venerdì 21 gennaio 2022

UTOPIA21 - SETTEMBRE 2021: L’AUTOBIOGRAFIA DI MARIO CHINELLO

 

Alcune riflessioni ed alcune domande a partire dai due libri di memorie di un operaio e poi imprenditore, immigrato dal Veneto nel Medio Novarese, sempre comunista ed a lungo amministratore locale.

 

Sommario:

-       autobiografie

-       l’infanzia in un Veneto rurale

-       il trasloco a Divignano e poi a Borgo Ticino

-       verso la maturita’

-       intervista sull’utopia comunista

 

AUTOBIOGRAFIE

Nel poco tempo che negli ultimi anni riesco a dedicare alla lettura di testi narrativi, mi è maturata una predilezione per i racconti più o meno esplicitamente autobiografici, non tanto per la presumibile (ma variabile) autenticità dei contenuti, ma per la palese motivazione degli autori, in contrapposizione alla frequente “gratuità” dei racconti di finzione e/o di ambientazione storica (preferenza che – ho scoperto – condivido con critici professionali quali Angelo Guglielmi).

Mescolando letture più remote ed altre più recenti, ho trovato spesso una capacità particolare di comunicare gli stupori ed i miti delle esperienze infantili e adolescenziali, nei ricordi di grandi scrittori, come Marcel Proust od Elias Canetti o la contemporanea Annie Ernaux (e forse in Ippolito Nievo e in Thomas Mann), ma anche nei memoriali di tre intellettuali della sinistra comunista, come Rossana Rossanda, Pietro Ingrao e Luciana Castellina, di ulteriore interesse perché – pur più giovani dei miei genitori, e di diverso ambiente – hanno attraversato vicende comparabili a quanto appreso nel mio vissuto familiare e poi la storia della sinistra italiana che ha poi coinvolto anche la  mia generazione.

 

L’INFANZIA IN UN VENETO RURALE

Gli stupori e i miti infantili/adolescenziali li ho incontrati anche nella lettura del primo volume delle memorie di Mario Chinello “Ciò che non ho voluto” 1, pubblicato nel 2015: per commentarlo ho però atteso la pubblicazione del 2° volume “Rosso di sera” 2 (2021), non solo per considerare la panoramica di assieme, ma anche per prudenza, presumendo di comparire anch’io in qualche anfratto della sua storia successiva (mi occupavo a vario titolo dell’urbanistica comunale di Borgo Ticino dal 1970 al 1980, quando Mario era Assessore, con il Sindaco Vinicio Silva 3) e per assicurarmi quindi di non sfigurare… Al di là di questi timori, il 2° Volume mi incuriosiva in particolare perché le vicende dell’Autore si intersecano non solo in parte con la mia traiettoria personale (anch’io con parziali ascendenze venete, cresciuto – e però anche nato - nel medio novarese, però più giovane e più “cittadino”) ma con le storie, personali e collettive, nelle fabbriche e nella sinistra, tra Arona ed il Varesotto, di cui mi sono occupato in precedenti interviste pubblicate su Utopia21 4.

Non è facile riassumere chi è l’Autore (infatti per raccontarlo nei 2 volumi l’Autore stesso  ha impiegato più di 500 pagine): pescando (liberamente ed interpolando) dal risvolto di copertina “nato … in provincia di Venezia nel 1942, si è trasferito in Piemonte con la famiglia dieci anni dopo, risiedendo dapprima a Divignano e successivamente a Borgo Ticino, dove tuttora abita. La sua esperienza scolastica si interrompe con le elementari…” [ma il suo rammarico in proposito si è tradotto in un vigoroso autodidattismo]; “Fin da giovane ha praticato vari sport, soprattutto il ciclismo che condivideva con la passione politica …sempre schierato a Sinistra”. [Operaio meccanico, poi capo-squadra ed infine piccolo imprenditore nel ramo dei serramenti metallici, è stato Assessore e poi], “.. Sindaco del Comune di Borgo Ticino dal 1988 al 1997” [nonché Presidente o Promotore di altre entità associative e/o istituzionali, dalla Scuola alla Assistenza Sociale e Sanità].

Lo sfondo dell’infanzia di Mario Chinello (con qualcosa in comune con i monologhi del più giovane Marco Paolini e qualcosa con “libera a nos a Malo” del più anziano Luigi Meneghello – sempre autobiografie –) è Campagna Lupia, un paese tra Mestre e Chioggia, dietro la Laguna di Venezia (e sotto le sue acque se non funzionano le idrovore), caratterizzato da una secolare povertà contadina, aggravata dalla recente guerra (rammenta Mario che varie componenti degli Alleati, arrivati nel 45 come liberatori ad accamparsi nel grande cortile della famiglia paterna, già utilizzata dagli invasori tedeschi, si comportava – nelle vessazioni quotidiane – peggio dei tedeschi stessi), ma alleggerita, in qualche misura dalla fede social-comunista in un futuro migliore.

Di questa fede, assai diffusa allora nella provincia di Venezia, sono paradigma alcuni aneddoti relativi alla decisiva tornata elettorale del 1948: la partecipazione del piccolo Mario – dapprima in gruppo sul cassone di un camion e poi da solo in cima ad un pilastro della Villa di Stra, fotografato su un giornale, mentre sventola la bandiera rossa – ad un comizio di Palmiro Togliatti – di cui Chinello rammenta soprattutto lo sdegno per la strage di Portella della Ginestra del 1947 - ed i seguenti, che riporto quasi per esteso in nota [1], perché non riassumibili:

Al di là di questi ed altri singoli vivaci episodi, la rievocazione della vita nel paese in quegli anni del dopoguerra – attraverso i vari rami delle famiglie materne e paterne, più o meno poveri o talora quasi-ricchi, ed i personaggi più caratteristici del vicinato – è intessuta di osservazioni sulla fatica e sulla tecnica dei vari lavori, sulla semplicità della vita e dei divertimenti, sulle rivalità ma anche sulla spontanea solidarietà (del popolo di allora), sul bilinguismo italo-veneto: mentre il piccolo Mario cresce in letture e curiosità, botte dai compagni più robusti (in attesa di potersi rifare), ed ammirazione/imitazione verso i due fratelli (e due sorelle) maggiori di lui.

 

IL TRASLOCO A DIVIGNANO E POI A BORGO TICINO

L’incanto polifonico di questo mondo[2], piccolo ma variegato, è bruscamente interrotto dalla decisione dei genitori di Mario di emigrare in Piemonte, non per un bisogno materiale di reddito, ma per un desiderio di emancipazione dall’assetto patriarcale della famiglia, imperniata sul nonno (Carlo), relativamente benestante nel contesto contadino, perché titolare del principale negozio di frutta e verdura (e pochi dolci) del paese.

Il racconto prosegue con le difficoltà di adattamento e integrazione della famiglia Chinello (prima come agricoltori, poi con un piccolo commercio per il padre, e il lavoro salariato per i figli maggiori) in un paese un po’ marginale del novarese, Divignano, caratterizzato (come anche - vedremo poi - Borgo Ticino) da decenni di emigrazione oltre Atlantico e Oltralpe e da inizi di immigrazione dal Veneto e successivamente dalla Calabria per le speranze di lavoro sia nelle cascine abbandonate sia nell’edilizia e nella crescente industrializzazione, ma non in loco (se non per il settore tessile-confezioni, con manodopera femminile) ma con pendolarità verso i centri urbani maggiori, spesso al di là del Ticino.

Di queste trasformazioni sociali il ragazzo Mario Chinello è testimone attento, sia riguardo  agli adulti  (le sue prime attività, scorrazzando in bicicletta, consistono nel far commissioni conto terzi nei paesi vicini, ad esempio per andare in farmacia) sia riguardo alle sue esperienze dirette, negli ultimi anni di scuola elementare (tra le solite botte “di benvenuto” e le gare dei ripetenti a cercare di “toccare” le parti intime delle compagne) e poi nei primi anni del lavoro dipendente, come operaio ad Arona ed a Somma Lombardo.

Mi ha colpito in particolare, in questo scenario degli anni ’50, non solo la durezza della fatica nel lavoro ma anche il livello di violenza implicita, oppure esplicita, che regolava le gerarchie sociali e professionali, non solo tra padroni ed operai, ma all’interno dello stesso mondo operaio.

Nonché la fatica (e talvolta il pericolo) per gli spostamenti pendolari, a piedi e in bici (con qualunque clima) e sui mezzi di trasporto collettivi, tra cui ad esempio il pericoloso traghetto che attraversava il Ticino tra Porto Varallo Pombia e Coarezza (frazione di Somma Lombardo), dove molte operaie residenti in Piemonte lavoravano in un cotonificio.

 

L’ADOLESCENZA, TRA IL LAVORO E TANTI ALTRI INTERESSI

Tra Arona/Dormelletto e Somma Lombardo prende avvio, in diverse piccole aziende metalmeccaniche (le offerte di lavoro allora non mancavano), la carriera professionale di Mario, con una burrascosa breve parentesi alla IGNIS di Cassinetta, dove il nostro entra in rapido conflitto con il sistema gerarchico aziendale, non per insubordinazione sindacale, ma per l’impermeabilità di capi, capetti e colleghi ad ogni ipotesi di correzione dei metodi di lavoro, anche quando in favore di una maggior produttività.

Cresce nel frattempo anche la politicizzazione di Mario Chinello nelle file del Partito Comunista, allora in zona forte soprattutto a Castelletto Ticino, anche in relazione alla storia delle grandi fabbriche della vicina Lombardia (la SIAI Marchetti di Sesto Calende e Vergiate, ed ancora a Sesto la Vetreria AVIR e la Ferriera di S.Anna): ricompare nelle sue memorie la rievocazione della strage di Portella della Ginestra, in un comizio a Novara di Girolamo Li Causi (i due volumi sono interpuntati da brevi riferimenti alla storia nazionale – e anche internazionale – della lotta politica e di classe, con particolare attenzione e sdegno verso lo stragismo fascista ed il connesso “golpismo”, ma anche con chiara condanna del successivo terrorismo di sinistra; più moderati, mi pare i giudizi sul “regime democristiano”, tranne che per gli esempi locali più lampanti di malgoverno).

Gran parte della narrazione è però rivolta a tutti gli altri interessi di Mario, dalle libere letture alle amicizie, dallo sport (non solo ciclismo, dove si impegna attivamente come corridore dilettante) al ballo: nelle balere il giovane Chinello si esibisce con qualche successo anche come cantante, il che talvolta confligge con la disciplina che vorrebbe imporgli la squadra ciclistica.

Alla bicicletta è legata una impresa raccontata con accenti epici e lirici, che in qualche modo chiude l’adolescenza: il ritorno in gita ciclistica a Campagna Lupia, attraversando nella notte estiva l’operosa pianura padana che dorme, tranne le diverse persone che incontra (e con cui parla) nei paesi, a Milano, lungo le strade. 

Un altro episodio che mi è rimasto impresso è una gran rissa nella finale di un torneo di calcetto, a Pombia, con l’attiva partecipazione del locale parroco “Don Pacifico”, il quale però l’indomani si reca in penitenza al “Bar Sport” di Borgo Ticino, sede della squadra ospitata e vincitrice, offrendo biscottini e apertivi in segno di riconciliazione.

Punti di svolta nella maturazione del protagonista, ben raccontati, sono l’iniziazione al sesso (mercenario) nell’ambito della “festa dei coscritti” (però Mario sarà esentato dal servizio militare, in quanto “terzo fratello”) e l’iniziazione sentimentale, con il difficile (ma premiato) corteggiamento verso Mara, che allora lavorava nella fabbrica di fronte alle Officine Meccaniche di Dormelletto: galeotto fu il famoso cavallo Ribot, che Mario condusse Mara (ed una amica) a curiosare nella vicina tenuta Dormello-Olgiata, durante la pausa mensa: l’amica capì il risvolto romantico, e Mara divenne la compagna di tutta la vita di Mario (ma non prima di un diverbio chiarificatore con il fratello maggiore di Mara).

 

VERSO LA MATURITA’

Trascurando in questa recensione di riferire sulle numerose digressioni dei 2 volumi sulle vicende di parenti, vicini di casa ed amici (che però nell’insieme compongono una interessante rappresentazione sociologica della vita dei paesi in questione; e anche della morte, perché più si girano le pagine e più frequente è trovare necrologi, con larga presenza di tumori) e sulle discussioni con i compagni del PCI, con gli avversari politici e talora con alcuni preti interessati al dialogo, la maturazione di Mario Chinello (forse incompleta, perché sotto molti aspetti manifesta tuttora vivacità adolescenziali, soprattutto in sella alla bicicletta) si sviluppa su tre fronti:

-       la famiglia, con il sobrio matrimonio (in parallelo con il cognato, ma non quello del diverbio), un viaggio di nozze a Firenze – apprezzandone la enorme bellezza –, la nascita e crescita di due figli studiosi, ad un certo punto una bella casa in proprietà,  i buoni rapporti con gli anziani e i fratelli e cognati (commuovente la descrizione della vita della famiglia di Mara prima dell’emigrazione dal Polesine);

-       il lavoro, in cui Mario approda dapprima al ruolo di capo-officina nella preparazione e installazione di serramenti metallici, in una azienda di Arona, e poi – in società con il più giovane Bruno Braghini, che lo ha seguito sotto gli ultimi 2 padroni e ha anche studiato da disegnatore – alla formazione di una piccola impresa specializzata sempre in serramenti metallici, la OCSA, con sede a Borgo Ticino, dapprima in affitto e poi costruendo  la propria officina (con clientela locale, ma anche estesa alla Lombardia occidentale);

-       la politica, con la assidua militanza nel Partito Comunista, di cui Mario è a lungo il segretario di Sezione a Borgo Ticino ed attivo nella federazione di Novara,  e con l’intensa attività amministrativa, come Consigliere, Assessore e Sindaco nel suo comune e poi con altre cariche e funzioni in organismi sovracomunali ed in associazioni del volontariato (nonché come Presidente del Consiglio di Istituto del Liceo Fermi di Arona): attività finalizzata soprattutto a rispondere ai bisogni e alle aspettative della popolazione ed a sopperire alle carenze delle istituzioni pubbliche.

Nei ricordi di questi decenni di faticose trasformazioni, personali e collettive, e di vita quotidiana ‘in seno al popolo’ non mancano sapidi aneddoti, come già nel primo volume, ma la mia impressione complessiva – in funzione della materia trattata, oggettivamente più ‘prosaica’ e dalla diversa età del protagonista-narratore – è che nel secondo volume la prosa prevalga sulla poesia.

Lasciando alla lettura diretta del testo l’apprezzamento per i singoli episodi (riguardo alle esperienze professionali, ad esempio, la posa di serramenti – con in tasca “L’Unità” – per l’Arsenale Militare del Canton Ticino, oppure per un collegio di monache Canossiane, o ancora alcuni metodi spicci che il Chinello-imprenditore applica per il ‘recupero crediti’, smontando rapidamente i manufatti non pagati), si coglie nell’insieme una passione corale per il lavoro come strumento di emancipazione, individuale e collettiva, che non riguarda solo il salario e il guadagno, ma anche e soprattutto il ‘ruolo’, nell’ambito di una socialità multiforme, che nei paesi sembra perdurare a lungo, pur affievolendosi, nei decenni dal dopoguerra in qua.

