giovedì 21 maggio 2015

L’UTOPIA ANTI-EROICA DI LUIGI ZOJA

Ho letto “UTOPIE MINIMALISTE – UN MONDO DESIDERABILE ANCHE SENZA EROI” di Luigi Zoja (ChiareLettere, Milano 2013, pagine 232) a seguito dell’intervista e segnalazione nel programma televisivo “Scala Mercalli”, dell’omonimo metereologo ed ecologista Luca Mercalli.
Programma che ho trovato gradevole e non gridato (come invece le Gabanelli e gli Jacona della medesima fascia oraria su RaiTre) e spero quindi che sia risultato credibile ed efficace anche verso spettatori non pregiudizialmente ecologisti.
Nel taglio giustamente divulgativo, ma abbastanza approfondito, del programma di Mercalli non ho trovato molti spunti per ulteriori letture (se non già indotte da precedenti interventi di Mercalli presso FabioFazio), ma mi ha incuriosito la presentazione del testo di Zoja, sia per il gradualismo proposto, sia per l’approccio psicologico ed antropologico.

Luigi Zoja, psichiatra di scuola Junghiana e laureato dapprima in economia, percorre in lungo ed in largo i temi socio-economici e politici nel passaggio dal secolo XX al XXI, dalla caduta del comunismo e di ogni mitologia rivoluzionaria alla crisi dello stato sociale, dalla globalizzazione finanziaria allo stress ambientale del pianeta terra, cercando di applicare alla storia del mondo alcune categorie di interpretazione  proprie della sua esperienza di psicanalista (junghiano): a mio avviso con risultati alterni.

I contenuti più strettamente descrittivi delle contraddizioni e disuguaglianze nel  mondo contemporaneo, ed a partire dal crollo del blocco sovietico, mi sono sembrati corretti, ma non particolarmente originali.
Pregevole mi è parso il tentativo di contrapporre al liberista ed anti-solidale “Tax Freedom Day” (il giorno dell’anno in cui il contribuente ha finito di lavorare per pagare tasse e contributi) un calcolo dei pochi giorni che all’uomo occidentale bastano ogni anno per procurarsi quanto è veramente necessario; più scontate le considerazioni sul disagio fiscale verso le odierne nazioni, scavalcate dalla globalizzazione, a fronte di una accettazione più facile del carico fiscale con istituzioni locali forti e federate (esempio svizzero).

Più interessanti, ma discutibili, le considerazioni antropologiche e psicologiche.
Un assioma di fondo di Zoja (pag. 206) è che “tenere un diario, annotare i propri sogni,  o comunque  cercare di conoscere meglio se stessi, col tempo finirà coll’essere anche per la società un contributo più importante che il partecipare a manifestazioni rumorose”; raggiungere “l’individuazione” (cioè in sostanza la pace con se stessi) è la premessa ad una vera empatia sociale ed ambientale, fondata più sulla “vergogna” della corresponsabilità nei mali del mondo che sull’indignazione per il male altrui.
Per altro, dice Zoja, il raggiungimento dell’individuazione non si può programmarlo (mi sembra che assomigli un po’ alla grazia divina calvinista).

Pur comprendendo l’importanza dei riti e dei miti (archetipi junghiani) correlati alla militanza rivoluzionaria, Zoja considera molto dannosi i comportamenti astrattamente e “alienatamente” altruisti, propri del ciclo storico comunista, e propone la ricerca di un culto più intimista e rilassato di “utopie minimaliste”; confidando che nella rassegnata resistenza passiva della “generazione indifferente” possano maturare (anziché il narcisismo egoista, che a me sembra comunque incombente) comportamenti solidali, secondo la “naturale socialità dell’uomo” cara a Jung,  ed alternativi alla omologazione consumista, incontrando anche altre culture e altri archetipi: la natura, grande madre, ufficializzata anche nelle costituzioni delle nuove democrazie andine, e la comunità dei viventi, animali e vegetali inclusi, propria delle religioni orientali.   
(Temi che Zoja ritrova nella cultura occidentale solo di recente, con Peter Singer e Paolo De Benedetti, considerando Francesco d’Assisi come un eccezione isolata: trascura invece importanti pensatori e testimoni del Novecento, cresciuti tra cristianesimo ed illuminismo, come Albert Schweizer e Aldo Capitini, quest’ultimo rilevante non solo per il vegetarianesimo e la non-violenza come strumento di lotta, ma anche per la ricerca della felicità entro il lavoro, “endoponia”, che può assomigliare alla “individuazione”, su un versante più laburista).

