sabato 26 gennaio 2019

IL “TESTAMENTO” DI PAOLO LEON SUL CAPITALISMO E LO STATO


(veci anche simile post del 2014)
Un ampio manuale che propone una lettura storica ed analitica – a scala macro-economica ed anche micro-economica – delle attuali tendenze del capitalismo, rammentando che non esistono mai le condizioni di equilibrio su cui si fondano gli economisti “classici”
(in corsivo i commenti personali del recensore)

Paolo Leon, economista di ispirazione keynesiana mancato nel 2016, ha proposto in una delle sue ultime opere, “Il capitalismo e lo stato” una analisi dettagliata delle trasformazioni del capitalismo e del ruolo economico-finanziario dello stato dal dopoguerra ad oggi, con i necessari richiami alle vicende della prima metà del novecento, prima e dopo la precedente “grande crisi”, quella deflagrata nel 1929.

La visione storica, articolata nelle seguenti fasi (come da me schematizzate):
·         1945-1971 “postumi del compromesso roosveltiano”
·         1971-1987 “la grande inflazione”
·         1987-2007 “globalizzazione e finanziarizzazione”
·         dal 2007 crisi e permanenza del modello global-finanziario,
serve a Leon anche per contrapporsi a tutte le teorie economiche astratte, fondate su un “equilibrio” che in realtà non è mai esistito, mentre occorre comprendere le specificità del funzionamento del sistema capitalistico nelle sue costanti trasformazioni, da uno stato di squilibrio ad un altro stato di squilibrio.
Trasformazioni che sono incessanti anche a livello molecolare, così da rendere inservibili strumenti concettualmente semplici, come la matrice dell’interscambio tra i diversi settori, ideata da Leontieff, se la si volesse utilizzare come strumento previsionale e non come semplice consuntivo; a maggior ragione scendendo alla scala delle singole imprese.

Altro tema cardine per Leon è per l’appunto quello della “scala”, e cioè l’impossibilità di proiettare le teorie aziendalistiche e micro-economiche alla scala della macro-economia, perché l’assetto complessivo dell’economia non consiste nella sommatoria dei comportamenti “razionali” delle singole imprese+consumatori, bensì coinvolge variabili specifiche, che ruotano comunque attorno al ruolo dello stato, seppur tendenzialmente costretto dall’egemonia neo-liberista ad uno spazio minimo-residuale.

Inoltre Leon, riprendendo con diversi accenti Adam Smith e Carlo Marx, batte e ribatte sulla “cecità” del singolo capitalista, i cui interessi non coincidono mai con quelli generali dello stesso capitalismo (trascurando un poco, a mio avviso, i comportamenti dei conglomerati oligopolistici ed il ruolo delle associazioni categoriali degli imprenditori, nonché dello stesso stato, quando guidato da forze filo-padronali, che forse non sono sempre e del tutto ciechi in materia di macroeconomia, almeno nell’interesse loro).

Il testo costituisce un amplio manuale (direi una summa del pensiero neo-Keynesiano), che non è quindi né possibile né utile riassumere con questa recensione in tutti i suoi aspetti, ed è invece utile comunque leggere, soprattutto per i profani, per capire il mondo in cui viviamo (anche nei passi più ostici, come ad esempio quando spiega che è l’entità degli impieghi bancari a determinare l’entità dei depositi, e non viceversa):

·         le singole fasi storiche vengono sistematicamente esaminate dall’Autore riguardo a tutte le seguenti questioni: moneta – banca – finanza – forza lavoro – spesa pubblica – import export – stato – impresa;

·         dentro l’impresa Leon illustra i diversi ruoli che assumono le varie direzioni aziendali: ricerca&sviluppo-acquisti-gestione-personale-finanza-marketing ecc.;

·         inoltre nel capitolo IV analizza con precisione i “fondamenti macro-economici della micro-economia”, dai vari “moltiplicatori” alla “moneta fiduciaria”, dalla legge di Engel sull’evoluzione dei consumi alla “regola aurea” che assegnerebbe ai salari gli incrementi di produttività e che – ovviamente – costituisce una condizione di equilibrio, impossibile nel contesto della globalizzazione, ed impossibile anche perché sgradita ai capitalisti stessi.

Mi limito quindi a segnalare, oltre alle premesse generali su equilibri/squilibri e su macro/micro-economia, i seguenti elementi peculiari:
-         la lettura della fase global-finanziaria come trasferimento della supremazia dal profitto alla valorizzazione patrimoniale, comunque conseguita, e quindi della competizione tra capitalisti come sfida (senza limiti) nella accumulazione della ricchezza (e del debito), in quanto strumento di potere in se, quasi a prescindere dal possesso dei mezzi di produzione (non capisco però, in questo quadro, la mancata citazione del concetto di “finanz-capitalismo” e dell’omonimo testo scritto da Luciano Gallino nel 2008, nonché l‘assenza di “7° - Non rubare” di Paolo Prodi nella bibliografia)
-         le conclusioni, aperte in più direzioni (invero assai poco rassicuranti) che da un lato non escludono un eventuale resipiscenza verso un approdo keynesiano (non mi sento di condividere, in tal senso, la certezza che un maggior deficit oggi rientrerebbe automaticamente come maggior gettito fiscale domani, in questo oggi ed in questo domani) ed in alternativa profilano, oltre alla prospettiva di un disordinato disastro anarco-capitalista, possibili scenari di compromesso autoritario tra stato e mercato, di cui l’attuale Cina costituirebbe un laboratorio sperimentale.


Fonti:
1.    Paolo Leon “IL CAPITALISMO E LO STATO: CRISI E TRASFORMAZIONE DELLE STRUTTURE ECONOMICHE” – Castelvecchi editore, Roma 2014
2.    Luciano Gallino  “FINANZCAPITALISMO” – Einaudi, Torino 2008
3.    Paolo Prodi - “SETTIMO NON RUBARE. Furto e mercato nella storia dell’Occidente”– Il Mulino 2009 e Paolo Prodi “IL TRAMONTO DELLA RIVOLUZIONE” - Il Mulino, Bologna 2015
4.    Recensioni sui precedenti testi nel blog di Aldo Vecchi “relativamente, sì” – aldomarcovecchi@blogspot.it in appositi POST e nella pagina ULTERIORI LETTURE, e/o su “UTOPIA21” https://www.universauser.it/utopia21.html , Quaderno n°2 RECENSIONI, sul numero 5 di settembre 2018 per Prodi/”7° Non rubare” e sul Quaderno n° 4, capitolo 3, per “Finanz-capitalismo” di Gallino





PERCHE’ LE NAZIONI FALLISCONO, SECONDO ACEMOGLU E ROBINSON

(vedi anche omonimo post del 2014, qui leggermente ritoccato)

Una ricerca ad ampio spettro, ma con criteri discutibili, sulle ragioni di successo ed insuccesso delle nazioni nel corso dei secoli, in base al carattere “inclusivo” oppure “estrattivo” delle istituzioni politiche
(in corsivo i commenti personali del recensore)

Nel lontano 1970 partecipavo ad una “Commissione Riforme” del movimento degli studenti di architettura di Milano, il cui assunto era - grosso modo - quanto anche il capitalismo “avanzato” risultasse piuttosto cattivo, e non ci fosse quindi da fidarsi delle sue “riforme”;  rammento che ai margini di quella ricerca mi rimaneva il dubbio (eretico) su perché comunque in Scandinavia si vivesse (socialmente parlando) meglio che in Italia, ma non ebbi molto tempo per coltivarlo, perché forti dosi di repressione erano alle porte e con la crisi (non solo “petrolifera”) del 72-73 il riformismo in Italia comunque non era più di moda.

Alle mie domande di allora pensavo che potesse rispondere il ponderoso e celebrato saggio degli accademici americani Daron Acemoglu (di origine turca) e James A. Robinson, edito negli USA nel 2012 ed in Italia nel 2014,1 ma al termine delle oltre 400 pagine mi dichiaro abbastanza deluso.
           