In queste trasformazioni, nella nostra zona, sono molti gli operai (come Mario, ed altri personaggi dei due libri) che – benché penalizzati da una scarsa scolarizzazione – si fanno “classe dirigente”, sia perché divengono imprenditori, sia perché divengono quadri politici o sindacali o – soprattutto – validi amministratori locali (Mario quasi tutte queste diverse cose…).

Il tirocinio di Mario Chinello come consigliere e assessore comunale iniziò affrontando – nel 1970 – situazioni di arretratezza oggi poco immaginabili “… il bilancio era scritto a matita … il resoconto dell’anno precedente non esisteva … addirittura mancavano alcune delibere, … solo annotate e mai approvate dal Consiglio Comunale” ed ai debiti fuori bilancio della precedente amministrazione si associava la carenza dei servizi, dai più elementari, come l’acqua potabile e la raccolta rifiuti, al riscaldamento delle scuole primarie (le tre aule delle medie erano ricavate tramezzandone la palestrina).

Lo slancio verso la giustizia sociale e la solidarietà (ad esempio riuscendo a far pagare anche ai benestanti l’Imposta di Famiglia) si intrecciava quindi strettamente con la modernizzazione e la ricerca di efficienza delle pubblica amministrazione, condizioni necessarie anche per il progresso delle classi subalterne.

Ed anche con l’attenzione ad una legalità sostanziale, che talvolta confligge con la legalità formale, come quando – ormai negli Anni ’90 – da Sindaco  affrontò di petto alcuni gravi e ricorrenti fenomeni di vandalismo ad opera di gruppi di giovani tra i 16 anni (incendio di cassonetti dell’immondizia) e gli oltre 20 anni (fino al ribaltamento e rottura della “croce di pietra” posta in capo al centro storico) – segno di un degrado sociale, perché, osserva l’Autore, qualche monelleria la facevamo anche noi, ma quando avevamo dieci anni al massimo –  : se in un primo caso Mario sequestrò un ragazzino, ma non riuscì a consegnarlo ai Carabinieri, perché dopo le ore 20 la Caserma non apriva i battenti (ed i 2 vigili urbani, come sempre, “non erano di turno”), nel secondo caso ne stese uno a cazzotti, ma venne denunciato dalla vittima stessa (e banda connessa), finendo però con una condanna lievissima dal saggio Pretore di Borgomanero.

 

INTERVISTA SULL’UTOPIA COMUNISTA

Le valutazioni di politica generale espresse nei 2 volumi culminano a mio avviso in un giudizio equanime (a posteriori) sullo scontro PCI-DC :  “Alla luce dei fatti, devo dire che c’erano ragioni da ambo le parti. La Democrazia Cristiana e i suoi alleati avevano capito che quel sistema politico [il socialismo reale] creava delle gerarchie intoccabili e che non sarebbero mai state democratiche, noi comunisti, che la nostra classe politica [democristiana] avrebbe sempre favorito lo sfruttamento dei lavoratori, mantenendoli lontani dal potere….” “Devo riconoscere che anche dall’altra parte del muro le cose non sono andate poi così bene…”

Poiché la strenua militanza di Mario Chinello, intessuta però con la sua carriera lavorativa in prevalenza in piccole imprese (da ultimo come imprenditore), non risulta caratterizzata in prevalenza dall’aspetto sindacale diretto, di lotta per le condizioni contrattuali aziendali, ma mi sembra piuttosto caratterizzata da manifestazioni e volantinaggi ai cancelli di altre fabbriche, e da iniziative di partito (dalla diffusione dell’Unità alle Feste dell’Unità), nonché poi dalla ricchissima esperienza amministrativa, per migliorare i servizi, il benessere e la convivenza civile, dopo la lettura delle sue memoria (che non riporta molto dei contenuti delle lunghe discussioni e chiacchierate, tra amici e compagni o con avversari politici) mi sono rimaste alcune curiosità, soprattutto sul versante utopia/realismo, che ho tradotto nelle domande della seguente intervista.

 

DOMANDA 1: Ricordando la retorica rivoluzionaria del PCI (rammento che a noi estremisti veniva detto che il PCI avrebbe fatto la vera rivoluzione, sia pure con metodi democratici), cosa pensavate veramente Voi militanti, sia del “socialismo reale”, sia della società socialista che immaginavate in Italia? (Cioè, parafrasando i Tuoi titoli “ciò che avresti voluto”, quando “il rosso” era ancora “di giorno”?)

 

RISPOSTA 1:  A me è sempre stato chiaro un fatto: il PCI non sarebbe mai stato un partito rivoluzionario, nel senso vero del termine. Una rivoluzione armata in Italia non l'ho mai concepita, né percepita nelle mie frequentazioni giovanili dentro gli organismi federali del partito; si pensava ad una vera rivoluzione di stampo culturale, di rifondare il sistema dando piena attuazione alla Costituzione nata dalla Resistenza. Il dibattito nel partito era assai vivace e contrastato: diversi compagni tra i più anziani, avrebbero sposato volentieri le tesi rivoluzionarie di Pajetta, Cossutta, e dello stesso Moscatelli, ma i discorsi si arenarono sul metodo e su come coinvolgere la classe operaia, che al di là di poche frange estremiste, non vedeva questa via praticabile ed utile per migliorare la loro condizione.

L'invasione della Cecoslovacchia del 1968 fu lo spartiacque definitivo, il Partito assunse una posizione netta e da quel momento in poi si avvertirono molti dissensi verso l’URSS. Otto anni dopo, Enrico Berlinguer espresse il pensiero politico del PCI, che ruppe con l’egemonia politica del PCUS e lanciò il cosiddetto “comunismo dal volto umano”.

Non fui mai un revisionista, passavo per uno dei duri nel partito, non so se con molta ragione. Il mio impegno era quello di lottare per l'emancipazione delle masse, renderle consapevoli dei loro diritti e doveri, organizzare il partito perché in ogni luogo si potesse far giungere la sua voce. Questo era un obiettivo praticabile e alla portata di tutti, se tutti avessero fatto la loro parte. A partire dagli anni Sessanta, ciò fu possibile perché con la forte immigrazione dal Veneto e poi dal nostro Meridione, soprattutto dalla Calabria, il lavoro di convincimento ideologico non mancava, e si coglievano risultati assai convincenti anche sotto l'aspetto elettorale.

Non essendo mai stato sindacalizzato da adulto, non ho vissuto il dibattito interno al movimento operaio, ho potuto giovarmi di grandi compagni che operavano nella CGIL, da loro ricevevo le notizie, le voci di conquiste e purtroppo anche di sconfitte dentro il mondo operaio.

Eravamo un partito internazionalista, questo sì! Le battaglie per sostenere la causa dei Paesi in via di sviluppo erano massicce e convinte, raccoglievamo fondi da destinare un po' ovunque: Cuba e il Sudamerica, l'Africa, il Vietnam, il Sudafrica, il Cile, la Grecia dei colonnelli, e avevamo qualche idea molto simile allo jugoslavo Tito, leader dei Paesi non allineati.

La prematura scomparsa di Berlinguer lasciò una traccia indelebile nel corpo dei militanti del partito, e fu dopo di allora che non fummo più in grado di essere egemoni nel mondo del movimento operaio ed intellettuale. Mi sarei accontentato di vedere crescere una coscienza di classe convinta, democratica e capace di creare consensi e quadri importanti per gestire la cosa pubblica, a partire dalla sanità, la scuola, lo sport e la tutela ambientale, che non sono mai stati un fiore all'occhiello del nostro Paese. Insomma, ero convinto si potesse attuare il famoso: “Socialismo dal volto umano”.

 

 

DOMANDA 2: In qual modo queste visioni dell’Est e del futuro cambiavano con le grandi svolte di quel periodo, dalla rivolta di Ungheria (e dintorni) nel 1956, al grande crocevia del ’68 (Vietnam, Cecoslovacchia, movimenti giovanili), fino al “compromesso storico” ed alla tragedia di Aldo Moro nel 1978?

 

RISPOSTA 2:  Quando a sedici anni iniziai la mia vita politica partecipando a riunioni settimanali nelle sezioni, una volta al mese in Federazione a Novara, il sentimento che girava tra i compagni adulti, era assai più vicino alle posizioni di chi vedeva ancora all'orizzonte il “sol dell’avvenir”. Nemmeno i recenti fatti dell’invasione dell’Ungheria, attuata dai paesi del Patto di Varsavia, avevano scosso il loro credo, volto a realizzare il comunismo in Italia.

Come già anticipato nella prima risposta, il convincimento che si potesse concretizzare la svolta comunista, via via si affievolì in seguito agli eventi storici succedutisi dal 1950 al 1970. Un ventennio che vide esaurirsi molte certezze e che, con la permanente presenza americana nella vita politica ed economica del nostro paese, si era capito che la possibilità di creare le condizioni per una via socialista in Italia (la terza via), erano precluse.

Si cercò di contrastare l'imperialismo americano con tutti i mezzi leciti possibili, le manifestazioni indette dal PCI, seguite timidamente da frange del PSI, ancora non preda del Craxismo, furono moltissime ed assai partecipate, ma i frutti furono pochi e senza influenzare oltre misura le masse popolari italiane. In quegli anni, molti giovani aderirono al PCI, ma molti altri, soprattutto studenti e intellettuali, artisti e gente di spettacolo, aderirono o simpatizzarono per i movimenti studenteschi e gli antagonisti di sinistra, vera spina nel fianco del più grande partito comunista dell'intero Occidente.

Io che ero tra i più giovani attivisti, pur cercando di capire le ragioni dei vari movimenti giovanili, tra cui spiccava Lotta Continua, ho sempre pensato che avrebbero creato più danni al movimento dei lavoratori che benefici e conquiste, purtroppo i fatti mi hanno dato ragione, perché non riuscendo a sfondare dentro le masse operaie e nella società, molti di quei bravi giovani, armati di un idealismo esasperato, finirono per buttarsi nella lotta armata. Gli esiti li conosciamo tutti. 

Dopo i tragici fatti del Cile, con l’assassinio di Allende, Berlinguer indicò la via del Compromesso Storico, una via che trovò molti ostacoli all’interno del partito, dopo oltre trent’anni di contrapposizione con la DC, si sarebbe dovuto cercare la collaborazione e partecipare a scelte che ci avevano sempre visti contrari, e che avevano il timbro della DC. Fu Aldo Moro, con il suo atteggiamento prudente da statista navigato, che riuscì a stemperare gli animi contrari e creare le condizioni per un ruolo nuovo del PCI. Lo capirono benissimo i manovratori occulti della politica italiana, con il ruolo primario dei servizi segreti deviati, dell’organizzazione di Gladio, manovrati da Gelli e dalla P2, i quali si inserirono ad arte tra le neocostituite brigate rosse, questi, lavorando su più livelli e in combutta con i movimenti estremisti di destra, fecero assassinare Aldo Moro, interrompendo così l’appena avviato Compromesso Storico. A ragion veduta, fu un duro colpo per la sinistra, tutta! Anche chi pensava di trovarsi schierato a sinistra del PCI, subì un grave contraccolpo e molti di quei giovani estremisti, in poco tempo, finirono per imbarcarsi con la destra di governo, soprattutto, con il rampante e nuovo Berlusconi.

Dopo il cosiddetto CAF: Craxi Andreotti Forlani, nulla fu più come prima, le perdite di consensi nel Paese furono una conseguenza del mancato arrivo del Partito al governo, le masse sfiduciate, secondo me sbagliando, scelsero di votare per i partiti di governo, indebolendo il PCI e vanificando molte conquiste che si erano strappate alle destre negli anni 70. Esse furono: lo Statuto dei lavoratori, 20 maggio 1970; la legge per il divorzio, 18 dicembre 1970; la legge 1044 per gli asili nido, 6 dicembre 1971; il nuovo diritto di famiglia, 19 maggio 1975; la legge sull’aborto, 22 maggio 1978; la legge di riforma sanitaria, 23 dicembre 1978. Solo per citare le più importanti e quelle che hanno avuto il pieno e combattivo supporto del PCI. Venendo meno il PCI, causa le note vicende internazionali ed anche nostrane, finì assai presto il baluardo contro le destre e il clero imperante in Italia, e adesso ci asciughiamo le lacrime.

 

 

DOMANDA 3: Le speranze dei Vostri orizzonti erano perciò più ampie degli obiettivi per cui Vi siete concretamente battuti e che in parte sono stati raggiunti (e poi anche rimangiati), come i diritti sindacali, dei salari decenti, l’istruzione, la salute e la casa per tutti (obiettivi validissimi e purtroppo abbastanza utopici, non solo dopo la guerra, ma forse ancor oggi)?

 

RISPOSTA 3: Le speranze dei nostri orizzonti…pur essendo sempre all'opposizione, non furono del tutto disattese, senza la nostra forza organizzata e senza le mille battaglie intraprese, anche le citate conquiste non sarebbero maturate, quindi, non è stato tutto fallimentare, anzi. Certo, ci sono molte cose che si sarebbero potute fare, però ci voleva la forza dei numeri ed anche delle idee.

Fin dagli anni Ottanta avvertii un disamoramento nei confronti della politica, che se per gli altri era normale (lì contavano i soldi ed il potere fine a stesso) per noi fu letale. L'avvento del berlusconismo ha sconvolto la politica italiana, anche quella della destra democratica, creando condizioni di assoluto disinteresse per la cosa pubblica, e un indottrinamento mediatico che ancora sta imperando.

La trasformazione produttiva e la delocalizzazione all'estero di grandi fabbriche, hanno contribuito alla polverizzazione del mondo produttivo, e le nuove forze progressiste, post PCI, si stanno dimostrando incapaci a gestire i cambiamenti. La mia storia sta per giungere al termine, quella politica lo è già da qualche anno; non ho molti rimpianti, credo di avere fatto la mia parte ed anche quella di molti altri, che invece hanno scelto di stare ai margini della vita politica e istituzionale, o che addirittura sono saliti sul carro dei vincitori (almeno per adesso), rinnegando il loro passato ed i sacrifici di milioni di militanti veri. Se vogliamo, questo è  - dal punto di vista politico - il mio grande dispiacere.