Proseguendo un ragionamento di  Freud, Zoja contempla uno sviluppo a tappe del superamento dell’ego-centrismo occidentale attraverso Galileo e Copernico (la terra perde il centro nell’universo), Darwin (anche l’uomo appartiene al regno animale), Freud stesso (l’io razionale come parte minoritaria della psiche) per arrivare ad un pieno rispetto di tutte le specie viventi e degli equilibri dell’ecosfera.
Correlato è il percorso culturale proposto attraverso:
- Thoreau e Chomsky (contro Foucault, per il socialismo libertario, senza paradigmi preconcetti ed anche  come autorealizzazione dell’individuo),
- Borges (sorprendentemente anti-nazionalista)
- Enzensberger sul minimo di civiltà (le condizioni per la convivenza civile, assicurate in ristretti luoghi del globo) e sulle contraddizioni del superfluo, che portano alla povertà di spazio  e di tempo.
Con ulteriori riflessioni di Zoja sull’attesa che divora la vita, vuoi per eccesso di pretese (ad esempio la non accettazione dell’invecchiamento), vuoi invece per carenze di garanzie (il precariato).

Mi sembra interessante la proposizione dei “diritti dell’uomo dell’ambiente” non solo come difesa dagli inquinamenti, ma come “diritti positivi” all’acqua, all’aria respirabile, al cibo, alla luce ma anche al buio ed al silenzio, al poter camminare sulla superficie terrestre senza pericoli e barriere: il tutto anche come diritto alla salute psichica (e qui però mi sarei aspettato di apprendere maggiori dati sulla concretezza del disagio e del benessere per l’umanità urbana contemporanea).  
Più debole invece mi pare la proposizione dei diritti della natura, che non solo sono indeboliti, come dice Zoja, perché gli animali non votano, ma anche (tema ignorato da Zoja) per i rischi di fondamentalismo impliciti in ogni rappresentanza della natura assunta da gruppi umani (rischi maggiori, secondo me,  di quelli insiti nelle  militanze rivoluzionarie socialiste dei precedenti due secoli; perché alla fin fine i poveri, votando, magari in modo sbagliato, possono liberarsi dei falsi rappresentanti: i criceti invece no). 

Non mi ha convinto affatto la sua semplificazione sulle “generazioni”: la “generazione impegnata”, dal dopoguerra agli anni 70, che lottava contro le disuguaglianze in un periodo in cui il capitalismo, mitigato dalla socialdemocrazia, consentiva il massimo di relativa uguaglianza, e la successiva “generazione indifferente”, che non lotta più, mentre le disuguaglianze nei paesi sviluppati tornano ad espandersi ai massimi livelli.
Avendo appartenuto alla prima, rammento benissimo che la componente “impegnata” riuscì, chiassosamente e capillarmente, a conquistare una centralità politica e mediatica: ma era una componente minoritaria dell’universo statistico dei giovani di allora (ad esempio sono certo che la maggioranza dei miei compagni di liceo non ha mai preso parte ad alcuna manifestazione), e mi sembra scorretto confondere la parte con il tutto, trascurando i conflitti interni alle generazioni.

Non mi convince nemmeno il paradigma di Che Guevara come padre irresponsabile sia verso i suoi figli naturali che verso i suoi figli politici, anche se appare efficace la descrizione della parabola discendente del militante rivoluzionario frustrato (e non eroicamente caduto), che diviene incapace di leggere la realtà e di abbandonare strumenti concettuali ormai fallimentari e controproducenti: tutte queste critiche mi sembrano efficaci applicandole a chi ha scelto una militanza volontaria, molto meno per tutti coloro che hanno lottato, e lottano, semplicemente prendendo coscienza della loro oggettiva condizione subalterna e di sfruttamento (ed a cui manca il tempo forse per sfogarsi sul lettino dello psicanalista).