Il testo è di facile lettura, in quanto povero di dati statistici e ricco invece di racconti ed aneddoti, con numerose incursioni non-cronologiche su oltre 10.000 anni di storia in tutti i continenti (quasi in antinomia speculare con “Debito: i primi 5.000 anni” di Graeber 2,3 e per me un utile ripasso per le vicende dell’emisfero nord, e informazioni prima quasi sconosciute sull’emisfero sud), ma risulta anche ripetitivo, assertivo e talora apodittico.

La tesi degli autori, riassunta in breve, è che il successo economico (ed il benessere) delle nazioni non dipendono da clima&risorse, né da fattori culturali (inclusa la presunta “ignoranza dei ceti dirigenti”), bensì dalla qualità delle istituzioni politico-amministrative:
-       le istituzioni “inclusive” (ovvero pluralistiche), attraverso la certezza del diritto (in primis di proprietà privata) ed il possibile ricambio delle élites, consentono l’apertura al nuovo e il benefico processo della “distruzione creatrice” e perciò lo sviluppo (paradigmatica l’evoluzione inglese, prima e dopo le rivoluzioni del 17° secolo);  occorre però la premessa di una discreta centralizzazione dello stato;
-       le Istituzioni “estrattive” mirano solo ad accumulare e perpetuare i privilegi delle élites, paventando le innovazioni e bloccando gli accessi a nuovi metodi di valorizzazione delle risorse (esemplari le chiusure contro l’introduzione di fabbriche e ferrovie da parte degli imperi austro-ungarico, russo ed ottomano nel primo Ottocento); con il rischio che nelle fasi di crisi succedano nuove élites altrettanto “estrattive” oppure che il territorio si frammenti in spinte centrifughe, per effetto della ricerca diffusa di poteri esclusivi (così sarebbe terminato l’impero dei Maya).

Le prove addotte da Acemoglu e Robinson sono ampie (a partire dagli insediamenti “natufiani” che nel medio oriente del 9500 a.C. pervennero all’agricoltura previa formazione di villaggi stanziali, e non viceversa), ma non sempre convincenti; ad esempio:
-           il paese di Nogales, diviso tra USA e Messico, con crescenti divergenze nei livelli di prosperità: però dallo stesso testo risulta che ambedue le comunità sono state fondate dopo la definizione del confine (e non dividendo in 2 un preesistente insediamento), per cui diverse a mio avviso sono state anche dall’origine;
-     la colonizzazione del Sud e del Nord America, la prima fondata sullo sfruttamento schiavistico degli indigeni sottomessi e sulla depredazione delle risorse naturali, la seconda invece necessariamente basata sul lavoro degli stessi coloni bianchi: Acemoglu e Robinson però trascurano il particolare del genocidio perpetrato a danno dei più riottosi indigeni “pellerossa” e isolano da questo ragionamento le loro pur ampie dissertazioni sulla deportazione degli schiavi africani;
-      il relativo successo del (solo) Botswana, che - dopo l’indipendenza dal colonialismo britannico e grazie ad una qualche persistenza di preesistenti strutture tribali di tipo “inclusivo” – avrebbe raggiunto un PIL pro capite al livello di Lettonia o Ungheria, cioè assai alto se raffrontato con il disastro di gran parte del restante continente africano: ma non paragonabile –mi permetto di rilevare - con il benessere di popoli ugualmente remoti, ma non assoggettati al colonialismo europeo, come ad esempio il Giappone.

Più interessante rispetto alla tesi centrale del libro, è – a mio avviso – il metodo di indagine sugli sviluppi storici (benché minato dalla separazione degli argomenti e dalla mancata concatenazione di fondamentali fattori a livello internazionale), che cerca di evitare ogni determinismo nella trasformazione delle istituzioni, e di assimilare invece le acquisizioni tipiche della genetica e della linguistica, e cioè la (piuttosto casuale) accelerazione delle divergenze in presenza di particolari fasi critiche (ad esempio la “Peste Nera” sul finire del Medioevo in Europa, che – riducendo drasticamente la forza-lavoro disponibile - porta in Occidente alla estinzione della servitù della gleba ed invece in Oriente ad una  sua recrudescenza).

Ma tale raffinatezza di analisi (che contrasta con un certa grossolanità di approccio – a mio avviso – sull’esperienza del comunismo sovietico e mostra la corda nella difficoltà di interpretare l’odierno regime cinese, che secondo gli Autori non potrà svilupparsi a lungo senza profonde riforme) non può - sempre a mio avviso - superare il peso:
-                     delle enormi carenze di lettura della storia complessiva del mondo da parte degli Autori, e cioè l’ignorare la correlazione necessaria tra il benessere degli uni (ad esempio gli anglosassoni, inclusivi a casa loro) ed il malessere degli altri (direttamente colonizzati o sfruttati per inique sperequazioni commerciali di carattere imperialistico, ad esempio dagli stessi anglosassoni, estrattivi a casa d’altri, a partire dalla vicina Irlanda) 
-                     dei giudizi aprioristici e comunque non-dimostrati quali quello sulla ricchezza materiale come unica misura del benessere, oppure la necessità di proprietà privata ed incentivi economici per ogni sviluppo del progresso umano (che dovrebbe quindi essere  assente anche nei “settori pubblici” delle società avanzate, mentre mi pare che non manchi in università ospedali e centri di ricerca, anche poveri di progressioni economiche, come spesso è in Europa) od ancora sulla “distruzione creatrice”, che sempre agirebbe positivamente (mentre qualche volta distrugge valori non riproducibili, sociali oppure ambientali).       

Non mi convince inoltre l’eccessiva autonomizzazione degli aspetti istituzionali dal retroterra socio-economico (vedi un certo Marx) e dagli stessi fattori culturali (ad esempio l’influenza dei movimenti di riforma protestante nelle divergenze istituzionali e di sviluppo tra le diverse nazioni europee – vedi un certo Weber).

Appendice: tra le numerose recensioni (la più esaustiva su “IL POST”), alcune encomiastiche, altre detrattive, e molte variamente dialettiche, mi hanno colpito quelle su Repubblica nell’agosto 2012 (riferite al testo in inglese), a cura di Simonetta Fiori l’una e di Francesco Domenico Moccia l’altra, che mi sono sembrate alquanto distratte:
-          la prima lamenta la mancanza di protagonisti italiani nelle storie (a parte Giulio Cesare) e di autori italiani nella bibliografia, mentre a me risulta che sia trattata ampliamente la Repubblica di Venezia e che tra gli autori (seppure di testi in inglese) figurino almeno Tabellini e Guiso-Sapienza-Zingales
-          il secondo trova il testo limitato alla fortuna delle nazioni intere e carente sulle divergenze di sviluppo interne, mentre a me pare ben evidenziato il divario tra stati del sud e del nord degli U.S.A., prima e dopo la fine dello schiavismo, nonché qualche cenno ai divari interni, ad esempio, della Sierra Leone, del Sud Africa, dell’Australia.

Fonti:
1.    Daron Acemoglu e James A. Robinson “PERCHE’ LE NAZIONI FALLISCONO - ALLE ORIGINI DI POTENZA, PROSPERITÀ, E POVERTÀ” - Il Saggiatore, Milano 2014
2.    David Graeber  “DEBITO - I PRIMI 5000 ANNI” – Il Saggiatore, Milano 2012
3.    Aldo Vecchi “DEBITO E DEMOCRAZIA SECONDO DAVID GRAEBER” https://drive.google.com/file/d/1KNHwvYRdA-OgatgudIQMBtJt5Q3shSWl/view?usp=sharing
– recensione su UTOPIA21, luglio 2018



GUERRE, PACE, NON-VIOLENZA ED UTOPIA



In UTOPIA21, occupandoci di ecologia, di economia e di società, ci troviamo spesso a dare atto che non vi sono in questo mondo tendenze univoche verso miglioramenti auspicabili di benessere umano ed ambientale, bensì oscillazioni, contraddizioni, trasformazioni complesse: sia nel passato che nel futuro.
Rientrano in questo ambito altalenante di incertezze e contrapposizioni anche i temi della pace e della non-violenza, malgrado i fili di speranza che hanno attraversato il Novecento:
-         dagli abissi delle guerre mondiali (due “calde” più una fredda), dei genocidi programmati e della minaccia nucleare,
-         alla de-colonizzazione  (in parte non-violenta: India, Sud Africa, Est Europa),  alla cooperazione internazionale (dalla Società delle Nazioni all’ONU e dintorni, dall’Unione Europea alle altre collaborazioni a scala continentale), agli accordi parziali per il disarmo.