 

 

 

Fonti:

1.    Mario Chinello – CIO’ CHE NON HO VOLUTO – Eos editrice, Romentino 2015

2.    Mario Chinello – ROSSO DI SERA – Pubblicato dall’autore, 2021

3.    https://www.noipartigiani.it/silva-vinicio/

Aldo Vecchi - INTERVISTE SUL  MOVIMENTO OPERAIO (IN AREA INSUBRICA) - Quaderno n° 30 di Utopia21, settembre 2021


[1] “La nonna [Pasqua] e la nuora Maria si misero alla testa di un nutrito numero di donne; salirono su un carro di quelli piatti, trainato da due buoi, fissarono quattro bandiere rosse del PCI agli angoli … e cantando a squarciagola “Bandiera Rossa” e “L’Inno dei Lavoratori” si avviarono verso il seggio… Già che c’erano, senza alcuna autorizzazione e al di fuori di ogni regola sui comizi…, percorsero avanti e indietro tutta la via principale, sotto lo sguardo attonito dei democristiani e dei destrorsi, con il gaudio di tutta la sinistra e di noi ragazzini, che cantavamo insieme a loro. Arrivate al seggio, scesero dal carro con le bandiere svolazzanti in mano e, senza trovare alcuna resistenza, entrarono per votare. Si fecero consegnare la scheda e, a turno, ognuna votò di fronte a tutti. Dopo averla fatta svolazzare sotto gli occhi dei presenti, la piegarono diligentemente e la infilarono nell’urna”

“Nelle stesse ore in cui nonna Pasqua faceva la rivoluzionaria ai seggi elettorali, la nonna Pina era invece chiusa in camera con la porta serrata a chiave e le finestre con i “belconi” inchiodati dall’esterno. Il nonno l’aveva chiusa … e ci rimase fino alla fine delle votazioni! …[invocando invano il marito] … “Carlo àsseme andare a votar, che votarò par ti” e lui di rimando “Tàsi che te sì imbriaga de incenso e te voti per chei sachi de carbon”, … per lui i sacchi di carbone erano i preti sempre rigorosamente vestiti con gli abiti talare lungo e nero”.

 

[2] Un compagno della Facoltà di Architettura di Milano, originario del basso Piave e poco più giovane di Mario Chinello ci raccontava la sua infanzia e adolescenza in un ambiente simile alla “cucina del castello di Fratta” (vedi Ippolito Nievo): e che la modernità iniziava solo dal Cavalcavia di Mestre

UTOPIA21 - SETTEMBRE 2021: FACOLTA’ DI ARCHITETTURA, MILANO, 1968-1971: LE 2 UTOPIE CHE ABBIAMO ATTRAVERSATO

 

FACOLTA’ DI ARCHITETTURA, MILANO, 1968-1971: LE 2 UTOPIE CHE ABBIAMO ATTRAVERSATO

di Anna Maria Vailati e Aldo Vecchi

 

Una rievocazione, anche autocritica, su quella peculiare esperienza (dalla Sperimentazione del ’68 alla “estraneità cosciente” del 1971), ma orientata a coglierne elementi utopici nuovamente meritevoli di riflessione, in materia di scuola e di scienza

 

Sommario:

-       premessa

-       attualità di quelle istanze

-       1963-67

-       il ’68: l’utopia realizzata?

-       il 67-68, in visione soggettiva

-       i limiti della sperimentazione

-       la questione delle materie scientifiche

-       miti rivoluzionari ed effettive trasformazioni

-       1971: un nuovo ciclo di lotte e la polarizzazione politica tra gli studenti

-       via Tibaldi

-       epilogo

-       successive trasformazioni della Facoltà

-       APPENDICE I –

MEMORIE E VALUTAZIONI DEI NOSTRI “FRATELLI MAGGIORI” SULLA FASE 63-68

-       APPENDICE II –

PICCOLA ANTOLOGIA DI CRITICHE ALLA SPERIMENTAZIONE, DA SUBITO IN POI

-       APPENDICE III –

ALTRE TESTIMONIANZE: CLAUDIA CAPURSO SULL’ANNO 66-67

 

 

PREMESSA

 

Già avevamo rievocato su queste pagine “il nostro ‘68” 1, ma le recenti discussioni, in relazione alla Pandemia, sia sulla didattica sia sulla scienza, ci spingono ad approfondire le nostre riflessioni – anche “utopiche” – sulla particolare esperienza (originale rispetto ad altre parallele e successive) della facoltà di Architettura del Politecnico di Milano, dal 1963 in poi, che tra il ‘67 ed il ‘73 abbiamo anche vissuto direttamente come studenti.    

L’intera cronistoria degli avvenimenti relativi alla facoltà dal 1963 al 1974 è ben riepilogata, con una ricca documentazione ed alcuni approfondimenti, nel testo “La rivoluzione culturale: la facoltà di architettura del Politecnico di Milano 1963 – 1974” 2,  che raccoglie i risultati di un seminario e di una mostra svoltisi presso la Facoltà di Architettura Civile (Milano Bovisa)  nel 2009: l’intero materiale è disponibile su Internet, per cui ad esso rimandiamo per quanto da noi non qui riassunto, così come rimandiamo al volume “Sperimentazione dell’Architettura Politecnica” 3 a cura di Pugliese-Serrazanetti-Bergo, del 2013, con esauriente documentazione, che si spinge fino all’anno 2000.

La storia delle lotte nella facoltà nel lungo periodo ‘preparatorio’ 1963-1967 ed i prodromi della "sperimentazione” avviata nel 1968 sono meglio spiegati inoltre, sia in un testo di Giancarlo Consonni4 del 2013, sia nel catalogo5 di un’altra mostra, tenuta presso il Campus Leonardo nel 2011, da cui riteniamo opportuno riprodurre nell’Appendice I alcuni passi, a firma di Marina Molon, Stefano Levi della Torre e di Raffaele Pugliese; mentre richiamiamo, anche per una lettura integrale, il testo di Marcello De Carli, “1967-1968 La strana sperimentazione della facoltà di architettura del Politecnico di Milano” 6 disponibile in Internet, che in buona misura condividiamo.

Nell’Appendice II invece raccogliamo alcune valutazioni critiche, di allora e di poi, sulla realizzazione della Sperimentazione, dal ’68 in poi.

E nell’Appendice III una testimonianza personale di Claudia Capurso, in particolare sull’anno accademico 1966-67, (cui potrebbero seguire eventuali contributi di altri protagonisti).

 

 

ATTUALITA’ DI QUELLE ISTANZE

 

Silvano Bassetti, uno dei leader tra gli studenti della Facoltà fino al 68 (e dirigente nazionale di Intesa e UNURI), e subito dopo militante di Lotta Continua, al termine di una vita professionale in un ambito più serenamente riformista (e prima di lasciarci nel 2008) ha scritto (e ci sentiamo di condividere): «Di quella stagione della mia giovinezza porto i segni indelebili di una formazione umana, culturale e politica che considero tra le cose più preziose e care della mia vita. Non me ne nascondo gli errori e le contraddizioni tipici di una transizione epocale, ma non ne rinnegherò mai gli ideali di libertà, di giustizia e di solidarietà che ne hanno costituito la molla essenziale.»7

 

Paolo Portoghesi ha recentemente così rievocato8 , cogliendone il nocciolo, le vicende della facoltà tra  68 e 71:  “… il bisogno di raccontarlo nasce dal fatto che mantiene una imprevedibile attualità sia per quanto riguarda l’insegnamento dell’architettura, tornato, nonostante la creazione dei dipartimenti, all’isolamento dei corsi e agli esami nozionistici, sia per il significato di una esperienza – troncata allo stato nascente – che si poneva il problema di adeguare la disciplina alle esigenze della società e dell’ambiente, perché l’architettura tornasse ad essere strumento valido per migliorare la vita degli uomini”.

 

Riprendendo tale esperienza complessa cinque decenni dopo, ci è sembrato interessante,  pur evidenziandone i limiti e gli errori, focalizzare l’attenzione in particolare su due fasi che assunsero i caratteri dell’utopia, e cioè la “sperimentazione didattica” del (o dal) 1968 e la critica radicaleggiante della “estraneità cosciente” attorno al 1971:

-       sia per il nostro attuale interesse ai temi dell’utopia, che denomina questa rivista (utopia di cui è anche importante cogliere i contro-esiti, quando si tratti di concrete, parziali, sporche “utopie realizzate”: come ci capita di applicare anche, ad esempio, alla costruzione dell’Unione Europea, oppure alla difficoltosa attuazione della Costituzione Italiana),

-       sia perché ci sembra che di questi tempi si aprano nuovi spunti di dibattito sulla trasmissione del sapere nelle scuole, messa in crisi dalla necessità della Didattica-A-Distanza (che comprime la scuola come collettività operante), e fuori dalle scuole, sulla comunicazione e diffusione della scienza, ora messe a dura prova dal complottismo populista (ad esempio no-vax).

 

Per parte nostra infatti, pur nella consapevolezza che

-       quel progetto di autogestione era forse più valido per una scuola di élite che non per la nascente università di massa, nelle condizioni strutturali date, e che il volontarismo che la sorreggeva non riuscì a imporsi sulla complessa realtà,

-       quella pratica di critica radicale andò a perdersi nelle secche dell’estremismo settario,

ci sembra di dover segnalare che gli assi fondamentali di quelle utopie – sfrondati dalle contingenze storiche – e cioè la didattica induttiva attraverso la ricerca di gruppo e interdisciplinare e l’approccio critico anti-gerarchico possono tornare validi a fronte dei problemi odierni della scuola e dell’università (anche se oggi poco si parla di ugualitarismo e la ricerca è vista soprattutto come applicazione da valorizzare nelle “startup”).

Problemi accentuati dalla Pandemia e dai conseguenti rimedi quali la Didattica-A-Distanza:

-       inadeguatezza delle scuole medie e superiori ad assicurare l’effettivo diritto allo studio per l’insieme complessivo dei potenziali studenti (abbandono scolastico, e gravissimo fenomeno delle frange che né studiano né lavorano),

-       incapacità del sistema universitario nel formare laureati al livello della media europea (pur con alcune punte di eccellenza),

-       frammentazione dei profili formativi (in particolare ci sembra assurdo che architettura e pianificazione non abbiano in comune il primo triennio) e parcellizzazione degli insegnamenti (soprattutto con il meccanismo dei ‘crediti’).

 

La Didattica A Distanza, che può svilupparsi come importante ausilio tecnico e comunicativo, rischia di sostituirsi alla essenza storica dell’Università, che è la comunanza e la “disputatio”, rafforzandone invece l’aspetto deteriore di “esamificio a partecipazione individuale”, ed offrendo a fuori-sede e studenti-lavoratori solo un buon collegamento telematico anziché le necessarie borse di studio ed alloggi universitari.

Vedendo questi rischi di una chiusura efficientista (anche nel Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza) ci permettiamo di rilanciare, come utopia praticabile, a cinquant’anni dal 68-71 (e proprio riflettendo auto-criticamente sui limiti dei quelle esperienze utopiche), una rivalutazione del ‘pensiero critico’, attento alla realtà sociale (anche attraverso l’alternanza di studio e lavoro, non solo nell’empireo delle teorie) e mirante alla formazione di persone e cittadini, non solo di tecnici e specialisti nelle singole discipline.

 

Ne abbiamo avuto parziali conferme sia dalle riflessioni dell’ex Ministro dell’Istruzione Fioramonti 9, sia dalle vivaci contestazioni di un gruppo di laureande della Normale di Pisa 10 https://www.youtube.com/watch?v=QFLMT_55FaQ

Più scontata forse la sintonia con quanto sulla scuola (e in particolare sulla D.A.D: tema su cui pertanto non ci dilunghiamo) ha scritto di recente per Utopia21 Claudia Capurso 11, che visse come noi buona parte di quel periodo 68-71 (vedi anche Appendice III).

L’argomento D.A.D. è approfondito in tutti i suoi aspetti contradditori anche da Antonio Balistreri, nella “Rubrica Filosofica” su questo stesso numero di Utopia21, nonché più ampiamente nel testo “Solitudine digitale” 12.

 

D’altro canto ci pare di assistere, nel vario delirio delle teorizzazioni No-Vax (e ancor peggio No-Green-Pass), una caricatura del “pensiero critico”, inteso come la tendenza alla continua ridiscussione e verifica dei presupposti sociali e politici di ogni affermazione “scientifica” e di ogni dogma “disciplinare”, nella convinzione che la effettiva scientificità del sapere non risieda in una sua supposta “neutralità”, bensì nella trasparenza sulle sue fonti teoriche, sulle filiere delle elaborazioni intermedie e finali, sui mezzi materiali cui si appoggia, sui metodi di organizzazione sociale in cui si fonda: cioè che il pensiero possa anche essere forte, ma solo se consapevole della sua intrinseca debolezza.  

 

Nel difficile confronto con tali derive complottiste, esercitando anche qui quanto possibile della razionalità e della radicalità intellettuale, a nostro avviso è però importante non buttare il bambino con l’acqua sporca, e pertanto difendere il diritto a diffidare dalle verità preconfezionate dal potere; perché se è aberrante vedere complotti ovunque, è pur vero che taluni complotti esistono, e vanno demistificati con paziente lavoro di ricerca e controinformazione (da ‘big pharma’ a ‘big data’ e “Cambridge Analytica”, dalla ‘strategia della tensione’ alla grande truffa del ‘diesel ecologico’, dalle “armi di distruzione di massa” di Saddam Hussein e alle “fraterne” invasioni brezneviane).  

 

D’altronde, se tutto è complotto, i veri complotti non si distinguono più: paradossalmente, si potrebbe sospettare che le teorie omni-complottiste siano ordite dai veri complottisti…

 

 

1963-1967

 

La contestazione studentesca ebbe inizio il 17 gennaio 1963, con una petizione degli studenti del 4° anno; in relazione ai bisogni di futuri progettisti … a una preparazione professionale di  rinnovamento e di ricerca” 3, i 68 allievi chiedevano che gli insegnamenti progettuali avvenissero previa motivazione e discussione dei temi, tramite libere aggregazioni degli studenti in gruppi con scelta dell’Assistente, partecipazione alla ricerca sui contenuti, con minori vincoli temporali e di elaborati grafici e non come mero controllo dei tentativi progettuali.

Di fronte alla chiusura dei professori interessati, la protesta si trasformò in “sciopero attivo”  e a metà febbraio divenne la prima occupazione di una facoltà universitaria (seguita subito dopo da Architettura di Roma e di Torino) con una piattaforma che si era allargata in denuncia dell’autoritarismo didattico, richiesta di alternative culturali nella scelta dei docenti principali, confronto sui problemi della società, cogestione degli Istituti.

L’occupazione terminò dopo tre settimane, a fronte dell’impegno del Rettore ad istituire una Commissione Paritetica di studio sui punti rivendicativi degli studenti.

 

Nei quattro anni seguenti la spinta riformista degli studenti, cui si aggiunse dal dicembre ‘66 un lungo sciopero degli “assistenti volontari” (precari non retribuiti, ma indispensabili per gestire le esercitazioni), ottenne qualche risultato:

-       sulla minor rigidità di taluni corsi propedeutici (ad esempio le prove ex-tempore di rilievo dal vero),

-       sul rinnovamento del corpo docente, con il ritiro dei professori più accademici e l’immissione di esponenti – ormai non più giovani – del Movimento Moderno, come Rogers, Albini, Belgiojoso e Bottoni, e poi anche – come incaricati – di figure emergenti come Gregotti-Rossi-Canella,

-       sul contestuale aggiornamento dei contenuti e del linguaggio, più allineato con le Riviste e con istituzioni più avanzate, come la Triennale,

-       sulla introduzione del lavoro di gruppo nei principali insegnamenti progettuali, con qualche motivazione e approfondimento sui temi delle esercitazioni,

ma non aveva conseguito nessuna revisione sostanziale del Piano di Studi (vedi anche Claudia Capurso in Appendice III).