Per finire, anche se è chiaro il fallimento del comunismo nel tentativo di realizzare un uomo nuovo (da Stalin a Pol Pot) ed anche l’effetto controproducente dell’estremismo rivoluzionario (Che Guevara), occorre forse chiedersi se le mitigazioni di tipo socialdemocratico al capitalismo nel periodo 1945-75 (nei soli paesi sviluppati) sarebbero state possibili senza che aleggiasse altrove lo “spettro del comunismo”; ed infatti con il declino e poi il crollo del blocco sovietico abbiamo assistito ad un rilancio del liberismo finanziario selvaggio.
D’altro canto la strada di migliorare l’uomo per migliorare il mondo, pur in chiave diversa dalla “individuazione” junghiana,  è stata lungo predicata dal cattolicesimo democratico (quando la Chiesa ha perso il potere temporale e la pretesa di insegnare ad obbedire ai sovrani cattolici), ma non mi sembra con grandi risultati sociali, almeno all’interno dei paesi ricchi.

Forse anche il riformismo, per essere efficace, ha bisogno di qualche dose di utopia non troppo minimalista e di una dimensione collettiva ed in qualche misura militante, a partire dagli interessi concreti dei soggetti sociali (probabilmente a partire dai paesi poveri, e sperabilmente in armonia con la grande-madre-terra).

lunedì 18 maggio 2015

COSA INSEGNA LO SCONTRO SULLA SCUOLA?

Non so se qualcuno rammenta che nel vago programma con cui Renzi vinse le primarie PD del 2014, i temi della scuola erano affidati ad una promessa di ampia consultazione, nel PD e nel paese, attraverso lo stesso PD.
Conquistato partito e governo, Renzi ha lanciato invece la consultazione sulla bozza “la buona scuola” direttamente “nel paese”, gestendola attraverso moderni strumenti informatici e più antichi funzionari ministeriali; alcuni circoli e spezzoni del PD di base hanno anche partecipato alla consultazione, compilando i loro bravi questionari, e formulando diligenti proposte.
Per il resto il PD è stato assente, in conformità alla sua ormai prevalente natura di comitato elettorale, tanto nella versione “ditta di Bersani” quanto nella versione “ditta acquisita da Renzi”.
I risultati della consultazione, pur consultabili nei siti governativi, non sono stati affatto spiegati all’opinione pubblica, e nemmeno ai partecipanti alla consultazione.

Poi un bel giorno il tema è piovuto nell’o.d.g. del parlamento (senza l’usbergo dei decreti legge, giustamente sgraditi al nuovo Presidente della Repubblica, e - finora - anche senza lo scudo del voto di fiducia), e ci si è accorti all’improvviso che la sintesi effettuata a tavolino tra la bozza iniziale e l’ampia consultazione (più i paletti degli alleati di centro-destra su presidi, concorsi e scuole private) non gode del consenso della maggioranza degli insegnanti e  di parte di studenti e genitori (piace solo ai dirigenti scolastici?).
Da qui la rincorsa mediatica (quasi solitaria) di Renzi-in-persona con tele e video e messaggi, e la corsa sul carro del dissenso sindacale da parte di tutti[a1]  i numerosi nemici-di-Renzi (che puntano essenzialmente a fermare la riforma per fermare Renzi), nonché la riscoperta:
- da parte del governo, del buon vecchio strumento, inedito per Renzi, della trattativa e della mediazione (fino a che punto si vedrà) 
- da parte del mondo sindacale del (meno buono) vecchio strumento del blocco degli scrutini (fino a che punto si vedrà).

