
primo mondo).
Fonti:
1.
Paolo Prodi “IL TRAMONTO DELLA RIVOLUZIONE” - Il
Mulino, Bologna 2015
2.
Paolo Prodi “SETTIMO, NON RUBARE. Furto e
mercato nella storia dell'Occidente” – Il Mulino, Bologna 2009
3.
Enciclica papale “LAUDATO SI” 24-05-2015 www.vatican.va/content/.../it/.../papa-francesco_20150524_enciclica-laudato-si.htm
4.
Recensioni sui precedenti 2 testi suquesto blog in appositi POST e in questa pagina ULTERIORI
LETTURE
5.
Intervista di Antonio Gnoli a Paolo Prodi su
“Repubblica” del 09-02-2015 www.repubblica.it/.../paolo_prodi_c_era_troppa_violenza_nella_politica_per_questo
febbraio 2017
37 - ” POSTCAPITALISMO – UNA GUIDA AL NOSTRO FUTURO” SECONDO PAUL
MASON
Una ambiziosa extrapolazione
verso il prossimo futuro di alcune tendenze acutamente rilevate nella attuale
crisi da Paul Mason, che appoggia le sue teorie previsive e propositive su
alcuni assiomi marxisti rivisitati alla luce della storia del movimento operaio
nel Novecento.
Riassunto
– Il carattere strutturale della crisi,
insita nella sovrabbondanza della “merce-informazione”. Limiti intrinseci
dell’Info-Capitalismo e shock esogeni (clima, demografia, debito). Verso un
post-capitalismo liberato dal lavoro e fondato sulla condivisione. Proposte per
una transizione anti-monopolistica (ICT, energia, banche), con reddito di
cittadinanza ad opera della massa dei lavoratori/precari/consumatori, istruiti
e connessi in rete, Dubbi e diverse
opinioni del recensore. Scheda 1 approfondimento
su marxismo, teorie economiche e storia del movimento operaio. Scheda 2: segnalazione di discrepanze tra
le storie raccontate da Mason e alcuni dati disponibili al recensore.
“POSTCAPITALISMO – Una guida
al nostro futuro” del giornalista inglese Paul Mason (Guardian, BBC, Channel4)
è un fortunato saggio del 2015 (edito in Italia nel 2016 da Il Saggiatore,
Milano 2016, pagg. 382 di facile lettura e comprensione, malgrado la
mole e la complessità di alcuni passaggi e digressioni storiche), che ha
avuto una certo eco sulla stampa generalista ed ha alimentato numerose
recensioni in ambiti più specialisti finendo
un po’ bistrattato a destra (“Post-marxismo” per Alberto Mingardi su Il
Sole-24ore) come a sinistra (“Il Rifkin dei poveri o il Toni Negri dei ricchi”
per Francesca Coin sul Manifesto); e forse un po’ malinteso al centro, da chi
lo ha considerato come un innocuo previsore dei tempi futuri.
Ad una prima impressione,
infatti, le tematiche di Mason lo apparentano ad altri futurologi ottimisti
sugli effetti delle nuove tecnologie, tipo Peter Droege o Jeremy Rifkin o Carlo
Ratti BIBL (o anche ad altri più inquietanti
come i Casaleggio, di padre in figlio), ma la
sua trattazione si intreccia invece meritoriamente con l’analisi dei rapporti
sociali dentro e fuori dal sistema produttivo e finanziario (ed anche con
la storia delle teorie economiche e dei movimenti antagonistici al sistema
capitalistico, come riferisco e commento nella
apposita ‘scheda 1’, allegata; allego
anche una “scheda 2” per segnalare una serie di discordanze tra le vicende
raccontate da Mason e quanto di diverso a me risulta).
L’assunto
fondamentale di Paul Mason è il carattere strutturale della crisi economica in
cui ci sta trascinando il neo-liberismo, inquadrata in una visione
ciclica della storia del capitalismo, riesumando
la teoria dei cicli cinquantennali di Kondrat’ev, teorico russo fucilato
dal regime stalinista sovietico nel 1938: dalla prima industrializzazione
(1780-1948) alla prima globalizzazione nel secondo Ottocento, alle due fasi in
cui è divisibile il Novecento, sul crinale della seconda guerra mondiale, tutte
caratterizzate da un andamento ad onda, con fasi di contrazione nella fase
discendente del ciclo. (Tale racconto mi
sembra affascinante, ma con qualche rischio di determinismo meccanicista,
assente invece, per esempio, nella visione dei più ampli cicli di dominio
finanziario e imperiale tratteggiati da Arrighi dal Medioevo ad oggi, cui pure
vagamente Mason accenna).
Anche se la svolta
neo-liberista degli anni ’80 del Novecento, l’espansione della finanza globale
e la capacità di gestire i salti tecnologici hanno consentito all’economia
capitalista di protrarre l’ultima fase ben oltre l’orizzonte cinquantennale del
ciclo iniziato a metà del Novecento, l’attuale
crisi è caratterizzata dall’impatto con lo sviluppo iper-tecnologico
dell’informazione, e quindi dalla rilevante novità dell’abbondanza della
merce-informazione, merce divenuta fondamentale nell’intera economia: la
sovrabbondanza è però l’opposto della scarsità dei beni, assioma su cui si
fondano le discipline economiche, che infatti in generale non si occupano
dell’aria e del cielo.
Tale contraddizione comporta,
secondo l’Autore:
-
incidenza
crescente dei prodotti a costi marginali irrisori (come
la riproduzione di un file o di un software), sia direttamente al consumo sia
nelle transazioni interne ai cicli produttivi,
e conseguente tendenziale abbattimento del sistema dei prezzi, finora
contrastato con tendenze monopolistiche delle compagnie più direttamente
interessate (Google, Facebook, Amazon);
-
riduzione
drastica del tempo di lavoro necessario per realizzare molteplici
prodotti e servizi
-
importanza
crescente del debito finanziario come forma di subordinazione
delle masse sfruttate, maggiore dello stesso lavoro salariato (argomento quest’ultimo secondo me più
pesante nei paesi anglosassoni che non nella realtà dell’Europa continentale);
-
erosione
del mercato da parte di nuove modalità di produzione e di scambio gratuito, come
Wikipedia WikiLeaks Linux (ma anche Android ha dovuto piegarsi ad essere un
sistema operativo aperto), e la “sharng economy” (quando non vampirizzata dalle
varie Uber e Airbnb) nonché i circuiti locali di solidarietà e “p2p”;
-
sconfinamento
tra il tempo di lavoro ed il tempo libero (anche attraverso
l’uso ed abuso degli smartphone), e tra il ruolo di produttore e quello di
consumatore, con la appropriazione indebita, da parte dei controllori della
rete (e cioè ancora Google, Facebook, Amazon, ecc.) delle esternalità
informative derivanti dagli stessi consumatori, per orientare il marketing
proprio e quello delle aziende clienti.
Secondo Mason però il moderno info-capitalismo, dato il crollo
oggettivo dei prezzi dell’abbondante merce-informazione, non è in grado di
riassorbire con ulteriori salti tecnologici né l’intrinseco esaurimento della
sua spinta propulsiva (e delle possibilità di estendere i mercati tramite
la privatizzazione dei servizi pubblici e la mercificazione dei rapporti umani)
né gli “shock esogeni” derivanti dal
cambio climatico, dall’esplosione demografica mondiale e dal contestuale rapido
invecchiamento dei popoli occidentali, né soprattutto dall’accumularsi dei
debiti in tutto il sistema finanziario, pubblico e privato.
Maturano invece alcune
condizioni favorevoli perché – secondo Mason - l’assetto
capitalistico sia ad un certo punto della crisi sostituito da un nuovo assetto
post-capitalistico, caratterizzato da una sostanziale liberazione dal lavoro e
fondato sull’economia della condivisione (ben diverso dal defunto
socialismo sovietico a pianificazione centralizzata, di cui Mason richiama i
limiti e le intrinseche debolezze): ed è decisivo che si possa prefigurare tale
alternativa, proprio perché l’attuale sistema fa un suo punto di forza sulla
diffusa acquiescenza alla “mancanza di alternativa, conseguente anche al crollo
del “socialismo reale”.
Nella parte finale del libro
Mason affronta specificamente le modalità di una possibile transizione, che
dovrebbe essere governata con mano pubblica piuttosto ferma attraverso le
seguenti tappe di soluzione progressista di quelli che lo stesso Mason
classifica come “shock esogeni”, tappe
che configurano una sorta di ”riformismo rivoluzionario” (con la premessa di disciogliere i monopoli
dell’informazione nazionalizzandoli o piegandoli comunque ad un logica di
open source, e con il contorno di un
limitato “reddito di cittadinanza”, finalizzato anche ad estinguere i
“lavoretti” sottopagati):
-
la
nazionalizzazione/esproprio delle compagnie detentrici dei giacimenti di
energie fossili, il cui stock supera la quantità di CO2 ancora
sopportabile dall’atmosfera, e che perciò va neutralizzato annullando le spinte
ad un loro protratto utilizzo, per consentire per il passaggio definitivo alle
energie rinnovabili;
-
la
riconduzione delle banche centrali sotto l’egida dello stato ed un processo
controllato di inflazione, che progressivamente estingua gli eccessi
di capitale nominale (non mi è chiaro
come tale scelta si possa conciliare con il problema, comunque persistente,
dell’invecchiamento dei popoli occidentali, che attualmente conta sui fondi
pensione e sul risparmio delle famiglie), per conseguire il riassorbimento
delle enormi bolle di debito
Protagonista della
rivendicazione ed attuazione di questa trasformazione (non sappiamo quanto pacifica) dovrebbe essere la massa dei lavoratori/precari/consumatori, istruiti e connessi in
rete, che ha perduto gran parte delle storiche connotazioni di classe,
tipiche delle precedenti fasi di sviluppo, ma ha acquisito nuove consapevolezze
e multiformi saperi, in parte già manifestate nelle varie forme di ribellioni e
manifestazioni di piazza di questo inizio di secolo (Occupy Wall Street, Gezi
Park a Istanbul, Londra, Hong Kong, primavere arabe, Brasile, India, Grecia, ecc.):
viene così a convergere con altri
intellettuali antagonisti di diversa estrazione, da David Graeber a Toni Negri,
da David Harvey a Guy Standing.
In questa massa multiforme, Mason non conferisce particolare ruolo ai
lavoratori salariati dei paesi emergenti o variamente subalterni (parcellizzati
da profonde differenziazioni etniche e culturali e caratterizzati comunque
soprattutto per essere individualmente connessi al mondo tramite smartphone
anziché organizzabili in leghe sindacali di stampo tradizionale), il cui
attuale rilevante aumento numerico è presentato in sostanza come fenomeno
transitorio, destinato a sgonfiarsi con l’estensione delle tecnologie a più
elevata produttività, secondo le convenienze imprenditoriali nell’impiego dei
fattori produttivi.
Invece, a mio avviso, i margini di estensione del
classico sfruttamento capitalistico a popolazioni ancora non coinvolte possono
comportare ancora a lungo una fase espansiva dei vecchi sistemi produttivi,
alimentando nel contempo una crescita della domanda di merci tradizionali, seppure
innovate, nei ‘ceti medi’ dei paesi emergenti, anche in sostituzione di consumi
più maturi o calanti nei paesi storicamente più sviluppati (Mason dovrebbe
spiegare perché anche nel XXI secolo continui ad aumentare la massa fisica
delle merci, misurabile ad esempio in n° di containers movimentati su treni e
navi, che certo con contengono solo “informazioni”): con questo non ipotizzo
una meccanica riproposizione della lotta di classe ottocento/novecentesca, in
contesti storici e geo-politici del tutto diversi, ma vorrei rammentare che
potrebbe permanere una oggettiva centralità della contraddizione tra il
capitale ed un lavoro salariato, il cui persistente sfruttamento (ad esempio,
in miniera) fa un po’ impallidire le ambasce del precariato occidentale e della
sua ‘morte del lavoro’.
Né mi sembra che adeguata attenzione Mason
ponga al conflitto tra gli stati ed al possibile passaggio, non indolore, dalla
declinante egemonia occidentale ad una ancora indefinibile egemonia orientale,
e neppure al concreto rischio che le masse connesse e istruite dell’Occidente,
di populismo in populismo (e anche di ribellione in ribellione), invece di
portare ad un superamento post-capitalista finiscano per alimentare nuove forme
di fascismo, con probabili risvolti bellici.
Altra tematica trascurata da Mason è
quella degli equilibri ecologici complessivi del pianeta, di cui coglie solo
l’aspetto climatico/energetico e non quello dei diversi e letali inquinamenti,
dei conflitti sull’uso del suolo e del tendenziale esaurimento delle materie
prime pregiate, che è ad un tempo un problema di compatibilità ambientale e di
permanente ‘economia della scarsità’: nell’insieme mi pare errato vederne la
fonte di “shock esogeni” e non invece contraddizioni profonde, intrinseche agli
attuali modi di produzione e di consumo.