 

All’inizio del 1967 il preside Carlo De Carli – per comporre le spinte derivanti da studenti, assistenti e da ultimo dai docenti incaricati –  organizzò un seminario generale della facoltà, da cui invece scaturì una nuova occupazione da parte degli studenti, che avevano consolidato una “dirigenza”, incardinata negli organismi rappresentativi dell’UNURI[A] (le principali correnti, anche a livello nazionale erano UGI[B], socialcomunisti – AGI[C], laici - Intesa, cattolici) ed erano cresciuti di numero di anno in anno (da meno di cento iscritti al primo anno a 400 nel 1967).

 

Le nuove rivendicazioni maturate nell’occupazione del 1967 e sommariamente recepite in marzo dal Consiglio di Facoltà (soprattutto come promessa per l’anno successivo), si configuravano come una svolta sostanziale nell’assetto degli studi, non più finalizzato ad una figura professionale rinnovata, ma anzi ad una critica dell’immagine tradizionale del professionista, e così articolata:

-       coincidenza tra ricerca e didattica, partendo dai problemi della società, in ottiche interdisciplinari,

-       degerarchizzazione del corpo docente (“docente unico a tempo pieno”) e libera ri-aggregazione di docenti e assistenti (e apporti esterni) in “proposte di ricerca”,

-       libera scelta di adesione ai “gruppi di ricerca” da parte degli studenti, dal 1° al 5° anno, senza vincoli di percorso accademico (né quindi di approcci propedeutici),

-       cicli di “lezioni ex cathedra” all’intera facoltà,

-       autovalutazione collettiva dei risultati di ogni ricerca e seminari di confronto tra tutte le ricerche

-       conseguente riorganizzazione degli Istituti e delle risorse finanziarie.

 

Anche se negli orizzonti politici degli studenti non prevalevano ancora parole d’ordine “rivoluzionarie”, risultava evidente la radicalità della proposta di “autogestione”, che si inquadrava nella maturazione nel movimento degli studenti, non solo ad Architettura, verso orizzonti di contrapposizione all’autoritarismo accademico ed alla selezione scolastica, di cui si iniziavano a comprendere i gli aspetti “classisti’.

 

Spinte che invece il Consiglio di Facoltà tendeva a ricomporre dentro i labili confini della “cauta sperimentazione” concessa da una concisa circolare del ministro Gui del luglio 1967 (e poi di poco ampliata nel marzo 1968).

Sperimentazione poteva significare una aperta ricerca verso nuovi assetti didattici, anche se il Governo Moro (centro-sinistra “organico”, con DC, Socialisti e partiti minori) intendeva incanalare le proteste attraverso una Commissione nazionale tra le diverse facoltà di Architettura (e difendere la sua ambiziosa riforma complessiva dell’università che – avversata dal nascente movimento studentesco – fu però affossata in Parlamento nella primavera del 1968 da resistenze interne alla maggioranza di centro-sinistra; resistenze probabilmente connesse ai centri di potere delle baronie accademiche).

 

 

IL ’68: L’UTOPIA REALIZZATA?

 

L’anno accademico 1967-68 iniziò piuttosto confusamente: i docenti delle materie “scientifiche” avviarono i loro corsi con gli orari tradizionali, mentre il resto della Facoltà attendeva l’attuazione della “sperimentazione” promessa, che fu varata da gennaio, con la proclamazione (teorica) di tutte le innovazioni richieste dagli studenti e con il seminario di presentazione delle “ricerche”: lasciando però in sospeso la conciliazione con i docenti scientifici (ed altri pochi dissenzienti), cui rimanevano riservate ogni mattina le prime 2 ore di lezione.

Il ventaglio delle proposte di “ricerca”, allora raccolte nel “Diario Politico 1967-68 – volume 1°”[D] e ben documentato anche nel testo di Pugliese&C.3 da pag. 85 a pag. 97, meriterebbe una apposita “ricerca” di approfondimento. Marcello De Carli (al cui testo6 rimandiamo ancora per una comprensione più ampia di quei passaggi) lo definisce “un insieme eterogeneo, che fotografava la complessità della cultura degli architetti del tempo, ed anche la sua difficoltà”.

Si trattava di una gamma di opzioni culturali, tra strutturalismo e marxismo, con proposte operative che oscillavano dalla riproposizione dei canoni del “Movimento Moderno” (e della didattica progettuale per gruppi, già avviata negli anni precedenti) alla consapevolezza dell’inizio della crisi di tali canoni[E], ed in generale con apertura al dibattito sociale e politico su città e territorio.

Ci sembra da sottolineare una sostanziale prevalenza dei temi urbanistici: riteniamo infatti di poter leggere come tali, ad esempio, sia lo “spazio primario” degli “Interni” di Carlo De Carli, che la “Architettura della Città” di Aldo Rossi, come ancora i vastissimi percorsi meta-progettuali di Guido Canella.[F]

 

Mentre le altre facoltà venivano occupate in tutta Italia, Architettura di Milano sembrava non averne bisogno, perché era già oltre l’autoritarismo accademico: ma poi – semplificando nella narrazione una vicenda complessa – il mancato accordo con il poderoso baluardo conservatore “Scientifici”-Ingegneria-Rettorato (spalleggiato dai nuovi governi Leone e Rumor),[G] portò ad una ‘occupazione operosa’, in cui la sperimentazione – monca di scientifici e reazionari – si svolgeva sotto la direzione della “Assemblea dei Firmatari”, cioè di tutti gli studenti, assistenti e docenti che aderivano alla sperimentazione (e accettavano l’occupazione).

In quella fase la partecipazione alle assemblee generali era assai elevata, e nel movimentismo assembleare si scioglievano di fatto sia le storiche associazioni AGI-UGI-Intesa, sia le scarne presenze dei partitini dell’estrema sinistra ante-68 (Falce-e-martello, Trotskisti, PSIUP); tendenza opposta a quanto accadrà dopo il ’68, con la frammentazione in gruppi politici e nuovi partitini (mentre il P.C.I. tendeva a conservare, ma non senza difficoltà, una unità organizzativa nella “cellula Ho-Chi-Minh”).

Più difficoltoso risultò invece il tentativo di decentrare il dibattito politico-culturale all’interno dei “gruppi di ricerca”, dove prevalevano le personalità dei docenti, le avanguardie del movimento erano variamente disperse, e gli studenti ‘di base’ faticavano a rendersi protagonisti.   

 

Le alterne fasi di scontro politico-istituzionale si conclusero nel silenzio agostano con l’annullamento di tutti gli esami “sperimentali” e auto-gestiti e con la destituzione da parte del Ministro Scaglia del preside Carlo De Carli, troppo “morbido” verso gli studenti; a seguire nuove mediazioni – gestite dal nuovo preside Paolo Portoghesi nei tre anni successivi –, ed altri scontri, culminanti nel 1971, come diremo più avanti.

 

 

IL 67-68, IN VISIONE SOGGETTIVA

 

Ci sembra interessante traguardare queste vicende anche attraverso la nostra personale esperienza: ci siamo trovati, abbastanza per caso, come studenti del primo anno (si usava ancora il termine goliardico di “matricole”: i militanti dell’UNURI però ci difendevano dal nonnismo) nell’autunno del 1967, alle prese con una svolta dai caratteri utopici o rivoluzionari (utopia e rivoluzione, però, immaginate prima di noi e guidate da altri).

 

In particolare, ad un certo punto, dopo aver assaggiato brevemente i corsi tradizionali, anche noi “matricole” (che – talora con fatica – avevamo appena scelto l’indirizzo di studi universitario) ci trovammo davanti alla decisione se aderire alla sperimentazione (oppure rimanere fuori con i docenti “scientifici” e/o tradizionalisti, poi definiti “reazionari”), e nel contempo all’imprevista scelta del “gruppo di ricerca” da frequentare dentro la “sperimentazione” che rivoluzionava l’impostazione didattica:  in vetrina c’era l’intera facoltà (docenti scientifici e/o reazionari esclusi) con la presentazione dei diversi programmi, spesso fumosi e improvvisati o comunque difficili da capire per i neofiti, ancor più sguarniti (in specie se provenienti dai paesi di provincia) nel capire i sottostanti sistemi di potere ed i possibili percorsi di qualificazione personale: la maggioranza dei nostri compagni di corso, per prudenza, si ancorò ai docenti che comunque sarebbero capitati al primo anno; una minoranza più spericolata (noi compresi) si buttò invece all’avventura, ritrovandosi in gruppi formati in prevalenza da studenti degli anni superiori.

Quanto sopra può spiegare – almeno in parte – l’effetto ”Fabrizio Del Dongo alla battaglia di Waterloo” che ebbe per molti di noi il navigare nella facoltà tra 67 e 68, senza capire bene cosa stesse succedendo in una serie di situazioni, talora caotiche e frustranti, e talora elettrizzanti.

 

ANEDDOTO 1 -

Per noi, sotto il profilo formativo, quel ’68 fu una esperienza in cui riuscimmo a capire, partecipando alla “coerenza regionale” del gruppo Bottoni-D’Angiolini- Meneghetti, che l’urbanistica era, tra l’altro:

- lo studio intenso e selettivo dei dati statistici, ma anche di informazioni eterodosse, da varie fonti, giornalistiche e aziendali (e quindi anche di parte “padronale”),

- l’apertura interdisciplinare, soprattutto verso l’economia (“Mondo economico” era lettura obbligata), la demografia (leggendo Livi Bacci), la geografia (ascoltando di persona – ma non sempre capendolo – Lucio Gambi): i problemi prima degli steccati disciplinari,

- l’analisi delle forze sociali in campo (non solo padroni e operai,  ma anche già da allora “dove vanno i piedi dei consumatori” e come influiscono sull’offerta), a livello territoriale, sia macro che micro, che determinano il divenire dei luoghi, spesso più dei “piani urbanistici” (e certo più delle “buone intenzioni”),

- una attenzione non rituale alla lotta di classe, nelle sue varie forme (compresa l’acculturazione, le rimesse degli emigranti, il lavoro femminile domestico e a domicilio…),

- l’uso “politico” degli strumenti tecnici e giuridici, di cui essere, per quanto possibile, padroni e non schiavi,

- l’importanza della gestione/applicazione dei piani urbanistici, rispetto alla mera fase di progettazione degli stessi,

- la non-separazione tra “urbanistica” e “architettura” (ma anche tra “struttura” e “sovra-struttura”: necessario però ricordarsi la differenza tra questi poli dialettici).

 

 

I LIMITI DELLA SPERIMENTAZIONE

 

Questa esperienza ‘da matricole’ ci consente anche di esprimere (oggi) una prima critica di fondo a quella “sperimentazione”, perché la partecipazione effettiva del singolo studente sia al nuovo modo di trasmettere il sapere, maieutico ed induttivo, sia alla stessa vita politica della facoltà e del movimento studentesco, fu molto differenziata in funzione delle condizioni soggettive pregresse di ognuno di noi, premiando chi già aveva più strumenti per capire e decodificare i linguaggi (e gli atteggiamenti) e marginalizzando chi meno ne aveva (per tacere delle discriminazioni “di genere” nel maschilismo intrinseco allora all’ambiente accademico e a quello politico).

Il nodo di fondo ci sembra questo: il vecchio ordinamento aveva una sua logica selettiva di trasmissione del sapere: il nozionismo dei corsi tradizionali, la fatica delle esercitazioni grafiche, l’imitazione per tentativi dei ‘maestri’ negli esercizi di progettazione (si veda nel dettaglio la citazione da Consonni4 nell’Appendice I). Chi non si conformava rimaneva fuori, chi ce la faceva diveniva “conforme”. La pedagogia era cosa per l’infanzia. “Lettera a una professoressa” fece riflettere sulla dimensione sociale della selezione scolastica e della pedagogia: ma da questa riflessione non nasceva automaticamente una nuova pedagogia adatta all’età degli universitari, né tanto meno alla trasformazione dell’Università in scuola di massa. L’attenzione era sul “cosa” insegnare, e non sul “come”.

 

Altre critiche sull’attuazione della sperimentazione del 1968-1971 ci sembrano importanti retrospettivamente (anche per rivalutare invece gli elementi essenziali di quella proposta), acquisendo in parte elementi di valutazione espressi da allora in poi da diversi soggetti, che raccogliamo nella Appendice II, ma tenendo conto che in sé il progetto della sperimentazione non aveva predeterminato nessun criterio di successivo monitoraggio (il che ne limitava alquanto la serietà ‘scientifica’): anche se – oltre alle massicce censure che arrivavano dall’esterno, dal fronte ‘conservatore’ (e che in qualche misura spingevano i “firmatari” ad arroccarsi sulle posizioni assunte) – il dibattito interno era ricco di ‘critiche ed autocritiche’, però finalizzate ad esiti divergenti (di cui riferiamo più avanti) più che non ad  una accorta correzione di rotta del vascello sperimentale.

 

Le criticità in questione riguardano tutti gli elementi fondamentali della sperimentazione stessa, elementi come sopra tratteggiati nel paragrafo “63-67”:

-       non era ben chiaro cosa intendere per “ricerca” nei campi propriamente umanistici e progettuali dell’architettura[H]; non sempre era esplicito quali fossero gli obiettivi dei docenti, se già avessero in tasca il risultato da trovare cercando, se avessero una bussola metodologica, se ci facessero cercare tanto per cercare;

-       mancava una concreta alternativa didattica alla vecchia “propedeusi”, con la successione obbligata delle materie: sia per carenza generale di metodologie pedagogiche e comunicative (vedi sopra), sia per la presunzione demagogica che l’atteggiamento maieutico, di fatto adatto alle élites studentesche, funzionasse comunque con la attesa (ma incompresa) “università di massa”;

-       l’attesa apertura ai problemi della società, sovrapposta ad un vecchio ordinamento (che aveva mal digerito l’originaria confluenza tra “Ecole de Beaux Arts” e Ingegneria e rimaneva scomposto tra “materie scientifiche” e discipline progettuali), allargò molto i confini della politica e dell’urbanistica (ambedue si occupavano della “polis”), ma non portò, in generale, ad una effettiva rivisitazione, nel merito, né della “scienza neutrale” del Politecnico (vedi oltre) né della tautologia del gesto architettonico, né delle concrete trasformazioni tecnologiche allora in atto;

-       nei fatti, all’interno dei gruppi di ricerca – anche per le carenze di organico ed i connessi problemi di inquadramento professionale, vedi sotto – pochissimi docenti si occupavano di far ambientare e di coinvolgere gli ultimi arrivati, delegando tutt’al più tale compito agli studenti più anziani: ma il mito castro-maoista dei ‘maestri scalzi’ nascondeva di fatto la stratificazione gerarchica degli studenti e la formazione dei cosiddetti ‘mini-docenti’;

-       parimenti non risultava sempre alla portata di tutti quali fossero i nodi problematici del dibattito disciplinare; a maggior ragione nei rari momenti di confronto al di fuori dei singoli gruppi (presentazione delle ricerche; seminari di fine anno e simili: meglio le poche “lezioni ex cathedra all’intera facoltà da parte dei più venerati maestri, se si riusciva a trovare posto in aula: pessimi gli audio-collegamenti ad altre aule, primi esperimenti di “didattica a distanza”); viceversa poteva accadere che gli allievi più marginali si impratichissero solo con alcuni segmenti del lavoro di ricerca (ad esempio, l’elaborazione dei dati sui “flussi di traffico”), subendo una parcellizzazione del sapere diversa da quella del vecchio piano di studi e più simile (ma forse anche positivamente, in potenza) a quella del processo produttivo;

-       lo slogan del “docente unico”, pur consentendo l’emancipazione (pur rischiosa) di una parte dei docenti subalterni dal ‘barone’ di storico riferimento, non poteva essere applicato senza uno scardinamento radicale degli assetti giuridici ed economici delle varie ‘carriere’ e dei bilanci di Istituti e Facoltà (cioè non era risultato praticabile “il socialismo in una sola facoltà”);

-       la libera aggregazione dei docenti (che non garantiva l’interdisciplinarità, spesso ridotta ad atteggiamento volontaristico) e la piena libertà di scelta degli studenti, validissima per superare il vecchio regime, non consentivano di configurare nuovi percorsi formativi con un senso compiuto (anche sperimentale), malgrado i tentativi di classificare e gerarchizzare  le ricerche, anche a tal fine, più volte tentati;

-       il ripetersi per alcuni anni della libertà di iscrizione degli studenti ai vari gruppi di ricerca, inoltre, mentre scardinava antichi vassallaggi accademici, costituì di fatto una sorta di “mercato anarco-liberista”, che premiava le aggregazioni dei docenti più prestigiosi (oppure meglio aggregati).

