In UTOPIA21,
occupandoci di ecologia, di economia e di società, ci troviamo spesso a dare
atto che non vi sono in questo mondo tendenze univoche verso miglioramenti
auspicabili di benessere umano ed ambientale, bensì oscillazioni,
contraddizioni, trasformazioni complesse: sia nel passato che nel futuro.
Rientrano in questo ambito
altalenante di incertezze e contrapposizioni anche i temi della pace e della
non-violenza, malgrado i fili di speranza che hanno attraversato il Novecento:
-
dagli abissi delle
guerre mondiali (due “calde” più una fredda), dei genocidi programmati e della
minaccia nucleare,
-
alla
de-colonizzazione (in parte
non-violenta: India, Sud Africa, Est Europa),
alla cooperazione internazionale (dalla Società delle Nazioni all’ONU e
dintorni, dall’Unione Europea alle altre collaborazioni a scala continentale),
agli accordi parziali per il disarmo.
La fase attuale appare
invece piuttosto buia e tormentata, sovrapponendo alle speranze maturate con
fatica nel Novecento, oltre alle guerre locali ed al terrorismo “di religione”,
una ondata di nazionalismi e sovranismi, con tendenza al riarmo, che rende
minoritari ed inefficaci i residui movimenti pacifisti (compresi quelli
religiosi, malgrado l’orientamento francescano di papa Bergoglio).
Perciò mi sembra
opportuno fare il punto su questa problematica della pace e della non-violenza,
problematica cui ho accennato più volte in precedenti articoli, e che ritengo
strategica per il futuro dell’umanità, anche rispetto alla questione del cambio
climatico e del controllo sul consumo delle risorse naturali ed eco-sistemiche.
Sommario:
preistoria e antichita’
cristianesimo e
medioevo
rivoluzioni e
modernita’
il novecento – 1: le
guerre ed il contrasto pacifista
il novecento – 2 : i
movimenti pacifici e non-violenti
dialettica pace/guerra,
dal novecento al duemila
che fare?
-
Appendice A: Gandhi
-
Appendice B: Aldo
Capitini e la non-violenza in Italia
PREISTORIA E ANTICHITA’
Anche
se in talune suggestioni culturali serpeggiano diversi miti di una “età
dell’oro” originaria, tra il Paradiso Terrestre, il Matriarcato1 ed
il Buon Selvaggio, le risultanze archeologiche raramente testimoniano di
abitudini pacifiche per le più antiche culture, sia paleolitiche che
neolitiche, le une più vicine all’insicurezza e alla competitività del mondo
animale, le altre incubatrici di molte forme della violenza poi “modernamente”
sviluppate nelle civiltà dei metalli: tanto all’interno delle tribù
(subordinazione della donna e sfruttamento dei più deboli) quanto nel confronto
tra le diverse “tribù”, con la sacralizzazione dei confini e l’invenzione del
“mestiere delle armi”.
FIGURA 1 – TOMBA DEL GUERRIERO, SESTO CALENDE, ETA’ DEL
FERRO
Verso
tali conclusioni propende Jared Diamond (da me recensito su “Utopia21” nel
luglio 2017)2,3, sulla scorta di ricerche dirette presso gli ultimi
uomini “primitivi” della Nuova Guinea e di un confronto con ampia bibliografia
in materia preistorica.
Uno
sguardo antropologico diverso, anche se finalizzato alle questioni del debito e
della democrazia, l’ho riscontrato in David Graeber (da me recensito su
“Utopia21” nel luglio 2018)4,5, che segnala la presenza e la
temporanea egemonia di tendenze oggettivamente non-predatorie (almeno
all’interno delle entità statuali o micro-statuali), e quindi con una
regolazione e attenuazione anche della violenza, in diverse fasi della storia
dei continenti extra-europei, dal “medio-evo” indiano e cinese, ai Maya
post-imperiali e ad alcune nazioni dei nativi nord-americani.
Tutto
sommato, però, anche queste esperienze confermano quanto possiamo dedurre dalla
storia a noi più nota, tra Medio Oriente, Mediterraneo ed Occidente, cioè il
lungo prevalere, nelle fasi storiche documentate, di culture caratterizzate da
un grado elevato di violenza, quanto meno “pubblica” ed “esterna” (così era la
“pax romana”: la guerra come normalità, anche quando al momento non praticata),
seppur disciplinate da alcune forme di cultura religiosa, che limitavano
talvolta la crudeltà verso alcune figure più deboli, come i vinti, gli orfani o
le vedove.
Mi sembra che le religioni, nel corso dei secoli, abbiano
in prevalenza costituito forme di ritualizzazione e quindi di controllo (ed
anche di contenimento) della violenza, ma assai più verso l’interno delle
comunità credenti che non verso l’esterno. Appare sintomatico che anche una
delle grandi religioni più apparentemente lontane dalla violenza, quale è il
buddismo, non riesca tuttavia a contenere – di questi tempi - la repressione
armata contro minoranze di diversa fede, da parte di stati a maggioranza buddista
come lo SriLanka e la Birmania.
In
direzione contraria alcune tendenze pacifiste, per lo più minoritarie e
temporanee, ma importanti per il lascito culturale ripreso in secoli
successivi:
-
alcuni
principi della cultura greco-romana, come il diritto, la cittadinanza, la “cosa
pubblica”, la selezione elettorale (e non solo militare) delle élites
politiche, concetti senza i quali oggi non sapremmo rivendicare le ragioni
degli ultimi (per quanto allora, credo forse più di oggi, tali ragioni fossero
misconosciute e represse);
-
alcune
correnti del pensiero ellenistico e romano, soprattutto di impronta epicurea,
tra le quali emerge ad esempio Lucrezio, che si contrapponeva alla figura
antropologica classica del maschio, soldato e dominatore (qualche
anticipazione, nella Grecia classica di qualche secolo prima si riscontra già
in alcune commedie pacifiste di Aristofane);
-
il
messaggio cristiano:
o
nella
formulazione evangelica che superò la legge mosaica dei 10 comandamenti e dell’
“occhio per occhio e dente per dente”: amare il prossimo, ivi incluso lo
straniero ed il peccatore e persino la peccatrice; porgere l’altra guancia; non
sottrarsi ad un ingiusto processo,
o
e
nella pratica religiosa dei primi secoli, che uscì dagli steccati ebraici e
corrose l’imperialismo romano con testimonianze non solo di fede, ma anche di
comunanza tra-e-con i poveri, di dignità della persona (incluse le donne e gli
schiavi) ed in parte anche di anti-militarismo.