L’errore di fondo dei post-operaisti, nel
mio giudizio, è quello di scambiare la parte (precariato dei giovani
occidentali) per il tutto (lo sfruttamento di persone e risorse naturali a
scala planetaria).
Inoltre mi permetterei di rilevare che
l’affiancamento al modo di produzione capitalista di diverse forme di scambio
non mercificato e/o non monetizzato, tra cui Mason esalta Wikipedia&C. è un
fenomeno indubbiamente meritevole di interesse, ma non del tutto nuovo, e
quindi non necessariamente “sovversivo”; con il capitalismo hanno convissuto
per molti decenni altri processi extra-capitalisti e talvolta anti-capitalisti,
ma non per questo esiziali per il prevalente regime socio-economico: dal
preesistente monachesimo alle successive organizzazioni caritative di stampo
ecclesiale, dal solidarismo socialista al movimento cooperativo, dalle varie
forme di volontariato al ‘terzo settore’, fino allo stesso pubblico impiego,
dove spesso le retribuzioni non rispondono ad una logica di mercato (penso alla
dedizione di molti medici ed infermieri della sanità pubblica, ed insegnanti in
molte scuole, ma anche a tanti altri professionisti nella pubblica
amministrazione non premiati con stipendi dirigenziali: fenomeno non a caso
incomprensibile per accademici americani come Acemoglu e Robinson, e a ben
vedere non considerato adeguatamente dallo stesso Paul Mason).
Infine alcune indicazioni operative
(contro i monopoli e per la promozione dei settori no-profit, contro le bolle
finanziarie e sullo stock di combustibili fossili) mi sembrano probabilmente
utili anche in una diversa ottica di ‘riformismo radicale’, che possa o meno
estinguere il capitalismo (non perché mi piaccia che il capitalismo rimanga, né
perché lo voglia ritenere eterno, ma perché oggi mi viene da diffidare di ogni
teoria finalistica e deterministica che ne postuli a-priori il prossimo
superamento), ma che intanto inizi comunque a rendere gli assetti sociali
e produttivi il più possibile
compatibili con l’ambiente e con l’umanità, sia nel primo che nel terzo mondo
(ed anche passando per la Cina, che si configura come il moderno ‘secondo
mondo’).
SCHEDA
1:
APPROFONDIMENTO
SU MARXISMO, TEORIE ECONOMICHE E STORIA DEL MOVIMENTO OPERAIO
Alle
sue conclusioni, Mason perviene anche attraverso un lungo ed appassionato
percorso di ri-lettura del marxismo (a confronto con altre teorie economiche in
merito ai cicli di sviluppo e di crisi) e delle vicende del movimento operaio (in correlazione alle
concrete trasformazioni del lavoro); un
percorso da cui, a mio parere, di Mason emergono anche alcune giovanili simpatie trotzkiste e senili
attrazioni verso gli operaisti italiani degli anni ’60 (Quaderni Rossi), nella
loro senile trasformazione in post-operaisti (Toni Negri e le sue teorie sulla
morte del lavoro e sulle moltitudini variamente sfruttate dall’Impero, ed infine sui beni comuni).
Di
Marx, Paul Mason riprende soprattutto tre elementi:
- la
teoria del valore-lavoro (le varie quote di lavoro che direttamente ed
indirettamente occorrono per trasformare e consegnare una merce, ed i loro
costi di riproduzione) come spiegazione effettiva, nella media, della
formazione dei prezzi, comparandola (ma
senza dirimere la disputa) con la opposta teoria liberista dell’utilità
marginale (nello scambio tra domanda e offerta il prezzo è determinato da chi
detiene al momento l’ultima quota disponibile del bene in transazione): per
Mason è fondamentale per evidenziare che le informazioni sovrabbondanti hanno
costo di produzione tendente a zero (ad esempio, una volta registrata una
musica, la sua riproduzione infinite volte sotto la forma di file MP3 non ha
alcun costo effettivo);
- il
principio della “caduta tendenziale del saggio di profitto” (per effetto della
concorrenza, dei maggiori investimenti necessari ad elevare la produttività,
della saturazione degli specifici mercati e della concentrazione finanziaria),
che è alla base delle crisi cicliche del capitalismo e potenzialmente anche di
una sua crisi finale: qui Mason spiega anche le modalità con cui il capitalismo
è uscito dalle sue precedenti crisi e le spiegazioni che di questi rilanci
hanno dato studiosi marxisti (Hilferding, Rosa Luxemburg, il suddetto
Kondrat’ev ed altri, disvelando di volta in volta la finanzairizzazione, i
monopoli, l’imperialismo, il militarismo) e non marxisti (Schumpeter, Hajek,
von Mises, ecc.), sostenendo però che con l’info-capitalismo (che incorpora in
monopoli globali un profitto imposto su beni senza un vero prezzo) si sarebbe intrapresa una strada cieca, priva
delle precedenti vie di uscita;
- il
“frammento sulle macchine” dei Grundrisse (appunti paralleli al Capitale,
scritti nel 1858, ma resi noti solo a metà Novecento e tradotti in inglese solo
nel 1973; ben noti e commentati in Italia
già nel decennio precedente), in cui Marx estende il concetto di ”capitale
morto” (quello costituito dai beni di investimento) evidenziando come un
macchinario perfetto e sempiterno (che incorpora quantità notevoli di sapere
sociale stratificato) comporti l’annullamento del valore e quindi dei margini
di profitto, processo in cui Mason vede la preconizzazione del prossimo stallo
dell’info-capitalismo.
Riguardo
alla storia del movimento operaio, Mason lamenta la mancanza di una “storia del
lavoro” e cerca di rimediarvi con un rapido ma non superficiale racconto sulle
caratteristiche fisiche e organizzative del lavoro, ed in parallelo sulla
composizione sociale dei lavoratori e sulle loro aggregazioni
politico-sindacali, nelle principali fasi di trasformazione delle fabbriche dal
Settecento ad oggi, cercando di fondare su questi aspetti storici anche una
fotografia della attuale scomposizione di quello che fu la classe operaia,
sotto i colpi inferti dal turbo-liberismo degli anni 80 ed in parallelo dalla
globalizzazione, ma anche per effetto dei mutamenti soggettivi, a partire
dall’istruzione più elevata, che fanno dei lavoratori di oggi un insieme
variegato e plurale, “molteplice” anche nella identità dei singoli (e qui Mason richiama correttamente Andrè
Gorz e Eric Hobsbawn, Barry Wellman e Richard Sennet, ed ancor prima Charles W.
Milss, Daniel Bell, Herbert Marcuse, ma
manca a mio avviso l’appuntamento con altri antropologi e sociologi, da Augé a
Maffesoli, da Castells a Bauman, che secondo me hanno assai utilmente indagato
su questi processi).
Ricapitolando
le trasformazioni della classe operaia in Inghilterra degli albori
dell’industrializzazione al Novecento, Mason evidenzia i fraintendimenti
compiuti dapprima dagli stessi Engels e Marx (l’inchiesta sul campo del primo a
Manchester nel 1842, pubblicata solo 50 anni dopo, fu travisata e
cristallizzata dal secondo), nell’attribuire all’automazione una conseguente
dequalificazione generalizzata del lavoro operaio (proprio mentre si andavano
forme nuove figure professionali connesse alle macchine allora in uso), e nel
negare la formazione di una “cultura proletaria”, e poi di Engels e Lenin nell’identificare
gli operai specializzati come “aristocrazie operaie” asservite all’imperialismo
britannico (che solo nella madre-patria dell’Impero avrebbe potuto impiegare le
risorse necessarie per acquisirne il
consenso), base sociale sia del sindacalismo gradualista delle Trade Unions (contrapposto
alla disponibilità degli operai non specializzati all’avventura rivoluzionaria,
guidata però secondo Lenin, da avanguardie intellettuali esterne), sia dello
“sciovinismo”, che distrusse la Seconda Internazionale, con l’adesione di parte
dei partiti e sindacati socialisti alle mobilitazioni belliche della Prima
Guerra Mondiale.
Secondo
Mason invece il coinvolgimento patriottico delle organizzazioni operaie nella
prima guerra mondiale si fonda sulla stessa “materialità” delle nazioni (cioè
su elementi antropologici preesistenti alle classi sociali, se ho ben capito) e
la tendenza tradeunionista delle aristocrazie operaie, presenti in tutti paesi
industrializzati e non solo in Inghilterra, saldabile pur con difficoltà con
gli interessi di operai non specializzati (e tra questi spesso donne e
bambini), era tutt’uno con orizzonte a loro modo antagonistico, ma costituito
da “controllo delle fabbriche, solidarietà sociale, autoistruzione e creazione
di un mondo parallelo”, in competizione con il nascente Taylorismo, che rendeva
scientifica la divisione del lavoro e la subordinazione alle macchine.
Così
Mason legge l’epopea delle lotte operaie dentro ed oltre la prima guerra
mondiale (1916-1921), in numerosi paesi (ed anche all’interno dell’URSS e
contro il governo bolscevico), poi abbattuta con violenza da un lato dalla
grande crisi del 1929 e dall’altro dalla repressione fascista e nazista (ma
anche stalinista), fino all’esito dei campi di concentramento (non dimenticando
la larga sovrapposizione tra ebraismo e movimento operaio nella Mitteleuropa).
Meno
lineare mi sembra la sua interpretazione della crescita quantitativa e della
subordinazione qualitativa della classe operaia (allargata ai settori
impiegatizi ed estesa al terziario) nei decenni ‘50-‘60, periodo dello sviluppo
keynesiano e fordista del capitalismo occidentale e del compromesso
socialdemocratico (anche e soprattutto come risposta preventiva all’alternativa
sovietica), ed anche delle grandi rivolte degli anni ’60 e ‘70 (Mason si sofferma in particolare sul caso
italiano, assumendo come fonte privilegiata gli “operaisti” Romano Alquati e
Toni Negri) connesse al rifiuto del lavoro parcellizzato e ripetitivo, tipico
del taylorismo, da parte di una forza-lavoro più istruita, la cui sconfitta
Mason (come sopra accennato)
attribuisce sia alla violenza anti-sindacale del contrattacco neo-liberista (che
ristrutturò spesa pubblica e finanza, moneta e produzione, utilizzando
ampiamente anche la de-industrializzazione dell’occidente e la delocalizzazione
produttiva su scala globale), sia alle debolezze soggettive dello schieramento
operaio, diviso tra vecchia cultura dei mestieri e nuovi atteggiamenti delle
masse giovanili e “tradito” dalle rappresentanze politiche socialdemocratiche o
filo-sovietiche.
SCHEDA
2:
SEGNALAZIONE
DI DISCREPANZE TRA LE STORIE RACCONTATE DA MASON E ALCUNI DATI A ME DISPONIBILI
Oltre ad esprimere nella recensione alcune
le mie valutazioni puntuali e complessive sulla visione di Paul Mason, ritengo
necessario esemplificare alcune discrepanze che ho rilevato tra le sue
ricostruzioni storiche ed i dati a me disponibili, perché mi aprono molti dubbi
sull’attendibilità specifica e generale dell’Autore:
pag. 18: il movimento spagnolo degli
Indignados stroncato dalla repressione: a me pare, che a fronte di una dose ‘normale’
di repressione in un ‘normale’ regime democratico, il movimento si sia esaurito
per la povertà delle parole d’ordine anti-casta, ‘né di destra né di sinistra’,
finendo in buona parte riassorbito dal più strutturato e pensante movimento
Podemos;
pag. 233: occupazione di fabbriche automobilistiche
in Italia nel 1919 a Torino, Milano e Bologna: a me risultano solo nel
settembre del 1920 (e senza fabbriche d’auto a Bologna);
pag. 237: imposizione da parte degli
Alleati dopo il 1945 di Costituzioni con elementi sociali a Germania, Giappone
e Italia: a me pare che ciò non sia vero per l’Italia, dove gli Alleati hanno
imposto molto (abbiamo tuttora basi militari americane, oltre a quelle della
NATO), ma almeno NON la Costituzione;
pag.245: in Italia dopo il 68-69, il PCI
avrebbe introdotto i Consigli di Fabbrica per imbrigliare le lotte operaie: anche
come testimone diretto e indiretto, mi sembra di poter affermare che si tratta
di una visione riduttiva e caricaturale di un processo dialettico complesso e
con diversi attori, tra cui la sinistra sindacale, comunista e non comunista,
in cui i Consigli possono aver fatto da freno in alcune situazioni, ed invece
aver costituito le effettive avanguardie in altri;
Pag. 248: percentuale di forza-lavoro
residua nell’industria, a fronte alla crescente prevalenza del terziario –
secondo Mason “Solo nei colossi dell’export - Germania, Corea del Sud e
Giappone – la forza lavoro dell’industria si avvicina al 20% del totale ----“: dall’ISTAT
mi risulta che in Italia nel 2014 sia ancora superiore al 25%.