La fase attuale appare invece piuttosto buia e tormentata, sovrapponendo alle speranze maturate con fatica nel Novecento, oltre alle guerre locali ed al terrorismo “di religione”, una ondata di nazionalismi e sovranismi, con tendenza al riarmo, che rende minoritari ed inefficaci i residui movimenti pacifisti (compresi quelli religiosi, malgrado l’orientamento francescano di papa Bergoglio).
Perciò mi sembra opportuno fare il punto su questa problematica della pace e della non-violenza, problematica cui ho accennato più volte in precedenti articoli, e che ritengo strategica per il futuro dell’umanità, anche rispetto alla questione del cambio climatico e del controllo sul consumo delle risorse naturali ed eco-sistemiche.


Sommario:
preistoria e antichita’
cristianesimo e medioevo
rivoluzioni e modernita’
il novecento – 1: le guerre ed il contrasto pacifista
il novecento – 2 : i movimenti pacifici e non-violenti
dialettica pace/guerra, dal novecento al duemila
che fare?
-         Appendice A: Gandhi
-         Appendice B: Aldo Capitini e la non-violenza in Italia


PREISTORIA E ANTICHITA’

Anche se in talune suggestioni culturali serpeggiano diversi miti di una “età dell’oro” originaria, tra il Paradiso Terrestre, il Matriarcato1 ed il Buon Selvaggio, le risultanze archeologiche raramente testimoniano di abitudini pacifiche per le più antiche culture, sia paleolitiche che neolitiche, le une più vicine all’insicurezza e alla competitività del mondo animale, le altre incubatrici di molte forme della violenza poi “modernamente” sviluppate nelle civiltà dei metalli: tanto all’interno delle tribù (subordinazione della donna e sfruttamento dei più deboli) quanto nel confronto tra le diverse “tribù”, con la sacralizzazione dei confini e l’invenzione del “mestiere delle armi”.
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FIGURA 1 – TOMBA DEL GUERRIERO, SESTO CALENDE, ETA’ DEL FERRO

Verso tali conclusioni propende Jared Diamond (da me recensito su “Utopia21” nel luglio 2017)2,3, sulla scorta di ricerche dirette presso gli ultimi uomini “primitivi” della Nuova Guinea e di un confronto con ampia bibliografia in materia preistorica.

Uno sguardo antropologico diverso, anche se finalizzato alle questioni del debito e della democrazia, l’ho riscontrato in David Graeber (da me recensito su “Utopia21” nel luglio 2018)4,5, che segnala la presenza e la temporanea egemonia di tendenze oggettivamente non-predatorie (almeno all’interno delle entità statuali o micro-statuali), e quindi con una regolazione e attenuazione anche della violenza, in diverse fasi della storia dei continenti extra-europei, dal “medio-evo” indiano e cinese, ai Maya post-imperiali e ad alcune nazioni dei nativi nord-americani.
Tutto sommato, però, anche queste esperienze confermano quanto possiamo dedurre dalla storia a noi più nota, tra Medio Oriente, Mediterraneo ed Occidente, cioè il lungo prevalere, nelle fasi storiche documentate, di culture caratterizzate da un grado elevato di violenza, quanto meno “pubblica” ed “esterna” (così era la “pax romana”: la guerra come normalità, anche quando al momento non praticata), seppur disciplinate da alcune forme di cultura religiosa, che limitavano talvolta la crudeltà verso alcune figure più deboli, come i vinti, gli orfani o le vedove.
Mi sembra che le religioni, nel corso dei secoli, abbiano in prevalenza costituito forme di ritualizzazione e quindi di controllo (ed anche di contenimento) della violenza, ma assai più verso l’interno delle comunità credenti che non verso l’esterno. Appare sintomatico che anche una delle grandi religioni più apparentemente lontane dalla violenza, quale è il buddismo, non riesca tuttavia a contenere – di questi tempi - la repressione armata contro minoranze di diversa fede, da parte di stati a maggioranza buddista come lo SriLanka e la Birmania.
In direzione contraria alcune tendenze pacifiste, per lo più minoritarie e temporanee, ma importanti per il lascito culturale ripreso in secoli successivi:
-          alcuni principi della cultura greco-romana, come il diritto, la cittadinanza, la “cosa pubblica”, la selezione elettorale (e non solo militare) delle élites politiche, concetti senza i quali oggi non sapremmo rivendicare le ragioni degli ultimi (per quanto allora, credo forse più di oggi, tali ragioni fossero misconosciute e represse);
-          alcune correnti del pensiero ellenistico e romano, soprattutto di impronta epicurea, tra le quali emerge ad esempio Lucrezio, che si contrapponeva alla figura antropologica classica del maschio, soldato e dominatore (qualche anticipazione, nella Grecia classica di qualche secolo prima si riscontra già in alcune commedie pacifiste di Aristofane);
-          il messaggio cristiano:
o   nella formulazione evangelica che superò la legge mosaica dei 10 comandamenti e dell’ “occhio per occhio e dente per dente”: amare il prossimo, ivi incluso lo straniero ed il peccatore e persino la peccatrice; porgere l’altra guancia; non sottrarsi ad un ingiusto processo,
o   e nella pratica religiosa dei primi secoli, che uscì dagli steccati ebraici e corrose l’imperialismo romano con testimonianze non solo di fede, ma anche di comunanza tra-e-con i poveri, di dignità della persona (incluse le donne e gli schiavi) ed in parte anche di anti-militarismo.


CRISTIANESIMO E MEDIOEVO

Il pacifismo evangelico, che non era l’unica espressione della nuova religione, si perse però sostanzialmente con la conquista del potere da parte dei cristiani (ai tempi dell’imperatore Teodosio, fine del IV secolo d.C.) e con il passaggio ad un regime di integralismo confessionale, che si giovò ampliamente del trono e della spada per perseguitare sia i “pagani” sia gli altri cristiani ritenuti eretici. E così di fatto per molti secoli, con l’aggravante delle Crociate: “guerre sante” contro gli islamici infedeli in “Terrasanta”, ma anche contro i dissidenti Catari e – presentandosi la ghiotta occasione – contro i fratelli ortodossi di Costantinopoli, capitale cristiana d’Oriente saccheggiata nel 1204.
La cultura cristiana dei regni romano-barbarici e poi dell’impero feudale fondato dai Carolingi si sposò sostanzialmente con una antropologia “cavalleresca” di origini sia romane che barbariche e di impronta maschilista, militarista e schiavista: salvo significative divergenze di movimenti di rinnovamento ecclesiale, per lo più scomunicati e combattuti come eresie (es. i Valdesi), oppure confinati nei monasteri.
E con la rilevante eccezione del  francescanesimo, che, insieme ad altri movimenti religiosi (talora più ereticali), riprese in pieno Medioevo i contenuti essenziali del Vangelo - povertà, fratellanza e pace - declinandoli in una nuova militanza religiosa tra i ceti urbani ed anche in spettacolari iniziative diplomatiche verso il nemico islamico, sulla questione dei “Luoghi Santi” della Palestina, iniziative appoggiate anche dall’imperatore Federico di Svevia, ma significativamente boicottate dal Papato, che preferiva rilanciare le Crociate (sempre all’inizio del XIII secolo).