CRISTIANESIMO E
MEDIOEVO
Il
pacifismo evangelico, che non era l’unica espressione della nuova religione, si
perse però sostanzialmente con la conquista del potere da parte dei cristiani (ai
tempi dell’imperatore Teodosio, fine del IV secolo d.C.) e con il passaggio ad
un regime di integralismo confessionale, che si giovò ampliamente del trono e
della spada per perseguitare sia i “pagani” sia gli altri cristiani ritenuti
eretici. E così di fatto per molti secoli, con l’aggravante delle Crociate: “guerre
sante” contro gli islamici infedeli in “Terrasanta”, ma anche contro i
dissidenti Catari e – presentandosi la ghiotta occasione – contro i fratelli
ortodossi di Costantinopoli, capitale cristiana d’Oriente saccheggiata nel
1204.
La
cultura cristiana dei regni romano-barbarici e poi dell’impero feudale fondato
dai Carolingi si sposò sostanzialmente con una antropologia “cavalleresca” di
origini sia romane che barbariche e di impronta maschilista, militarista e
schiavista: salvo significative divergenze di movimenti di rinnovamento
ecclesiale, per lo più scomunicati e combattuti come eresie (es. i Valdesi),
oppure confinati nei monasteri.
E
con la rilevante eccezione del
francescanesimo, che, insieme ad altri movimenti religiosi (talora più ereticali),
riprese in pieno Medioevo i contenuti essenziali del Vangelo - povertà,
fratellanza e pace - declinandoli in una nuova militanza religiosa tra i ceti
urbani ed anche in spettacolari iniziative diplomatiche verso il nemico
islamico, sulla questione dei “Luoghi Santi” della Palestina, iniziative appoggiate
anche dall’imperatore Federico di Svevia, ma significativamente boicottate dal
Papato, che preferiva rilanciare le Crociate (sempre all’inizio del XIII
secolo).
FIGURA 2 – SAN FRANCESCO E IL SULTANO, GIOTTO, BASILICA DI
ASSISI
Tuttavia
anche il francescanesimo non mutò a fondo l’asse culturale della Chiesa (anzi
finì per adeguarvisi) e così il cristianesimo approdò alla svolta della
modernità da un lato identificandosi a fondo con il colonialismo dei “Re
cattolici”, connotato da genocidi, razzismo e schiavismo, e dall’altro lato
dilaniandosi nelle guerre di religione tra Cattolici e Luterani (e Anglicani,
Calvinisti, Hussiti ecc.), in cui i poteri del “Sacro Romano Impero” e dei
nascenti stati nazionali si affrontavano con ogni scala di violenza,
riservandone comunque dosi anche maggiori verso i sudditi ribelli.
RIVOLUZIONI E MODERNITA’
Da
questo groviglio nacque però la moderna Europa (e poi le sue proiezioni oltre
gli Oceani), con le sue rivoluzioni industriali e le sue rivoluzioni borghesi,
dentro cui si costruì un nuovo ed ampio pensiero laico e per lo più
“progressista”, cioè orientato alla trasformazione della società. E di riflesso
si svilupparono anche nuove forme di pensiero religioso.
In questo articolo non mi interessa trattare la “storia
delle idee” in quanto tali, ma nella misura in cui tali idee si sono incarnate
in movimenti collettivi incidenti sulla storia dell’umanità. Per questo mi
limito ad accennare in questa nota che le idee di libertà individuale, di
uguaglianza tra gli uomini (e più tardi anche delle donne..), di laicità dello
stato, espresse esplicitamente dai pensatori illuministi del ‘700 - tra
cui Montesquieu (divisione dei poteri),
Voltaire (cosmopolitismo), Rousseau (contratto sociale), Kant (pace
universale), Beccaria (educatività della pena),
Filangieri (riforma agraria) – derivarono dallo sviluppo di intuizioni
di intellettuali che nei secoli precedenti avevano iniziato a mettere in
discussione il dominante pensiero dogmatico, da Lutero ad Erasmo da Rotterdam,
da Giordano Bruno a Galileo Galilei, da Spinoza a Leibniz e Cartesio.
Anche
se gli elementi fondamentali del pensiero degli illuministi e dintorni costituirono le basi per le attuali
concezioni di uguaglianza tra gli uomini (e con qualche attenzione anche verso gli
animali e la natura restante), come codificate ad esempio nelle solenni
dichiarazioni dell’ONU, la civiltà borghese non rappresentò una svolta radicale
rispetto all’Ancien Régime, né in termini di pace-e-non-violenza (le
rivoluzioni inglese, americana e francese sorsero in armi e figliarono
altrettanti, seppur diversi, fenomeni imperiali, contro gli altri imperi
dell’uomo bianco), né in termini di effettiva Egalitè e Fraternitè, come dimostrarono
(e ancora stanno dimostrando) le lunghe e inconcluse vicende del superamento
dello schiavismo, del razzismo e del colonialismo, nonché delle discriminazioni
sessuali e classiste.
Tuttavia
si affermarono all’interno degli stati nazionali (repubbliche o monarchie
costituzionali), tra mille contraddizioni, alcuni fondamenti della civile
convivenza, quali la divisione dei poteri, l’attribuzione del potere politico
attraverso contese elettorali, alcuni diritti individuali dei cittadini contro
i soprusi dello stato.
FIGURA 3 - GHIGLIOTTINA
Largamente
intrecciata con la modernità borghese è anche la storia del movimento operaio
(ed in parte di quello contadino), che tendeva ad emanciparsi da quella
violenza di classe che i ceti subalterni da sempre subiscono:
-
in
parte elaborando nuovi strumenti di lotta collettivi, anche intrinsecamente
non-violenti e fondati sulla consapevolezza individuale capillare degli
aderenti, come lo sciopero (dal lavoro, da certi consumi, dallo stesso cibo),
le manifestazioni e le occupazioni pacifiche, l’auto-organizzazione, le
vertenze legali, le petizioni ed il voto elettorale (esempio tipico le attività
delle “società fabiane” nell’Inghilterra dell’Ottocento, con la pratica del
sit-in),
-
in
parte ribaltando contro le classi dominanti la violenza stessa, sia nell’ambito
degli scioperi, mediante i picchetti anti-crumiri, sia forzando cortei e
manifestazioni ad esiti insurrezionali, più o meno programmati, sia infine con
la formazione di movimenti e partiti coscientemente rivoluzionari, dalle
cospirazioni anarchiche al bolscevismo leninista, passando attraverso una
complessa graduazione nella teorizzazione della violenza (e talora della sua
dissimulazione) attraverso le vicende della Prima, Seconda e Terza
Internazionale.