Fonti:
- Paul
Mason - “POSTCAPITALISMO – Una guida al nostro futuro” – Saggiatore,
Milano 2015
- Alberto
Mingardi - “Post-marxismo” su “Il Sole-24ore” 25-09-2015 www.ilsole24ore.com/art/cultura/.../un-nuovo-libro-fuori-mercato-173540.shtml?
- Francesca
Coin - “Il Rifkin dei poveri o il
Toni Negri dei ricchi” su “Il Manifesto” 22-09-2015 www.materialismostorico.blogspot.com/2015/09/il-rifkin-dei-poveri-o-il-toni-negri.html
4. Jeremy
Rifkin – “LA SOCIETÀ A COSTO MARGINALE ZERO. L'Internet delle cose, l'ascesa
del Commons collaborativo e l'eclissi del capitalismo” – Oscar Mondadori,
Milano 2014
5. Peter
Droege – “LA CITTÀ RINNOVABILE” - Edizioni Ambiente, Milano 2008
6. Anna
FRISA, Carlo RATTI “Progettare la città: come?” Dipartimento Interateneo
Territorio, Politecnico di Torino - School of Architecture and Planning, MIT www.senseable.mit.edu/.../20011116_Frisa_Ratti_ProgettareCitta_Proceedings_CittaDiffusa
7. Giovanni
Arrighi - “IL LUNGO XX SECOLO. Denaro, potere e le origini del nostro tempo” –
Il Saggiatore, Milano 2014
8. David
Graeber – “DEBITO. I PRIMI 5.000 ANNI” - Il Saggiatore, Milano 2012
9. David
Harvey “CITTA’ RIBELLI – i movimenti urbani dalla Comune di Parigi a Occupy
Wall Street” - Il Saggiatore, Milano 2013.
10. Toni
Negri e Michel Hardt – Trilogia: “IMPERO” “MOLTITUDINE” “COMUNE. OLTRE IL
PRIVATO E IL PUBBLICO” – Rizzoli, Milano 2010
11. Guy
Standing “PRECARI – la nuova classe esplosiva” - Il Mulino, Bologna 2012
12. Daron
Acemoglu e James A. Robinson - “PERCHE’ LE NAZIONI FALLISCONO - Alle origini di
potenza, prosperità, e povertà” – Il Saggiatore, Milano 2014
13. Marc
Augé “L'ANTROPOLOGIA DEL MONDO CONTEMPORANEO” - Elèuthera, Milano 2005
14. Zygmunt
Bauman “VITA LIQUIDA” - Laterza, Bari 2006
15. Manuel
Castells “LA NASCITA DELLA SOCIETÀ IN RETE” - UBE Paperback, Milano 2002
16. Karl
Marx “GRUNDRISSE - Lineamenti fondamentali di critica dell'economia politica” –
Manifestolibri, Roma 2012
17. Recensioni
sui precedenti testi, da 7 a 9 e da 11 a 15, su questo blog in appositi POST e nelle pagine PARTE 1^, nonchè nella presente ULTERIORI
LETTURE
marzo 2017
38 - L’UOMO COME TERZO SCIMPANZE’ SECONDO JARED DIAMOND
38 - L’UOMO COME TERZO SCIMPANZE’ SECONDO JARED DIAMOND
Diamond ripercorre le tappe dell’evoluzione umana evidenziandone gli aspetti contradditori e non-lineari: in particolare riguardo al successo conseguito dai gruppi umani che svilupparono l’agricoltura, prevalendo sulle tribù di cacciatori/raccoglitori, ma consolidando nuovi problemi quali le disuguaglianze sessuali/sociali, fino al dispotismo, e più pesanti incidenze delle malattie.
.
Riassunto – La lunga storia della specie umana nel contesto delle altri specie animali, ed in particolare in relazione agli altri “primati”, con cui condividiamo un altissima percentuale del patrimoni genetico, ma da cui ci differenziamo nettamente per il comportamento, a partire dal linguaggio e dall’assetto del ciclo vitale assomigliando invece in parte ad altri più remoti segmenti del mondo animale per alcune altre peculiarità. Le gravi conseguenze dell’arrivo dell’uomo in porzioni del pianeta prima abitate solo da altre specie animali, in termini di massicce estinzioni di consistenti quote di tali specie; il nesso tra razzismo e genocidio. La globalizzazione pone l’insieme degli uomini di oggi di fronte al pianeta Terra in una situazione concettualmente simile a quella degli abitanti di una remota isola: ormai conosciamo i limiti delle risorse ambientali e la nostra tendenza ad esaurirle, così come la nostra capacità di distruggere l’intero genere umano.
Jared Diamond, laureato in medicina, come il padre, e divenuto ornitologo e poi geografo, svolgendo in seguito lunghe indagini in Nuova Guinea e altre terre “selvagge” , si sente antropologo e quant’altro occorre alla sua “storia mondiale” anche attraverso l’esperienza di una madre linguista e di una moglie psicologa.
Ben connesso, ma in parte sovrapposto, con il successivo “Armi, acciaio, malattie” del 1997 (vedi mia recensione in questo stesso numero di UTOPIA21) il testo “IL TERZO SCIMPANZÉ - Ascesa e caduta del primate homo sapiens” di Jared Diamond, pubblicato in Italia da Bollati Boringhieri nel 1994 e nel 2006, è stato recentemente editato anche in formato digitale, scelta che indica una fiducia dell’editore nella validità dei contenuti e la sua presentazione quasi come un classico: malgrado risultino superati dalle successive ricerche buona parte degli specifici approfondimenti (e i connessi ampli rimandi bibliografici) nelle singole discipline – biologia, etologia, antropologia, archeologia, paleontologia/paletnologia, genetica, linguistica, ecc. - su cui si appoggiano gli intenti divulgativi ed i ragionamenti di sintesi dell’Autore, ben esposti dal medesimo sia nell’introduzione che nella conclusione del testo.
Ed è perché anche a me appaiono seri e convincenti tali ragionamenti, nonché per la piacevolezza della lettura, che ritengo opportuno dedicare spazio nel recensire e segnalare “Il terzo scimpanzè”, che costituisce un ampio racconto attraverso la lunga storia della specie umana nel contesto delle altri specie animali, ed in particolare in relazione agli altri “primati”, con cui condividiamo un altissima percentuale del patrimoni genetico (fino al 98%), ma da cui ci differenziamo nettamente per il comportamento, a partire dal linguaggio e dall’assetto del ciclo vitale (cura dell’infanzia, struttura familiare, menopausa, longevità) assomigliando invece in parte ad altri più remoti segmenti del mondo animale per alcune peculiarità, non tutte positive, come l’esercizio dell’agricoltura e dell’allevamento (presenti anche in certe specie di formiche), della tecnologia e dell’arte (vedi gli uccelli giardinieri), il consumo di droghe, ed anche la pratica del genocidio (presente tra altri animali ed anche, in piccola scala, tra i nostri cugini scimpanzé).
Con grande attenzione alle basi materiali (e sessuali) ed alle accumulazioni culturali e tecnologiche (e con una divertente digressione sulle ipotesi di incontrare o meno altre civiltà nell’universo, ragionando però sulla nicchia ecologica del picchio e sull’invenzione della radio) Diamond ripercorre le tappe dell’evoluzione umana, soprattutto negli ultimi 40.000 anni, evidenziandone gli aspetti contradditori e non-lineari: in particolare riguardo al successo conseguito dai gruppi umani che svilupparono l’agricoltura, circa 10.000 anni addietro, prevalendo infine sulle tribù di cacciatori/raccoglitori, ma consolidando nuovi problemi quali le disuguaglianze sessuali/sociali, fino al dispotismo, e più pesanti incidenze delle malattie.
Tuttavia Diamond si oppone ad ogni visione idilliaca di remote “età dell’oro”: pur constatando la presenza, tra le popolazioni di cacciatori/raccoglitori – sia nei tempi antichi che tra le ultime tribù “selvagge” – di alcune tendenze “conservazioniste” nei confronti delle risorse ambientali, Diamond (anche per conoscenza diretta nelle zone interne della Nuova Guinea) segnala la prevalente spinta, anche tra questi gruppi umani, alla distruzione delle altre specie ed alla contrapposizione violenta tra gli abitanti di villaggi diversi.
In particolare l’Autore – pur scontrandosi talora con alcuni indizi contrastanti, esaltati da altri studiosi –evidenzia le gravi conseguenze dell’arrivo dell’uomo (e dei suoi simbionti, come gli specifici micro-organismi, e poi i ratti e altri animali rapaci) in porzioni del pianeta prima abitate solo da altre specie animali, in termini di massicce estinzioni di consistenti quote di tali specie, sia per sterminio diretto (non solo per scopi alimentari), sia per sottrazione ed alterazione degli habitat preesistenti: nelle Americhe, in Madagascar, in Australia e Nuova Zelanda, in molte isole del Pacifico (simile è la vicenda del predominio delle potenze coloniali europee negli ultimi 5 secoli a danno della restante umanità, cui l’Autore qui accenna, sviluppandola poi in “Acciaio-Armi-Malattie”; in questo testo Diamond approfondisce con molto vigore e rigore il nesso tra razzismo e genocidio, e le sue applicazioni in particolare nella genesi degli Stati Uniti d’America – con fulminante florilegio di pensieri di vari Presidenti statunitensi - e nello sterminio dei primitivi abitanti della Tasmania).
Emblematico il caso dell’Isola di Pasqua, dove le grandi statue megalitiche, in parte incompiute ed in parte abbattute, testimoniano, insieme ad altri ritrovamenti stratigrafici, l’ascesa ed il declino nel giro di un millennio (tramite guerre e cannibalismo) di una civiltà che ha spinto lo sfruttamento delle risorse naturali, in particolare con l’abbattimento degli alberi di alto fusto, oltre la capacità di rigenerazione dello stesso equilibrio ambientale.
Analoghi i casi – non su isole ma su vaste oasi circondate da deserti - della deforestazione del contesto di Petra, nell’attuale Giordania, sviluppatasi dall’età del ferro fino all’impero bizantino (e rappresentativa di un declino geo-ambientale comune ad altre parti del Levante e del Medio Oriente), e dei “pueblos” degli Anasazi (antichi Navajo) nel New Mexico, che costruirono e poi abbandonarono costruzioni in pietra e legno alte fino a 5 piani e lunghe fino a duecento metri.
Illuminante – riguardo all’esaurimento delle risorse – la citazione di una lettera scritta nel 1855 dal capo indiano Seattle, della tribù Duwanish, al presidente USA Franklin Pierce: “Ogni parte della terra è sacra per il mio popolo. Ogni ago di pino scintillante, ogni nebbia nelle foreste buie, ogni radura e ogni insetto sono sacri nella memoria e nell’esperienza del mio popolo --- L’uomo bianco --- è uno straniero che viene nella notte e prende dalla terra tutto ciò di cui ha bisogno. La terra non è sua sorella ma la sua nemica --- Continuate a lordare il vostro letto, e una notte soffocherete soffocati dai vostri escrementi.”
L’attuale globalizzazione pone l’insieme degli uomini di oggi di fronte al pianeta Terra in una situazione concettualmente simile a quella degli abitanti di una remota isola: ormai conosciamo i limiti delle risorse ambientali e la nostra tendenza ad esaurirle, così come la nostra capacità di distruggere l’intero genere umano (se non addirittura ogni forma di vita) mediante le armi di sterminio di massa accumulati negli arsenali chimici, batteriologici e nucleari.
Di fronte a tale constatazione Diamond oscilla tra il pessimismo della ragione (non abbiamo imparato niente dalla precedente storia) e l’ottimismo della ragione stessa (abbiamo più strumenti conoscitivi che mai per imparare dalla precedente storia), e per questo dedica le sue riflessioni ai suoi figli ed alla loro generazione “per aiutarli a capire da dove siamo venuti e dove forse stiamo andando”.
Fonti:
1 - Jared Diamond “IL TERZO SCIMPANZÉ - Ascesa e caduta del primate homo sapiens” Bollati Boringhieri, Torino 1994 e 2006
maggio 2017
36 - “LE CITTA’ FALLITE” DI PAOLO BERDINI COME STIMOLO AD UNA VERIFICA FATTUALE
PAOLO BERDINI, URBANISTA ROMANO,
PASSATO ALLA NOTORIETÀ SOPRATTUTTO PER LA BREVE ESPERIENZA COME ASSESSORE DELLA
GIUNTA RAGGI, È ANCHE L’AUTORE DI “LE CITTÀ FALLITE. I GRANDI COMUNI ITALIANI E
LA CRISI DEL WELFARE URBANO” (DONZELLI, ROMA 2014).
LA TESI DI BERDINI MI APPARE
ASSAI SEMPLICISTA E FORSE NON RICHIEDEREBBE UNA RECENSIONE ANALITICA, ANCHE
PERCHE’ LA PARABOLA ASSESSORILE DI BERDINI A ROMA SI E’ CHIUSA REPENTINAMENTE
ED IN MODALITA’ NON PARTICOLARMENTE QUALIFICANTI, CHE NON LO
RENDONO CERTO UN “PUNTO DI RIFERIMENTO”.