Il concitato confronto mette in ombra i contenuti generali della riforma proposta (e delle eventuali alternative, invero non pervenute alla pubblica opinione) e focalizza l’attenzione su 3 punti principali del dissenso (potere selettivo dei presidi, confine tra i precari già garantibili e quelli da sottomettere a ulteriori concorsi; finanziamento pubblico agli allievi delle scuole private e finanziamenti privati alle scuole pubbliche), su cui per altro non mi sembra impossibile una decente mediazione (piegando qualche paletto di centro-destra).

Nel merito di pregi e difetti della riforma governativa già mi ero addentrato (anche compilando il mio diligente questionario per la consultazione on-line) – vedi post del 27-10-14 - , e mi riservo di tornarci a bocce ferme.
Per ora vorrei invece rilevare
-             che a quanto pare Renzi non è sempre questo grande stratega e neppure grande comunicatore, ma forse continua a giganteggiare nel mondo politico (almeno fino alle prossime regionali…) per il nanismo diffuso tra i concorrenti, singoli e associati, dentro e fuori il PD;
-          che una politica riformista fatta solo dal governo  e attraverso i media può riuscire fino ad un certo punto, se mancano soggetti politici riformisti, siano essi di sinistra oppure di centro;
-               che gli insegnanti, al di là delle parole, sono disposti a scioperare per essere immessi in ruolo (i precari interessati) e per non essere giudicati dai loro dirigenti (quasi tutti) e non più di tanto invece per le questioni sociali che a mio avviso restano scoperte in questa riforma, quali il diritto allo studio, la lotta all’evasione scolastica e l’estensione dell’obbligo scolastico fino ai 18 anni;

-          ciò non mi stupisce da parte dei sindacati autonomi e corporativi, ma alquanto da parte dei confederali, che qui difendono i privilegi relativi degli insegnanti (inclusi gli orari complessivi di lavoro e gli scatti automatici di anzianità), ma nel restante pubblico impiego (in cui vigono 36 ore settimanali per 47 settimane all’anno e nessuno scatto di anzianità) hanno subito e subiscono, senza sciopero alcuno, rilevanti fasce di precariato e addirittura hanno concordato meccanismi di carriera, quali le progressioni “orizzontali e verticali” (per altro ormai solo potenziali, essendo esaurite le risorse contrattuali) fondati esclusivamente sul merito, tramite concorsi interni o valutazioni comunque gestite dalla dirigenza. 

sabato 9 maggio 2015

IL LUNGO XX SECOLO DI GIOVANNI ARRIGHI

Laddove Hobsbawn vedeva il Novecento come secolo “breve”, focalizzando l’attenzione sulle vicende politico-sociali, ed individuandone pertanto l’inizio con la prima guerra mondiale e la rivoluzione di ottobre, ed il termine con la caduta del muro di Berlino e la dissoluzione del “socialismo reale”, lo sguardo multidisciplinare di Giovanni Arrighi (“Il lungo XX secolo – denaro, potere e le origini del nostro tempo” – Il Saggiatore, Milano 2014, pagine 435, disponibile anche in e-book) identifica il Novecento come la fase di accumulazione capitalistica ad egemonia USA, con prodromi ancora nel XIX secolo e sentori crepuscolari a cavallo tra il XX ed il XXI.