Nel
pensiero di Marx il superamento della violenza di classe risultava subordinato
al superamento delle classi, nell’utopia del comunismo realizzato: nel
Novecento di realizzato si è visto il “socialismo reale” del blocco sovietico e
poi dell’Asia Orientale (Cina, Vietnam, Corea, Cambogia), e non si è potuto ivi
constatare né un effettivo e stabile superamento delle classi, né tanto meno
della violenza politica.
Anche
il pensiero anarchico, variamente declinato riguardo alla pratica della
violenza (ed includente correnti di pacifismo unilaterale, come l’anarchismo
cristiano ispirato a Tolstoi) subordinava il superamento della violenza alla
utopica estinzione dello stato, ma non ha dato occasione per misurare
concretamente su vasta scala gli effetti delle sue proposte.
Più
interessante, nelle pratiche politiche di massa del socialismo e dintorni, è
risultata la contrapposizione degli interessi proletari al militarismo degli
stati borghesi, che diede luogo sia a movimenti pacifisti diffusi e radicati,
sia ad espressioni dirette di rifiuto della guerra, con obiezione-di-coscienza,
diserzione, sabotaggio, scontrandosi duramente in particolare contro la prima
guerra mondiale, allorché la sinistra proletaria subì inizialmente una dura
sconfitta su tutti i fronti belligeranti, anche se poi fu “il fronte interno” a
determinare di fatto la disfatta prima dell’esercito zarista (1917) ed infine
di quello germanico (novembre 1918).6
FIGURA 4 – LA 1^ GUERRA MONDIALE SECONDO G. SCALARINI SU
“L’AVANTI”
La
dimensione di massa (con la generalizzazione delle leva obbligatoria) e l’organizzazione
industriale degli eserciti, connessa ai nuovi armamenti, contestualmente al
diffondersi di nuovi mezzi di informazione, disvelarono fortemente nel corso
dell’Ottocento (e ancor più nel Novecento) gli “orrori della guerra” agli occhi
di un nuovo soggetto della società moderna, la “opinione pubblica”, suscitando
anche in ambienti borghesi qualche movimento di opposizione agli eccessi del
militarismo, non più confinato a pochi intellettuali: da qui sia il virtuoso
volontariato che diventerà la “Croce Rossa”, sia un lavorio diplomatico
consolidatosi nelle “Convenzioni di Ginevra”, che dal 1864 in poi cercarono (e
cercano tuttora) di mitigare gli effetti delle guerre, soprattutto sui feriti e
sui prigionieri, ma anche più tardi sui civili coinvolti e sulla limitazione
nell’uso di talune armi più micidiali.
Fino all’800 le regole della guerra in Europa e nel
Mediterraneo si fondavano soprattutto su un comune tessuto culturale, una sorta
di “codice cavalleresco” (del tipo: “la battaglia dura dall’alba al tramonto”
oppure “non si uccidono gli ambasciatori”), che salvava talvolta cavalieri e
generali, ma non certo fanti e cavalli (e che ovviamente non si applicava verso
i rozzi indigeni da sterminare in diversi continenti); le enormi battaglie e le
innovazioni tattiche del periodo napoleonico mostrarono già l’anacronismo di
quelle regole
IL NOVECENTO – 1: LE
GUERRE ED IL CONTRASTO PACIFISTA
Al
cospetto delle due guerre mondiali del Novecento, che esaltarono la ferocia
della guerra, sia verso i soldati (non solo quelli nemici) sia verso la
popolazione inerme, maggiormente vittima dei nuovi armamenti meccanizzati ed
aero-missilistici, il pacifismo diplomatico-istituzionale e quello del
volontariato neutralista subirono evidenti rovesci.
In questo contesto si affaccia anche il Vaticano di papa
Benedetto XV (con una Chiesa positivamente liberata dal potere temporale, che
ne faceva uno stato tra gli stati, con specifici interessi geo-politici),
condannando la guerra come “inutile strage”, cercando (pur senza successo) di
mediare tra le potenze avverse, che includevano importanti nazioni cattoliche
su ambedue i fronti e sviluppando concrete opere di soccorso umanitario.
Non fu però molto ascoltato, nemmeno dalle Chiese locali,
spesso pesantemente allineate nel sostenere gli sforzi bellici.
D’altronde la persistente attitudine del clero cattolico a
benedire gagliardetti e bombarde fu ben presente nei successivi decenni, non
solo nel timore delle rivoluzioni bolsceviche, ma anche in vergognose campagne
di oppressione coloniale, come la spedizione italiana in Etiopia nel 1936,
connotata da criminose stragi di inermi cristiani, ancorché di fede copta.
Cercarono
però anche di alzare il tiro, sia con ulteriori sviluppi delle “convenzioni di
Ginevra”, sia con la fondazione prima della Società delle Nazioni (1919-1946) e
poi dell’Organizzazione delle Nazioni Unite, con tutti gli organismi ad esso
collegati (FAO, UNESCO, UNHCR, ecc.): ambedue pesantemente condizionate
dall’ambiguità delle potenze promotrici (gli USA proposero la SdN con Wilson,
ma poi non vi aderirono) e comunque dagli interessi degli imperi dominanti (che
all’ONU conservano tuttora il seggio permanente nel Consiglio di Sicurezza, con
il connesso potere di veto).
Tali
organizzazioni sono divenute comunque terreno di faticosa crescita di un più
solido diritto internazionale, che ha consentito quanto meno di circoscrivere e
talora sterilizzare i pur numerosi conflitti armati locali del secondo
Novecento (ma pare in questo inizio di secolo assai meno efficace, come più
avanti illustrerò).