MA LEGGENDO IL PAMPHLET HO COLTO
UN MIO DISAGIO NELLA PERCEZIONE DEI CONCETTI (UNA SORTA DI ALTERAZIONE
SENSORIALE: ERO NELLASTESSA SALA CINEMATOGRAFICA, MA HO VISTO UN ALTRO FILM?) ED HO RITENUTO
OPPORTUNO APPROFONDIRLO PER MEGLIO CAPIRE, FINO A SUPPORRE CHE SI TRATTI
PROBABILMENTE DI UN ESEMPIO SIGNIFICATIVO DI DISINFORMAZIONE (FAKE NEWS)
APPLICATA ALLA SAGGISTICA E CHE PROPRIO PER QUESTO MERITI DI ESSERE STUDIATO E
DE-COSTRUITO.
A – RECENSIONE (in corsivo i miei
commenti più personali)
L’obiettivo del testo è di denunciare
il malessere delle città italiane, ed in particolare dei bilanci comunali, come
effetto delle politiche neo-liberiste varate negli anni ’90 dai governi
Berlusconi e perpetuate dai governi di centro-sinistra.
Sullo sfondo è tratteggiato in termini più vaghi il rapporto tra
queste politiche e la esorbitante finanziarizzazione su scala globale (ma senza approfondire, ad esempio, le
differenze tra la crisi dei mutui americani “sub-prime” e le diverse forme dei
risvolti immobiliari della crisi post 2007 nei diversi paesi europei, ed in
particolare in Italia, dove comunque non è praticato l’indebitamento delle
famiglie con mutui ipotecari finalizzati al consumo o ad altre spese, come
l’istruzione o la sanità, tipiche del carente welfare statunitense).
Molto sullo sfondo stanno anche
le condizioni precedenti del caso italiano; Berdini sembra evocare talora una
specie di “età aurea” della città liberale, dotata di servizi e di decoro
urbano, che si viene a perdere con lo scellerato neo-liberismo, e richiama solo
come incidenti di percorso il rigetto della riforma Sullo per le aree
fabbricabili, nei primi anni ’60, il primo condono edilizio di paternità
Craxiana (1985) e l’emergere di Tangentopoli: ma non spiega le ragioni profonde della diffusa proprietà della casa,
delle periferie degradate e speculative e della corruzione nelle pubbliche
amministrazioni e nei pubblici appalti in quella lunga storia, fatta più di
continuità che di discontinuità, che ha connotato il nostro Paese (ed i nostri
paesaggi) dal regime fascista (e anche dallo stato liberale e giolittiano) al
“regime democristiano”, per arrivare “ben preparati” al controverso periodo
della cosiddetta “seconda repubblica”.
Lo schema (assai schematico) di Berdini vede solo negli ultimi decenni la
crescita esagerata di periferie prive di servizi, anche grazie al dirottamento
degli oneri di urbanizzazione verso la spesa corrente dei Comuni, colpiti nel
frattempo dai tagli alla spesa pubblica ed al welfare, ed il conseguente
fallimento dei bilanci comunali, nel rincorrere invano i fabbisogni di tali
periferie disperse, in un quadro di abbattimento delle regole, spreco di
risorse concentrate sulle inutili “grandi opere” e però anche di coinvolgimento della massa
dei piccoli proprietari in un consenso fondato sulla crescita speculativa dei
valori immobiliari (fino alla svolta della crisi) e sui vari condoni e
“piani-casa”.
In particolare, nella vicenda
della “seconda repubblica”, i governi di centro-sinistra risultano di fatto
assimilati da Berdini a quelli di centro-destra, in “una notte in cui tutte le vacche sono nere”, e le
contraddizioni che pure affiorano (ad esempio la legge “Merloni” sugli appalti,
che nella sua origine sarebbe stata buona, ed i successivi peggioramenti), non
sono affatto spiegate, perché non traspare alcun interesse a capire le diverse
basi sociali e coalizioni di interessi, non solo tra centro-destra e
centro-sinistra, ma anche all’interno del centro-sinistra; il che sarebbe invece necessario per capirne le oscillazioni tra
subalternità e divergenze dal mantra neo-liberista, nell’ipotesi – che Berdini
comunque esclude – di un qualche utile coinvolgimento di quest’area politica in
un futuro risanamento del Paese.
Infatti invece l’approdo politico
che indica Berdini, dando per scontata la perdita della sinistra storica ed a
fronte di un avvio incerto e confuso del MoVimento5Stelle (ai cui esponenti
Berdini attribuisce comunque una generica patente di sensibilità ambientale), è
tutto nella effervescenza molecolare dei Comitati, che qua e là per l’Italia a
tutto si oppongono, ed a cui mancherebbe (solo) una teoria unificante, di cui
Berdini intravede le premesse nei recenti saggi di Salvatore Settis su
paesaggio e costituzione e di Paolo Maddalena sul territorio come bene comune.
B – IL MIO DIVERSO FILM
Nella narrazione di Berdini ci
sono anche alcuni elementi veritieri, però, forse perché lontano dalla
specifica ottica romana, la lettura mi ha dato l’impressione di aver vissuto
gli ultimi decenni in un'altra realtà, indubbiamente ricca di ombre, ma non
così nera: ad esempio, guardando alle periferie delle città settentrionali, ho
la sensazione che i quartieri più problematici e peggio serviti non siano i più
recenti, ma quelli del primo dopo-guerra colpiti dalla de-industrializzazione,
e da peculiari concentrazioni di disoccupati e/o di immigrati; e che la mappa
dei comuni falliti non coincida con la massima estensione delle periferie,
bensì con specifiche vicende
amministrative e scelte di spesa (ad esempio Alessandria, le cui periferie non
sono né peggio né meglio di quelle di altre città analoghe); e, ancora, che in
molti casi l’offerta di servizi nei territori sia aumentata, anche
qualitativamente, e non diminuita, dalle
piste ciclabili alle aree verdi, dalle piazze ed aree pedonali, ai recuperi di
edifici storici per usi universitari (esempi a me prossimi: Università del
Piemonte Orientale e Università dell’Insubria) e cultural-museali.
Mi pare anche, sulla scorta della mia esperienza di semplice “fruitore
del territorio”, che il peggio nello spreco di suolo e nello spregio del
paesaggio non stia tanto nelle criticabili espansioni “urbane”, ma soprattutto
nella galassia “extra-urbana” degli outlet e dei centri commerciali, della
logistica e dei concessionari d’auto, delle tangenziali e degli svincoli, che
in barba alla pianificazione e spesso in applicazione di pessimi piani, sono
disseminati “oltre” le periferie, lungo gli assi stradali, ad esempio nelle
radiali fuori Milano e nell’arco pedemontano, nei fondovalle ed a corona
attorno a poli urbani come Novara, Aosta, Vercelli, Parma, e financo Reggio
Emilia.
C – VERIFICA FATTUALE
Per capire questo mio straniamento come lettore e cittadino, ho
proceduto ad una ri-lettura più sistematica del libro di Berdini, e mi sono
convinto che non dimostra quasi mai ciò che si limita a mostrare,
attraverso una serie di passaggi di varia inattendibilità, di cui propongo un
breve florilegio:
INESATTEZZE PESANTI (in parte mutuate dalla propaganda berlusconiana):
-
Mario
Monti nominato Senatore per “obbedire” all’Europa, “per oscuri motivi” e senza
meriti specifici – PAG. 120 – (ma era stato rettore della Bocconi e commissario
alla concorrenza dell’Unione Europea);
-
tassazione
IMU sulla prima casa da parte del governo Monti senza alcuna detrazione – PAG.
120 – (mentre permaneva la detrazione di
200 € + 50 per ogni figlio a carico);
-
cessazione
degli investimenti per i trasporti urbani (e le linee metropolitane 5 e 4 di
Milano? E a Brescia, Genova, Torino?)
-
quarto
condono edilizio a firma PD nel 2013 – PAG. 129-130 - (in realtà proposta da
una singola senatrice e mai approvato)
SCIATTERIE:
-
il decreto
legislativo n° 380 del 2001 definito A PAG. 63 come “codice degli appalti” mentre
si tratta del testo unico per l’edilizia;
-
un
paragrafo quasi identico per 2 volte A PAGG. 48-49 E 133-134 a proposito del
disegno di legge Lupi per l’edilizia, promettendo in ambedue i casi, ma senza
spiegarlo a fondo, come la promessa alluvione di diritti edificatori avrebbe
attaccato il valore delle abitazioni esistenti e masso “a rischio le case delle
famiglie degli italiani“, capovolgendo il coinvolgimento delle masse dei
proprietari nella valorizzazione speculativa, in precedenza perseguito dal neo-liberismo
nostrano (valorizzazione avvenuta certamente NON in regime di scarsità dei
diritti edificatori);
-
milioni di
famiglie in stato di disagio abitativo in Italia, che alla fine della stessa
frase divengono, più credibilmente, centinaia di migliaia A PAG. 154;
DISTORSIONI:
-
Berdini
attribuisce al solo ministro Bassanini (governo Amato) ed al suddetto decreto 380
del 2001 (ultimi giorno del governo Amato) che in effetti e scorrettamente non
riportava nel nuovo testo unico l’art. 12 della legge Bucalossi riguardo al
conto corrente dedicato per l’introito e l’utilizzo degli oneri di
urbanizzazione (non rispettando la legge delega mirante al mero riordino della
legislazione pre-vigente) la sostanza della scelta di consentire l’uso di tali
oneri per la spesa corrente; scelta che invece, per divenire operativa in forza
di legge, ha avuto bisogno della esplicita formulazione nella finanziaria per
il 2002 (governo Berlusconi), variamente confermata nei successivi anni;
-
le “new
towns” per l’alloggio temporaneo dei terremotati dell’Aquila (ed il crollo
repentino di un balcone in uno di questi moduli) come paradigma generale per la
descrizione delle periferie disgregate (e del malaffare negli appalti);
-
IMU sulla
seconda casa, sempre introdotta da Monti, che porta a svenderle per eccessivo
peso fiscale (ma l’IMU o ICI sulle seconde case c’è dal 1992, non l’ha mai
tolta neanche Berlusconi, e le svendite recenti sono a mio avviso prodotto
della crisi e non della modesta tassazione ICI/IMU);
-
il
suddetto disegno di legge Lupi, accusato di aumentare a dismisura l’offerta di
aree edificabili porta al titolo “MAURIZIO LUPI VUOLE TOGLIERE LA CASA AGLI
ITALIANI” - A PAG. 133 -
FRIVOLEZZE E PARZIALITA’: pur richiamando (senza riassumerne però i
contenuti) una ricca inchiesta de “il Manifesto” tra gennaio e luglio del 2014
sul degrado delle città, a firma di autorevoli commentatori, Berdini perviene a
globali giudizi catastrofici menzionando alla rinfusa alcuni episodi (che
francamente mi sembrano eterogenei e marginali), quali ad esempio:
-
Renzi che
come Sindaco di Firenze mal sopporta la Soprintendenza quando si oppone ad un
uso di spazi storici vincolati come show-room di auto Ferrari;
-
un cornicione
caduto nella galleria Umberto 1° di Napoli;
-
il Sindaco
Doria che accondiscende alla privatizzazione
di parte della municipalizzata per i trasporti;
-
l’ennesima
esondazione del Seveso a Milano, malgrado il Sindaco sia Pisapia (il quale, a
quanto mi risulta, si è però impegnato per sbloccare il progetto idraulico
regionale da tempo incagliato).
SOPRAVVALUTAZIONE di tendenze concrete e pesanti, che però a mio avviso
non hanno prevalso né hanno connotato l’insieme del territorio nazionale, e
cioè:
-
dei
processi derogatori, come i condoni, i piani-casa, i “programmi integrati di
intervento” (concordati tra pubblico e privato);
-
dei
tentativi e parziali esempi di vendite e svendite del patrimonio pubblico;
-
dei
financing project per opere pubbliche fallimentari, scaricati sulle casse dello
Stato (esempio autostrada BeBreMI)
SOTTOVALUTAZIONE della continuità del diritto e della prassi
urbanistica in migliaia di comuni, anche non particolarmente virtuosi, ma
ordinariamente ordinati, con non-devastante impiego anche di strumenti più
“moderni” e flessibili, quali i Programmi Integrati di Intervento (e simili)
oppure la Finanza-di-Progetto, che non sempre né automaticamente costituiscono
fattispecie delittuose.
luglio 2017
39 - SETTE PASSI CON BECCHETTI PER CAPIRE L'ECONOMIA (O ALMENO PROVARCI)
Una introduzione alla
moderna economia politica, a metà strada tra un approccio didascalico e la
formulazione di critiche e proposte per umanizzare il capitalismo.