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FIGURA 2 – SAN FRANCESCO E IL SULTANO, GIOTTO, BASILICA DI ASSISI

Tuttavia anche il francescanesimo non mutò a fondo l’asse culturale della Chiesa (anzi finì per adeguarvisi) e così il cristianesimo approdò alla svolta della modernità da un lato identificandosi a fondo con il colonialismo dei “Re cattolici”, connotato da genocidi, razzismo e schiavismo, e dall’altro lato dilaniandosi nelle guerre di religione tra Cattolici e Luterani (e Anglicani, Calvinisti, Hussiti ecc.), in cui i poteri del “Sacro Romano Impero” e dei nascenti stati nazionali si affrontavano con ogni scala di violenza, riservandone comunque dosi anche maggiori verso i sudditi ribelli.


RIVOLUZIONI E MODERNITA’

Da questo groviglio nacque però la moderna Europa (e poi le sue proiezioni oltre gli Oceani), con le sue rivoluzioni industriali e le sue rivoluzioni borghesi, dentro cui si costruì un nuovo ed ampio pensiero laico e per lo più “progressista”, cioè orientato alla trasformazione della società. E di riflesso si svilupparono anche nuove forme di pensiero religioso.

In questo articolo non mi interessa trattare la “storia delle idee” in quanto tali, ma nella misura in cui tali idee si sono incarnate in movimenti collettivi incidenti sulla storia dell’umanità. Per questo mi limito ad accennare in questa nota che le idee di libertà individuale, di uguaglianza tra gli uomini (e più tardi anche delle donne..), di laicità dello stato, espresse esplicitamente dai pensatori illuministi del ‘700 - tra cui  Montesquieu (divisione dei poteri), Voltaire (cosmopolitismo), Rousseau (contratto sociale), Kant (pace universale), Beccaria (educatività della pena),  Filangieri (riforma agraria) – derivarono dallo sviluppo di intuizioni di intellettuali che nei secoli precedenti avevano iniziato a mettere in discussione il dominante pensiero dogmatico, da Lutero ad Erasmo da Rotterdam, da Giordano Bruno a Galileo Galilei, da Spinoza a Leibniz e Cartesio.  

Anche se gli elementi fondamentali del pensiero degli illuministi e dintorni  costituirono le basi per le attuali concezioni di uguaglianza tra gli uomini (e con qualche attenzione anche verso gli animali e la natura restante), come codificate ad esempio nelle solenni dichiarazioni dell’ONU, la civiltà borghese non rappresentò una svolta radicale rispetto all’Ancien Régime, né in termini di pace-e-non-violenza (le rivoluzioni inglese, americana e francese sorsero in armi e figliarono altrettanti, seppur diversi, fenomeni imperiali, contro gli altri imperi dell’uomo bianco), né in termini di effettiva Egalitè e Fraternitè, come dimostrarono (e ancora stanno dimostrando) le lunghe e inconcluse vicende del superamento dello schiavismo, del razzismo e del colonialismo, nonché delle discriminazioni sessuali e classiste.

Tuttavia si affermarono all’interno degli stati nazionali (repubbliche o monarchie costituzionali), tra mille contraddizioni, alcuni fondamenti della civile convivenza, quali la divisione dei poteri, l’attribuzione del potere politico attraverso contese elettorali, alcuni diritti individuali dei cittadini contro i soprusi dello stato.

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FIGURA 3 - GHIGLIOTTINA

Largamente intrecciata con la modernità borghese è anche la storia del movimento operaio (ed in parte di quello contadino), che tendeva ad emanciparsi da quella violenza di classe che i ceti subalterni da sempre subiscono:
-          in parte elaborando nuovi strumenti di lotta collettivi, anche intrinsecamente non-violenti e fondati sulla consapevolezza individuale capillare degli aderenti, come lo sciopero (dal lavoro, da certi consumi, dallo stesso cibo), le manifestazioni e le occupazioni pacifiche, l’auto-organizzazione, le vertenze legali, le petizioni ed il voto elettorale (esempio tipico le attività delle “società fabiane” nell’Inghilterra dell’Ottocento, con la pratica del sit-in),
-          in parte ribaltando contro le classi dominanti la violenza stessa, sia nell’ambito degli scioperi, mediante i picchetti anti-crumiri, sia forzando cortei e manifestazioni ad esiti insurrezionali, più o meno programmati, sia infine con la formazione di movimenti e partiti coscientemente rivoluzionari, dalle cospirazioni anarchiche al bolscevismo leninista, passando attraverso una complessa graduazione nella teorizzazione della violenza (e talora della sua dissimulazione) attraverso le vicende della Prima, Seconda e Terza Internazionale.

Nel pensiero di Marx il superamento della violenza di classe risultava subordinato al superamento delle classi, nell’utopia del comunismo realizzato: nel Novecento di realizzato si è visto il “socialismo reale” del blocco sovietico e poi dell’Asia Orientale (Cina, Vietnam, Corea, Cambogia), e non si è potuto ivi constatare né un effettivo e stabile superamento delle classi, né tanto meno della violenza politica.
Anche il pensiero anarchico, variamente declinato riguardo alla pratica della violenza (ed includente correnti di pacifismo unilaterale, come l’anarchismo cristiano ispirato a Tolstoi) subordinava il superamento della violenza alla utopica estinzione dello stato, ma non ha dato occasione per misurare concretamente su vasta scala gli effetti delle sue proposte.

Più interessante, nelle pratiche politiche di massa del socialismo e dintorni, è risultata la contrapposizione degli interessi proletari al militarismo degli stati borghesi, che diede luogo sia a movimenti pacifisti diffusi e radicati, sia ad espressioni dirette di rifiuto della guerra, con obiezione-di-coscienza, diserzione, sabotaggio, scontrandosi duramente in particolare contro la prima guerra mondiale, allorché la sinistra proletaria subì inizialmente una dura sconfitta su tutti i fronti belligeranti, anche se poi fu “il fronte interno” a determinare di fatto la disfatta prima dell’esercito zarista (1917) ed infine di quello germanico (novembre 1918).6

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FIGURA 4 – LA 1^ GUERRA MONDIALE SECONDO G. SCALARINI SU “L’AVANTI”

La dimensione di massa (con la generalizzazione delle leva obbligatoria) e l’organizzazione industriale degli eserciti, connessa ai nuovi armamenti, contestualmente al diffondersi di nuovi mezzi di informazione, disvelarono fortemente nel corso dell’Ottocento (e ancor più nel Novecento) gli “orrori della guerra” agli occhi di un nuovo soggetto della società moderna, la “opinione pubblica”, suscitando anche in ambienti borghesi qualche movimento di opposizione agli eccessi del militarismo, non più confinato a pochi intellettuali: da qui sia il virtuoso volontariato che diventerà la “Croce Rossa”, sia un lavorio diplomatico consolidatosi nelle “Convenzioni di Ginevra”, che dal 1864 in poi cercarono (e cercano tuttora) di mitigare gli effetti delle guerre, soprattutto sui feriti e sui prigionieri, ma anche più tardi sui civili coinvolti e sulla limitazione nell’uso di talune armi più micidiali.

Fino all’800 le regole della guerra in Europa e nel Mediterraneo si fondavano soprattutto su un comune tessuto culturale, una sorta di “codice cavalleresco” (del tipo: “la battaglia dura dall’alba al tramonto” oppure “non si uccidono gli ambasciatori”), che salvava talvolta cavalieri e generali, ma non certo fanti e cavalli (e che ovviamente non si applicava verso i rozzi indigeni da sterminare in diversi continenti); le enormi battaglie e le innovazioni tattiche del periodo napoleonico mostrarono già l’anacronismo di quelle regole


IL NOVECENTO – 1: LE GUERRE ED IL CONTRASTO PACIFISTA

Al cospetto delle due guerre mondiali del Novecento, che esaltarono la ferocia della guerra, sia verso i soldati (non solo quelli nemici) sia verso la popolazione inerme, maggiormente vittima dei nuovi armamenti meccanizzati ed aero-missilistici, il pacifismo diplomatico-istituzionale e quello del volontariato neutralista subirono evidenti rovesci.