In
questa cornice di formale coesistenza pacifica si svolse la cosiddetta “guerra
fredda”, che contrappose dal 1945 al 1989 (ma i postumi sono tuttora attivi) le
potenze occidentali al blocco sovietico, con lunghi anni di caldissima guerra
localizzata in estremo Oriente (Corea prima e poi Vietnam e dintorni), condizionamenti,
repressioni e golpe all’interno dei due imperi (Ungheria Polonia e
Cecoslovacchia ad Est, Grecia Cile e Grenada ad Ovest), scaramucce spionistiche
e contro-informazione a vari livelli, e soprattutto con un enorme sviluppo
degli armamenti missilistici e termo-nucleari da ambo le parti (sfiorando più
volte la 3^ guerra mondiale, e soprattutto nello scontro su Cuba del 1962).
La
decisiva novità delle “bombe atomiche”, sperimentate dagli USA massacrando (a
guerra ormai pressoché vinta) le città giapponesi di Hiroshima e Nagasaki nel
1945, ed il cui accumulo negli arsenali delle grandi potenze (e non solo)
consentirebbe oggi di distruggere più volte la biosfera terrestre, innescò però
non solo una riflessione delle stesse potenze nucleari, che verso la fine del
Novecento hanno instaurato un proficuo dialogo (oggi interrotto) per ridurre
gli arsenali ed i rischi di guerra (cercando di conservare però, per quanto
possibile, il monopolio di tali armi iper-distruttive, tramite i trattati di
“non-proliferazione”), ma anche nuovi sviluppi dei movimenti pacifisti, soprattutto
in Occidente, grazie alle libertà democratiche ivi disponibili.
Con
alterne vicende nel tempo dagli anni ’50 in poi (non escluso qualche tentativo
di strumentalizzazione da parte dell’URSS) il nuovo pacifismo, all’ombra della
“paura della bomba”, ha connesso - in dimensioni talora di massa - le correnti
dell’antimilitarismo socialista, dell’umanesimo laico e le istanze religiose,
finalmente libere dalla pluri-secolare benedizione dei gagliardetti per le
“guerre giuste” (per i cattolici, a partire dal Concilio Vaticano II,
1958-1963).
Dentro
a questo movimento, con la partecipazione attiva di numerosi intellettuali di
diversa estrazione, tra cui Einstein, Sartre, Albert Schweitzer e
Bertrand Russel, ed in Italia tra gli altri Capitini, VEDI APPENDICE
B Moravia e Cassola, maturarono interessanti elaborazioni, ben oltre
l’umanizzazione della guerra di cui alle Convenzioni di Ginevra: mettere al
bando la guerra, farla diventare un tabù, come è stato (tendenzialmente) per il
cannibalismo, l’omicidio “privato”, la pena di morte (riconoscendo, ma
superando la pulsione omicida che è forse insita nell’umanità); “svuotare gli
arsenali” (come proclamava, un po’ vanamente, il presidente Pertini) e
sopprimere gli eserciti.
Un’utopia,
quest’ultima, che è stata però effettivamente realizzata, da ormai 70 anni, in
uno Stato piccolo, ma non marginale, come il Costarica, che sta nel mezzo del
turbolento Centro-America; da approfondire nel Novecento anche le esperienze
neutraliste di stati, pur debolmente armati, come la Svizzera e la Svezia (anche
il Belgio e l’Olanda praticarono la neutralità, ma furono invase dagli eserciti
tedeschi, il primo sia nel 14 che nel 40, la seconda solo nel 1940), e poi dopo il 1945 la Finlandia e l’Austria, ma in
quanto garantite dall’equilibrio tra i due blocchi Est-Ovest.
La Svizzera, pur essendo un vertice del potere
capitalistico e bancario ed uno stato esportatore di armi e non sempre ospitale
con gli immigrati (accolse però moltissimi perseguitati politici e razziali
nell’800 e nel ‘900), con a Ginevra una sede dell’ONU cui non aderisce,
costituisce anche un esempio importantissimo e poco imitato di coesistenza
pacifica, conquistata dopo secoli di contrasti armati, tra popolazioni di
diversa lingua e religione. Tra gli imitatori possiamo vantare la gestione
italo-austriaca della problematica del Sud-Tirolo dopo la seconda guerra
mondiale, pur con tutte le difficoltà e i conflitti del caso.
FIGURA 5 - “LOVE NOT
WAR”
Il
pacifismo occidentale ha poi sviluppato la sua massima potenza nell’opposizione
alla guerra del Vietnam, tra gli anni ‘60 e gli anni ‘70, anche per la
partecipazione diretta dei giovani americani precettati con la leva
obbligatoria, che infatti venne successivamente smantellata in tutto
l’Occidente (anche la spedizione dell’URSS in Afghanistan negli anni 80 fu
sconfitta in parte per le resistenze, pur meno esplicite, sul fronte interno,
dopo che i soldati di leva iniziarono a cadere numerosi sotto i colpi della
resistenza locale, sostenuta dagli USA, forse con scarsa lungimiranza).
Il
pacifismo, a scala mondiale, ha dimostrato invece la sua sostanziale impotenza,
malgrado la notevole estensione delle mobilitazioni, contro la 2^ guerra
dell’Irak, voluta dagli USA con alcuni alleati nel 2003 a dispetto del pronunciamento
avverso del restante concerto internazionale (e di un raggruppamento ecumenico
religioso guidato dal Papa).
L’insuccesso
della mobilitazione pacifista sull’Irak si deve in parte al carattere
professionale, e non di leva, dei nuovi eserciti occidentali ed in particolare
(anglo-)americani, ed in parte alla
suggestione sulle opinioni pubbliche del terrorismo internazionale, suggestione
esaltata dall’aggressione jihadista in territorio americano dell’11 settembre
2001 ed evocata (più o meno abilmente) dalla propaganda USA contro Saddam Hussein (che per altro era innegabilmente
un despota sanguinario, sterminatore della minoranza curda e complice pochi
anni addietro degli stessi USA in una guerra finalizzata al soffocamento della
rivoluzione khomeinista in Iran, colpevole di aver abbattuto il regime
filo-americano dello Scià Reza Palhavi).