 

Nell’insieme, il picconamento del vecchio assetto selettivo non aveva impedito la nascita di nuovi meccanismi selettivi.

 

Più difficile ci sembra, invece, una valutazione sui risultati culturali della Sperimentazione: riportiamo in proposito – senza sposarlo - un giudizio positivo di Marcello De Carli 6 (in qualche misura confermato da Bernardo Secchi nel 2013 3, vedi Appendice II): “La crescita di una scuola di architettura e urbanistica milanese, con più protagonisti, che ha avuto, per un certo periodo, un ruolo di avanguardia internazionale e, sempre, un ruolo rilevante nel dibattito culturale italiano. Negli anni ‘70 e ‘80 la scuola di architettura milanese, quella che aveva partecipato all’avvio della Sperimentazione (compresa la diaspora Veneziana), è stata un punto di riferimento per il dibattito culturale internazionale (in particolare Rossi, Canella, Gregotti e i loro epigoni). La Sperimentazione aveva contribuito a liberarli, nell’università, dalle gabbie dei corsi …. La produzione di ricerche che hanno avuto un impatto nella cultura architettonica ed urbanistica e nelle trasformazioni urbane. Anche in questo caso uso una sineddoche: la mitica (per chi l’ha seguita) ricerca sul nuovo insediamento universitario in Calabria, diretta da D’Angiolini e Canella; gli studi a sostegno delle lotte per la casa, condotti da tanti gruppi, in particolare, a Milano, dalla scuola di Campos Venuti; poi certe ricerche sulla città degli allievi di Rossi.”

 

Più difficile ancora, ci sembra, misurare il risultato della Sperimentazione in termini di formazione di quelle annate di laureati, sia riguardo alle capacità professionali che alla effettiva attitudine critica: una misurazione (sociologica e antropologica) in cui forse nessuno si è misurato. Sicuramente molti neo-laureati, a fronte del restringersi degli spazi per la libera professione, si sono ritrovati ad insegnare nelle scuole medie e superiori; mentre taluni hanno sviluppato i talenti più diversi, da Gigliola Cinquetti a Stefania Casini, da Maurizio Nichetti a Gabriele Basilico…

 

Una ulteriore valutazione di fondo che ci sentiamo di avanzare è la seguente: era probabilmente eccesso di utopia pensare che l’atteggiamento volontaristico di apertura ai problemi della società esterna comportasse un cambiamento strutturale della Facoltà, senza rendersi invece conto che contestualmente era la stessa società esterna (con i suoi meccanismi sociali intaccati ma non ribaltati dai movimenti)  a condizionare e rimodellare il microcosmo universitario.  

 

 

LA QUESTIONE DELLE MATERIE SCIENTIFICHE

 

Gli insegnanti delle ‘scienze dure’ (matematica, fisica, scienza delle costruzioni, ecc.), al di là delle scelte soggettive dei singoli docenti, furono bollati come reazionari perché non accettavano il cambiamento, soprattutto riguardo alla sequenza concatenata dei corsi (da qui l’espressione “catenaccio” per indicare l’impossibilità di iscriversi agli anni successivi senza aver superato taluni esami), che – di propedeusi in propedeusi – avrebbero disvelato la loro pratica utilità per la formazione professionale solo al culmine dell’iter selettivo (con Fisica tecnica e con Tecnica delle Costruzioni).

Pertanto una ridiscussione dei contenuti non era oggettivamente facile (come dimostrava anche la resistenza delle Facoltà di Ingegneria e di Scienze ai più blandi tentativi di contestazione da parte dei rispettivi allievi).

 

Dopo l’iniziale demonizzazione dei “reazionari”, nei vari tentativi di compromesso tra le due ali della facoltà, oltre alla semplice coesistenza (raramente pacifica), con i vecchi corsi e gli esami tradizionali, una parte dei docenti scientifici si rese disponibile o ad una sorta di mini-corsi di recupero facilitati oppure ad un volonteroso accodamento od imitazione alle “ricerche per problemi”, dove l’analisi matematica oppure la scienza delle costruzioni erano coinvolte, talora seriamente ed altre pretestuosamente, per mostrarne l’utilità pratica e farne assaggiare agli studenti gli specifici linguaggi [I].

Mancò invece – a nostro avviso – sia dall’interno del campo “scientifico” sia da parte del movimento di contestazione, l’assalto al cielo della scienza stessa, per verificarne o falsificarne i presupposti logici e didattici; come in parte rilevato, in un documento (minoritario) dell’ottobre 1969 da parte dell’ex-preside Carlo De Carli 3: “…dobbiamo riconoscere che le materie scientifiche [tradizionali] trattate in Facoltà sono fittizie: cioè artificiose … non realmente utili al farsi dell’Architettura. … forse perché le ‘vere’ discipline scientifiche si sono già proiettate lungo campi … troppo lontani dalle piccole pagine didattiche ancora oggi in minuta funzione di isolato nozionismo nella Facoltà di Architettura…”  

 

 

MITI RIVOLUZIONARI ED EFFETTIVE TRASFORMAZIONI

 

La rapida propagazione dei movimenti di contestazione, dapprima a gran parte delle università e poi alle scuole medie superiori e ad altri ambiti istituzionali, e la ripresa delle lotte sociali nelle fabbriche e nei quartieri, comportarono una diffusione di ideologie rivoluzionarie, più o meno connesse con la tradizione marxista-leninista o con originali apporti ‘operaisti’.

 

In particolare nella nostra facoltà, mentre parte delle avanguardie studentesche si ponevano il problema del rapporto con le fabbriche ed i quartieri, e trascuravano come arretrate le problematiche specifiche degli studenti (abbandonando inoltre ogni interesse a guidare e sintetizzare la sperimentazione conquistata), si assisteva anche ad una fuga in avanti astrattamente ideologica nel dibattito tra i docenti, così sintetizzato in una delibera del Consiglio di Facoltà del dicembre 1968: “… la prima [posizione] muove dalla distinzione tra obiettivi della classe dominante e obiettivi della società ritenendo che verso questi ultimi deve essere indirizzato il compito di istituto … riconoscendo produttivo la scontro tra le posizioni di chi identifica la società con la classe lavoratrice e quelle di chi la identifica con la massa dei lavoratori-consumatori, la seconda ritiene illusoria questa prospettiva e nega la possibilità di una ‘scienza rivoluzionaria’ che si sviluppi accettando in pieno la istituzione borghese ….di qui l’ipotesi di una università antiistituzionale … in senso funzionale allo sviluppo della lotta di classe”.3

Nelle conclusioni del Consiglio di Facoltà, che intendeva lasciare aperto il suddetto confronto, si dichiarava comunque che gli “Obiettivi della Facoltà” includono quello di “Negare esplicitamente il suo ruolo di formazione professionale”.

 

Obiettivo confermato all’inizio del 1970, anche se contraddittoriamente affiancato da un (improvvisato) elenco di 8 “sbocchi lavorativi … nelle condizioni attuali del mercato edilizio ed urbanistico e tenendo conto delle sue prevedibili trasformazioni a breve scadenza”, sbocchi tra cui da ultimo veniva ripescata anche la “libera professione organizzata in modo tradizionale3. Il Consiglio di Facoltà presentava una riorganizzazione mediatoria rispetto agli “scientifici”, anche sfruttando una parziale liberalizzazione dei piani di studi introdotta da una parziale riforma legislativa, ma riconosceva la centralità di alcuni gruppi di ricerca (Albini, Bottoni, Campos Venuti, Canella, Magnaghi, Rossi); 5 dei quali promossero autonomamente un seminario di confronto generale, per superare la ‘ghettizzazione’ dei singoli gruppi di ricerca, confermando una discriminante “anti-professionalistica” (ma senza conferire effettive basi materiali alle ipotesi di una “committenza alternativa”).

 

(Ci permettiamo però di segnalare ex post che gran parte di quel corpo docente, nel frattempo, anche a causa della mancanza attuazione delle assunzioni come “docenti unici ed a tempo pieno”, continuava a gestire i propri studi professionali e ad accettare – o sollecitare – incarichi da soggetti ‘borghesi’ e ‘istituzionali’).

 

Nel frattempo avvenivano significative modificazioni nella composizione e nel comportamento della massa degli studenti (connesse anche al fisiologico ricambio annuale):

-       un ulteriore aumento quantitativo degli iscritti, e dall’anno 1970-71 anche la liberalizzazione degli accessi provenendo da qualunque corso delle medie superiori (in particolare si affacciarono numerosi geometri in età adulta, lavoratori dipendenti oppure liberi professionisti, cui la Facoltà offrì l’opzione  di appositi corsi serali);

-       una disaffezione alla frequenza, agevolata dalla caduta dei meccanismi di controllo fiscale e dalla facilità degli esami di gruppo, e incentivata dai lungi periodi di stasi della didattica, derivanti sia dalle endemiche rivendicazioni dei docenti subalterni, sia dalle frequenti contrapposizioni istituzionali e politiche;

-       una conseguente minor rappresentatività delle assemblee (causata anche dalla ritualizzazione del linguaggio politico e dalla tendenza alla autoconservazione delle ‘avanguardie’, senza effettivo coinvolgimento della massa e dei singoli studenti);

-       una crescente stratificazione gerarchica all’interno dei gruppi di ricerca, con abbarbicamento dei mini-docenti (e futuri assistenti) ai rispettivi referenti (ovvero ai nascenti ‘nuovi baroni’): con il rischio di perdere, in una nuova acquiescenza verso le nuove gerarchie accademiche, quella simpatica sfrontatezza che – pur con il rispetto dovuto alla buona educazione, che non mancava -  gli studenti “rivoluzionari” avevano assunto nel trattare da pari a pari con i docenti.

 

Come ha osservato Marcello De Carli 6: “Nei primi anni ‘70, a testimonianza dell’inesorabile meccanica dei rapporti sociali, era curioso vedere come il clima di generale amicizia che univa gli studenti di architettura, quando ex studenti diventavano docenti precari, si trasformasse in aspri conflitti, ciascuno vestendo la divisa della propria tendenza culturale e giustamente lottando per un posto al sole in duro antagonismo con gli altri.”

 

 

1971: UN NUOVO CICLO DI LOTTE E LA POLARIZZAZIONE POLITICA TRA GLI STUDENTI

 

L’ampliamento della base sociale degli studenti indusse nel 70-71 l’estensione tardiva di qualche forma specifica di contestazione alla selettività degli esami anche nella facoltà di Ingegneria e nelle vicine Facoltà Scientifiche della Statale di Milano, che attorno al 68 erano state coinvolte più marginalmente e solo idealmente dalle agitazioni studentesche.

Su questo sfondo di nuovo protagonismo degli studenti a Città Studi 17, esplose la contraddizione relativa al “presalario” (borsa di studio fino ad allora non ‘meritocratica’).

Per effetto delle tendenze demografiche e delle spinte sociali, nonché della cosiddetta ‘liberalizzazione degli accessi’ (di cui sopra) aumentavano il numero delle richieste del pre-salario, fino ad allora un diritto ‘automatico’ commisurato al reddito familiare e subordinato ad un minimo di prestazioni scolastiche: improvvisamente la norma – già in parte resa più restrittiva riguardo alla distanza per essere classificati “fuori sede” – fu piegata in termini decisamente selettivi, restringendone l’assegnazione nei limiti degli importi complessivi in precedenza stanziati.

Di fronte alle manifestazioni studentesche, alquanto partecipate e vivaci, con l’occupazione prima del Rettorato e poi del “Calcolatore del Politecnico” (uno spazio di circa 400 m2, refrigerato e però poco presidiato, che aveva potenze di memoria paragonabili ad un solo cellulare di oggidì, ma costituiva un centro di potere nascente negli assetti del Poli), la risposta delle Autorità fu totalmente negativa riguardo alle rivendicazioni ed invece di prudente ‘sganciamento tattico’ riguardo al calcolatore, il quale infatti, approfittando ancora dell’Agosto (quando anche i militanti andavano al mare), fu discretamente smontato e deportato in altro luogo più sicuro, collegandolo via cavo.

E’ da notare che in Italia un vero welfare per il diritto allo studio non è mai stato ripristinato, ed è solo ora promesso con il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza.

 

Nel contempo era maturata, tra gli studenti politicizzati rimasti nelle Università milanesi, una polarizzazione ideologica sulle tesi emanate dal gruppo dirigente presso la Statale di via Festa del Perdono (facoltà giuridiche e umanistiche), che preludevano ad una stretta organizzativa diventando, con le maiuscole, “Movimento Studentesco” (di Capanna, per intendersi); polarizzazione che ad Architettura si trasformò in scissione, con la nascita del Collettivo Autonomo (cui noi aderimmo, non più matricole, ma militanti consapevoli). Le “divergenze tra il compagno Capanna e noi” 17 riguardavano essenzialmente la specificità del neo-capitalismo, con le sue capacità di mediazione e coinvolgimento, mentre le Tesi di Capanna-Cafiero-Toscano&C. ripetevano una analisi leninista classicheggiante contro i “rentiers” (che forse sarebbe tornata più utile a fine secolo), in cui tutte le forze produttive erano buone, e perciò occorreva schierarsi con i docenti progressisti (“uso parziale alternativo” del sapere accademico) anziché sviluppare una critica di classe anche al  neo-potere accademico; in sovrappiù tra i Capannei aleggiava una rivalutazione di Stalin, probabilmente ereditata da una certa tradizione della federazione milanese del PCI.

 

 

L’UTOPIA DELLA “ESTRANEITA’ COSCIENTE”

 

Quanto sopra  tende ad inquadrare il secondo “momento utopico” che attraversammo dopo la “sperimentazione del 68” e cioè il tentativo di critica radicale all’istituzione scolastica, insito nella linea del Collettivo Autonomo di Architettura, attorno al 1971. 