In questo contesto si affaccia anche il Vaticano di papa Benedetto XV (con una Chiesa positivamente liberata dal potere temporale, che ne faceva uno stato tra gli stati, con specifici interessi geo-politici), condannando la guerra come “inutile strage”, cercando (pur senza successo) di mediare tra le potenze avverse, che includevano importanti nazioni cattoliche su ambedue i fronti e sviluppando concrete opere di soccorso umanitario.
Non fu però molto ascoltato, nemmeno dalle Chiese locali, spesso pesantemente allineate nel sostenere gli sforzi bellici.
D’altronde la persistente attitudine del clero cattolico a benedire gagliardetti e bombarde fu ben presente nei successivi decenni, non solo nel timore delle rivoluzioni bolsceviche, ma anche in vergognose campagne di oppressione coloniale, come la spedizione italiana in Etiopia nel 1936, connotata da criminose stragi di inermi cristiani, ancorché di fede copta. 

Cercarono però anche di alzare il tiro, sia con ulteriori sviluppi delle “convenzioni di Ginevra”, sia con la fondazione prima della Società delle Nazioni (1919-1946) e poi dell’Organizzazione delle Nazioni Unite, con tutti gli organismi ad esso collegati (FAO, UNESCO, UNHCR, ecc.): ambedue pesantemente condizionate dall’ambiguità delle potenze promotrici (gli USA proposero la SdN con Wilson, ma poi non vi aderirono) e comunque dagli interessi degli imperi dominanti (che all’ONU conservano tuttora il seggio permanente nel Consiglio di Sicurezza, con il connesso potere di veto).
Tali organizzazioni sono divenute comunque terreno di faticosa crescita di un più solido diritto internazionale, che ha consentito quanto meno di circoscrivere e talora sterilizzare i pur numerosi conflitti armati locali del secondo Novecento (ma pare in questo inizio di secolo assai meno efficace, come più avanti illustrerò).

In questa cornice di formale coesistenza pacifica si svolse la cosiddetta “guerra fredda”, che contrappose dal 1945 al 1989 (ma i postumi sono tuttora attivi) le potenze occidentali al blocco sovietico, con lunghi anni di caldissima guerra localizzata in estremo Oriente (Corea prima e poi Vietnam e dintorni), condizionamenti, repressioni e golpe all’interno dei due imperi (Ungheria Polonia e Cecoslovacchia ad Est, Grecia Cile e Grenada ad Ovest), scaramucce spionistiche e contro-informazione a vari livelli, e soprattutto con un enorme sviluppo degli armamenti missilistici e termo-nucleari da ambo le parti (sfiorando più volte la 3^ guerra mondiale, e soprattutto nello scontro su Cuba del 1962).
La decisiva novità delle “bombe atomiche”, sperimentate dagli USA massacrando (a guerra ormai pressoché vinta) le città giapponesi di Hiroshima e Nagasaki nel 1945, ed il cui accumulo negli arsenali delle grandi potenze (e non solo) consentirebbe oggi di distruggere più volte la biosfera terrestre, innescò però non solo una riflessione delle stesse potenze nucleari, che verso la fine del Novecento hanno instaurato un proficuo dialogo (oggi interrotto) per ridurre gli arsenali ed i rischi di guerra (cercando di conservare però, per quanto possibile, il monopolio di tali armi iper-distruttive, tramite i trattati di “non-proliferazione”), ma anche nuovi sviluppi dei movimenti pacifisti, soprattutto in Occidente, grazie alle libertà democratiche ivi disponibili.

Con alterne vicende nel tempo dagli anni ’50 in poi (non escluso qualche tentativo di strumentalizzazione da parte dell’URSS) il nuovo pacifismo, all’ombra della “paura della bomba”, ha connesso - in dimensioni talora di massa - le correnti dell’antimilitarismo socialista, dell’umanesimo laico e le istanze religiose, finalmente libere dalla pluri-secolare benedizione dei gagliardetti per le “guerre giuste” (per i cattolici, a partire dal Concilio Vaticano II, 1958-1963). 
Dentro a questo movimento, con la partecipazione attiva di numerosi intellettuali di diversa estrazione, tra cui Einstein, Sartre, Albert Schweitzer  e   Bertrand Russel, ed in Italia tra gli altri Capitini, VEDI APPENDICE B Moravia e Cassola, maturarono interessanti elaborazioni, ben oltre l’umanizzazione della guerra di cui alle Convenzioni di Ginevra: mettere al bando la guerra, farla diventare un tabù, come è stato (tendenzialmente) per il cannibalismo, l’omicidio “privato”, la pena di morte (riconoscendo, ma superando la pulsione omicida che è forse insita nell’umanità); “svuotare gli arsenali” (come proclamava, un po’ vanamente, il presidente Pertini) e sopprimere gli eserciti.
Un’utopia, quest’ultima, che è stata però effettivamente realizzata, da ormai 70 anni, in uno Stato piccolo, ma non marginale, come il Costarica, che sta nel mezzo del turbolento Centro-America; da approfondire nel Novecento anche le esperienze neutraliste di stati, pur debolmente armati, come la Svizzera e la Svezia (anche il Belgio e l’Olanda praticarono la neutralità, ma furono invase dagli eserciti tedeschi, il primo sia nel 14 che nel 40, la seconda solo nel 1940), e poi  dopo il 1945 la Finlandia e l’Austria, ma in quanto garantite dall’equilibrio tra i due blocchi Est-Ovest.

La Svizzera, pur essendo un vertice del potere capitalistico e bancario ed uno stato esportatore di armi e non sempre ospitale con gli immigrati (accolse però moltissimi perseguitati politici e razziali nell’800 e nel ‘900), con a Ginevra una sede dell’ONU cui non aderisce, costituisce anche un esempio importantissimo e poco imitato di coesistenza pacifica, conquistata dopo secoli di contrasti armati, tra popolazioni di diversa lingua e religione. Tra gli imitatori possiamo vantare la gestione italo-austriaca della problematica del Sud-Tirolo dopo la seconda guerra mondiale, pur con tutte le difficoltà e i conflitti del caso.

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FIGURA  5 - “LOVE NOT WAR”

Il pacifismo occidentale ha poi sviluppato la sua massima potenza nell’opposizione alla guerra del Vietnam, tra gli anni ‘60 e gli anni ‘70, anche per la partecipazione diretta dei giovani americani precettati con la leva obbligatoria, che infatti venne successivamente smantellata in tutto l’Occidente (anche la spedizione dell’URSS in Afghanistan negli anni 80 fu sconfitta in parte per le resistenze, pur meno esplicite, sul fronte interno, dopo che i soldati di leva iniziarono a cadere numerosi sotto i colpi della resistenza locale, sostenuta dagli USA, forse con scarsa lungimiranza).

Il pacifismo, a scala mondiale, ha dimostrato invece la sua sostanziale impotenza, malgrado la notevole estensione delle mobilitazioni, contro la 2^ guerra dell’Irak, voluta dagli USA con alcuni alleati nel 2003 a dispetto del pronunciamento avverso del restante concerto internazionale (e di un raggruppamento ecumenico religioso guidato dal Papa).
L’insuccesso della mobilitazione pacifista sull’Irak si deve in parte al carattere professionale, e non di leva, dei nuovi eserciti occidentali ed in particolare (anglo-)americani, ed in parte  alla suggestione sulle opinioni pubbliche del terrorismo internazionale, suggestione esaltata dall’aggressione jihadista in territorio americano dell’11 settembre 2001 ed evocata (più o meno abilmente) dalla propaganda USA contro  Saddam Hussein (che per altro era innegabilmente un despota sanguinario, sterminatore della minoranza curda e complice pochi anni addietro degli stessi USA in una guerra finalizzata al soffocamento della rivoluzione khomeinista in Iran, colpevole di aver abbattuto il regime filo-americano dello Scià Reza Palhavi).

