Più o volte ho criticato la linea
della “vocazione maggioritaria” del PD, da Veltroni a Renzi, e le ambiguità che
ha determinato sia nello statuto e nella
materiale organizzazione di quel partito, sia nelle proposte di politica
istituzionale, culminate d’altronde nella sconfitta del referendum
costituzionale (la cui improbabile vittoria avrebbe forse potuto in vece santificare
tale impostazione).
Mi pare però di cogliere, a
sinistra di Renzi, e concretamente tra gli scissionisti ex-PD di queste ore,
una sostanziale (e fallimentare) “vocazione minoritaria”:
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durante la campagna referendaria, gran parte
delle critiche ad un assetto più snello e maggioritario del Parlamento erano
agganciate al persistente timore del possibile uso scriteriato di questi nuovi
assetti di potere in favore degli avversari, fossero essi Berlusconi, Renzi, lo
spauracchio di Mussollini o (da ultimo) la pauraccia di una vittoria del M5S al ballottaggio: mai che sia sorto il
dubbio che persino da sinistra potesse scaturire una egemonia ed una capacità di
governo per avvalersi di tali strumenti per una seria politica riformatrice. Non
intendo certo proporre io uno smantellamento delle garanzie, né lo volevo fare
aderendo alle limitate modifiche costituzionali connesse al SI referendario, ma
mi sembra opportuno stigmatizzare questa sfiducia a-priori della sinistra nelle
proprie buone ragioni, che porta molti sinistri ad aggrapparsi sempre e solo alle
leve dei freni ed ai limitati poteri di interdizione delle minoranze, interne
ed esterne alle potenziali aree di governo;
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nella surreale sceneggiata della scissione (talora
anche “sceneggiata muta”, vedi la mancanza di seri interventi di merito nelle
varie riunioni degli organi dirigenti nazionali del PD) la principale costante che è emersa è stata
la paura verso Renzi e la certezza che sarebbe stato comunque impossibile batterlo
nei congressi e nelle primarie, con il vacuo pretesto, tutto procedurale, che “ci
vorrebbe più tempo”: si conta così poco sul popolo che si vorrebbe
rappresentare?
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Si disprezza così tanto il corpo elettorale che
sta alla base del PD, sia a livello di iscritti che di simpatizzanti? E’ pur
vero che Renzi, quando era forte, ha saputo accumulare in suo favore anche molto
consenso opportunistico, soprattutto tra i quadri dirigenti e intermedi, “renziani
della seconda ora”: ma ora c’è un Renzi vistosamente indebolito, e per fortuna
si è anche riaperto, ovunque nel mondo, un qualche dibattito più ampio sulla
strada da intraprendere per uscire dalla crisi e per contrastare il dilagante
Trumpismo….
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nella prospettiva della costituenda “cosa” a
sinistra del PD (così come nella formazione di Sinistra Italiana) il
minoritarismo continua ad essere una stella polare di riferimento, e gli
orizzonti oscillano dalla pura opposizione di testimonianza (forse qualcuno ha anche
residue velleità rivoluzionarie) alla conquista di un peso contrattuale per
condizionare da sinistra un ipotetico nuovo centro-sinistra; capisco che il
realismo possa essere utile per capire la realtà e non illudersi di facili scorciatoie
di successo attraverso al propaganda di più giuste proposte, ma quello che mi
pare manchi radicalmente è la capacità o la voglia di capire quello che si muove
(o magari anche ristagna) al centro della società, dove non a caso i formano,
con significative basi sociali, i fenomeni del blairismo, del renzismo ecc., quando
va bene, e del berlusconismo, del salvinismo e del grillismo quando va un po’ meno
bene. La questione, mi sembra, non è quella di sventolare o meno l’idea, ad
esempio, di una imposta patrimoniale, ma di studiare come costruire un consenso
maggioritario su simili proposte (più verso Gramsci che verso D’Alema…).