Il fluido e poderoso racconto di Arrighi (economista italiano, 1937-2009, emigrato dapprima nell’Africa post-coloniale e poi negli Stati Uniti, con un importante intermezzo a cavallo del ’68 a Trento ed a Cosenza, nonché come animatore del “Gruppo Gramsci”) colloca il ciclo statunitense nell’ambito di una successione di cicli di accumulazione finanziaria e di potere lunga cinque secoli, quanto la storia dell’odierno capitalismo, a partire dal tardo medioevo ed attraverso le seguenti fasi, che riassumo schematicamente come segue, in parte con parole mie:
-          Periodo della “nazione genovese”(dal Cinquecento all’inizio del Seicento), che – malgrado la sconfitta ed il ridimensionamento della repubblica di Genova nel confronto con Venezia e nell’esito del conflitto totale (ma non privo di fasi cooperative) tra le città-stato italiane (tra cui primeggiarono anche Firenze e Milano) ed i loro ceti mercantili – inventando la moderna finanza, imparando dagli errori e dai fallimenti dei banchieri fiorentini e acquisendo la capacità di lucrare sui prestiti agli stati, ed in particolare al nascente impero spagnolo, trasformò le risorse accumulate con il commercio attraverso il Mediterraneo, ormai calante, in strumento di egemonia delle famiglie genovesi (anche in esilio) sul nascente mercato finanziario mondiale, a partire dalle “fiere di cambio” e attraverso il monopolio dell’argento che fluiva dalle Americhe all’impero spagnolo;
-          Periodo olandese (fino a metà Settecento), caratterizzato dall’intreccio tra la capacità di intermediazione finanziaria (mutuata dai genovesi ed iniziata anche con i loro stessi capitali) ma anche commerciale (con i magazzini globali nei porti olandesi) ed una organizzazione politica e militare pubblico-privata con ascendenze nel modello veneziano (le Compagnie delle Indie), pragmatica e “spietata”, perché efficacemente orientata al profitto anziché a miti astratti di dominio e proselitismo qual’era quella degli imperi iberici, dagli olandesi direttamente sfidati ed in parte soppiantati, dal mare del Nord agli oceani;
-          Periodo britannico (fino all’inizio del Novecento), derivante da un lungo periodo di incubazione, dopo le sconfitte (e i conseguenti indebitamenti) dei Tudor sui fronti continentali, attraverso l’accorta politica  e la fortuna marinara&piratesca di Elisabetta I e sir Francis Drake, con stabilità monetaria e precoce industrializzazione, che ha portato a cavallo del periodo napoleonico a valorizzare la posizione insulare ai margini dell’Europa e le basi coloniali in tutto il mondo (malgrado l’indipendenza degli Stati uniti d’America, comunque rimasti terra di investimenti britannici) per impostare un nuovo sistema complessivo di dominio commerciale, industriale, finanziario e diplomatico (ed anche militare, per quanto necessario) imperniato sulla City, il libero scambio, la conversione aurea della moneta, il Parlamento e la collaborazione delle borghesie delle altre nazioni “liberali” (e bianche), con una molteplicità di imprese flessibili (ed un uso strumentale e temporaneo dei monopoli delle Compagnie),  surclassando infine i rivali olandesi (parziali finanziatori della stessa City);
-          Periodo americano, fondato sulla crescita di un enorme mercato interno, affacciato su due oceani, e sulla organizzazione di grandi compagnie (anche sul modello delle industrie tedesche, protette dallo Stato bismarckiano nella vana rincorsa verso la supremazia britannica), divenute poi trasnazionali ed in grado quindi di inglobare i costi delle transazioni con l’estero; gli U.S.A., dapprima finanziati da Londra, ne divengono finanziatori per le immani spese britanniche nella 1^ guerra mondiale (e poi nella 2^) e subentrano alla Gran Bretagna nel ruolo di egemonia e dominio sul “mondo libero” in relazione alle vicende politico-militari delle suddette guerre mondiali (che li coinvolgono senza scalfirne il territorio), della decolonizzazione e della “guerra fredda” contro l’impero socialista-sovietico, in un quadro di liberismo parziale (mischiato al protezionismo) e di definitivo abbandono della convertibilità aurea della moneta.