Nel contempo negli ultimi decenni del Novecento, sulla scia del pacifismo e del volontarismo umanitario degli anni 60 (poi intrecciato con i movimenti del ’68), sono sorte nuove organizzazioni umanitarie non-governative, in parte finalizzate ad alleviare le sofferenze sociali indotte nelle periferie del mondo dallo sviluppo capitalistico e imperialistico, ed in parte (Medici Senza Frontiere, Emergency) anche ad affrontare sul campo (con agilità sconosciuta alla tradizionale Croce Rossa) le conseguenze delle guerre, spesso non-convenzionali e non-dichiarate, come frequentemente si qualificano di recente gli scontri armati, con grave peso sulle popolazioni civili.  


IL NOVECENTO – 2 : I MOVIMENTI PACIFICI E NON-VIOLENTI


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FIGURA  6 - GANDHI, M.L.KING, MANDELA

Ma, prima di esaminare le contingenze specifiche di questo inizio di secolo, mi pare fondamentale porre attenzione ad un altro fenomeno caratterizzante il Novecento, e cioè la novità, credo assoluta, di grandi mobilitazioni di massa non-violente, che sono risultate vincenti rispetto ai preesistenti assetti del potere, a scala nazionale e/o internazionale:
-          la lotta per l’indipendenza nazionale nel sub-continente indiano, tra il 1918 ed il 1947 (poi drammaticamente diviso tra India a prevalenza induista e Pakistan a prevalenza mussulmana), guidata tra gli altri dal “Mahatma” Gandhi, VEDI APPENDICE A nel cui pensiero si combinavano elementi della tradizione induista, giainista e buddista con la rielaborazione di componenti cristiane ed illuministe; anche altri movimenti di liberazione anti-coloniale riuscirono a conseguire l’indipendenza con modalità pacifiche, ma solo l’esperienza di Gandhi sviluppò coerentemente la non-violenza come azione collettiva e come filosofia di vita, estendendone i contenuti al superamento della divisione sociale nelle caste ed alla coesistenza pacifica interreligiosa, quanto mai difficile in quei territori;
-          la lotta per i diritti civili degli afro-americani nel Sud degli USA, negli anni ’50 e ’60, con la leadership del reverendo Martin Luther King, che innervò di valori cristiani una efficace pratica di disobbedienza civile e di manifestazioni di massa, conseguendo importanti risultati di principio, politici e giuridici, pur in parte vanificati dalle resistenze conservatrici di razza (bianca) e di classe, che alimentarono pertanto le divergenti correnti militariste afro-americane dei Black Panthers ed altri;
-          la lotta contro il regime segregazionista in Sud-Africa, dagli anni ’40 al 1994, impersonata da Nelson Mandela, che è pervenuto a metà cammino su posizioni non-violente , con l’organizzazione African National Council, dopo aver sperimentato anche la lotta armata; nel pensiero di Mandela confluirono la formazione cristiana-metodista, l’acculturamento illuminista e marxista ed il sub-strato “ubuntu”, un concetto di fraternità universale (fatto proprio di fatto anche dal vescovo anglicano Desmond Tutu), che ha dato vita a quella originale  forma di superamento dei lutti e dei contrasti disseminati nella guerra civile tramite la “Commissione per la Verità e la Riconciliazione”, anziché tramite vendette ed epurazioni, oppure superficiali riabilitazioni;
-          l’abbattimento pacifico dei regimi comunisti nel 1989, in gran parte dei paesi dominati dall’URSS nell’Est Europa - dopo la repressione violenta dei moti del 53 (Germania Est), del 56 (Ungheria e Polonia), del 68 (Cecoslovacchia), del 71 (Polonia) ed il golpe militare ancora in Polonia nel 1981 - sotto la spinta di nuovi movimenti di massa, quali il sindacato Solidarnosc in Polonia, in prevalenza cattolico, e gli intellettuali non-violenti di Charta 77 in Cecoslovacchia; nella svolta pacifica del 1989 fa eccezione la Romania, dove il rovesciamento di Ceausescu avvenne con spargimento di sangue; occorre inoltre considerare le successive rovinose guerre nazionaliste (e religiose) nei territori dell’ex-Yugoslavia;
-          altri fondamentali movimenti per i diritti civili (per lo più in Occidente), ma più diffusi nel tempo e nello spazio (e sgranati nelle parziali vittorie), tra i quali
o   la lunga onda femminista, dalle “suffragette” in lotta per il diritto di voto già alla fine dell’800 (pur con qualche venatura di moderato terrorismo) alle battaglie nel secondo 900 per il controllo delle nascite (aborto compreso) e la completa parità dei diritti,
o   i movimenti  LGBT (Lesbiche, Gay, Bisessuali e Transgender) in lotta contro ogni forma di discriminazione e pregiudizio sessuale dagli ultimi decenni del Novecento.

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FIGURA 6 – EMMELINE PANKHURST; HARVEY MILK


DIALETTICA PACE/GUERRA, DAL NOVECENTO AL DUEMILA

Non saprei quanto di questi successi (spesso comunque parziali e contrastati) sia dovuto alla forza soggettiva e collettiva dei movimenti ed alla cosciente adozione di metodi non-violenti e quanto invece alle particolari congiunture, nazionali ed internazionali, che hanno piegato i loro antagonisti, per lo più nel contesto delle formali libertà democratiche occidentali (con la vistosa eccezione, od aggregazione, dell’URSS aperta alla “glasnost” ed alla “perestroika” dalla leadership di Michail Gorbaciov).

L’indipendenza dell’India venne conseguita dopo la 2^ guerra mondiale, rispetto alla quale i movimenti indipendentisti avevano assunto posizioni oscillanti, aumentando però la loro pressione: credo che fu però determinante il passaggio del governo inglese dal conservatore Churchill al laburista Attlee.
Il movimento anti-segregazionista in Sud Africa seppe sviluppare un imponente sostegno internazionale, che si tradusse nelle sanzioni economiche e diplomatiche contro il regime dell’apartheid.

Abbiamo infatti purtroppo delle parziali controprove, sia nel Novecento che all’inizio di questo secolo:
-          la resistenza non-violenta del Dalai Lama e di parte del popolo tibetano, che non riesce a superare l’oppressione militare cinese;
-          il fallimento delle “primavere arabe”, inizialmente non-violente, in paesi come l’Egitto e la Siria, con un parziale successo solo nella piccola Tunisia.

Inoltre nel cuore più buio del Novecento l’idea di una opposizione non-violenta verso lo stesso nazismo fu teorizzata, ad esempio, dallo stesso Bertrand Russel (che poi ebbe a ricredersi) e praticata di fatto da un lato dalla diplomazia inizialmente morbida dello stesso governo inglese guidato da Chamberlain e dall’altro scomodissimo lato da alcune frange del mondo ebraico, poi sgominate nello sterminio totale della “Shoah”.

Analogo ragionamento è stato implicitamente svolto dai movimenti pacifisti internazionali nei confronti dell’aggressività radicale proclamata e praticata dal cosiddetto Califfato Islamico (ISIS), sorto in Irak e Siria dopo la destabilizzazione determinata dalla 2^ guerra dell’Irak e poi dalle suddette “primavere arabe”, e non ancora del tutto estinto: anche se non è da escludere che si siano sviluppati embrioni di trattative diplomatiche tra il Califfato ed altri soggetti politico-militari durante la sua breve vita statuale, non si è sostanzialmente profilata nessuna alternativa alla guerra né da opporre direttamente al Califfato né da proporre alle potenze ad esso ostili e discese in campo con la copertura giuridica dell’ONU.
Ed ai pacifisti non è rimasto che cercare di portare aiuti umanitari, per quanto possibile in situazioni così difficili, come la Siria dilaniata da una guerra civile con pluralità di schieramenti interni ed esteri.
Mentre la sfida della “guerra religiosa” lanciata dalle frange fondamentaliste dell’Islam prosegue sotto la forma del terrorismo, dalle metropoli dell’Occidente ai paradisi turistici tropicali, dall’Africa sub-sahariana al frastagliato fronte indo-pakistano, dalla Turchia all’impero ex-sovietico: con epicentri in Palestina, in Siria ed Irak, in Afghanistan, dove la politica di potenza di Israele, della Russia (e della Turchia) e di USA&alleati si manifesta anche come occupazione militare.