L’assunto teorico centrale – ma poco sviluppato – del Collettivo Autonomo, era sostanzialmente:

-           da un lato la contrapposizione alla continua espropriazione del sapere dei ceti dominati da parte dei ceti dominanti (tema affascinante, che però avrebbe richiesto profonde ricerche antropologiche, archeologiche, storiche, ben al di sopra della nostra presunzione e della nostra concreta capacità di allora),

-           d’altro lato la constatazione della tendenziale proletarizzazione dei laureati (e quindi dei futuri architetti), costretti invece all’apprendimento di competenze professionali che non avrebbero esercitato (la critica al professionalismo era già serrata a partire dalle occupazioni della Facoltà nel 1963 e nel 1967 – vedi sopra -  ma più nel senso della ricerca di un nuovo ruolo con una ‘committenza alternativa’, sociale e pubblica); da qui la proposta di una ‘estraneità cosciente’ degli studenti alle proposte didattiche, da capire e criticare senza aderirvi ideologicamente (come il salariato, secondo Marx, resta estraneo agli interessi aziendali del padrone).

Ambedue i noccioli della ‘linea’ – rivisti in seguito, ed a maggior ragione dopo  50 anni – , pur cogliendo elementi di verità, peccavano di estremismo, nel senso di confondere la parte con il tutto e le tendenze con la realtà (certamente i nostri testi erano più articolati e sfumati, ma lì si andava a parare): e prima ancora nella pretesa di riconoscere “la parte” (ad esempio “la classe operaia” oppure “gli studenti proletarizzati”) come un qualcosa di separabile dal “tutto”, l’essenza antagonistica del proletariato dalla sua concreta esistenza, contradditoria e compromissoria (ad esempio i  molti operai che invece si riconoscono con orgoglio con lavoro/prodotto/marchio aziendale; e così tra noi studenti le infinite sfumature di maggiore o minore ‘proletarizzazione’: ed infatti nei nostri successivi destini la estraneità dai ruoli professionali si manifestò sì, ma intrecciandosi con molte forme di permanenza di quei ruoli).

 

D’altronde, mentre le lotte sul presalario o contro la rigidità dei percorsi di studio e gli esami selettivi ebbero indubbio successo di massa (da prima a dopo il nostro Collettivo), l’”estraneità cosciente” rimase un teorema di avanguardia, anche se la inconsistenza scientifica di molti insegnamenti, soprattutto relativi alla ‘teoria della progettazione’, avrebbero meritato (a nostro parere di allora e di oggi, ma forse anche ‘oggettivamente’) una decostruzione ben più massiccia e forse anche sbeffeggiante: ma oltre ad aleggiare uno scarso senso della realtà, era forse venuto meno anche il senso dell’umorismo…

 

Mentre negli anni precedenti aleggiava maggiormente anche uno spirito ludico, ad esempio con i fumetti murali di “GranZot” e di “Kandebu’ [J]”, antesignani della StreetArt e della satira de “Il male”; anche se a Milano non si toccarono i vertici surreali del gruppo romano degli “Uccelli”, attorno al compianto Paolo Ramundo (in questi giorni mancato).

 

La contrapposizione tra la compromissione con un sapere progressista (“uso parziale alternativo”, “committenza alternativa”: forse con l’ipotesi di un “partito” che ne fa sintesi) e un antagonismo quasi “luddista” (arrivando ad identificare gli studenti dequalificati con il proletariato) si era d’altronde già manifestata dal ’68, sia nei dibattiti assembleari di studenti e docenti (vedi sopra), sia all’interno di alcuni gruppi di ricerca (con il rifiuto studentesco di un “prodotto rifinito e riproducibile”, perché la ricerca doveva essere solo “formativa”).

 

 ANEDDOTO 2. Ne è testimonianza uno degli ultimi esami sostenuti dal laureando Silvano Bassetti, nel contesto di una mediazione post-annullamento degli esami ‘sperimentali’, mediazione che prevedeva 3 domande: 1 sulla sperimentazione in generale, 2 sulla ricerca svolta, 3 sulla materia ufficiale di esame. Alla 3^ domanda di Topografia, provocatoriamente facile “cos’è la bussola”, Bassetti si rifiutò di rispondere e si accontentò di un 18

 

 

 

 

 

VIA TIBALDI

 

Cosicché invece dicemmo poco sull’Architettura: anche nella peculiare occasione di ‘via Tibaldi’ e della successiva occupazione al Gallaratese 8,17 .

Sempre nel 1971, una iniziativa improvvisata di Lotta Continua (allora pressoché assente in facoltà ) e di alcune famiglie con problemi abitativi, che avevano occupato case popolari da assegnare ad altri in via Tibaldi, con conseguente sgombero coattivo, incontrò la disponibilità del Preside Portoghesi, dell’assemblea studentesca e del Consiglio di Facoltà ad ospitare tali famiglie nelle aule di Architettura, coinvolgendole - in quanto oggetto di studio - in un altrettanto improvvisato seminario sulle lotte per la casa: la repressione fu in grande stile, oltre allo sgombero, con l’abituale destituzione del Preside e sospensione dei docenti, militarizzazione del quartiere per alcune settimane ed alcuni particolari alquanto sgradevoli (per quanto Pasolini poc’anzi inneggiasse ai poliziotti figli del proletariato): dallo svuotamento della cassetta con poche migliaia di lire nell’Auletta del Collettivo Autonomo alle scritte fasciste e maschiliste sui muri interni al Poli. 

Le famiglie senza-casa passarono poi ad occupare due fabbricati nuovi al quartiere Gallaratese, destinate ai ‘ceti medi’ (edilizia convenzionata) e progettate dai Maestri (rivoluzionari?) Carlo Aymonino e Aldo Rossi; la tipologia edilizia, oggetto di ricerca d’avanguardia, non risultò particolarmente gradita alle famiglie in lotta, nel breve periodo di soggiorno in via Monte Amiata.

C’è anche forse da rilevare, ex-post, che la pratica delle occupazioni abitative, elevata ad avanguardia di classe in quegli anni, si è poi riprodotta con stanche caricature estremiste – persino da destra –, ma anche con ampie infiltrazioni mafiose e/o criminali. 

 

 

EPILOGO 

 

Mentre la Facoltà era governata a distanza da un “Comitato Tecnico” di 3 docenti di altre facoltà, presieduto da Corrado Beguinot, un Decreto del Ministro Scalfaro (che non era ancora una star del progressismo…) impose un “numero chiuso” per le immatricolazioni dal 1972, meramente punitivo, senza alcuna copertura ideologica del tipo “programmazione degli sbocchi” o “disponibilità di laboratori”.

 

Benché l’assemblea degli studenti fosse divisa sulla tattica con cui contrastare il commissariamento della facoltà, il Comitato Tecnico, pur ostacolando e disarticolando con i suoi provvedimenti di nomine e revoche di docenti la (per altro stanca) esperienza della Sperimentazione, non riuscì a stabilire un rapporto di egemonia né sulla realtà studentesca né sul corpo insegnante.

 

In particolare, con un qualche sacrificio personale di decine di laureandi, gli esami di laurea rimasero bloccati dagli studenti, finché nella primavera del 1973 Beguinot (che di lì a breve si convinse addirittura a dimettersi) non si rassegnò a delegarne la presidenza a personaggi più neutrali: l’assemblea accettò il compromesso, a condizione che i primi esaminandi fossero i gruppi di studenti il cui docente risultava “sospeso” dalle varie procedure repressive in atto; a seguire tutti gli altri laureandi, con tesi più tradizionali, ma sempre di gruppo e riferite alle esperienze delle “ricerche”.

 

ANEDDOTO 3 In tale contesto l’esame di laurea del gruppo autogestito cui partecipavamo (raccogliendo per strada più sottogruppi con diverse tesi, e qualche collega sperduto in difficoltà nel trovare un Relatore) si trasformò in un ‘happening’ in cui si incrociavano istanze e tensioni vecchie e nuove:

- i conflitti nella facoltà, con il nostro rifiuto di illustrare le tesi (“estraneità cosciente”), assumendo invece come oggetto del dibattito il nostro ‘Relatore sospeso’ (l’architetto Giacomo Scarpini); e la presenza in Commissione di Esame di alcuni dei famosi docenti “scientifici e/o reazionari”;

- la selettività della didattica, con l’esperienza dei ‘colleghi sperduti’ di cui sopra;

- il ‘destino sociale’, con la nostra richiesta di un voto di 96/100 in quanto necessario allora per entrare nelle graduatorie degli insegnanti incaricati di Educazione Tecnica alle Scuole Medie;

- la questione femminile, con la scelta di far esprimere le nostre ragioni alle sole compagne (tardivo riconoscimento rispetto ad un prevalente maschilismo dei movimenti studenteschi): scelta probabilmente apprezzata dalla professoressa Franca Helg, che costituiva anche l’ala più progressista della Commissione.

 

Per la cronaca ottenemmo 95/100 e di lì a poco andammo a discuterne all’esame di Stato con il preoccupato rappresentante dell’Ordine degli Architetti.

Poi ci disperdemmo variamente nel mondo del lavoro, attuando solo localmente il proposito di affrontarlo in modo ancora “collettivo”. 

 

 

SUCCESSIVE TRASFORMAZIONI DELLA FACOLTA’

 

Negli anni successivi la situazione della facoltà di Architettura di Milano iniziò a ‘normalizzarsi’, con un cammino intersecato con le varie leggi di parziale riforma dell’intera università: processo esaminato sinteticamente da Marcello De Carli e più analiticamente da Pugliese&C, e su cui non siamo in grado di esprimere valutazioni approfondite.

 

Poiché però abbiamo avuto occasioni, saltuarie ma non superficiali, per confrontarci con tale evoluzione, ci permettiamo di segnalare, con l’avvallo dell’autorevole pensiero di Paolo Portoghesi (richiamato più estesamente a pag. 2: “…insegnamento dell’architettura, tornato, nonostante la creazione dei dipartimenti, all’isolamento dei corsi e agli esami nozionistici8), le nostre impressioni di un ritorno

-       alla parcellizzazione degli insegnamenti (aggravato dalla frammentazione degli indirizzi di laurea)

-       subordinazione della formazione ad ipotesi di profili professionalizzanti (non sempre effettivi);

-       separazione della ricerca dalla didattica

-       gerarchizzazione dell’istituzione nel suo insieme, e soprattutto subordinazione degli studenti e loro marginalizzazione come soggetto politico.

Per assurdo, la scuola di massa, con molti più studenti, è un luogo in cui gli studenti contano di meno e dove si riproducono alla grande meccanismi di selezione sociale (seppure su grandi numeri), dal banale abbandono degli studi a procedimenti sempre più raffinati e differiti e costosi di qualificazione e stratificazione come i master: ciò sia dove c’è ancora il valore legale del titolo di studio, come ad Architettura, sia dove di fatto non c’è, come in Disegno Industriale (la questione del valore legale del titolo di studio, evocata anche da Marcello De Carli 6, richiederebbe ulteriori approfondimenti che qui non ci sembrano opportuni) .

 

annavailati@tiscali.it         aldovecchi@hotmail.it

 

 

seguono APPENDICE I, II e III; al termine le Fonti

 

APPENDICE I – MEMORIE E VALUTAZIONI DEI NOSTRI “FRATELLI MAGGIORI” SULLA FASE 63-68

 

GIANCARLO CONSONNI: 4,[K] Gli studenti avevano a che fare con un rigido piano di studi concepito … come una sommatoria di discipline per nulla irrelate: la mancata assunzione della progettazione architettonica e urbana come asse portante dell’esperienza formativa andava di pari passo con l’assenza di indicazioni sulle vie e i modi praticabili di una sintesi nel lavoro progettuale. A ciò si aggiungeva la giustapposizione fra un biennio propedeutico e un triennio applicativo. Nei primi due anni gli studenti erano impegnati in un’acquisizione di strumenti settoriali di cui non veniva spiegata/dimostrata l’utilità. A sua volta il triennio era sbilanciato su un fare di stampo professionalistico, impermeabile a ogni riflessione sulle ragioni delle scelte che non fossero ricondotte a un funzionalismo arido e stereotipato.

 

La stessa storia dell’architettura si riduceva a un nozionismo sterile. L’iter didattico era concepito come un succedersi continuo di prove (esercitazioni ex-tempore di 8 ore) dove non c’era spazio per l’esercizio del pensiero in una dimensione civile: nessuna messa a fuoco dei problemi da affrontare, nessuna riflessione sul metodo e sugli strumenti, nessuna valutazione consapevole dei risultati. Il modello dell’atelier a cui vagamente quelle esercitazioni avrebbero voluto rifarsi era quanto di più lontano: non c’era alcun maestro da osservare all’opera e con cui collaborare, anche con mansioni umili. Il grosso della didattica si riduceva alla sorveglianza di masse di studenti. La selezione distingueva i pochissimi dotati nell’arte del disegno.

 

Per dare l’idea della povertà del tessuto culturale di cui era fatta la facoltà di Architettura di Milano, può bastare l’osservatorio del corso di Elementi di architettura e rilievo dei monumenti nell’anno accademico 1962-63. Un giorno alla settimana, per otto ore, gli studenti del primo anno venivano parcheggiati davanti alla Ca’ Granda. Il loro compito era rilevare un particolare della facciata senza che nessuno tra i docenti e gli assistenti si sentisse in obbligo di dire alcunché sulle tecniche del rilievo architettonico e sulle potenzialità del disegno come strumento di indagine e di rappresentazione; o sentisse la necessità di richiamare in quale contesto storico era sorta l’opera; o provasse a spiegarne la concezione, le stratificazioni, i caratteri, e, ancor meno, a misurarsi sul significato e il senso di quell’architettura straordinaria. Gli allievi erano persino tenuti all’oscuro del fatto che quell’organismo – sotto la responsabilità di Ambrogio Annoni e poi di Liliana Grassi, sua allieva – era appena stato un importante cantiere-laboratorio per la messa a fuoco di problemi cruciali del restauro: una lezione che parlava come un libro aperto (a saperlo leggere).

 

MARINA MOLON 5,[L]: Noi, eravamo quelli che avevano involontariamente fatto fuori Dodi, il Preside, professore di urbanistica: gli avevamo cortesemente chiesto di ampliare il programma del corso con le grandi tematiche in discussione in Europa e nel Mondo sullo sviluppo urbano, lui rispose minacciando di espellere Walter [Barbero] (reo di aver presieduto un’assemblea), noi abbandonammo tutti l’aula, lui si dimise.

 

STEFANO LEVI DELLA TORRE 5,[M]: sentivamo umiliante un’architettura prona all’eredità stilistica del passato e alla committenza privilegiata e speculativa, invece che alla crescente domanda sociale di abitazione e di qualità urbana. All’architettura come problema cosmetico degli edifici e all’arbitrio stilistico opponevamo la ricerca di quali fossero le generatrici delle idee giuste, degli spazi e delle forme (l’anima e le ragioni del progettare) e ci volgemmo al razionalismo, al Bauhaus, alla Secessione viennese e al panorama internazionale. Alla separazione tra le diverse discipline, consona alle baronie universitarie, opponemmo l’“interdisciplinarità”, una visione integrata della cultura, di comunicazione traversale tra i saperi. Alla trasmissione autoritaria delle nozioni, opponevamo lo spirito collettivo della ricerca, la necessità del contraddittorio, il lavoro di gruppo...