Riassunto. Famiglie,
imprese, mercati, moneta, prezzi, finanza: a partire dalla illustrazione di
questi concetti fondamentali dell’economia moderna, Becchetti introduce
elementi critici sia riguardo ai limiti del mercato, che non riesce ad
integrare e ad ottimizzare valori pur basilari nelle relazioni umane, quali la
“fiducia”, sia riguardo alla finanza, che distorce ulteriormente le
funzionalità dell’economia e della società in direzione di un ristretto
utilitarismo; da qui la proposta di interventi correttivi innanzitutto da parte
dgli stessi consumatori, orientando gli acquisti in favore delle “imprese
virtuose”. Ne segnalo limiti, sottovalutazioni e
sopravalutazioni.
Ho letto “CAPIRE L’ECONOMIA IN
SETTE PASSI” 1di Lorenzo Becchetti, ordinario di economia a Tor
Vergata, giornalista di Avvenire e blogger su Repubblica (nonché pensatore ascoltato
dal MoVimento5Stelle): qualcosa ho
capito, ma molti dubbi mi sono rimasti.
Certamente la capacità
didascalica dell’Autore rende facile l’acquisizione dei concetti basilari
dell’economia contemporanea, a cui comunque in buona parte siamo abituati per
necessità, decenni di economicismo dominante sulla vita quotidiana, tanto in
fase di magnifiche sorti dell’Occidente (dagli anni novanta al 2007) sia in
fase di “crisi globale”, dopo il 2008.
Famiglie, imprese, mercati,
moneta, prezzi, finanza sono ben raccontati, anche se in qualche misura in
termini “statici”, come in una fotografia che coglie un attimo di equilibrio
del complesso sistema (e non nei termini
più dinamici e drammatici che ho invece riscontrato ad esempio in Paolo Leon “Il
capitalismo e lo stato” 2, in un testo altrettanto didattico del
defunto esponente neo-keynesiano, ma incentrato sulla impossibilità
dell’equilibrio insita nel mercato capitalistico, ruotando attorno alla caduta
tendenziale del saggio di profitto che consegue dallo stesso principio di
concorrenza).
“I mercati … sono un
meccanismo quasi provvidenziale che automaticamente incrocia i gusti dei
consumatori con la disponibilità/scarsità dei beni e le possibilità offerte
dalle tecnologie …” “I mercati hanno molti pregi ma altrettanti difetti …”: dentro
a questo racconto, Becchetti sviluppa una sua vena critica, evidenziando da un
lato la parzialità della visione del mondo della disciplina economica classica,
che non riesce ad occuparsi delle molteplici pulsioni e dimensioni delle
persone, riducendone i comportamenti all’utilitarismo dell’homo economicus (senza
saper dominare variabili pur essenziali e misurabili, come il grado di
“fiducia” tra i vari soggetti nel mercato), e dall’altro le degenerazioni del
sistema finanziario, che si auto-alimenta perdendo le funzioni essenziali di
servizio allo sviluppo dell’economia reale, ed anzi recandole danno.
(Talune
argomentazioni si approssimano a quelle di Laura Pennacchi in “Filosofia dei
Beni Comuni” 3, che recensisco su questo stesso numero di Utopia21)
Becchetti evidenzia come
l’economia classica trascuri il “capitale sociale”, il cui “hardware … sono le
organizzazioni e le associazioni …. che segnalano il grado di coesione di un
determinato territorio “ (come per l’Italia in Trentino ed in Emilia) ed il cui
“software ….” è costituito da cinque
elementi chiave: la fiducia, la meritevolezza di fiducia …, il senso civico, la
disponibilità a pagare per i beni pubblici … e la fiducia nelle istituzioni” .
Ed illustra tali concetti anche
con il resoconto di divertenti test comportamentali, quali quello del “trustor”,
in cui al primo giocatore si regala un gruzzoletto, con la possibiltà di
sub-regalarne quota-parte al secondo giocatore e con la sola regola che
l’eventuale restituzione di parte di questo sub-regalo al primo giocatore, come
spontanea gratitudine del secondo giocatore, sarà raddoppiata dal “banco”.
L’autore mostra inoltre come le stesse imprese possano
sfuggire alle definizioni rozze quali “massimizzatrici di profitti”, assumendo
il profilo di “imprese responsabili” (di Olivettiana memoria4).
Da
queste critiche alle teorie dominanti, l’Autore deriva una serie di proposte,
dalla valorizzazione di indici alternativi al PIL (quali l’indice di benessere
BES, teoricamente ormai ben definito in Europa ed in Italia dallo stesso ISTAT)
alla crescita di consapevolezza dei consumatori (e risparmiatori), in favore
delle imprese responsabili e contro le distorsioni del mercato, fino a fare di
questa “leva di Archimede”, costituita dalla capacità di “votare con il
portafoglio” (di cui Becchetti riporta concreti esempi, quali quello dei fondi
etici che incentivano le imprese a ridurre le emissioni di CO2), uno strumento
quasi rivoluzionario verso una nuova “economia civile”.
Una rivoluzione innanzitutto
culturale, attorno ad una nuova “teoria della relatività”, che riesca a
integrare negli strumenti di governo delle nazioni e delle imprese i fattori di
socialità insiti nell’uomo, dalla fiducia alla solidarietà, oggi considerati
quasi come una “materia oscura” dalle teorie economiche dominanti: “I beni
relazionali [sono…] ancora una particella oscura e in via di definizione. Il
fatto di non averla ancora messa a fuoco è uno dei maggiori problemi
dell’economia che da questo punto di vista è un po’ come la fisica prima della
scoperta dell’elettrone”.
Il tutto senza uscire dal
mercato, bensì forzandolo a subire le ragionate e ragionevoli pretese dei
consumatori.
Ritengo
molto interessante questo tentativo di sistematizzare i benefici che un
orientamento organizzato dei consumatori (ed elettori?) potrebbe apportare per
superare distorsioni e storture dell’attuale sistema economico e sociale; mi permetto però di segnalare quelle che a mio
avviso sono le rilevanti sottovalutazioni e sopravvalutazioni nella visione di
Becchetti (e che lo rendono in qualche misura subalterno alla cultura dominante
che vorrebbe avversare).
Sottovalutazioni:
-
riguardo
alle problematiche ecologiche, anche se avverte che “esiste … una contabilità
delle risorse ambientali che non può e non deve essere trascurata”, il testo
assume come solo esempio i combustibili fossili, in quanto esauribili ma anche
inquinanti, e individua nel meccanismo dei prezzi un potenziale alleato in
favore della ricerca ed applicazione delle energie alternative (la relativa
scarsità di petrolio e carbone rende convenienti le altre risorse energetiche,
finché la loro abbondanza e convenienza, con qualche ragionevole aiuto pubblico
e sociale, può mettere fuori gioco i fossili); ma non si fa carico per nulla
del tema generale dell’esaurimento tendenziale delle materie prime e del
degrado ambientale accumulato, che possono surriscaldare i prezzi e “bruciare”
il pianeta prima che la svolta dei consumatori consapevoli si decida a
civilizzare l’economia;
-
riguardo
al divario tra i ricchi e i poveri, il testo lascia molto sullo sfondo alcuni
nodi centrali, ovvero che nelle imprese la formazione del valore (o chiamiamolo
ancora plus-valore) è ancora e sempre funzione diretta dello sfruttamento del
lavoro altrui (anche se non sempre nella forma canonica del lavoro salariato) e
quindi che la esistenza dei “poveri” (soprattutto su scala mondiale) è fattore
necessario, e non conseguenza accidentale, della accumulazione delle ricchezze
(che finisce per alimentare la superfetazione
finanziaria); se i consumatori possono influire sulle imprese, ad
esempio penalizzando quelle che sfruttano oltre ogni regola risorse naturali ed
umane, perché non assegnare più alcun ruolo alla possibilità di organizzarsi
degli stessi lavoratori sfruttati?
-
riguardo
alla circolazione della moneta ed alla crescita dei debiti, le immissioni di
liquidità variamente sviluppate dalla banche centrali, per uscire da questa
crisi, forse richiedono qualche specifica riflessione e preoccupazione sulla
futura tenuta strategica degli equilibri macroeconomici (ovvero: vuoi vedere
che si stanno alimentando nuove pericolose bolle finanziarie?).
Sopravvalutazioni:
-
riguardo
alla estensione delle “lobbies positive” verso nuove forme di democrazia e di
civilizzazione dal basso dell’economia, il testo reca (alcuni) esempi positivi,
ma non si confronta con un panorama alquanto preoccupante che include nei
fatti:
o
gli
esempi non esaltanti delle auto-promosse micro-associazioni dei consumatori,
che in Italia finora mi sembrano piccole burocrazie in affannosa rincorsa delle
più consolidate (e purtroppo un po’ burocratiche) associazioni dei produttori
(Confindustria ecc.; sindacati),
o
il mal
funzionamento dei social media come amplificatori di campagne non sempre
fondate su oggettivi riscontri scientifici (dai vaccini all’olio di palma: nel
primo caso una criminale disinformazione, nel secondo una ambigua
demonizzazione, che non assicura affatto migliori tutele per la salute,
l’ambiente ed il terzo mondo attraverso l’uso di altri grassi alimentari),
o
la
parabola emblematica del MoVimento5Stelle, che parte da una concezione
semplicistica del “cittadino eguale”(ovvero “uno-vale-uno”) per approdare alla
formazione di un partito politico che nega di essere tale, ma tale si comporta,
senza però mai sottoporre a discussione la leadership dei fondatori (ed eredi),
in quanto elemento a-priori ed “indiscutibile”;
o
la frequente
cecità parziale dei “movimenti”, dai NoTAv, che mettono a ferro e fuoco la Val di
Susa contro i trafori ferroviari, ma nulla dicono e fanno contro il
contemporaneo raddoppio del traforo autostradale del Frejus (che trasferirà lì
di fatto anche parte del traffico veicolare dal M.Bianco), fino
all’acqua-bene-comune che strilla allo scippo referendario contro la presenza
dei privati in qualunque ruolo gestionale, mentre altri beni comuni altrettanto
delicati e strategici, dall’energia alle telecomunicazioni, dall’informazione
ai social media sono per lo più tranquillamente in mani private (e spesso
straniere o internazionali), sia come proprietari che come gestori, con poche e
instabli eccezioni (RAI, ENEL, ENI, di cui solo la prima con controllo pubblico
per legge);
o
la
stessa crisi storica delle socialdemocrazie (ed anche dei partiti cattolici
solidaristici) e dei connessi sindacati, perché in teoria basterebbe la
concorde volontà degli elettori (che sono anche lavoratori, consumatori e
risparmiatori) a piegare verso il meglio stati ed imprese: una concordia che
oggi appare decisamente poco conseguibile.
Mi
sembra che nei limiti delle scienze economiche, anche nella versione
civilizzata di Becchetti (anzi soprattutto in questo suo tentativo di
organizzare a tal fine i consumatori),
manchi una profonda integrazione con le scienze sociali, che – nell’analisi dei
comportamenti dei singoli soggetti: individui, famiglie, imprese – oltre allo
studio dei caratteri socializzanti dell’uomo e alle modalità di sedimentazione
del “capitale sociale” tendono a includere specificamente le “forme” dei
rapporti di aggregazione tra i soggetti (e l’eventuale definizione di “soggetti
sociali”): dalla “microfisica del potere” di Foucault5 alla “società
liquida” di Bauman6, dalla formazione di “nuove tribù” di Maffesoli7
alla sempiterna selezione delle élites politiche (Pareto, Michels, Revelli)8,
dalla costituzione del villaggio globale (McLuhan)9 al funzionamento
specifico delle reti (Castells10-11, Morozov12). E anche Marx può ancora essere utile (il
capitalista singolo ed il capitale collettivo)13.
Fonti:
1.
Lorenzo
Becchetti “CAPIRE L’ECONOMIA IN SETTE PASSI” - Minimum fax, Roma
2016
2.
Paolo
Leon “IL CAPITALISMO E LO STATO” – Castelvecchi editore, Roma 2014
3.
Laura
Pennacchi “FILOSOFIA DEI BENI COMUNI. CRISI E PRIMATO DELLA SFERA PUBBLICA” -
Donzelli editore, Roma 2012
4.
Adriano
Olivetti “SOCIETA’, STATO, COMUNITA’. PER UN’ECONOMIA E POLITICA COMUNITARIA”
Edizioni di Comunità, Milano 1952
5.
Michel
Foucault “MICROFISICA DEL POTERE: INTERVENTI POLITICI” Einaudi, Torino 1977
6.
Zygmunt
Bauman “VITA LIQUIDA” - Laterza, Bari 2006
7.
Michel
Maffesoli
“IL TEMPO DELLE TRIBÙ. IL DECLINO DELL'INDIVIDUALISMO NELLE SOCIETÀ
POSTMODERNE” - Guerini
e Associati,
Milano 2004
8.
Marco
Revelli “FINALE DI PARTITO” – Einaudi, Torino 2012
9.
