A
partire da un sogno impossibile di organica equità sociale, una riflessione
aperta sui molteplici aspetti della ‘crisi del lavoro’, dalle sue origini
storiche al suo difficile futuro già in atto.
Riassunto:
il mito originario di
una comunità egualitaria e la realtà storica delle divisioni sociali;
la divaricazione tra
lavori retribuiti, prestazioni non retribuite e bisogni sociali inevasi;
le criticità del lavoro
salariato e le sparse tendenze a nuove forme di organizzazione sociale e
lavorativa;
i limiti dei correttivi
sociali tra organizzazione territoriale delle amministrazioni pubbliche e
sviluppo anarchico della libertà di impresa, anche nelle sue forme più
responsabili, sullo sfondo della differenziata diffusione dei diritti
individuali;
domande aperte per
Utopia21.
C’è
un sogno che so di non poter fare, neppure nel sonno, perché troppo palesemente
utopistico e semplicistico, ma che mi sembra utile per impostare un
ragionamento radicale sulla questione del lavoro:
il sogno di una
comunità che distribuisce in modo equo ogni fatica, al fine di soddisfare i
bisogni di tutti (possibilmente tenendo conto anche dei bisogni dei posteri, e
quindi degli squilibri ambientali che ingenera l’esistenza della “razza umana”).
In
questa visione il lavoro includerebbe la sommatoria di tutte produzioni di
oggetti e di servizi, oggi forniti dal mercato e dalla pubblica amministrazione
(scremando oggetti e servizi inutili e/o nocivi), nonché le attività private di
cura (di sé, dei figli, degli inabili, degli anziani) e di auto-produzione/auto-consumo,
che non passano dalla monetizzazione; concettualmente potrebbero rientrarvi
anche le attività formative (incluso il ruolo dei discenti), in quanto finalizzate
al ciclo lavorativo; e, proseguendo, pure il riposo ed il tempo-libero, in
quanto complementari e funzionali al tempo-di-lavoro (un tempo si diceva “la
riproduzione della forza-lavoro).
La
comunità sarebbe molto presa dalle discussioni per distribuire al meglio i
pieni e i vuoti, su come conciliare le diverse propensioni personali e le varie
esigenze collettive; nonché dalle discussioni sul modo di decidere, in modo
diretto o delegato, sarebbe costretta ad inventare regole comunicative, e poi una
sfera politica, e una giudiziaria, e una poliziesca… però, in linea di principio,
potrebbe orientarsi verso la ricerca della ‘felicità’ per tutti (anche se
ognuno può vederla a modo suo) e per tutti potrebbe essere cercata non solo
fuori dal lavoro ma anche dentro al lavoroNOTA A, riducendo al
minino i turni di ‘corvée’ per le mansioni indesiderate e massimizzando la
distribuzione delle mansioni più gratificanti.
E
qui interrompo il sogno-non-autorizzato, perché non servono altri
fanta-dettagli, soprattutto se la comunità immaginaria inizia ad occuparsi di
religione, sesso, famiglia e procreazione, droghe leggere e pesanti, dei
delitti e delle pene… (anche se da bambino avevo scritto una
costituzione per la repubblica italo-indiana dei miei soldatini, che avevano
anche una Officina Italo-Indiana Meccanica Edile Tessile – OIIMET - e dunque in
qualche misura sono recidivo).
Perché
ben sappiamo di non vivere in comunità locali autosufficienti (o con limitato
interscambio con l’esterno) e con ridotto numero di persone in grado di
conoscersi direttamente: una situazione che solo in parte emerge dalla
preistoria (e per nulla dalla successiva storia documentale) e che gli etnologi
hanno rincorso negli ultimi angoli sperduti del pianeta, ritrovandovi però più di
frequente tribù gerarchizzate e violente (o pacificate militarmente) che non la
mitica ‘età dell’oro” e della concordia (a partire dalla condizione subalterna
delle donne). 1,2,3,4,29 e NOTA B
E’
indubbio che alle origini arcaiche delle odierne culture occidentali vi siano
state (già nel periodo neolitico e poi nell’età del ferro) strutture sociali
differenziate, con predominanza di signorie militari (ad esempio, la casa in cui abito sorge sopra un tessuto ‘ordinario’ di
una antica necropoli ‘golasecchiana’, ma cento metri più in là è stata
rinvenuta una ben più rilevante ‘tomba del guerriero’, il tutto risalente a 2,5
millenni addietro): tale era l’assetto, esplicitamente classista, delle
grandi civiltà greco-romane (e precedenti in Mesopotamia ed Egitto) e poi dei
regni barbarici, così come delle repubbliche aristocratiche di origine
medievale.
Ed
anche prima della ‘globalizzazione’ dei recenti decenni, in Occidente (e non
solo) si viveva in società notevolmente complesse, stratificate socialmente tra
padroni/servi, proprietari/non proprietari, cittadini/non cittadini,
ricchi/poveri, e differenziate nelle mille specializzazioni professionali,
crescenti dalle campagne alle città, che delle campagne erano
e sono il conflittuale complemento.