La minaccia del terrorismo di matrice internazionale (ed anche religiosa) alimenta notevoli ostacoli sulla strada del pacifismo, sia direttamente, perché è una forma di aggressione militare che non può essere contrastata con i metodi non-violenti (se non a monte, con un lento lavorio di educazione alla convivenza), sia indirettamente, perché induce le “opinioni pubbliche” ad apprezzare politiche nazionali (e nazionaliste) di ordine e di riarmo, di sfiducia negli organismi di collaborazione internazionale (Europa, ONU, WTO), nonché di criminalizzazione dei fenomeni migratori.

Poiché nel contempo la crisi bellica e/o economica-ecologica e politica, di numerosi territori del “terzo mondo” (e non solo: Ucraina, Cecenia, Venezuela) continua a sospingere le migrazioni verso i territori più ricchi e sicuri, dove però altri aspetti della crisi economica e sociale stanno destrutturando i canali tradizionali del consenso alle élites politiche e diffondendo vasti sentimenti rancorosi, si assiste complessivamente ad un indebolimento delle suddette istanze internazionali e ad un rafforzamento delle velleità sovraniste e xenofobe, in un quadro diplomatico mondiale più sfilacciato che “multipolare”.

Ciò avviene mentre diviene oggettivamente più chiaro, a chi voglia serenamente osservare le contraddizioni principali:
-          che occorre il massimo di cooperazione a livello planetario per affrontare i rischi del cambio climatico,
-          che si profila la relativa scarsità di alcune risorse fondamentali, come l’acqua, le terre coltivabili, le energie pulite,
-          che la spartizione di tali risorse tramite conflitti militari può innescare conseguenze catastrofiche, anche considerato che di fatto le armi nucleari sono “proliferate” nel mondo ben oltre il recinto iniziale delle grandi potenze,
-          che viceversa il risparmio su quote crescenti delle spese militari (e connesse “risorse umane”) potrebbe facilitare in modo decisivo il conseguimento degli obiettivi della transizione ad una economia più compatibile con l’ambiente.  


CHE FARE?

Dal processo storico sopra delineato mi sembra che emergano i seguenti concetti:
-          la pace non è solo tregua diplomatica ed assenza di guerra, od equilibrio tra forze militari contrapposte,  ma una dinamica cooperazione internazionale (non solo tra gli stati e tramite le organizzazioni-non-governative, ma anche tra i popoli, attraverso la produzione, il commercio, il turismo e le stesse temute migrazioni) sui diversi fronti degli interessi umani, dall’energia al cibo, dal clima alla salute, dall’informazione alla cultura, per cercare di superare e prevenire le contrapposizioni tra raggruppamenti umani a diversi livelli, e quindi rimuovere le premesse di possibili nuove guerre;
-          la non-violenza non è solo assenza o astensione dalla violenza, ma una pratica di gestione dei rapporti umani dal livello personale a quello collettivo, particolarmente rilevante in presenza di rivendicazioni sociali e conflitti etnici o religiosi, e per il contrasto al militarismo, sia come cultura maschilista diffusa, sia come tendenza prevaricatrice degli stati. Non si riduce pertanto alla (pur auspicabile) “pace interiore” ed al (altrettanto auspicabile) controllo delle pulsioni individuali, né tantomeno al quieto vivere, se questo risulta acquiescente alle ingiustizie sociali ed alle altrui prepotenze militaresche.  

La consapevolezza che nel prossimo futuro la via non-violenta alla pace ed al disarmo risulti ad un tempo così necessaria, ma così difficile e quasi improbabile potrebbe condurre alla rassegnazione ed all’inazione.

Viceversa, considerando da un lato la consistenza tuttora rilevante del volontariato umanitario e pacifista, laico e religioso, anche giovanile, e dall’altro la carenza di motivazioni ideali che caratterizza le più ampie maggioranze (a rischio – inoltre – di essere attratte da simpatie e militanze xenofobe e sovraniste), mi sembra opportuno rilanciare oggi l’opzione della non-violenza, in quanto utopia sì, ma non impossibile, anzi concretamente praticabile, nonché intimamente connessa alla salvezza del pianeta Terra:
-          come battaglia culturale, a tutti i livelli in cui se ne presenti l’opportunità, contro il dilagare di un pensiero dominante che combina il pessimismo qualunquista (“la guerra è ineluttabile”, “la violenza è insita nell’uomo”, “la politica è cosa sporca) con il cinismo egoista verso le vittime di guerre, catastrofi  e carestie (nelle remote “case loro”, ma ancor peggio se vengono qui a cercare un’altra casa);
-          come campagna educativa, non solo nelle scuole  e verso le nuove generazioni, ma anche in altri frangenti della vita quotidiana, a partire dai social-media, affermando la gentilezza ed il rispetto del “prossimo”, in cortese contrapposizione alla diffusa aggressività verbale (e non solo verbale) maleducazione e prevaricazione dei prepotenti e del loro (crescente?) successo antropologico: poiché probabilmente è vero che la violenza è insita nell’uomo, ed ancor più nelle umane aggregazioni “spontanee”, la società può ben invece conseguire superiori livelli di civilizzazione, come la storia brevemente riepilogata sopra, pur  contraddittoriamente, dimostra,
-          come modalità di rivendicazione sociale, collettiva e socializzante, riscoprendo il valore intrinseco dello sciopero (unità dei deboli contro i forti; sacrificio di benefici immediati in vista di traguardi più alti) e cercando di estenderlo ad altri fronti, oltre a quello del lavoro (oggi assai più difficile da praticare data la dispersione strutturale e contrattuale dei lavoratori), come ad esempio in certe forme di consumo commerciale e di fruizione di servizi (campagne di  boicottaggio di prodotti, di marchi, di piattaforme informatiche).
Oltre lo sciopero, la pratica della non-violenza contempla varie forme di disobbedienza civile, cioè di consapevoli violazioni di norme ritenute ingiuste (al fine di rivendicarne l’abrogazione e per conseguire comunque parziali risultati nell’ambito delle lotte, come ad esempio nell’occupazione di latifondi incolti), con l’altrettanto consapevole accettazione preventiva delle possibili sanzioni del regime statuale cui ci si oppone.
La legittimazione di queste forme estreme di lotta si fonda su un “corretto” rapporto tra iniziativa di avanguardie e coscienza di massa, che non può essere in alcun modo pre-definito, e richiede sempre congruenza e proporzionalità tra i fini perseguiti e gli strumenti adottati (più avanti si profila la “resistenza armata”, che evidentemente non-violenta non è, e che si giustifica solo in presenza di regimi tirannici e/o di occupazioni militari);
personalmente invece fatico a contemplare nell’ambito della non-violenza, a fronte di un regime democratico, iniziative propagandistiche/ricattatorie come gli “scioperi della fame ad oltranza” (cioè ben oltre i digiuni dimostrativi), che espongono gli autori a pesanti rischi auto-lesionistici (e perciò violenti) e agiscono con indubbia violenza simbolica sia verso gli interlocutori istituzionali, sia verso l’opinione pubblica;
-          come articolazione di  obiettivi politici, dal livello locale (controllo sulle priorità di spesa nei servizi) a quelli nazionali ed internazionali, con particolare riguardo, pensando all’Italia:
o   alla verifica del carattere effettivamente pacifico di ogni singola missione internazionale “di pace”,
o   alla verifica della effettiva direzione verso la pace ed il disarmo della politica estera, non solo del Governo, ma anche dei grandi gruppi (a partecipazione statale) quali Enel, Eni e Leonardo (quest’ultima grande produttrice ed esportatore di armi),
o   alla decisa correzione del bilancio dello Stato in materia di difesa ed armamenti, in direzione opposta a quell’allineamento “a-priori” al 2% della spesa pubblica deciso dalla NATO e perorato da Trump,
o   alla possibile collaborazione a scala europea, già abbozzata con il debole proposito di “Difesa Comune Europea” (debole come ora appaiono tutti i progetti di maggiore integrazione all’esame degli organismi comunitari), che può evolvere positivamente come semplificazione di strutture parallele tra paesi stabilmente amici (e conseguente risparmio, non maggiore spesa) e come esempio di esercito difensivo e pacificante sullo scenario mondiale, oppure negativamente, come aggiunta confederale alle esistenti armate nazionali, e con un ruolo internazionale imperialista/post-coloniale (come oggi gli USA e in più in piccolo Gran Bretagna e Francia), 
o   al superamento della NATO, che in uno scenario di “Difesa Comune Europea” sarebbe comunque da ri-discutere in termini di riequilibrio interno (non più una costellazione attorno all’impero americano, ma una possibile partnership tra due grandi soggetti equivalenti, con  altri pochi Stati minori), ed i cui compiti futuri vanno ampiamente verificati, sia rispetto al potenziale pericolo russo, sia rispetto alle turbolenze nel Mediterraneo e nel Medio Oriente,
o   alla soppressione delle basi militari americane sul nostro territorio nazionale, che sono alla diretta dipendenza degli USA e nemmeno della NATO-ad-egemonia-statunitense e che – dopo più di settant’anni dalla 2^ guerra mondiale e più di venticinque anni dallo stemperamento della “guerra fredda” – costituiscono una gravissima eccezione alla sovranità nazionale italiana (ed in prospettiva alla sovranità confederale europea).
  