Marshall
McLuhan “IL VILLAGGIO GLOBALE. XXI SECOLO: TRASFORMAZIONI NELLA VITA E NEI
MEDIA” – SugarCo, Milano 1992
10.
Manuel
Castells “LA NASCITA DELLA SOCIETÀ IN RETE” - UBE Paperback, Milano 2002
11.
Manuel
Castells “LA CITTÀ DELLE RETI” Marsilio, Padova 2004
12.
Evgeny
Morozov “SILICON VALLEY: I SIGNORI DEL SILICIO” – Codice, Torino 2017
13.
Karl
Marx “IL CAPITALE. CRITICA DELL’ECONOMIA POLITICA (libro III)” –Editori
Riuniti, Roma 1964
14. Commenti
a Bauman, Castells, Maffesoli su questo blog
di Aldo Vecchi PAG.I^
“FILOSOFIA-SOCIOLOGIA-ECONOMIA”
15. Recensione
su MARCO REVELLI/FINALE DI PARTITO su questo blog, in questa PAGINA “ULTERIORI LETTURE”
settembre 2017
La dotta articolazione
di una proposta di antropologia alternativa all’individualismo economicista
come premessa ad un programma di politica economica neo-keynesiana.
Riassunto. L’Autrice
muove dalle correnti più sociali dell’illuminismo (fraternité), dal
personalismo cattolico e dal femminismo, mantenendo invece le distanze dal
comunitarismo (sia identitario sia “bene-comunista”), per impostare una critica
radicale al neo-liberismo ed al finanz-capitalismo, sia in termini filosofici,
sia sul concreto campo della politica economica. Solo sullo sfondo il tema dei “beni comuni”, mentre mi pare rimossa
ogni ricerca sui motivi del fallimento del socialismo reale e sulle
ripercussioni psicologiche del suo crollo.
Laura Pennacchi (già
parlamentare PDS e PD e sottosegretaria nel 1° governo Prodi) in “FILOSOFIA DEI
BENI COMUNI. Crisi e primato della sfera pubblica” si occupa in realtà più di
filosofia (e di macroeconomia) che di “beni comuni”.
L’operazione principale del
suo testo infatti mi pare che consista nella ambiziosa ricerca di una
antropologia (definibile come “personalista”), che si contrapponga al riduttivo
utilitarismo dell’ “individuo” neo-liberista, e su cui fondare una teoria delle
relazioni sociali, idonea a riqualificare la “sfera pubblica” e rilanciare una politica economica
neo-keynesiana.
A partire dalla riscoperta del
filone piuttosto trascurato della “fraternità”, all’interno della triade
illuminista con “libertà ed uguaglianza”, la Pennacchi propone una
ricomposizione (fin troppo pacificata, a
mio avviso) di molte altre diverse correnti di pensiero, dal personalismo
cattolico al femminismo della “cura degli altri”, ed un superamento del
razionalismo astratto per includere a pieno titolo intuizioni ed emozioni, sia
nella fase cognitiva (cercando di
risolvere d’incanto le più insolute problematiche filosofiche della modernità
in poi), sia nella lettura dei comportamenti umani, individuali e
collettivi.
“L’antinomia tra razionalismo
(per cui la ragione è totalmente aliena dalla passione) e sentimentalismo (….)
va, dunque, superata, e va scoperto il
ruolo epistemologico (…) che le emozioni svolgono nell’articolazione della
ragione …” “l’Io quindi non è sostanza, ma relazione, esiste solo nella
misura in cui si riferisce ad un Tu la cui esistenza, a sua volta, è data dalla
parola con cui risveglia alla vita l’Io.”
In tal modo l’Autrice si
contrappone frontalmente al neo-liberismo, cui imputa da un lato l’incapacità
di comprendere (e quindi di regolare) tutti i fenomeni sociali di gratuità,
dall’amicizia al volontariato, dal dono alla abnegazione sul lavoro di non
pochi dipendenti pubblici (anche se mal pagati) e dall’altro le clamorose
smentite in merito alla presunta cieca saggezza della “mano invisibile” del
mercato, costituite da ripetute instabilità e crisi locali e da ultimo dalla
grande crisi finanziaria ed economica quasi mondiale esplosa nel 2007 (di cui
l’Autrice descrive modalità e perversioni, non molto diversamente dall’ormai
classico “Finanz-capitalismo” di Luciano Gallino2,3).
Meno sviluppate le
demarcazioni che il testo traccia rispetto alle concezioni comunitariste, sia
quelle abbarbicate alle identità locali e tradizionali, sia quelle protese alle
mitologie “bene-comuniste” (su questo
fronte mi è sembrato più chiaro ed esauriente Ermanno Vitale4, da me
recensito su Utopia21 nell’ottobre 20165), così come contro i
sostenitori del “reddito di cittadinanza”, cui la Pennacchi oppone sia la
realtà variegata dei bisogni, sia l’alternativa del “lavoro di cittadinanza”.
Infatti mi pare che l’Autrice
tenda più a rivitalizzare, nelle virtù civiche dei soggetti sociali e dei
movimenti, la categoria dei beni pubblici, che non a distinguere da questi,
approfondendone la natura, i cosiddetti beni comuni (vedi invece ad esempio Paolo
Maddalena6 ); di cui per altro paventa giustamente i possibili
rischi di uso non-inclusivo da parte delle comunità che si attivano attorno ad
essi.
Nella parte finale la
Pennacchi traccia una sorta di programma di politica economica per una uscita
dalla crisi dell’Europa in direzione neo-keynesiana (simile al Piano per il
Lavoro che la stessa Pennacchi ha suggerito alla CGIL nel 20137),
attraverso un rilancio qualificato della spesa pubblica e la priorità ai
“consumi collettivi” (come scuola, sanità e cultura) ed una non ben precisata
attenzione ecologica.
Su
siffatte proposte di uscita dalla crisi (pur sapendo che in giro c’è di peggio)
mi permetto di ribadire le mie critiche riguardo a:
-
Scarsa
credibilità di un uso tattico di un maggior debito pubblico, soprattutto da
parte di paesi già super-indebitati, come l’Italia (e privi del peso imperiale
degli U.S.A., che ha giovato comunque alle operazioni in deficit di Obama);
-
Forte
difficoltà a mutare il segno della crescita rispetto agli squilibri sociali,
come ha mostrato lo stesso limitato successo di Obama (minor disoccupazione ma
bassi salari e aumento delle
disuguaglianze);
-
Subalternità
culturale al mito della crescita permanente, senza una seria considerazione dei
limiti oggettivi allo sviluppo, insiti nell’esaurimento tendenziale delle
risorse e non solo nei problemi di clima ed energia;
-
Mancata
riflessione sulla debolezza sostanziale delle proposte di intervento pubblico
nell’economia, conseguenti al tramonto del “socialismo reale”, non solo, ma
soprattutto della dimostrazione di una non-riformabilità del mondo socialista,
sancita dalla sconfitta della linea di Gorbaciov: elementi che pesano tuttora
nell’immaginario collettivo almeno quanto la attuale palese inefficienza e
iniquità della globalizzazione neo-liberista.
Riguardo
al modo di scrivere della Pennacchi, in questo testo risulta a mio avviso fin
troppo trapuntato di citazioni, che l’Autrice utilizza per conferire autorità
ai propri assunti, rischiando però di conseguire l’effetto contrario, cioè di
apparire incerta nelle sue affermazioni, se privata dalle preziose fonti (che,
per contrappasso, evito di citare).
Fonti:
1. Laura
Pennacchi “FILOSOFIA DEI BENI COMUNI. CRISI E PRIMATO DELLA SFERA PUBBLICA” -
Donzelli editore, Roma 2012
2. Luciano
Gallino “FINANZ-CAPITALISMO” – Einaudi, Torino 2011
3. Commento a "FINANZ-CAPITALISMO" su questo blog: PAG. I^ FILOSOFIA-SOCIOLOGIA-ECONOMIA
4. Ermanno
Vitale “CONTRO I BENI COMUNI – UNA CRITICA ILLUMINISTA” – Editori Laterza, Bari
2013
5. Aldo
Vecchi “ERMANNO VITALE: UN ILLUMINISTA CONTRO IL BENE-COMUNISMO” su UTOPIA21,
Ottobre 2016 https://universauser.it/utopia21.html
6. Paolo
Maddalena “IL TERRITORIO BENE COMUNE DEGLI ITALIANI” Donzelli, Roma 2014
7. CGIL “IL
PIANO DEL LAVORO 2013” – www.cgil.it/admin_nv47t8g34/wp-content/.../Piano_Del_Lavoro_CGIL_gen13.pdf
settembre 2017
41 - IL SECONDO SPIRITO DEL CAPITALISMO, INDAGATO DA BOLTANSKI E
CHIAPELLO
Il
saggio dei sociologi francesi Luc Boltanski ed Eve Chiapello “IL SECONDO
SPIRITO DEL CAPITALISMO” mira a focalizzare la profonda trasformazione delle
società capitalistiche nell’era della globalizzazione, concentrandosi
soprattutto sulla Francia, nel confronto tra apogeo del Fordismo-Taylorismo (ed
anche dirigismo e concertazione), nel 2° dopoguerra, e la fase di
riorganizzazione neo-liberista successiva alla crisi del ’68 e degli anni
Settanta.
Edito
in Francia nel 1999 e poi in una seconda edizione (con specifica prefazione)
nel 2011, è stato pubblicato in Italia solo nel 2011 (Feltrinelli) e poi nel
2013 e 2014, quando ha raggiunto, con le ricche note e la ricchissima bibliografia
la lunghezza di 738 pagg. : non è
pertanto facile riassumerlo e recensirlo; rimando perciò anche direttamente
alla fonte, perché il capitolo “Conclusioni”, da pagg.529 a 570 dell’edizione
Mimesis/2014, costituisce di fatto un valido e rapido riepilogo.
Il
pregevole sfondo storico dell’opera individua, dalla rivoluzione industriale ad
oggi, essenzialmente 3 fasi, tenendosi in dialettica equidistanza da Karl Marx
– che anteponeva le strutture materiali, relegando l’ideologia a sovrastruttura
– e da Max Weber – che invece leggeva nelle spinte ideali il motore della
storia - :
-
Il
“primo spirito” (a cavallo del XIX secolo) rompe con l’organizzazione
corporativa del lavoro e con gli assetti tradizionali della società, in nome
della libertà di intrapresa e della modernizzazione, ma modella l’azienda sul
potere familiare della proprietà e non disdegna il compromesso con le antiche
istituzioni (Dio-patria-famiglia) per ottenere il consenso dei salariati;
-
Il
“secondo spirito”, nel cuore del Novecento, fa emergere la razionalità
dell’organizzazione aziendale, con una piramide (burocratizzata) di dirigenti
specializzati, sempre più autonomi dalla mera proprietà, coinvolgendo i
dipendenti, strettamente controllati nei ritmi e modi di lavoro parcellizzati,
in una realtà o speranza di compensazioni salariali e di welfare, nell’ambito
di una società tendenzialmente modellata “razionalmente” come la piramide
aziendale;
-
Il
“terzo spirito” sta crescendo come ideologia giustificativa dei nuovi modi di
produrre valore (decentrati e delocalizzati, flessibili e temporanei,
articolati su “reti” internazionali), con cui le imprese hanno superato la
rigidità dei modelli fordisti e in parte riassorbito le spinte anti-autoritarie
dei nuovi “quadri”, e si diffonde come esaltazione dell’autonomia creativa e
dello spirito imprenditoriale, potenzialmente esteso a tutti gli attori in
campo, ma in realtà escludendo chi non è abbastanza “mobile”, adeguato alle
reti, disponibile ad un sostanziale auto-sfruttamento denominato come
“valorizzazione del capitale umano” (che spesso include polivalenza,
aggiornamento continuo, reperibilità via smartphone “h24” in cambio di un
normale salario, arricchito solo dalla speranza della conservazione del posto,
sapendo quanto freddo fà là fuori).
In
questa lettura storica, costante dell’organizzazione capitalistica risulta la
ricerca di una adesione consensuale dei lavoratori e dell’intera società
tramite “giustificazioni” ideologiche (“De la justification” era il titolo di
un precedente saggio di Boltanski con Thevenot) e istituzioni o “prove” di
apparente trasparenza, ricerca che lascia come residuali ed eccezionali sia le
forme schiavistiche più brutali sia le parentesi di militarizzazione e
fascistizzazione di stati ed imprese.
Il
tema delle “prove” è ricorrente nel testo e riguarda diverse forme codificate
nel tempo di regolazione dei rapporti sociali, dove la forza dei gruppi
dominanti accetta di essere temperata per farsi accettare dai gruppi più
deboli: dalle modalità di assunzione a quelle di licenziamento, dalla scuola
pubblica alle norme ambientali e di sicurezza, dalle modalità delle vertenze
sindacali alle stesse elezioni democratiche; un complesso di consuetudini e di
leggi che – pur confermando e consolidando (in genere) le differenze di potere,
consentono ai più deboli di invocare qualche forma di giustizia distributiva, e
talvolta di farvi leva per modificare le stesse strutture sociali (salvo
innescare nuove prevaricazioni creative da parte di gruppi dominanti, vecchi o
nuovi).