Nel
contempo negli ultimi decenni del Novecento, sulla scia del pacifismo e del
volontarismo umanitario degli anni 60 (poi intrecciato con i movimenti del ’68),
sono sorte nuove organizzazioni umanitarie non-governative, in parte
finalizzate ad alleviare le sofferenze sociali indotte nelle periferie del
mondo dallo sviluppo capitalistico e imperialistico, ed in parte (Medici Senza
Frontiere, Emergency) anche ad affrontare sul campo (con agilità sconosciuta
alla tradizionale Croce Rossa) le conseguenze delle guerre, spesso
non-convenzionali e non-dichiarate, come frequentemente si qualificano di
recente gli scontri armati, con grave peso sulle popolazioni civili.
IL NOVECENTO – 2 : I
MOVIMENTI PACIFICI E NON-VIOLENTI
FIGURA 6 - GANDHI,
M.L.KING, MANDELA
Ma,
prima di esaminare le contingenze specifiche di questo inizio di secolo, mi
pare fondamentale porre attenzione ad un altro fenomeno caratterizzante il Novecento,
e cioè la novità, credo assoluta, di grandi mobilitazioni di massa
non-violente, che sono risultate vincenti rispetto ai preesistenti assetti del
potere, a scala nazionale e/o internazionale:
-
la
lotta per l’indipendenza nazionale nel sub-continente indiano, tra il 1918 ed
il 1947 (poi drammaticamente diviso tra India a prevalenza induista e Pakistan
a prevalenza mussulmana), guidata tra gli altri dal “Mahatma” Gandhi, VEDI
APPENDICE A nel cui pensiero si combinavano elementi della tradizione
induista, giainista e buddista con la rielaborazione di componenti cristiane ed
illuministe; anche altri movimenti di liberazione anti-coloniale riuscirono a
conseguire l’indipendenza con modalità pacifiche, ma solo l’esperienza di Gandhi
sviluppò coerentemente la non-violenza come azione collettiva e come filosofia
di vita, estendendone i contenuti al superamento della divisione sociale nelle
caste ed alla coesistenza pacifica interreligiosa, quanto mai difficile in quei
territori;
-
la
lotta per i diritti civili degli afro-americani nel Sud degli USA, negli anni
’50 e ’60, con la leadership del reverendo Martin Luther King, che innervò di
valori cristiani una efficace pratica di disobbedienza civile e di
manifestazioni di massa, conseguendo importanti risultati di principio,
politici e giuridici, pur in parte vanificati dalle resistenze conservatrici di
razza (bianca) e di classe, che alimentarono pertanto le divergenti correnti
militariste afro-americane dei Black Panthers ed altri;
-
la
lotta contro il regime segregazionista in Sud-Africa, dagli anni ’40 al 1994,
impersonata da Nelson Mandela, che è pervenuto a metà cammino su posizioni
non-violente , con l’organizzazione African National Council, dopo aver
sperimentato anche la lotta armata; nel pensiero di Mandela confluirono la
formazione cristiana-metodista, l’acculturamento illuminista e marxista ed il
sub-strato “ubuntu”, un concetto di fraternità universale (fatto proprio di
fatto anche dal vescovo anglicano Desmond Tutu), che ha dato vita a quella
originale forma di superamento dei lutti
e dei contrasti disseminati nella guerra civile tramite la “Commissione per la
Verità e la Riconciliazione”, anziché tramite vendette ed epurazioni, oppure superficiali
riabilitazioni;
-
l’abbattimento
pacifico dei regimi comunisti nel 1989, in gran parte dei paesi dominati
dall’URSS nell’Est Europa - dopo la repressione violenta dei moti del 53
(Germania Est), del 56 (Ungheria e Polonia), del 68 (Cecoslovacchia), del 71
(Polonia) ed il golpe militare ancora in Polonia nel 1981 - sotto la spinta di nuovi
movimenti di massa, quali il sindacato Solidarnosc in Polonia, in prevalenza
cattolico, e gli intellettuali non-violenti di Charta 77 in Cecoslovacchia;
nella svolta pacifica del 1989 fa eccezione la Romania, dove il rovesciamento
di Ceausescu avvenne con spargimento di sangue; occorre inoltre considerare le
successive rovinose guerre nazionaliste (e religiose) nei territori
dell’ex-Yugoslavia;
-
altri
fondamentali movimenti per i diritti civili (per lo più in Occidente), ma più
diffusi nel tempo e nello spazio (e sgranati nelle parziali vittorie), tra i quali
o
la
lunga onda femminista, dalle “suffragette” in lotta per il diritto di voto già
alla fine dell’800 (pur con qualche venatura di moderato terrorismo) alle
battaglie nel secondo 900 per il controllo delle nascite (aborto compreso) e la
completa parità dei diritti,
o
i
movimenti LGBT (Lesbiche, Gay,
Bisessuali e Transgender) in lotta contro ogni forma di discriminazione e
pregiudizio sessuale dagli ultimi decenni del Novecento.
FIGURA 6 – EMMELINE PANKHURST; HARVEY MILK
DIALETTICA PACE/GUERRA,
DAL NOVECENTO AL DUEMILA
Non
saprei quanto di questi successi (spesso comunque parziali e contrastati) sia
dovuto alla forza soggettiva e collettiva dei movimenti ed alla cosciente
adozione di metodi non-violenti e quanto invece alle particolari congiunture,
nazionali ed internazionali, che hanno piegato i loro antagonisti, per lo più
nel contesto delle formali libertà democratiche occidentali (con la vistosa
eccezione, od aggregazione, dell’URSS aperta alla “glasnost” ed alla
“perestroika” dalla leadership di Michail Gorbaciov).
L’indipendenza dell’India venne conseguita dopo la 2^
guerra mondiale, rispetto alla quale i movimenti indipendentisti avevano
assunto posizioni oscillanti, aumentando però la loro pressione: credo che fu
però determinante il passaggio del governo inglese dal conservatore Churchill
al laburista Attlee.
Il movimento anti-segregazionista in Sud Africa seppe
sviluppare un imponente sostegno internazionale, che si tradusse nelle sanzioni
economiche e diplomatiche contro il regime dell’apartheid.
Abbiamo
infatti purtroppo delle parziali controprove, sia nel Novecento che all’inizio
di questo secolo:
-
la
resistenza non-violenta del Dalai Lama e di parte del popolo tibetano, che non
riesce a superare l’oppressione militare cinese;
-
il
fallimento delle “primavere arabe”, inizialmente non-violente, in paesi come
l’Egitto e la Siria, con un parziale successo solo nella piccola Tunisia.