(A
proposito di campagne, pure il mito delle comunità rurali sviluppate e
resistenti dal medioevo nelle valli alpine ed altrove5,29, con
l’assemblea dei capi-famiglia che decidono sotto l’albero o attorno al tavolo
di pietra, richiede approfondimenti sia riguardo alla frequente gerarchia di
censo tra i capi-famiglia, sia soprattutto riguardo ai soggetti esclusi e
subalterni: donne, figli cadetti, servi, stranieri; sia ancora riguardo
all’esercizio della forza, che non era affatto trascurabile, ad esempio, nei Cantoni
Svizzeri, pacifici non certo da sempre).
Il
processo di emancipazione, spesso contrastato e quindi violento, che ha portato
alla liberazione parziale di ceti subalterni e di popoli dominati, rispetto
alla piramide imperiale, feudale e coloniale, negli ultimi secoli, e la grande fucina
dello sviluppo capitalistico ed industriale, hanno plasmato situazioni ancora
più complesse ed interconnesse, in cui – tra l’altro – malgrado una innegabile
‘diffusione del potere’, si è del tutto cancellato il carattere unitario degli
sforzi umani, volti a soddisfare i bisogni, tra quelli classificati
‘lavorativi’ (per lo più retribuiti in varie forme e misure) e quelli
‘gratuiti’, sia privati (in ambito familiare) sia sociali (volontariato); con
oscillante in mezzo il ’settore pubblico’, che include per lo più prestazioni
retribuite per risolvere fabbisogni collettivi (difesa, amministrazione,
istruzione, salute, ecc.).
A
fronte della evidente ed endemica crisi del lavoro salariato nei paesi più
sviluppati (disoccupazione, sottoccupazione, precarietà) 6,7,8,9,29,
e della annunciata rarefazione ulteriore per effetto delle innovazioni
tecnologiche10 ed organizzative/culturali11, appare
difficile ricomprendere in un ragionevole tessuto le considerazioni sul ‘lavoro’
con quelle sui ‘lavori’ che invece risultano comunque necessari per rispondere
alle necessità accumulate ed emergenti nelle società contemporanee: necessità
immateriali (cura delle alienazioni, delle depressioni, delle solitudini) e
necessità materiali (abitazioni per chi ne è privo, disinquinamenti e riconversione ecologica e prevenzione
sismica/idrogeologica per le abitazioni esistenti e per i territori).
Le
criticità del vigente modello di produzione e di distribuzione e consumo delle
risorse fanno emergere già potenziali correttivi, effettivamente praticati, da
quel che resta (ma non è poco) dello stato sociale alla cooperazioneNOTA C,
dalla secolare lotta per la riduzione degli orari di lavoro al suo difficile
proseguimento ai tempi nostri10,12 E NOTA D, dai contratti di
solidarietà ai ‘lavori socialmente utili’, dal volontariato organizzato nel
‘terzo settore’ alle ‘banche del tempo’, dalla rivalutazione del lavoro
domestico alla gestione di ‘orti sociali’, dai gruppi di acquisto solidali all’agricoltura
a chilometro zero (tutti quanti temi meritevoli di singoli approfondimenti, in
parte già avviati su UTOPIA21).
Una
forma esplicita di socialismo è d’altronde a mio avviso insita nel pubblico
impiego, laddove questo non degenera in burocrazia e clientelismo, perché vede
impegnati a risolvere problemi collettivi numerosi lavoratori retribuiti con
salari medi, a prescindere dal maggior valore ‘di mercato’ delle loro
prestazioni (insegnamento, ricerca, sanità; taccio
degli urbanisti per evitare postumi conflitti di interesse).
E
si affacciano proposte interessanti, dall’alternanza scuola-lavoro al servizio
civile, che potrebbero coniugare il sostegno al reddito e all’occupazione con
l’educazione permanente e con principi di responsabilità collettiva verso i
beni comuni (responsabilità che viene meno, a mio avviso, nelle scorciatoie del
tipo “reddito di cittadinanza”6,7,8,13,29); altre proposte interessanti
sono presenti ne “Il nuovo spirito del capitalismo” di Boltanski-Chiapello14,15, tra le
quali la ricerca di un superamento della dicotomia tra “contratto di lavoro” e
“contratto commerciale” verso un nuovo “contratto di attività”, e nell’articolo
di Fulvio Fagiani sul “Futuro del lavoro” in questo stesso numero di Utopia21.
(Mentre
mi sembra una fuga illusoria l’ipotesi ‘bucolica’ della decrescita come
interpretata da Maurizio Pallante,16 con le donne in casa a curare i
bambini - in antitesi agli asili-nido - e gli uomini a curare i propri
orticelli: immagino soprattutto frotte di adolescenti in fuga da questi
villaggi regressivi, senza curarsi né dei fratellini né degli orticelli).
Molti
fili da tessere, ma non emerge ancora un progetto organico e risolutivo, né un
soggetto sociale e/o politico capace di svilupparlo, attualizzando la lunga
marcia dell’emancipazione sociale cui sopra ho accennato.