Nel
testo i processi di trasformazione sono colti nel rapporto dialettico tra gli
interessi dei singoli soggetti (capitalisti in testa, in quanto detengono per
l’appunto il capitale e non possono mai adagiarsi sugli allori per la presenza
ed il timore di iniziative concorrenziali o comunque di perturbazioni dei
regimi di monopolio di fatto temporaneamente conseguiti) e la elaborazione
collettiva di nuovi assetti socio-culturali, talvolta ‘sinceri’ ed espliciti
(ad esempio: occorre rimuovere le resistenze corporative oppure sindacali) e
talaltra propagandistici ed edulcoranti (ad esempio: occorrono sacrifici per il
bene comune); mai nella visione macchinistica di un diabolico ed occulto
‘grande vecchio’.
E’
apprezzabile costante degli Autori quella di evitare ogni schematizzazione (come quelle cui io sono invece costretto
nel riassumerli in poche cartelle), specificando che in ogni fase possono
convivere diversi “spiriti”, che le transizioni non sono cesure nette, che
nella dialettica delle trasformazioni ricompaiono modificati elementi in
precedenza divenuti marginali o minoritari (ad esempio il peso delle relazioni
personali nel “terzo spirito” fa riemergere legami tradizionali negati dalla
neutralità burocratica del “secondo spirito”).
Il
testo approfondisce soprattutto le condizioni e le modalità del passaggio da
“secondo” a “terzo spirito”, esaminando le forme che nella seconda metà del
Novecento assumono le forze critiche rispetto all’assetto capitalistico,
critiche che gli Autori raggruppano in 2 filoni (derivanti già dalle vicende
ottocentesche): la critica “sociale”, orientata a richiedere maggiore giustizia
distributiva in termini di orari e fatica, salari e previdenze (con esiti, in
Francia, soprattutto centralizzati a livello di contratti nazionali, concertazioni
confederali, provvidenze statali, e con tipica rappresentanza sindacale nella
CGT), e la critica “artistica”, incentrata sull’autonomia e la creatività,
contro l’autoritarismo aziendale e la ripetitività del lavoro parcellizzato, la
rigidità dei ruoli sociali e la burocraticità dei rapporti (da cui in
particolare derivarono in Francia rivendicazioni specifiche dei “quadri”,
spesso rappresentate dal sindacato CFDT ed altri).
(Qui
colgo però un qualche schematismo di Chiapello e Boltanski, che pure ammettono
il vario intreccio concreto tra le “due critiche”: è esistito a mio avviso, non
solo in Italia, un terzo filone critico, più esistenziale e radicale, che stava
tra il rifiuto quasi luddistico dello sfruttamento da parte dei salariati stessi
ed il ripudio delle ingiustizie – viste patire da altri - da parte degli
intellettuali, su basi concettuali anarchiche o religiose, con sbocco nella
fuga eremitica dal mondo mercificato oppure nella guerriglia terroristica, ma
anche in tentativi di rielaborazione
originale della lotta di classe come nelle teorie non-violente di Aldo
Capitini oppure in alcune esperienze di Lotta Continua).
La parte del testo che mostra
maggior originalità, con documentazione esibita forse anche con troppa meticolosità, è la ricerca compiuta dagli
Autori su un ampio campione di “letteratura di formazione” per quadri e
manager, con raffronto diacronico tra i testi correnti al tempo del “secondo
spirito” e quelli elaborati nel trentennio successivo per il “terzo spirito”;
ma a mio avviso hanno una notevole utilità, documentale e argomentativa, anche
le numerose e ben articolate osservazioni, tratte da diverse fonti
(statistiche, articoli, ricerche di altri autori) sulle modalità molecolari di
trasformazione dei cicli produttivi negli ultimi trenta anni del Novecento,
riguardo a diversi aspetti della vita aziendale (assunzioni, carriere, nuovi
profili professionali, sub-appalti, de-localizzazioni, scorpori di rami
aziendali e conseguenti frantumazioni contrattuali, autocontrollo nei gruppi di
lavoro, gestione reticolare e “per progetti”) e della vita sociale connessa
(formazione, occupazione/disoccupazione, mobilità, auto-imprenditorialità,
ecc.), nonché sui provvedimenti sociali dello Stato (talvolta contro-producenti
rispetto alle finalità perseguite).
Parimenti analitico e
documentato è il racconto sui successi ed insuccessi delle diverse forme di
critica, “sociale” ed “artistica” (ed anche dei reciproci conflitti tra di
esse), sottolineando come da un lato parte delle critiche sono state accolte ed
inglobate, ma determinando mutamenti che hanno finito per spiazzare le stesse
forze critiche, rese incapaci di aggiornarsi dalla stessa natura dei
cambiamenti introdotti nell’organizzazione del lavoro. Ad esempio nel ruolo dei
delegati sindacali – in Francia eletti con modalità ‘elettoralistiche’ - sempre più assorbiti a tempo pieno in compiti
complessi ed infine separati di fatto dai reparti di provenienza, ormai riorganizzati in termini sconosciuti ai
delegati stessi; oppure – fuori dalle fabbriche – con l’emergere di nuove
tematiche altruistiche di carattere umanitario, che assumono come oggetto i
“diversi” – emarginati, immigrati, ecc. – senza più riuscire a coglierne i
nessi con le condizioni occupazionali potenziali, cioè con la moderna realtà
del mercato del lavoro, dove l’”esercito di riserva” si confonde con lo
‘spauracchio sociale’ del fallimento personale e crescono le situazioni di
disagio psichico derivanti dall’endemico precariato.
Tra le difficoltà delle “due
critiche”, Boltanski e Chiapello evidenziano anche fattori specifici in qualche
misura esogeni rispetto alla dialettica capitale-lavoro, quali, per la “critica
sociale”, il discredito ricaduto sul Partito Comunista Francese (ma anche sulla
collaterale CGT) in relazione alla crisi del blocco sovietico (e dei connessi
ideali di redenzione finale del proletariato, sempre rimandati ad una mitica
presa del potere), e, per la “critica artistica” dal logoramento della parole
d’ordine della “autenticità”, massimizzate dall’esistenzialismo di Sartre (ed
anche dalla scuola di Francoforte9, attraverso la elaborazione di nuovi modi di
pensiero, de-strutturanti del soggetto e della originalità (Bourdieu, Deleuze,
Derrida), che paradossalmente hanno finito per giustificare la resa degli
intellettuali alla mercificazione della cultura e l’abbandono di precedenti
posizioni più sobrie ed austere, ora giudicate come elitarie.
Al culmine della
rappresentazione del “terzo spirito”, gli Autori tendono a proporre un nuovo
paradigma di lettura delle contraddizioni sociali, tipico del “mondo
connessionista” che tende a prevalere, in cui ciò che conta è l’accumulazione
di connessioni e dove dominano le persone che riescono ad essere mobili, da un
luogo ad un altro, da un progetto ad un altro, carpendo e non condividendo
informazioni (se non per il minimo indispensabile al successo di singoli
”progetti”), in quanto con ciò stesso sfruttano gli altri, che in qualche
misura non possono o non vogliono essere altrettanto “mobili”, gli “immobili”
(o addirittura gli emarginati) di cui i “mobili e connessi” hanno però
assolutamente bisogno per esprimere in pieno il loro dominio. (Paradigma brillante, sulla cui utilità e
soprattutto generalizzabilità però nutro molti dubbi).
Nelle parti finali Chiapello e
Boltanski formulano anche qualche proposta e qualche auspicio, temendo una
deriva sempre più individualistica e socialmente destrutturante dell’assetto
capitalistico globale, ma non rassegnandosi ad essa: contro il fatalismo è
possibile un rilancio della critica (attraverso la sociologia, e non fondandosi
su antropologie negative, secondo cui l’uomo sarebbe naturalmente e puramente
egoista, come in Hobbes, ma anche in Durkheim)
Da un lato colgono alcune
tendenze alla auto-limitazione del “terzo spirito” per il suo bisogno di
giustificazione, da altri lati suggeriscono un rapido ammodernamento degli
apparati concettuali di critica allo stato di cose presente e la coltivazione
di manovre correttive, a livello di singole aziende come a livello statale ed
internazionale, quali ad esempio:
-
l’attribuzione alle aziende dei costi di
ricollocazione dei lavoratori temporanei, l’umanizzazione dei rapporti di lavoro
attraverso la certificazione delle buon pratiche aziendali (anche verso
l’ambiente), l’estensione degli istituti di sostegno al reddito e di ricerca di
nuova occupazione; dalla alternativa tra “contratto di lavoro” e “contratto
commerciale” (spesso con i lavoratori subalterni mascherati da
auto-imprenditori) a nuovi “contratti di attività”, che includano la
retribuzione di forme di ”attività” oggi non riconosciute come lavori pagati;
-
(considerando come acquisizioni positive Europa
ed Euro) il ritorno a qualche modalità di controllo dei movimenti di capitali e
sulla contabilità delle multi-nazionali, la Tobin-Tax contro la volatilità
finanziaria a breve termine, una seria lotta all’elusione fiscale
internazionale;
-
il riconoscimento degli apporti di tutti i
partecipanti ai singoli “progetti;
-
la limitazione alla mercificazione dei beni
comuni, della sfera privata, degli altri esseri naturali.
L’ipotesi è di cercare di
imbrigliare il “terzo spirito” in una “città per progetti”, così come il
“secondo spirito” aveva accettato di coesistere nella “città industriale” con
lo stato sociale e le sue espressioni civiche. (Gli autori denominano come
“città” un sistema di relazioni sociali, esterno alle aziende, non
necessariamente identificato sul territorio, e più normato dei semplici “mondi”
culturali che si determinano spontaneamente nell’evolversi della società).
Gennaio 2018
42 - IL TERRITORIO COME BENE COMUNE PER PAOLO MADDALENA
“IL TERRITORIO BENE
COMUNE DEGLI ITALIANI” di Paolo Maddalena è un volumetto agile ma molto denso
(denso anche di citazioni di altri dotti giuristi, e di alcune importanti
sentenze), in cui l’ex-vice presidente della Corte Costituzionale (fino al
2011, ed in precedenza docente di diritto, magistrato contabile, consulente del
ministero dell’Ambiente) espone le sue posizioni, giuridiche e politiche,
alquanto radicali, non solo riguardo al territorio, ma anche riguardo ad altri
beni comuni nella sfera ambientale e sociale, fino alla sovranità monetaria.
Riassunto:
-
i principi dei beni
comuni nel diritto romano (e germanico?)
-
dal Medioevo al Codice
Napoleonico, dallo Statuto Albertino al (vigente) Codice Civile
-
il salto culturale
della Costituzione Repubblicana e la sua mancata attuazione, fino alle tendenze
opposte nella legislazione degli ultimi decenni:
o
libertà di impresa
o
cessione di beni
pubblici
o
cartolarizzazione dei
debiti
-
mercati, debiti e
finanza (sotto l’influenza negativa della common law anglo-sassone)
in corsivo gli ampli commenti personali del recensore
I
ragionamenti di Maddalena1 si fondano soprattutto sulla storia e
sull’evoluzione del diritto, ed in particolare sugli aspetti ‘progressivi’
della Costituzione Repubblicana, di cui l’Autore mostra le ascendenze in
diversi istituti del diritto romano (e germanico, talora afferma, ma senza
svilupparne la dimostrazione; da lì forse gli insistenti richiami di Maddalena
al pensiero di Carl Schmitt – non certo un fior di democratico - sulla
“super-proprietà” del popolo sovrano?) ; mentre ritiene fuorvianti le proposte
– pur progressiste - derivate dalla common-law anglosassone, dal concetto di
comunanza degli usi alla class action, e giudica perniciose le influenze giuridico-culturali anglo-americane in
materia di economia e finanza, dalle cartolarizzazioni dei debiti alla
proliferazione dei ‘derivati’).
Il
nocciolo del pensiero di Maddalena sta nel rapporto tra proprietà collettiva e
proprietà privata, dove la prima prevale sulla seconda, non riconosciuta tra i
diritti fondamentali dei cittadini nei primi articoli della Costituzione, e ben
delimitata e condizionata negli articoli 41, 42 e 43, che più direttamente se
ne occupano (vedi testi in appendice): con qualche filiazione, per l’appunto,
da alcune concezioni dell’ AGER PUBLICUS nella Roma dei Re e della Repubblica,
che ne vedeva l’assegnazione in proprietà privata (DIVISIO) ma con modalità
specifiche (il MANCIPIUM per la sussistenza originaria delle famiglie; la
POSSESSIO, commerciabile, ma più simile a un diritto di uso temporaneo),e ferme
restando le proprietà collettive dei pascoli e di altre risorse naturali, nonché – anche in epoca imperiale – la
limitazione o ablazione della proprietà, in caso di AGER DESERTUS (terre
abbandonate) e gli interventi di
INTERDICTIO (espropri punitivi, anche su istanza di terzi).