Inoltre
nel cuore più buio del Novecento l’idea di una opposizione non-violenta verso
lo stesso nazismo fu teorizzata, ad esempio, dallo stesso Bertrand Russel (che
poi ebbe a ricredersi) e praticata di fatto da un lato dalla diplomazia
inizialmente morbida dello stesso governo inglese guidato da Chamberlain e
dall’altro scomodissimo lato da alcune frange del mondo ebraico, poi sgominate
nello sterminio totale della “Shoah”.
Analogo
ragionamento è stato implicitamente svolto dai movimenti pacifisti
internazionali nei confronti dell’aggressività radicale proclamata e praticata
dal cosiddetto Califfato Islamico (ISIS), sorto in Irak e Siria dopo la
destabilizzazione determinata dalla 2^ guerra dell’Irak e poi dalle suddette
“primavere arabe”, e non ancora del tutto estinto: anche se non è da escludere
che si siano sviluppati embrioni di trattative diplomatiche tra il Califfato ed
altri soggetti politico-militari durante la sua breve vita statuale, non si è
sostanzialmente profilata nessuna alternativa alla guerra né da opporre
direttamente al Califfato né da proporre alle potenze ad esso ostili e discese
in campo con la copertura giuridica dell’ONU.
Ed
ai pacifisti non è rimasto che cercare di portare aiuti umanitari, per quanto
possibile in situazioni così difficili, come la Siria dilaniata da una guerra
civile con pluralità di schieramenti interni ed esteri.
Mentre
la sfida della “guerra religiosa” lanciata dalle frange fondamentaliste
dell’Islam prosegue sotto la forma del terrorismo, dalle metropoli
dell’Occidente ai paradisi turistici tropicali, dall’Africa sub-sahariana al
frastagliato fronte indo-pakistano, dalla Turchia all’impero ex-sovietico: con
epicentri in Palestina, in Siria ed Irak, in Afghanistan, dove la politica di
potenza di Israele, della Russia (e della Turchia) e di USA&alleati si
manifesta anche come occupazione militare.
La
minaccia del terrorismo di matrice internazionale (ed anche religiosa) alimenta
notevoli ostacoli sulla strada del pacifismo, sia direttamente, perché è una
forma di aggressione militare che non può essere contrastata con i metodi
non-violenti (se non a monte, con un lento lavorio di educazione alla
convivenza), sia indirettamente, perché induce le “opinioni pubbliche” ad
apprezzare politiche nazionali (e nazionaliste) di ordine e di riarmo, di
sfiducia negli organismi di collaborazione internazionale (Europa, ONU, WTO),
nonché di criminalizzazione dei fenomeni migratori.
Poiché
nel contempo la crisi bellica e/o economica-ecologica e politica, di numerosi
territori del “terzo mondo” (e non solo: Ucraina, Cecenia, Venezuela) continua
a sospingere le migrazioni verso i territori più ricchi e sicuri, dove però
altri aspetti della crisi economica e sociale stanno destrutturando i canali
tradizionali del consenso alle élites politiche e diffondendo vasti sentimenti
rancorosi, si assiste complessivamente ad un indebolimento delle suddette
istanze internazionali e ad un rafforzamento delle velleità sovraniste e
xenofobe, in un quadro diplomatico mondiale più sfilacciato che “multipolare”.
Ciò
avviene mentre diviene oggettivamente più chiaro, a chi voglia serenamente
osservare le contraddizioni principali:
-
che
occorre il massimo di cooperazione a livello planetario per affrontare i rischi
del cambio climatico,
-
che
si profila la relativa scarsità di alcune risorse fondamentali, come l’acqua,
le terre coltivabili, le energie pulite,
-
che
la spartizione di tali risorse tramite conflitti militari può innescare
conseguenze catastrofiche, anche considerato che di fatto le armi nucleari sono
“proliferate” nel mondo ben oltre il recinto iniziale delle grandi potenze,
-
che
viceversa il risparmio su quote crescenti delle spese militari (e connesse
“risorse umane”) potrebbe facilitare in modo decisivo il conseguimento degli
obiettivi della transizione ad una economia più compatibile con
l’ambiente.
CHE FARE?
Dal
processo storico sopra delineato mi sembra che emergano i seguenti concetti:
-
la
pace non è solo tregua diplomatica ed assenza di guerra, od equilibrio tra
forze militari contrapposte, ma una
dinamica cooperazione internazionale (non solo tra gli stati e tramite le
organizzazioni-non-governative, ma anche tra i popoli, attraverso la
produzione, il commercio, il turismo e le stesse temute migrazioni) sui diversi
fronti degli interessi umani, dall’energia al cibo, dal clima alla salute,
dall’informazione alla cultura, per cercare di superare e prevenire le
contrapposizioni tra raggruppamenti umani a diversi livelli, e quindi rimuovere
le premesse di possibili nuove guerre;
-
la
non-violenza non è solo assenza o astensione dalla violenza, ma una pratica di
gestione dei rapporti umani dal livello personale a quello collettivo,
particolarmente rilevante in presenza di rivendicazioni sociali e conflitti
etnici o religiosi, e per il contrasto al militarismo, sia come cultura
maschilista diffusa, sia come tendenza prevaricatrice degli stati. Non si
riduce pertanto alla (pur auspicabile) “pace interiore” ed al (altrettanto
auspicabile) controllo delle pulsioni individuali, né tantomeno al quieto
vivere, se questo risulta acquiescente alle ingiustizie sociali ed alle altrui
prepotenze militaresche.
La
consapevolezza che nel prossimo futuro la via non-violenta alla pace ed al
disarmo risulti ad un tempo così necessaria, ma così difficile e quasi
improbabile potrebbe condurre alla rassegnazione ed all’inazione.