In questa periodizzazione Arrighi, sulla scorta di fondamentali ricerche storiche di Fernand Braudel e di impulsi del suo collega in ricerche socio-economiche “africane” Immanuel Wallerstein e di Beverly Silver, e attingendo a numerosi studi di autori anglosassoni contemporanei (ma non trascurando i contributi più datati di Marx, Weber, Pirenne, Polanyi, Gramsci, ecc.) mette in evidenza:
-           come ad una fase “centrale” di massimo impiego diretto dei capitali nelle attività commerciali/produttive specifiche di ciascun ciclo di accumulazione, segua – a partire da una prima “crisi di avvertimento”, che ha a che fare con la “caduta tendenziale del saggio di profitto”, ovvero con la concorrenza eccessiva e la saturazione dei mercati maturi - una fase “autunnale” di massimo splendore “culturale” e però di turbolenza economica, che sfocia in una elevata volatilità dei capitali, una ricorrente “finanziarizzazione”, che di fatto finisce per favorire i poteri nascenti di nuovi soggetti e di nuovi paradigmi politico-economico-finanziari;
-          come la durata temporale dei cicli capitalistici in esame sia andata accorciandosi e come si siano sviluppate inclusioni ed antinomie nelle rispettive modalità organizzative (ad esempio i britannici sconfiggono gli olandesi copiandone solo in parte i modelli, ma recuperando anche alcune flessibilità tipiche dei genovesi, e così via);
-          quanto la crisi dell’espansione post-bellica maturata negli anni ’70, con lo shock petrolifero e la sconfitta in Vietnam, ed il successivo rilancio neo-liberista ed iper-finanziario dell’egemonia USA assomigli ai momenti “autunnali” dei precedenti cicli (ed in particolare alle fasi di crisi del secondo ottocento e successivo splendore apparente della “Belle époque”).

Arrighi non propone assolutamente considerazioni meccaniche e deterministiche per prevedere il futuro sulla base dell’esperienza passata, ma – limitandosi a formulare alcune ipotesi alternative sulle tendenze in atto - fornisce strumenti di interpretazione molto utili sul presente, con analisi molto dettagliate sui rapporti tra economia statunitense e “tigri asiatiche” (Giappone, Corea del Sud, Hong-Kong, Taiwan), purtroppo limitate sul versante della Cina e sulla valutazione della ulteriore crisi finanziaria iniziata nel 2008 a causa della prematura scomparsa dell’Autore nell’anno 2009, data a cui risale l’epilogo del testo, impostato nelle sue parti principali nel 1994.

Per motivi di spazio non riassumo qui le parti più aperte, problematiche e forse meno mature del testo di Arrighi, relative alla seconda metà del Novecento ed all’inizio di questo secolo, che ritengo comunque molto stimolanti, soprattutto laddove delinea un ruolo, forse subalterno e però per alcuni aspetti anche decisivo, ai conflitti di classe e dalla “resistenza” degli sfruttati, nonché dove intravvede tra le possibili variabili discriminanti per ulteriori cicli di egemonia globale (in alternativa ad un altrettanto possibile caos) la capacità di “internalizzare” nei cicli economici, dopo i costi di produzione, commercializzazione e finanziarizzazione (quanto avvenuto dal Cinquecento ad oggi), anche i costi di “riproduzione” non solo della forza-lavoro ma dell’insieme umano e ambientale del mondo intero.

Alcuni critici di sinistra hanno imputato ad Arrighi una sottovalutazione programmatica dei conflitti sociali, in coerenza ad una sua esperienza e visione “terzo-mondista” (ad esempio nei suoi precedenti studi sulla proletarizzazione senza sviluppo delle periferie del mondo capitalista ed in generale nell’assegnazione di un ruolo parziale all’industria ed ai rapporti di produzione).

A mio avviso lo sforzo di comprensione inter-disciplinare di Arrighi è già molto vasto ed una attenzione di altri autori sulle lotte sociali potrebbe integrarne la sua lettura di questa storia di mezzo millennio di capitalismo, probabilmente senza smentirla (come afferma anche Mario Pianta nella prefazione al testo edito in Italia nel 2014, indicando anche altre significative direzioni di ulteriore ricerca a partire dalle acquisizioni ed intuizioni di Arrighi).


Così come tale lettura mi sembra conciliabile con altre ricerche da altri punti di vista parziali, da me recentemente apprezzate, quali quelle di Luciano Gallino e di Paolo Leon (sul finanz-capitalismo di oggi, ma senza i precedenti storici pluri-secolari), di Thomas Piketty (sulla accumulazione del capitale dal Settecento, ma con poca attenzione alle dinamiche ed alle transazioni internazionali), di Paolo Prodi (sulla genesi dei mercati dal Medioevo, nella emancipazione dai poteri religioso e politico); mi sembra inoltre un utile correttivo ai contributi ancor più parziali (e da me meno apprezzati), ma comunque originali ed utili, di Graeber sul debito nei secoli e di Acemoglu&Robinson sui governi “estrattivi” e la benefiche distruzioni creatrici del capitalismo.    