 

La seconda occupazione della Facoltà di Architettura fu nel 1967 e durò più di 50 giorni, con tutti i suoi apparati di assemblee, gruppi di studio, concerti, mense e dormitori autogestiti, trattative e dibattiti con un corpo docente in gran parte disponibile: un lungo periodo di vita collettiva, e di maturazione politica. Perché l’occupazione non era solo una forma di lotta per la democratizzazione, per allargare il diritto allo studio, per il rinnovamento culturale. Era anche la trasformazione del rapporto privato e individuale di ciascuno di noi con il sapere e con le istituzione in un rapporto collettivo. Ci trasformavamo in un soggetto collettivo; imparavamo a sentirci una forza sociale, con la sua responsabilità politica. Sperimentavamo la democrazia come esercizio pratico e intellettuale

 

Nella nostra giovinezza, la figura dell’architetto aveva venature mitiche: era chi concepiva gli spazi e le forme della nostra vita; “dal cucchiaio alla città”; e mentre con umile realismo imparavamo come la società influisca sull’ architettura, con più presunzione pensavamo che l’architettura influisse sulla società in modo tale da conferire all’architetto un grande potere e una grande responsabilità pedagogica nell’elargire e insegnare ai popoli il giusto vivere. Produttori di utopie concrete, di “utopia della realtà” diceva Rogers. Era questo il messaggio incoraggiante, il narcisismo polemico e creativo che già aveva animato il “movimento moderno” e i CIAM. Ma rispetto all’oggi, gli architetti erano allora relativamente pochi, erano ascoltati persino con rispetto dai committenti pubblici o privati invece d’esser tanto spesso ridotti, come oggi, ad esecutori e firmatari degli interessi e dei gusti raccogliticci della committenza o degli uffici comunali.

 

RAFFAELE PUGLIESE 5,[N]: È in questo clima, caratterizzato dall’insufficienza di mezzi e di personale docente, che il movimento degli studenti, tramite la “commissione tecnica” dell’assemblea, coordina l’avvio della sperimentazione. Ad essa partecipano docenti strutturati e professionisti esterni, più o meno legati alle strutture didattiche precedenti, con la proposizione di programmi di ricerca-didattica destinati a diventare base esaustiva di apprendimento e di qualificazione civile degli studenti. Per superare l’asfittico e burocratico limite costituito dalle aree disciplinari nella sperimentazione si consolida l’idea della didattica come ricerca, secondo un programma che avrebbe dovuto coinvolgere l’intera Facoltà. Questo programma unitario non fu mai predisposto e le singole ricerche finirono per assumere posizioni molto differenziate, dando luogo ad un quadro molto eterogeneo. Nonostante ciò la didattica come ricerca configurava un’alternativa metodologica radicale alla scuola tradizionale, perché comportava la necessità di affrontare i problemi emergenti dalla realtà del paese da trattare con apparati disciplinari differenti secondo la complessità del problema e non secondo angolature precostituite. Ciò apriva la questione essenziale del legame indissolubile conoscenza-prassi: si trattava cioè di conoscere la realtà per modificarla, valorizzando gli aspetti dirompenti dei risultati della ricerca scientifica. Estremamente differenziati furono i modi di porsi dei diversi gruppi che operarono in quell’ambito. … Il portato della sperimentazione è viceversa notevole innanzitutto per i programmi di ricerca posti alla base del lavoro degli studenti. Lo sforzo straordinario di tutte le risorse presenti, o accorse per l’occasione, diede l’avvio a quell’inarrestabile processo di configurazione dei filoni di lavoro, … che hanno segnato la storia della Facoltà di Milano fino ai nostri giorni.

 

MARCELLO DE CARLI 6: Si trattava di ribaltare l’organizzazione didattica, eliminando il carattere frammentato e apodittico degli insegnamenti offerti dal piano di studi, ricomponendo gli insegnamenti a partire dai problemi, finalizzando lo studio oltre che alla trasmissione del sapere codificato, alla costruzione di nuovo sapere.

In sintesi si trattava di questo:

Un anno accademico - una “ricerca”, con contorno di lezioni ex cathedra.

Si trattava di ribaltare l’organizzazione didattica, finalizzandola non solo alla trasmissione del sapere codificato, ma alla costruzione di nuovo sapere: ogni anno uno studente avrebbe dovuto partecipare ad una attività di ricerca, interdisciplinare, su problemi. Ciascuna delle diverse discipline avrebbe dovuto fornire il suo contributo, formando lo studente a partire dai problemi.

Lezioni ex cathedra e seminari avrebbero dovuto affiancare l’attività di ricerca, fornendo le

conoscenze di base.

In cinque anni di università ciascuno studente avrebbe dovuto affrontare cinque esperienze

complesse.

L’offerta didattica e la libera formazione del piano di studi.

L’idea era che i docenti, singoli o in gruppo, senza distinzione gerarchica[O] , anche con partecipazione di nuovi docenti non inquadrati nella Facoltà, proponessero i propri programmi di ricerca e didattica; fra questi ogni studente avrebbe scelto.

Curiosamente, questa idea, sicuramente ispirata a ideali di socialità (che venivano dalla tradizione cattolica, socialista e comunista) si basava su un meccanismo liberista di mercato: l’incontro fra l’offerta didattica dei docenti e la domanda di studenti che liberamente costruivano il proprio piano di studi e la propria formazione.

Questo meccanismo, spostava il potere dall’offerta rigida del piano di studi ufficiale alla domanda di formazione espressa dagli studenti. Era un meccanismo giusto e politicamente efficace, perché avrebbe mobilitato gli studenti e messo in concorrenza i docenti.

Partecipazione alle ricerche senza distinzione di anni di corso:

L’idea era che gli studenti si iscrivessero a ciascun laboratorio di ricerca senza distinzione di anni di corso. I docenti avrebbero dovuto applicare una pedagogia che tenesse conto dei diversi livelli di formazione degli studenti. Ma gli studenti stessi avrebbero collaborato alla formazione dei più giovani. Ovviamente pensavamo, condividendoli, ai principi pedagogici della scuola di Barbiana di Don Milani. “Lettera a una professoressa” era appena uscito (nel 1967) e tutti l’avevamo letto[P]. Ma pensavamo anche all’esperienza fatta durante l’occupazione  del gennaio marzo, al lavoro condiviso nelle commissioni di studio, cui avevano partecipato studenti senza distinzione di anno di corso. E aveva funzionato bene.

Curiosamente, mentre costruivamo strumenti per la nuova università di massa, proponevamo una didattica fondata sull’antica tradizione maieutica (ancora il metodo socratico): il lavoro di gruppo, la trasmissione di sapere nel lavoro comune di docenti e studenti, per di più studenti di diversi anni di corso; la formazione attraverso il dialogo e il contraddittorio; la guida e non la coercizione; la scoperta autonoma della verità.

A differenza di quanto avvenne in altre facoltà, non pensavamo a “controcorsi” o a “seminari alternativi” come manifestazione temporanea di dissenso. La trasformazione doveva avvenire grazie ad una diversa organizzazione dell’insegnamento e dello studio (che allora assimilavamo alle “riforme di struttura”) ed alla dialettica fra le componenti universitarie (studenti e docenti, coi loro vari ruoli).

Si trattava di “liberare le forze produttive” dalla gabbia di un piano di studi inadeguato e di un’organizzazione feudale ed autoreferenziale del lavoro universitario.

 

 

 

APPENDICE II – PICCOLA ANTOLOGIA DI CRITICHE ALLA SPERIMENTAZIONE, DA SUBITO IN POI

 

PAOLO PORTOGHESI, PRESIDE, GEN 1969 3: “Aspetti negativi e irrisolti … sono principalmente i seguenti: a) identificazione troppo semplicistica di didattica e ricerca; b) responsabilizzazione dei docenti subalterni rispetto alla scuola e non rispetto ai professori ufficiali … c) mancanza di rapporti strutturali con le altre facoltà … d) precarietà degli apporti esterni e) insufficiente pubblicizzazione delle attività svolte … f) eccessiva labilità delle strutture didattiche e organizzative che provoca disorientamento e difficoltà di scelta da parte delle matricole, nelle quali si induce un complesso di inferiorità g) ineliminabile sfasamento tra la disponibilità di tempo e dei discenti legato alla impossibilità di pretendere dai docenti, con le attuali retribuzioni irrisorie, la presenza a full-time nella scuola”.

 

DOCENTI DEI “5 GRUPPI” (BOTTONI, CAMPOS VENUTI, CANELLA, MAGNAGHI, ROSSI), GEN 1970 3: “I docenti dei 5 gruppi … valutano che nella storica incapacità del Consiglio di Facoltà di affrontare in termini complessivi l’organizzazione della facoltà, la ripresa volontaristica e soggettiva del singolo gruppo di ricerca non farebbe altro che riprodurre la divisione in ghetti che ha sempre caratterizzato l’assetto di facoltà … disperdendo gli studenti in molteplicità di esperienze non confrontabili….”

 

ASSEMBLEA DEGLI STUDENTI, FEB 1970 (mozione Vecchi) 18: “… iscriversi tutti ai ‘big’ [ovvero i “5 gruppi” suddetti] è la parola d’ordine per riorganizzare gli studenti come tali e per far saltare le principali distorsioni di questi corsi:

-       docenti arroccati nel ruolo di “maestri” che rifiutano di svolgere i loro compiti didattici, affidandoli all’élite clientelare degli allievi;

-       sfruttamento e rigetto degli studenti meno preparati e aggressivi, lasciati ad un inferiore livello di approfondimento…

-       mistificazioni del rapporto tra docenti e Movimento Studentesco …

-       alleanza puramente di potere senza integrazioni né confronti effettivi”

 

MARCELLO DE CARLI, 2010 6:

“LE CAUSE DELLA MANCATA EVOLUZIONE

Cause strutturali. Alcune cause erano “strutturali”. La didattica della Sperimentazione richiedeva un impegno a tempo pieno nell’insegnamento / ricerca, almeno per i docenti delle “ricerche”, e una capacità pedagogica particolare:

-       si trattava di gestire i contributi delle diverse competenze (le cosiddette “discipline”) con un’organizzazione del tempo flessibile (non con un orario rigido), secondo necessità della ricerca e della formazione,

-        si trattava di organizzare una formazione ad un tempo collettiva e personalizzata, diretta a studenti con diversa esperienza, sia per anni di iscrizione che per pregresse esperienze.

La costruzione di una scuola di architettura basata sulla ricerca e sul suo uso sociale richiedeva finanziamenti e, soprattutto, la formazione di un corpo di docenti ricercatori che, abbandonando gli studi professionali, collaborasse negli istituti (poi dipartimenti) in “laboratori” (atelier) di ricerca e progettazione.

Ma il “docente unico a tempo pieno” della Sperimentazione era basato, in gran parte, sul volontariato. …

Non è stata mai seriamente riformato il meccanismo feudale delle carriere universitarie; non esisteva quindi un nesso diretto fra la l’efficacia delle ricerca e dell’insegnamento nella Sperimentazione e la carriera universitaria.

Cause interne: Altre cause erano interne: il frazionamento nei gruppi di ricerca e il sistema di valutazione creavano interessi diversi e contrastanti fra gli studenti.

Studenti e gruppi di ricerca.

Il frazionamento della didattica (docenti e studenti) in gruppi di ricerca in competizione fra loro ha condizionato la politica dell’organico ed ha creato identificazione e concorrenza anche fra gli studenti. Con il mercato delle ricerche si erano formate scuole distinte non solo per l’oggetto dello studio, ma per la tendenza.

Quindi il contraddittorio era diventato più complesso; quello fra controparti con diverso ruolo istituzionale (le categorie: docenti di ruolo, docenti a contratto, docenti volontari, studenti), si intrecciava con quello fra le “scuole”.

Gli studenti, che si identificavano in una tendenza culturale, entravano in competizione con gli altri e le scuole facevano politica dell’organico con i meccanismi di cooptazione tradizionali.

Sistema di valutazione della formazione e valore legale del titolo di studio.

Il procedimento di valutazione degli studenti era autoreferenziale; all’interno del gruppo di “ricerca”, c’erano solidarietà e complicità fra docenti e studenti: “compri” la mia offerta, io ti promuovo; “entrambi difendiamo il risultato del nostro lavoro come prodotto comune”. Il contraddittorio fra docenti e studenti, che aveva alimentato la nascita della Sperimentazione, si era sopito.

La mancanza di un “principio dialettico” che guidasse l’evoluzione.

Era il problema principale. Quando abbiamo organizzato la Sperimentazione pensavamo che fosse necessario ridefinire obbiettivi di formazione, conoscenze, competenze e capacità operative da acquisire; in sostanza i “diritti / doveri” degli studenti, che acquisivano il titolo legale e un conseguente ruolo sociale, e i doveri dei docenti. La definizione di obbiettivi formativi condivisi e la verifica del loro rispetto nella didattica avrebbe dovuto essere lo strumento per mantenere uniti gli studenti nel contraddittorio con le altre categorie e determinare un’evoluzione della Sperimentazione; avrebbe consentito una nuova giusta dialettica fra studenti e docenti ed una valutazione dialettica, nel contraddittorio, dei risultati (formativi e produttivi) delle “ricerche. Questo lavoro fu abbandonato, travolto nel tumulto degli eventi, e la Sperimentazione si cristallizzò.”

 

BERNARDO SECCHI, PRESIDE, INTERVENTO AL CONSIGLIO DI FACOLTA’ OTT 1978 3: “ …nel CdF e nella Facoltà si sono manifestati i primi sintomi di “crisi” quando si è tentato di dare soluzione, sul piano sostanziale, e non burocratico, ad alcuni dei problemi posti dalla sperimentazione precedente.

Quando si è trattato di passare da una generica, anche se profondamente corretta, contestazione della tradizionale divisione del sapere per discipline ad una positiva proposta di riorganizzazione del piano di studi della Facoltà che tenga conto delle esperienze maturate anche in altre sedi; quando si è trattato di passare dal generico anche se corretto rifiuto di dipartimenti disciplinari alla definizione precisa dell’area di interesse e del campo di ricerca di ciascuno dei futuri dipartimenti ‘problematici’ e dei rapporti tra dipartimento e ‘discipline’, ecc. ecc.”

 

RAFFAELE PUGLIESE, 2013 3 :“… Non va nascosto il carattere discriminatorio della Sperimentazione che aveva determinato l’esclusione (allora si diceva auto-esclusione) di una parte dei docenti del vecchio quadro didattico; e un malinteso principio dell’autoregolazione individuale, non sempre accompagnato da corrispondente responsabilità, contrapposto al riconoscimento del merito, con cedimenti demagogici che rendevano legittime le pratiche più riprovevoli e che hanno alimentato tanti equivoci nella e sulla scuola pubblica”.