Viceversa,
considerando da un lato la consistenza tuttora rilevante del volontariato
umanitario e pacifista, laico e religioso, anche giovanile, e dall’altro la
carenza di motivazioni ideali che caratterizza le più ampie maggioranze (a
rischio – inoltre – di essere attratte da simpatie e militanze xenofobe e
sovraniste), mi sembra opportuno rilanciare oggi l’opzione della non-violenza,
in quanto utopia sì, ma non impossibile, anzi concretamente praticabile, nonché
intimamente connessa alla salvezza del pianeta Terra:
-
come
battaglia culturale, a tutti i livelli in cui se ne presenti l’opportunità,
contro il dilagare di un pensiero dominante che combina il pessimismo
qualunquista (“la guerra è ineluttabile”, “la violenza è insita nell’uomo”, “la
politica è cosa sporca) con il cinismo egoista verso le vittime di guerre,
catastrofi e carestie (nelle remote
“case loro”, ma ancor peggio se vengono qui a cercare un’altra casa);
-
come
campagna educativa, non solo nelle scuole
e verso le nuove generazioni, ma anche in altri frangenti della vita
quotidiana, a partire dai social-media, affermando la gentilezza ed il rispetto
del “prossimo”, in cortese contrapposizione alla diffusa aggressività verbale
(e non solo verbale) maleducazione e prevaricazione dei prepotenti e del loro
(crescente?) successo antropologico: poiché probabilmente è vero che la
violenza è insita nell’uomo, ed ancor più nelle umane aggregazioni “spontanee”,
la società può ben invece conseguire superiori livelli di civilizzazione, come
la storia brevemente riepilogata sopra, pur
contraddittoriamente, dimostra,
-
come
modalità di rivendicazione sociale, collettiva e socializzante, riscoprendo il
valore intrinseco dello sciopero (unità dei deboli contro i forti; sacrificio
di benefici immediati in vista di traguardi più alti) e cercando di estenderlo
ad altri fronti, oltre a quello del lavoro (oggi assai più difficile da
praticare data la dispersione strutturale e contrattuale dei lavoratori), come
ad esempio in certe forme di consumo commerciale e di fruizione di servizi
(campagne di boicottaggio di prodotti,
di marchi, di piattaforme informatiche).
Oltre lo sciopero, la
pratica della non-violenza contempla varie forme di disobbedienza civile, cioè
di consapevoli violazioni di norme ritenute ingiuste (al fine di rivendicarne
l’abrogazione e per conseguire comunque parziali risultati nell’ambito delle
lotte, come ad esempio nell’occupazione di latifondi incolti), con
l’altrettanto consapevole accettazione preventiva delle possibili sanzioni del
regime statuale cui ci si oppone.
La legittimazione di
queste forme estreme di lotta si fonda su un “corretto” rapporto tra iniziativa
di avanguardie e coscienza di massa, che non può essere in alcun modo
pre-definito, e richiede sempre congruenza e proporzionalità tra i fini
perseguiti e gli strumenti adottati (più avanti si profila la “resistenza
armata”, che evidentemente non-violenta non è, e che si giustifica solo in
presenza di regimi tirannici e/o di occupazioni militari);
personalmente invece
fatico a contemplare nell’ambito della non-violenza, a fronte di un regime
democratico, iniziative propagandistiche/ricattatorie come gli “scioperi della
fame ad oltranza” (cioè ben oltre i digiuni dimostrativi), che espongono gli
autori a pesanti rischi auto-lesionistici (e perciò violenti) e agiscono con
indubbia violenza simbolica sia verso gli interlocutori istituzionali, sia
verso l’opinione pubblica;
-
come
articolazione di obiettivi politici, dal
livello locale (controllo sulle priorità di spesa nei servizi) a quelli
nazionali ed internazionali, con particolare riguardo, pensando all’Italia:
o
alla
verifica del carattere effettivamente pacifico di ogni singola missione
internazionale “di pace”,
o
alla
verifica della effettiva direzione verso la pace ed il disarmo della politica
estera, non solo del Governo, ma anche dei grandi gruppi (a partecipazione
statale) quali Enel, Eni e Leonardo (quest’ultima grande produttrice ed
esportatore di armi),
o
alla
decisa correzione del bilancio dello Stato in materia di difesa ed armamenti,
in direzione opposta a quell’allineamento “a-priori” al 2% della spesa pubblica
deciso dalla NATO e perorato da Trump,
o
alla
possibile collaborazione a scala europea, già abbozzata con il debole proposito
di “Difesa Comune Europea” (debole come ora appaiono tutti i progetti di
maggiore integrazione all’esame degli organismi comunitari), che può evolvere
positivamente come semplificazione di strutture parallele tra paesi stabilmente
amici (e conseguente risparmio, non maggiore spesa) e come esempio di esercito
difensivo e pacificante sullo scenario mondiale, oppure negativamente, come
aggiunta confederale alle esistenti armate nazionali, e con un ruolo
internazionale imperialista/post-coloniale (come oggi gli USA e in più in
piccolo Gran Bretagna e Francia),
o
al
superamento della NATO, che in uno scenario di “Difesa Comune Europea” sarebbe comunque
da ri-discutere in termini di riequilibrio interno (non più una costellazione
attorno all’impero americano, ma una possibile partnership tra due grandi
soggetti equivalenti, con altri pochi
Stati minori), ed i cui compiti futuri vanno ampiamente verificati, sia
rispetto al potenziale pericolo russo, sia rispetto alle turbolenze nel
Mediterraneo e nel Medio Oriente,
o
alla
soppressione delle basi militari americane sul nostro territorio nazionale, che
sono alla diretta dipendenza degli USA e nemmeno della
NATO-ad-egemonia-statunitense e che – dopo più di settant’anni dalla 2^ guerra
mondiale e più di venticinque anni dallo stemperamento della “guerra fredda” – costituiscono
una gravissima eccezione alla sovranità nazionale italiana (ed in prospettiva
alla sovranità confederale europea).
La
pace ed il progressivo disarmo sono a mio avviso un fine, compatibili con altre
finalità di benessere dell’uomo e dell’ambiente, variamente declinabili.
Le
pratiche non-violente invece sono un mezzo, esplicitamente coerente con gli
obiettivi di pace.
Inoltre
mi sembra che abbiano il pregio di poter essere condivise, come terreno comune
di convivenza, senza essere totalizzanti, da parte di soggetti con diverse
visioni del mondo, laiche o religiose, al limite anche contrapposte nei
contenuti, ma convergenti sul metodo di confronto: come dimostra anche la vasta
pluralità delle organizzazioni di volontariato (che sono al momento le gambe su
cui simili idee possono camminare, forse con maggiore consapevolezza di
insieme).