lunedì 4 maggio 2015

VIOLENZA E CULTURA

“…non c'è niente, in quello che avete fatto oggi, proprio il nulla. niente politica, nessuna causa, nessun progetto, nessun contenuto.”
Sul piano propagandistico questo giudizio di Cecilia Strada (presidente di Emergency) sui cosiddetti black-blok, provenendo dall’interno (o quasi) dei movimenti alternativi, potrebbe avere una sua efficacia verso i militanti dispersi e potenzialmente attratti dalla violenza distruttiva.
Ma sul piano concettuale, come ogni demonizzazione, non regge, e a mio avviso non aiuta a capire, e quindi nemmeno a sconfiggere, se lo si vuole, le posizioni “anarchico-insurrezionaliste”.
I “black-blok” non spiccano per trasparenza, nemmeno verso i movimenti attigui, ma dimostrano organizzazione, efficienza, determinazione, conoscenza del territorio urbano e capacità di trascinamento su parte del “paesaggio sociale” movimentista cui si rivolgono.

E’ già questa a mio avviso è, a loro modo, “politica”, “progetto” e “contenuto”.
Inoltre, senza voler dimostrare indimostrabili coincidenze, tali comportamenti assomigliano molto a copiose, articolate  ed anche autorevoli “narrazioni” che percorrono gli ambienti antagonisti, da David Graeber a Erri De Luca, dentro le quali si può ben leggere una giustificazione alla ribellione violenta ed in forme anonime ovvero semi-clandestine.
Tali ideologie derivano da una interpretazione parziale ed unilaterale delle contraddizioni e dei conflitti sociali, effettivamente alimentati dalla globalizzazione e dal finanz-capitalismo: la premessa è che l’oppressione esercitata dal potere è pervasiva, coinvolge la comunicazione ed il linguaggio, corrompe le coscienze, e quindi la ribellione può essere esercitata necessariamente solo da una minoranza che ha il dono di capire e riscattare, a loro insaputa, tutti gli altri oppressi.
Anche Guy Standing (citato giorni addietro a sproposito da Civati), aiuta a formulare pensieri fondamentalisti, quando identifica il precariato come classe antagonista, ignorando i lavoratori autonomi e spacciando operai ed impiegati per “ceto medio” (e prende lucciole per lanterne, individuando proprio nei pomeriggi milanesi dei precedenti primi di maggio il “sorpasso” dei precari sul vecchio movimento operaio, dimenticando tra l’altro gli svariati centomila giovani dei concertoni romani).

Criticare seriamente gli antagonisti-violenti, prendendoli sul serio, a mio avviso è anche necessario per sviluppare produttivamente l’auto-critica annunciata da alcuni esponenti dei movimenti che stanno tra alternativa e antagonismo, per chiarirsi:
- sulle premesse (chi e come è legittimato ad agire in nome degli sfruttati piuttosto che della natura e dell’ambiente),
- sugli obiettivi (sabotare il sistema o costruire schieramenti alternativi)
- e soprattutto sulla prassi, perché, se ci si vuole differenziare dai black-blok e se ne intuisce il gioco (e non si è capaci, o non si vuole, controllarli in loco), forse è meglio cercare nuove forme di lotta, superando le manifestazioni di strada e convocare invece ad esempio dei sit-in nei parchi oppure, sul tema Expo, marciare dimostrativamente verso cascine abbandonate e campagne stravolte dalla cementificazione periferica.

Personalmente ritengo che la discriminante della non-violenza vada applicata “a prescindere”, in un contesto formalmente democratico, anche per dimostrarne eventualmente la falsa democraticità, perché è il solo modo per non prevaricare le volontà e le coscienze degli “altri” oppressi, cui ci si dovrebbe rivolgere per allargare un fronte di critica operosa alle distorsioni dello stato di cose presente; chi crede ancora nelle scorciatoie leniniste dovrebbe dirlo, senza nascondersi dietro la lettura della violenza come naturale espressione del disagio sociale (fenomeno esistente ma, mi sembra, assai marginale in Europa).