La pace ed il progressivo disarmo sono a mio avviso un fine, compatibili con altre finalità di benessere dell’uomo e dell’ambiente, variamente declinabili.
Le pratiche non-violente invece sono un mezzo, esplicitamente coerente con gli obiettivi di pace.
Inoltre mi sembra che abbiano il pregio di poter essere condivise, come terreno comune di convivenza, senza essere totalizzanti, da parte di soggetti con diverse visioni del mondo, laiche o religiose, al limite anche contrapposte nei contenuti, ma convergenti sul metodo di confronto: come dimostra anche la vasta pluralità delle organizzazioni di volontariato (che sono al momento le gambe su cui simili idee possono camminare, forse con maggiore consapevolezza di insieme).
Credo che sia positivo un tratto comune a diverse organizzazioni di volontariato, e cioè quello di specializzarsi per affrontare specifici aspetti dei bisogni umanitari, e su di essi mirare a risultati concreti. Mi pare però che talvolta si manifestino aspetti concorrenziali a scapito di possibili collaborazioni e che nell’insieme, anche per questo, tali più che lodevoli attività non riescano ad incidere sul ”senso comune” della circostante umanità “benestante”.
Dal mio punto di vista vedrei bene la pace e la non-violenza nel contesto di quella lotta per una  ­­­­­­­democrazia universalista (e pertanto ecologista), costituzionale e sociale, di cui al mio articolo su Utopia 21 di novembre 2018.7















APPENDICE A – GANDHI

Gandhi, sullo sfondo di un sincretismo tra diverse religioni (Islam compreso), di cui auspicava la coesistenza e la cooperazione,8 maturò l’esperienza pratica della non-violenza e della disobbedienza civile (satyagraha)9 come strumento di lotta per i diritti degli oppr8ssi, prima tra gli indiani del Sud Africa e poi nella sua India, coniugandola con una filosofia di fratellanza universale tra i viventi (e quindi anti-coloniale, anti-caste ed anti-razzista, ma anche vegetariana) e con una testimonianza di vita frugale, fondata sul contenimento dei desideri individuali e sulla “purificazione” (fino alla castità).
Da qui i digiuni (anche come espiazione) e l’auto-sufficienza nel soddisfacimento dei bisogni elementari (cibo, vestiario) elevati ad azioni di lotta collettiva (marcia del sale e tessitura artigianale come forme di boicottaggio rispetto alle tasse, ai monopoli ed alle produzioni della potenza occupante).   
  

APPENDICE B – CAPITINI E LA NON-VIOLENZA IN ITALIA

Aldo Capitini fu in Italia il teorico che sviluppò più coerentemente il pensiero non-violento,10,11 coniugando dagli anni ’30 convinzioni antifasciste e liberal-socialiste con un suo specifico afflato religioso, di ascendenze francescane ma assai critico verso il cattolicesimo pre-conciliare e verso le permanenze integraliste ed autoritarie anche successive al Concilio Vaticano II.  Estimatore e divulgatore di Gandhi, ne seguì anche l’orientamento vegetariano.
Capitini cercò anche di farsi organizzatore sociale in Umbria, per il controllo dal basso del potere locale (“omnicrazia”), e di una rete non-violenta a livello nazionale, attorno ai primi obiettori di coscienza contro il servizio militare, ma nell’Italia degli anni ’50 e ’60, polarizzata dallo scontro tra democristiani e socialcomunisti e poi attratta dal consumismo, rimase in collocazioni di nicchia, tranne che nelle esperienze delle “Marce per la Pace”, da Perugia ad Assisi, da lui iniziate nel 1961.
Analoghe esperienze non-violente di nicchia, sia pure con qualche notorietà nazionale ed internazionale, furono quelle di don Milani, con la scuola di Barbiana ed il sostegno agli obiettori di coscienza (in radicale conflitto contro i cappellani militari), e di Danilo Dolci con gli “scioperi alla rovescia” dei contadini del Belice. 
A parte va considerato Marco Pannella, leader del piccolo Partito Radicale, che - privilegiando la spettacolarizzazione propagandistica dei suoi digiuni individuali – a mio avviso ha reso nell’insieme una pessima causa all’idea di lotta non-violenta in Italia, deformandone e usurandone il concetto, e giovando relativamente alle singole campagne, pur spesso condivisibili. E non ha infatti mai favorito la sedimentazione di adeguate organizzazioni collettive e non elitarie, pur influendo notevolmente sull’avanzamento dei diritti civili (divorzio, aborto, ecc.). 

Fonti:
1.    Maria Silvia Codecasa “SETTE SERPENTI – SULLE TRACCE DI UN CULTO IGNORATO” – Manifestolibri, Roma 1994
2.    Jared Diamond “ARMI, ACCIAIO E MALATTIE - BREVE STORIA DEGLI ULTIMI TREDICIMILA ANNI” – Einaudi, Torino 1997
3.    Aldo Vecchi  ““ARMI, ACCIAIO E MALATTIE, NELLA STORIA MONDIALE DI JARED DIAMOND” https://drive.google.com/file/d/0BzaFw8WEAEgYWjV1dkNlVVlOM0k/view?usp=sharing – recensione su UTOPIA21, maggio 2017
4.    David Graeber  “DEBITO - I PRIMI 5000 ANNI” – Il Saggiatore, Milano 2012
5.    Aldo Vecchi “DEBITO E DEMOCRAZIA SECONDO DAVID GRAEBER” https://drive.google.com/file/d/1KNHwvYRdA-OgatgudIQMBtJt5Q3shSWl/view?usp=sharing – recensione su UTOPIA21, luglio 2018
6.    Alfred Doblin “NOVEMBRE 1918. UNA RIVOLUZIONE TEDESCA: BORGHESI E SOLDATI” – Einaudi, Torino 1982
7.    Aldo Vecchi “DEMOCRAZIE, POPULISMI, UTOPIE”
8.    Mohandas Karamchand Gandhi “LE GRANDI RELIGIONI. INDUISMO, BUDDISMO, CRISTIANESIMO, ISLAMISMO” - GTE Newton, Roma 2009
9.    Mohandas Karamchand Gandhi “LA RESISTENZA NON VIOLENTA” - Newton & Compton, Roma 2000
10. Aldo Capitini “LA NONVIOLENZA, OGGI” – Edizioni di Comunità, Milano 1962
11. Aldo Capitini “LE RAGIONI DELLA NONVIOLENZA - ANTOLOGIA DEGLI SCRITTI” a cura di Mario Martini – ETS, Pisa 2004/2016