Credo che sia positivo un tratto comune a diverse
organizzazioni di volontariato, e cioè quello di specializzarsi per affrontare
specifici aspetti dei bisogni umanitari, e su di essi mirare a risultati
concreti. Mi pare però che talvolta si manifestino aspetti concorrenziali a
scapito di possibili collaborazioni e che nell’insieme, anche per questo, tali
più che lodevoli attività non riescano ad incidere sul ”senso comune” della
circostante umanità “benestante”.
Dal
mio punto di vista vedrei bene la pace e la non-violenza nel contesto di quella
lotta per una democrazia
universalista (e pertanto ecologista), costituzionale e sociale, di cui al mio
articolo su Utopia 21 di novembre 2018.7
APPENDICE
A – GANDHI
Gandhi, sullo sfondo di un sincretismo tra
diverse religioni (Islam compreso), di cui auspicava la coesistenza e la
cooperazione,8 maturò l’esperienza pratica della non-violenza e
della disobbedienza civile (satyagraha)9 come strumento di lotta per
i diritti degli oppr8ssi, prima tra gli indiani del Sud Africa e poi nella sua
India, coniugandola con una filosofia di fratellanza universale tra i viventi
(e quindi anti-coloniale, anti-caste ed anti-razzista, ma anche vegetariana) e
con una testimonianza di vita frugale, fondata sul contenimento dei desideri
individuali e sulla “purificazione” (fino alla castità).
Da qui i digiuni (anche come espiazione) e
l’auto-sufficienza nel soddisfacimento dei bisogni elementari (cibo, vestiario)
elevati ad azioni di lotta collettiva (marcia del sale e tessitura artigianale
come forme di boicottaggio rispetto alle tasse, ai monopoli ed alle produzioni
della potenza occupante).
APPENDICE
B – CAPITINI E LA NON-VIOLENZA IN ITALIA
Aldo Capitini fu in Italia il teorico che
sviluppò più coerentemente il pensiero non-violento,10,11 coniugando
dagli anni ’30 convinzioni antifasciste e liberal-socialiste con un suo
specifico afflato religioso, di ascendenze francescane ma assai critico verso
il cattolicesimo pre-conciliare e verso le permanenze integraliste ed
autoritarie anche successive al Concilio Vaticano II. Estimatore e divulgatore di Gandhi, ne seguì
anche l’orientamento vegetariano.
Capitini cercò anche di farsi organizzatore
sociale in Umbria, per il controllo dal basso del potere locale (“omnicrazia”),
e di una rete non-violenta a livello nazionale, attorno ai primi obiettori di
coscienza contro il servizio militare, ma nell’Italia degli anni ’50 e ’60,
polarizzata dallo scontro tra democristiani e socialcomunisti e poi attratta
dal consumismo, rimase in collocazioni di nicchia, tranne che nelle esperienze
delle “Marce per la Pace”, da Perugia ad Assisi, da lui iniziate nel 1961.
Analoghe esperienze non-violente di nicchia,
sia pure con qualche notorietà nazionale ed internazionale, furono quelle di
don Milani, con la scuola di Barbiana ed il sostegno agli obiettori di
coscienza (in radicale conflitto contro i cappellani militari), e di Danilo
Dolci con gli “scioperi alla rovescia” dei contadini del Belice.
A parte va considerato Marco Pannella, leader
del piccolo Partito Radicale, che - privilegiando la spettacolarizzazione
propagandistica dei suoi digiuni individuali – a mio avviso ha reso
nell’insieme una pessima causa all’idea di lotta non-violenta in Italia,
deformandone e usurandone il concetto, e giovando relativamente alle singole
campagne, pur spesso condivisibili. E non ha infatti mai favorito la
sedimentazione di adeguate organizzazioni collettive e non elitarie, pur
influendo notevolmente sull’avanzamento dei diritti civili (divorzio, aborto,
ecc.).
Fonti:
1. Maria
Silvia Codecasa “SETTE SERPENTI – SULLE TRACCE DI UN CULTO IGNORATO” –
Manifestolibri, Roma 1994
2. Jared
Diamond “ARMI, ACCIAIO E MALATTIE - BREVE STORIA DEGLI ULTIMI TREDICIMILA ANNI”
– Einaudi, Torino 1997
3.
Aldo
Vecchi ““ARMI, ACCIAIO E MALATTIE, NELLA
STORIA MONDIALE DI JARED DIAMOND” https://drive.google.com/file/d/0BzaFw8WEAEgYWjV1dkNlVVlOM0k/view?usp=sharing
– recensione su UTOPIA21, maggio 2017
4. David
Graeber “DEBITO - I PRIMI 5000 ANNI” – Il
Saggiatore, Milano 2012
5.
Aldo
Vecchi “DEBITO E DEMOCRAZIA SECONDO DAVID GRAEBER” https://drive.google.com/file/d/1KNHwvYRdA-OgatgudIQMBtJt5Q3shSWl/view?usp=sharing
– recensione su UTOPIA21, luglio 2018
6.
Alfred
Doblin “NOVEMBRE 1918. UNA RIVOLUZIONE TEDESCA: BORGHESI E SOLDATI” – Einaudi,
Torino 1982
7.
Aldo
Vecchi “DEMOCRAZIE, POPULISMI, UTOPIE”
https://drive.google.com/file/d/17frHnO85GX3GKyp3WaGOzNSUHiu4T1r7/view?usp=sharing – articolo su
UTOPIA21, novembre 2018
8.
Mohandas
Karamchand Gandhi “LE GRANDI RELIGIONI. INDUISMO, BUDDISMO, CRISTIANESIMO,
ISLAMISMO” - GTE Newton, Roma 2009
9. Mohandas
Karamchand Gandhi “LA RESISTENZA NON VIOLENTA” - Newton & Compton, Roma
2000
10.
Aldo
Capitini “LA NONVIOLENZA, OGGI” – Edizioni di Comunità, Milano 1962
11.
Aldo
Capitini “LE RAGIONI DELLA NONVIOLENZA - ANTOLOGIA DEGLI SCRITTI” a cura di
Mario Martini – ETS, Pisa 2004/2016
Nessun commento:
Posta un commento