Mi permetterei di
rilevare tuttavia che in questa rilettura del diritto romano Maddalena da un
lato sottovaluta (confinandola alla tarda Repubblica) la dimensione totalizzante della potestà del
PATER-FAMILIAS, anche in materia di immobili, e quindi la profonda radice
romanistica del diritto di proprietà (ed in particolare con un’ombra proiettata
sullo IUS AEDIFICANDI, che non era certo estraneo al DOMINIUM EX IURE
QUIRITIUM), e dall’altro trascuri le peculiari commistioni tra privato e
pubblico nella stessa gestione della RES-PUBLICA, dall’armamento degli eserciti
alla realizzazione di ‘grandi opere’, fino alle stesse elargizioni di ‘PANEM ET
CIRCENSES’ in cambio di consenso (qui le origini del clientelismo e del voto di
scambio?).
Non dimenticando
inoltre che gran parte dell’ ager publicus era territorio sottratto ai popoli
sconfitti, e che la corsa alla POSSESSIO premiava i più forti, un po’ come nel
Far West, e veniva poi gestito con un sistema prettamente schiavistico:
insomma, non il massimo come precedente ‘ugualitario’ per la dottrina dei beni
comuni.
La
dissertazione storica per i periodi successivi non è altrettanto dettagliata:
il testo evidenzia la formazione di un “demanio” funzionale, distinto dal più
generale “dominio” e dai “beni della corona” in pieno Medio Evo (Federico II ed
i giuristi del 13° secolo) e poi la contrapposizione tra assolutismo e
contrattualismo, da cui nascono le moderne costituzioni; con un prodromo
libertario ed egualitario nella rivoluzione francese ed invece una netta
involuzione “borghese”, con l’affermazione della centralità della proprietà
privata, nel successivo codice napoleonico, matrice anche delle “costituzioni
concesse” come lo Statuto Albertino ed il conseguente codice civile del 1942,
tuttora vigente in Italia.
Ben
si staglia quindi la svolta concettuale della nostra Costituzione che agli
artt. 41-42-43-44 tende ad incardinare la libertà di impresa e la proprietà
privata in un sistema complesso, con prevalenti finalità sociali (mi pare che Maddalena però esageri nella
sua interpretazione, quando vuol forzare in senso collettivista anche il
concetto di “rendere [la proprietà] accessibile a tutti”, espressione che a mio
avviso invece sta indicare una propensione dei padri costituenti in favore
della diffusione della proprietà privata, riguardo alla terra, alla casa e
forse all’azionariato popolare); e correttamente l’Autore evidenzia (anche
con il supporto di corpose citazioni di illuminanti passi di Stefano Rodotà 2)
le contraddizione tra tali enunciati e grossa parte della realtà
giuridico-economica della storia repubblicana, dal permanere degli istituti
privatistici del suddetto Codice Civile (riguardo alla proprietà e riguardo ai
contratti) a diverse sentenze della stessa Corte Costituzionale in materia di
urbanistica ed espropri, fino al prevalere – talvolta bipartisan – dei nuovi
dogmi neo-liberisti, con passaggi emblematici quali:
- la legge sulla libertà di impresa (n°
148/2011) che afferma tra l’altro “è permesso tutto ciò che non è espressamente
vietato dalla legge” e contrasta palesemente con l’art.41 Cost. (articolo che
infatti il ministro Tremonti avrebbe voluto esplicitamente modificare, così
come l’art 1, laddove fonda la Repubblica sul lavoro)
- le varie e contorte procedure per la
sdemanalizzazione e alienazione di beni pubblici (qui però mi sembra che Maddalena esageri sia nell’ignorare i
temperamenti che il centro-sinistra ha apportato all’impostazione
berlusconiana, limitandone la portata e passando per lo più dalla cessione dei
beni alla concessione temporanea in uso ai privati, sia demonizzando la
devoluzione di una parte di tali beni a regioni e comuni, operazione che – al di là degli
aspetti di propaganda ‘federalista’- non coincide con la loro alienazione,
essendo comunque gli enti locali “cosa pubblica”; inoltre posso testimoniare di
persona che – ad esempio – il passaggio alla gestione intercomunale del demanio
costiero dei laghi ha comportato un balzo in avanti in termini di rigore,
efficienza ed attenzione agli interessi pubblici ed ambientali, troncando le
storiche collusioni tra interessi privati particolari e precedenti gestioni
statali).
- la cartolarizzazione dei debiti
(legge n° 130 del 1999, governo D’Alema), meccanismo poi ampiamente praticata
da Tremonti, e significativamente risultato al centro dell’origine americana
della crisi finanziaria del 2007.
E
qui arriviamo alla seconda parte del testo di Maddalena, che denuncia il
prevalere a scala globale del solo principio giuridico della libertà di mercato
(e di esigibilità dei crediti), a danno degli interessi collettivi dei popoli e
dello stesso potere dei singoli stati, recependo le analisi di Luciano Gallino
sul finanz-capitalismo 3, 4 ed a mio avviso accodandosi poi ad un
coro ormai un po’ datato di catastrofismo sulle sorti dell’Euro, con uno
svolgimento piuttosto propagandistico, ove si perde la chiarezza giuridica
della prima parte del testo, anche se ne riprende i concetti fondamentali di
“popolo-territorio-sovranità” (con un certo disprezzo invece verso gli istituti
sovranazionali ed il cosmopolitismo, visti come asserviti alla
globalizzazione neo-liberista).
In particolare, pur
concordando pienamente con Maddalena nello sgomento di fronte al continuo
espandersi delle ricchezze finanziarie virtuali, disuguali e speculative, con
permanente e crescente rischio di crollo a danno di tutti, non riesco a capire
perché dovrei preferire un crescita esponenziale dei debiti pubblici, anch’essi
forieri di potenziali immani squilibri, in particolare se dichiaratamente non
esigibili.
Ma anche nella prima
parte del libro, pur apprezzandone stimoli e contributi, mi pare che aleggi un
equivoco di fondo, in un contesto che appare di sola ‘storia del diritto’
(quasi idealistica), senza cimentarsi con la storia nel suo insieme, che è
concretezza di scontri di potere e di interessi tra le classi ed i gruppi
sociali.
Infatti il protagonista
immanente delle argomentazioni di Maddalena è un (misconosciuto) soggetto
collettivo, ma astratto, il “popolo” e lo “stato come comunità”, proprietario
del “territorio”: a partire da una implicita idealizzazione di
SENATUSPOPULUSQUEROMANORUM (come se la storia di Roma non fosse invece una
selvaggia vicenda di appropriazioni di beni pubblici e di contrapposizioni di
interessi, di cui i 2 Gracchi sono solo i più illustri tra le vittime)5
e ad arrivare una idilliaca apparizione della Costituzione Repubblicana (mentre
ci sono stati di mezzo: una guerra persa ed una guerra civile; la caduta, ma
non la dissoluzione, di un regime dittatoriale che aveva acquisito un consenso
di massa; la semi-continuità di uno
stato addirittura pre-borghese, con la sua concretezza di potere poliziesco e
burocratico. E mentre si avviava una poderosa discontinuità nello sviluppo
economico, con l’industrializzazione di massa).
Significativa in tal
senso mi sembra l’insufficiente spiegazione della sconfitta del riformismo del
primo centro-sinistra sul disegno di legge Sullo in materia urbanistica (che
prevedeva l’esproprio a prezzi agricoli di tutte le aree allora necessarie per
l’espansione urbana, e la successiva cessione in diritto di superficie delle
aree urbanizzate): secondo Maddalena “prevalse una ideologia borghese”, senza
ulteriori spiegazioni.
A mio avviso non è né
esatto né sufficiente (e non mi pare che sul tema basti pensare alla
complessità del consenso complessivo al regime democristiano di quegli anni).
Penso che – anche tra i
ceti non abbienti, in maggioranza tra gli elettori di diversi partiti – abbia
pesato il mito contadino (e non strettamente “borghese”) della proprietà della
terra (diffuso anche tra i mezzadri, fittavoli e braccianti, che quella terra
non avevano mai posseduto ma certo desiderato; ed in parte quindi anche tra gli
operai, che contadini erano stati appena ieri, o ancora lo erano a part-time e
culturalmente, e nei legami famigliari).
E penso inoltre che
tale meccanismo abbia funzionato ancora, qualche decennio dopo, in favore della
propaganda berlusconiana attorno al tema “padroni a casa propria”, dai condoni
edilizi alla de-regulation urbanistica, fino all’abolizione dell’IMU, imposta
sulla prima casa; non a caso in questa società italiana (non così in altri
paesi europei) nel frattempo buona parte dei non-abbienti, pur rimanendo tra i
ceti subalterni, erano divenuti ‘piccoli abbienti’, in quanto proprietari della
propria casa (o eredi di vecchie case avite nei luoghi di origine).
Tali mie valutazioni
non intendono sfociare in un fatalismo disfattista, nel senso della
ineluttabilità della sconfitte del primo centro-sinistra degli anni ’60 e
dell’ultimo degli anni 2000, ma indicare la necessità di una costruzione
laboriosa e socialmente articolata delle possibili vittorie del riformismo.
Con queste mie critiche
infatti non voglio negare l’utilità delle enunciazioni giuridiche e delle
rivendicazioni in favore dell’attuazione della Costituzione: ma non ritengo che
tali proclamazioni siano sufficienti né a definire una linea politica (si tratti
di “Articolo 1” oppure del “ritorno alla Costituzione” enunciato tra gli altri
da Tomaso Montanari e Anna Falcone) né a conseguire un’evoluzione progressiva
del diritto stesso (ad esempio in materia di risparmio del consumo di suolo),
se manca una analisi delle dinamiche sociali capace di sostituire alla mitica
“comunità dei cittadini” (ben rappresentata nell’Introduzione di Salvatore
Settis al libro in esame: cittadini contro i partiti, come è – o era - nella
retorica del Movimento5Stelle, e come invece non è esplicitato nel testo di
Maddalena) la concreta comprensione della moderne società complesse, degli
interessi che le pervadono, dei conflitti che le agitano, dei linguaggi che le
attraversano.
APPENDICE: TESTO DEGLI ARTT.
41-42-43-44 DELLA COSTITUZIONE
Art. 41.
L'iniziativa economica privata è
libera.
Non può svolgersi in contrasto con
l'utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla
dignità umana.
La legge determina i programmi e i
controlli opportuni perché l'attività economica pubblica e privata possa essere
indirizzata e coordinata a fini sociali.
Art. 42.
La proprietà è pubblica o privata. I
beni economici appartengono allo Stato, ad enti o a privati.
La proprietà privata è riconosciuta e
garantita dalla legge, che ne determina i modi di acquisto, di godimento e i
limiti allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile
a tutti.
La proprietà privata può essere, nei
casi preveduti dalla legge, e salvo indennizzo, espropriata per motivi d'interesse
generale.
La legge stabilisce le norme ed i
limiti della successione legittima e testamentaria e i diritti dello Stato
sulle eredità.
Art. 43.
A fini di utilità generale la legge
può riservare originariamente o trasferire, mediante espropriazione e salvo
indennizzo, allo Stato, ad enti pubblici o a comunità di lavoratori o di utenti
determinate imprese o categorie di imprese, che si riferiscano a servizi
pubblici essenziali o a fonti di energia o a situazioni di monopolio ed abbiano
carattere di preminente interesse generale.
Art. 44.
Al fine di conseguire il razionale
sfruttamento del suolo e di stabilire equi rapporti sociali, la legge impone
obblighi e vincoli alla proprietà terriera privata, fissa limiti alla sua
estensione secondo le regioni e le zone agrarie, promuove ed impone la bonifica
delle terre, la trasformazione del latifondo e la ricostituzione delle unità
produttive; aiuta la piccola e la media proprietà.
La legge dispone provvedimenti a
favore delle zone montane.
Fonti:
1.
Paolo Maddalena “IL TERRITORIO BENE COMUNE DEGLI ITALIANI” - Donzelli Editore,
Roma 2014
2.
Stefano Rodotà “IL TERRIBILE DIRITTO. STUDI SULLA PROPRIETÀ PRIVATA E I BENI
COMUNI” - Il Mulino, Bologna 2013
4.
Luciano Gallino “FINANZ-CAPITALISMO” - Einaudi 2011
5.
Commento a “FINANZ-CAPITALISMO sul blog di Aldo Vecchi “relativamente, sì” – www.aldomarcovecchi.blogspot\pagine
– PAG. I^ FILOSOFIA-SOCIOLOGIA-ECONOMIA
6.
Francesco De Martino “STORIA ECONOMICA DI ROMA ANTICA” - La nuova Italia, Firenze
1979
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