POST SCRIPTUM Il giudizio di Cecilia Strada sui black-blok mi ha ricordato la posizione di Norberto Bobbio nel dibattito con Luisa Mangoni, negli anni ’70, secondo cui nel fascismo non c’era cultura, ma solo retorica (confronto che mi sembra sia stato vinto “ai punti” dalla Mangoni con le sue puntuali ricerche); rammento in particolare che Bobbio sosteneva che di Bottai non rimaneva nulla, mentre è tuttora vigente la legge urbanistica del 1939, e quella sul paesaggio ed i beni culturali ha funzionato da allora fino agli anni 90.

ITALICUM: LA SECESSIONE DEI GENERALI SENZA TRUPPA

PREMESSA:
-          Il mio personale giudizio sull’Italicum e che presenta difetti (che ho già illustrato in precedenza; in breve: rischio di ballottaggio tra 2 partiti poco votati; troppi deputati nominati, anche a causa delle candidature in più collegi): ma non è l’anti-democrazia né l’anticamera del fascismo (ESAGERUMA NENTA…);
-          Maggiori rischi di autoritarismo li ho riscontrati nel progetto di riforma costituzionale, non solo per la modalità di selezione dei senatori, ma soprattutto per il peso eccessivo della maggioranza della Camera (alterata dal premio di maggioranza) nella elezione del Presidente della Repubblica e degli altri organi di garanzia;
-          Poiché l’Italicum si applicherà solo per la elezione della Camera, resterà di fatto inoperante fino al termine della riforma costituzionale.

SVOLGIMENTO (MANCATO):
Teoricamente sarebbe stato possibile un accordo migliorativo e pacificatore dentro il PD e la maggioranza governativa, senza perdere tempo effettivo anche in caso di un ulteriore passaggio della legge al Senato; oppure un accordo politico che lasciando l’Italicum immutato anticipasse una nuova soluzione condivisa per la riforma costituzionale.

ESITO:
1 – Renzi, violando il galateo istituzionale, ha voluto superare in sicurezza l’ultimo passaggio parlamentare dell’Italicum, ponendo la fiducia;
2 – la ribellione delle correnti minoritarie del PD (che era mancata sul job act e sulle precedenti puntate dell’Italicum) ha avuto origine dalla possibilità di  far pesare il loro maggior peso virtuale dopo la caduta del  patto  del Nazareno tra Renzi e Berlusconi;
3 -  l’esito della schermaglia è stato, all’opposto una secessione di generali senza truppa (parlamentare, e ancor meno nel Paese) ed un sostanziale  rafforzamento strategico di Renzi nel PD ed in Parlamento (forse anche al Senato, dove però rischia di più) e della sua tattica decisionista.

CONDIVISIONE:
Oltre le ragionevoli critiche di metodo sulla apposizione della fiducia, Enrico Letta ha motivato la sua opposizione finale all’Italicum con la questione della “mancata larga condivisione”.
Vista la storia recente (ed anche i precedenti di Berlusconi con la bicamerale e con Veltroni, e poi con lo stesso governo Letta), l’argomento non mi convince per nulla, perché Renzi, a suo modo, la condivisione l’aveva cercata, tanto che il testo attuale fu votato identicamente al Senato poche settimane fa con la convergenza (sia pure un po’ obtorto collo) di Forza Italia, che ora invece all’improvviso, per bocca di Brunetta, scopre il “fascismo” nello stesso provvedimento legislativo.

SPERANZA:
E per la sinistra  italiana c’è speranza? Non certo Roberto Speranza, il fragile bersaniano ex capogruppo parlamentare.

Sembra che le possibilità di sottrarsi al consolidamento del “regime demo-renziano” risiedano  solo nell’ipotesi di un  fallimento economico di tipo greco (che nessuno dovrebbe auspicare), contesto in vero più favorevole alle attuali opposizioni estreme di Grillo o di Salvini.