 

BERNARDO SECCHI, 2013 3: “A partire dalla metà degli anni ’60 una forte spinta rinnovatrice aveva pervaso, con gli inevitabili anticipi e ritardi, le Scuole di Architettura. Si è aperta allora un stagione assai fertile di rinnovamento dei modi di fare scuole, dell’architettura, dell’istituzione, della selezione dei docenti. Sono stati anni importanti, nei quali, sia detto per inciso, l’architettura e l’urbanistica italiane hanno detto qualcosa di importante al resto del mondo. L’aumento improvviso della popolazione studentesca ci ha dato l’ebbrezza e l’illusione di potere, cambiando la cultura del progetto, cambiare la società Questa giusta idea doveva essere gelosamente curata ed invece ha dato luogo, non sempre, ma in molti casi, ad esiti parolai e superficiali … Il modo adottato per risolvere questi problemi è stato dividersi: dividere l’urbanistica dall’architettura, dividere Bonardi da Bovisa, Roma 1 da Roma 2 e 3 … Senza che alla divisione corrispondesse un concreto e riconoscibile progetto scientifico e culturale. Il caso più drammatico, a mio modo di vedere, è quello che riguarda la divisione tra urbanistica ed architettura, divisione della quale paghiamo oggi le conseguenze” ed ancora: “Chi assiste alle tesi di laurea è spesso sopraffatto, sino al disgusto, dalla retorica che vi impera”.

 

ANTONIO SCOCCIMARRO, 2013 3: “La liberalizzazione degli accessi ha avuto un peso determinante … coinvolgendo tutte le istituzioni in un gioco al ribasso. Ovviamente parliamo di Architettura, ma il discorso credo valga anche per altre discipline. Aprire gli accessi all’Università a qualsiasi titolo di studio precedentemente acquisito, ha significato, nei fatti, una dequalificazione degli studi, in quanto si è risposto a una sacrosanta pressione utilizzando le stesse risorse, gli stessi schemi organizzativi, le stesse tecniche pedagogiche utilizzate finora, cioè per una Università di élite. La risposta al diritto allo studio con la liberalizzazione degli accessi così come è stata condotta finora è una operazione populista e demagogica”.

 

 

APPENDICE III – ALTRE TESTIMONIANZE: CLAUDIA CAPURSO SULL’ANNO 66-67

 

Il mio 68 iniziò nel 1966-67.

Avevo scelto Architettura affascinata dai discorsi di due studenti degli ultimi anni, invitati per le attività di orientamento. Puntarono sul ruolo sociale dell’architetto, sulla possibilità di cambiare il mondo con l’architettura… e così via, con eloquio coinvolgente ed esaltante. Ai tempi condividevo le scelte politiche di mio padre ‘socialista nenniano’, ma quell’aria rivoluzionaria mi inebriò. Soprattutto trovavo asfissiante la cappa di ipocrisia che permeava la società pre-68, con i costumi misogini e autoritari, sessuofobi e al contempo libertini.

I due giovani studenti promettevano un’aria pulita.

Le cose andarono diversamente quando, in quel lontano autunno 1966 timida e titubante lasciai il mitico Liceo Leonardo da Vinci per prendere posto (con altri 150 compagni del corso A) nelle grandi aule del piano terreno. 

Nell’aria una grande agitazione: per la prima volta c’era stato un afflusso di iscritti tale da sdoppiare i corsi in due A e B. Noi matricole eravamo solo 300 ma la facoltà era allora estremamente elitaria, fino a poco prima si iscrivevano in tutto un centinaio di allievi per anno, per lo più figli o parenti dei maggiori architetti e dei più noti professionisti di Milano. Noi, sia per numero sia per estrazione sociale piccolo borghese, eravamo guardati con curiosità e considerati   gli avamposti della scuola di massa, eppure eravamo solo in 300… non posso che condividere quello che scrivete al proposito: una vera didattica per una scuola di massa non è mai stata elaborata e ben che meno  sperimentata. 

I primi mesi vagavamo disorientati. Il piano di studi era praticamente diviso in due. Le materie scientifiche (Analisi matematica, Geometria, Fisica...) e quelle propedeutiche all’architettura: Disegno dal vero (con Castiglioni e la sua corte) e Elementi di Architettura (con Gregotti e la sua corte). Unica novità Storia dell’arte che, dopo un avvio noioso, continuò con quell’istrione di Portoghesi.  Le materie scientifiche erano simili all’insegnamento liceale: il docente alla lavagna che spiegava in quelle aule a gradonate del Politecnico teoremi incomprensibili a centinaia di malcapitati, senza far capire a cosa servissero nella formazione dell’architetto.  

Ma ci eravamo abituati e poi ciascuno aveva almeno un ex compagno del Liceo che frequentava ingegneria e che al pomeriggio ci spiegava quello che al mattino non si capiva. 

Il vero dramma invece era rappresentato dai corsi pre-architettonici.  

Sprezzanti e antipatici assistenti distribuivano incomprensibili consegne, senza degnarci di spiegazioni. 

Forse con la speranza di far fuggire più studenti possibili: un modo pratico per trovare soluzioni al sovradimensionamento della facoltà ‘di massa’. E in effetti molti se ne andarono  

 

Gli studenti provenienti dall’artistico facevano disegni stupendi, che invidiavo a morte, ma gli altezzosi assistenti li odiavano e con disprezzo tiravano rigacce.  

Adoravano invece quelli che avevano il diploma di Liceo classico e sopportavano noi dello scientifico.  

Feci amicizia con una bionda studentessa del Carducci e con lei cercammo di capire qualcosa delle criptiche consegne: oggetti misteriosi che dovevamo imballare senza sapere che funzione avessero, strutture da poggiare sul monte Stella (poveretto) senza altre specifiche, kilometri  di letture del contesto urbano (Lambrate) che si limitavano a meri formalismi visivi. Insomma una delusione.  

Ci sentivamo traditi. Così quando nel marzo (mi sembra) ci fu l’occupazione della facoltà con la proposta di sperimentazione aderimmo con entusiasmo sperando che si tornasse a dare un senso alle cose. Il resto lo conoscete. 

 

 

 

 

Fonti:

1. Anna Maria Vailati e Aldo Vecchi - SESSANTOTTO” su Utopia21, maggio 2018, LINK

2 – Catalogo a cura di  Fiorella Vianini - LA RIVOLUZIONE CULTURALE: LA FACOLTÀ DI ARCHITETTURA DEL POLITECNICO DI MILANO 1963 – 1974” – mostra presso Facoltà di Architettura Civile, Milano-Bovisa, 2009 http://www.gizmoweb.org/wp-content/uploads/2009/10/la-rivoluzione-culturale-catalogo-bassa-protetto.pdf

3 – Raffaele Pugliese, Francesca Serrazanetti, Cristina Bergo - SPERIMENTAZIONE DELL’ARCHITETTURA POLITECNICA – Maggioli, Santarcangelo di Romagna 2013

4 – Giancarlo Consonni - IL ’68 DI MILANO-ARCHITETTURA – in AA.VV. – LE ISTITUZIONI UNIVERSITARIE E IL ’68 - a cura di Alessandro Breccia – Clueb, Bologna 2013

5 – Catalogo a cura di Stefano Levi Della Torre e Raffaele Pugliese - OCCUPANTI 1963 – 1968: GLI ESORDI DELLA MODERNA FACOLTÀ DI ARCHITETTURA NELLE FOTOGRAFIE DI WALTER BARBERO – mostra presso Campus Leonardo, Milano, 2011

6 – Marcello De Carli -  http://www.paisia.eu/1967-1968-la-strana-sperimentazione-della-facolta-di-architettura-del-politecnico-di-milano/

7 - https://it.wikipedia.org/wiki/Silvano_Bassetti

8 – Paolo Portoghesi - POLITECNICO 1971, GLI ARCHITETTI COI SENZA TETTO – su “Il Manifesto”, 4 luglio 2021

9 – Fulvio Fagiani - LORENZO FIORAMONTI SULL’ECONOMIA DEL BENESSERE – su Utopia21, luglio 2021 LINK

10 – appello di alcune laureande della Normale di Pisa, luglio 2021 https://www.youtube.com/watch?v=QFLMT_55FaQ

11 – Claudia Capurso - ISTRUZIONE E CULTURA: RIFLESSIONE E FRAMMENTI PER UNA RIFORMA GLOBALE – su Utopia21, maggio 2021  - https://drive.google.com/file/d/1p5l8ZomCMJoJE17ANu17tT6Gb__pUInW/view?usp=sharing

12 – Antonio Balistreri e Fulvio Fagiani – SOLITUDINE DIGITALE – Asterios Abiblio editore, Trieste 2021

13 – Alberto Magnaghi, Augusto Perelli, Riccardo Sarfatti, Cesare Stevan – LA CITTA’ FABBRICA – Clup, Milano 1970

 https://www.inventati.org/apm/archivio/P6/14/P614_029.pdf

14 – CittàBeneComune (Casa della Cultura) – intervista ad Alberto Magnaghi https://www.youtube.com/watch?v=9C_2gYZcOyE Milano, 20 aprile 2021

15 – Aldo Vecchi - IL FENOMENO URBANO: E LA COMPLESSITA’? DUBBI SUL SAGGIO DI BERTUGLIA E VAIO – su Utopia21, novembre 2019 - https://drive.google.com/file/d/1slYfODN_JFQIFR2dndnyn7Iw0dfg0vuD/view?usp=sharing

16 – Aldo Vecchi - CASA ITALIA? – su Utopia21, ottobre 2016 - https://drive.google.com/file/d/1LvMOxLcXJ9mnV3AsEkVjSYG5OBTbA-8H/view?usp=sharing.

17 – Stefano Levi, Luigi Manconi – LA RIPRESA DELLE LOTTE STUDENTESCHE A MILANO: DA VIALE TIBALDI A CITTA’ STUDI – su “Quaderni Piacentini” n° 44-45, ottobre 1971

18 – Mozione – TUTTI AGGRESSIVI DAI BIG – Ciclinprop, febbraio 1970 - da archivio privato.

 

 

 



[A] Unione Nazionale Universitaria Rappresentativa Italiana: le associazioni degli universitari, a metà tra goliardia e sindacalismo, erano anche le palestre in cui crescevano le nuove leve dei vari partiti della ‘prima repubblica’

[B] Unione Goliardia Italiana

[C] Associazione Goliardia Italiana

[D] Sistematica raccolta di documenti a cura del movimento degli studenti; gli scriventi purtroppo detengono attualmente solo il volume 2°, dal 18 marzo

[E] Poco più tardi, nel dicembre 1969, lo stesso Consiglio di Facoltà individuò come “problemi centrali da affrontare a livello di Facoltà…1) Bisogni sociali e conflitti di classe nella attuale condizione urbana 2) Rifondazione metodologica dell’architettura e dell’urbanistica rispetto alla crisi del movimento moderno” 3

[F] emblematico è anche il percorso culturale di Alberto Magnaghi, che era approdato da Torino (dove già si occupava di “Città Fabbrica”, ma come esperienza politica nei quartieri) formulando per il 1968  una proposta su tecnologia e prefabbricazione (con il prof. Ciribini), e che invece – con Perelli, Sarfatti e Stevan, assistenti transfughi da altri docenti – dal 1969 promosse a ricerca per l’appunto il rapporto Città/Fabbrica 13 : non ancora intellegibile la sua successiva sensibilità ambientale 14 (di ambiente prima del 71 ancora non si parlava, se non qualche cenno forse da parte di Silvano Tintori).

[G] nonché il rifiuto delle mediazioni proposte dagli scientifici più moderati, tra cui la Professoressa Elisa Guagenti Grandori e suo marito, il pro-rettore Giuseppe Grandori, che tra l’altro ponevano – invano – domande su quale fosse l’asse culturale alternativo in termini di ipotesi di sbocco professionale: vedi in proposito il testo di Giancarlo Consonni ed i documenti raccolti da Pugliese&C.

[H] E tuttora non deve essere molto chiaro, leggendo sul volume di Pugliese&C.3 le risposte di 18 illustri protagonisti del dibattito culturale specifico nel 2013 a fronte di precise domande

[I] Ad esempio, nel nostro percorso scolastico, il professor Bruno Montagnini, su proposta degli allievi, piegò Analisi Matematica II ad una decostruzione-ricostruzione del “Piano di sviluppo del Piemonte” elaborato dall’I.R.E.S. nel 1967 (prima della istituzione delle Regioni ordinarie): una complessa matrice econometrica inter-settoriale e territoriale (ispirata alle teorie di Wassili Leontieff e di Vera Cao Pinna, e applicata in Piemonte su impulso di Siro Lombardini e di Angelo Detragiache 15),la cui proiezione temporale però funzionava solo per “iterazione” di tentativi e non con brillanti equazioni.

Il professor Giulio Ballio (futuro rettore), per Scienza Costruzioni I, si affiancò alla ricerca diretta da Bruno Garzena sui bisogni abitativi, approfondendo il rapporto tra ipotesi di prefabbricazione pesante e sistema dei trasporti.

Con più ampio respiro Duilio Benedetti per Scienza Costruzioni II ci introdusse a ragionare in termini macro-economici sulla prevenzione sismica16 .

[J] Il personaggio Kandebù traeva il nome da una contrazione dello slogan del maggio francese “ce n’est qu’un debut, continuon le combat”

[K] Il testo di Consonni approfondisce poi le oscillazioni tra scontro frontale e possibili mediazioni nel ’68 (si trattava sui limiti interpretativi della “cauta sperimentazione” enunciata da una circolare del ministro Gui) e inquadra i successivi esiti – a nostro avviso con qualche imprecisione storica – nella contrapposizione tra riformismo ed estremismo

[L] Il testo di Marina Molon tende a restituire la soggettività dei fondatori del movimento studentesco e in tale contesto evidenzia la personalità di Walter Barbero

[M] Il saggio di Stefano Levi della Torre prosegue inseguendo gli sviluppi delle battaglie politico culturali di studenti ed architetti nel mutare dei contesti e delle tendenze nei successivi decenni.

[N] Il contributo di Raffaele Pugliese (come d’altronde il successivo testo con Serrazanetti e Bergo) cerca inoltre di cogliere le tracce (controverse) degli schieramenti maturati nel 67-68 nelle successive vicende culturali e organizzative della Facoltà (anzi delle 2 facoltà in cui si dividerà tra il 1997 ed il 2015: Bovisa e Campus Leonardo, mentre dal 2000 nasce la Facoltà di Disegno Industriale) e dei prodromici e connessi Dipartimenti. 

[O] (NOTA DI M. DE CARLI) Pensavamo a una ristrutturazione dell’organico universitario fondata sul “docente unico”, correlata alla domanda di istruzione degli studenti, in sostituzione del mai soppresso sistema feudale e autoreferenziale allora e ancora oggi vigente.

[P] (NOTA DI M. DE CARLI) È stato un testo importante per la nostra generazione. Mostrava quanta capacità di formazione ci fosse nello scambio fra gli studenti dei diversi anni, i maggiori che insegnano ai minori, i minori che obbligano i maggiori a spiegare agli altri e in questo modo a spiegare a sé stessi. Cattolico e socialista insieme. O forse solo umano.