Le
difficoltà nascono innanzitutto dalla nota concentrazione delle risorse e delle
decisioni, ed ancor prima delle informazioni e delle conoscenze, in centri di
potere finanziari (in parte occultati nei paradisi fiscali) ed aziendali,
spesso monopolistici (vedi Amazon, Facebook, Google) che travalicano gli stati
nazionali e le loro faticose aggregazioni (Europa, ONU, ecc.); e dalla
contestuale paralisi delle rappresentanze politiche, soprattutto se di
tradizioni democratiche e socialiste (gli stati oligarchici e dittatoriali se la cavano più agilmente),
emersa anche in relazione con la frammentazione sociale oggettiva e
‘linguistica’ degli stessi ceti subalterni, che sono tali anche culturalmente e
quindi in parte vittime dei condizionamenti, non solo pubblicitari. 17,18,19
Ma
sono insite anche altresì nella (ineliminabile?) diarchia tra la struttura
della pubblica amministrazione (che – soprattutto nelle sue unità locali – recepisce, organizza e soddisfa in parte i
bisogni collettivi: convogliando, nel bene e nel male, in Europa, quasi la metà
del ‘PIL’, avendo spesso però perduto un orizzonte strategico, nei mille
rivoli, anche clientelari, della spesa pubblica) e le strutture ‘anarchiche’
delle imprese (non importa se private od anche pubbliche, ove sopravvivono).
Infatti
le imprese, che pure – oltre a rispondere
alla loro missione di produrre beni e servizi, con orizzonti necessariamente
non-locali –NOTA E costituiscono oggettivamente un campo di
socialità (pur meno che in passato: dai rapporti di colleganza alle
sindacalizzazione) ed inoltre attivano alcune non trascurabili iniziative di
beneficio collettivo (dal remoto paternalismo dei dopo-lavoro, mutue e case-operaie, culminato nel modello
OlivettiNOTA A all’attuale moderno welfare aziendale): spazi che
potrebbero essere incrementati, confidando verso (o costringendo verso) una
maggior responsabilità sociale delle imprese, ponendo a loro carico, ad
esempio, la riqualificazione ed il ricollocamento degli addetti in esubero (Boltanski-Chaipello)14,15,
oppure il risarcimento verso i danni ambientali anche pregressi; ma con qualche
rischio di ulteriori divaricazioni tra lavoratori ‘protetti’ o non protetti’ da
idonei contratti; nonché di subalternità alle suddette missioni aziendali che –
per loro natura – da un lato sono tendenzialmente ‘importatrici’ ed
‘esportatrici’ (e quindi comportano consumi energetici, trasporti fisici,
invadenza economica e colonizzazioni culturali), per altro verso sono sempre
difficilmente rispettose dell’ambiente in quanto mirano a ‘trasformare’ (almeno
fino a quando non si sarà instaurata una perfetta ‘economia circolare’).NOTA
E
Nel
contempo la difficoltà di ri-programmare organicamente qualsivoglia politica
distributiva di lavoro e di risorse, a qualunque scala geo-politica, ma a
maggior ragione alla scala ‘locale’ si deve misurare non solo con la varietà e
vivacità delle imprese (inclusa la ‘libertà di intraprendere’ da parte dei singoli
lavoratori/auto-imprenditori), ma in generale con tutti i diritti e le libertà
delle persone e soprattutto con i (differenziati) diritti alla mobilità, che
sono massimi per i soggetti ‘single’, ricchi ed istruiti (vedi ancora
Boltanski-Chiapello)14,15 , minori per le famiglie e per i
meno-ricchi e meno-istruiti, minimi, ma non nulli, per i migranti ed i profughi;
nonché con la ormai inveterata ‘libertà
dei consumatori’, indicativa comunque di una variabilità dei bisogni nel tempo
e nello spazio: il che rende problematico il perseguimento di politiche
ridistributive ed inclusive, soprattutto su basi geografiche circoscritte (il
socialismo in un solo paese, da intendersi in questo caso come ‘paesello’, come
nel caso di Marinaleda, in Andalusia NOTA C).
(Problemi
che infatti ha attraversato anche la teoria dei ‘soviet’ – di fabbrica o
territoriali? - nella evoluzione/involuzione del socialismo reale, conferendo
infine ogni potere al Partito ed al Soviet Supremo).
Tuttavia
da qualche parte occorrerà pur iniziare: per non lasciare confinati in un
sogno, oppure nelle encicliche papali, l’equità sociale ed i bisogni collettivi
(tra cui l’ambiente).
Di
questo stiamo cercando di occuparci su UTOPIA21 (articoli di Fagiani,
interviste a Biffi ed a Demichelis, recensioni su Mason, Bregman, Dardot-Laval,
Boltanski-Chiapello, Becchetti) ed in parallelo nel Festival dell’Utopia di
Varese.
E
continueremo nei prossimi numeri, tra l’altro raccontando gli albori della
moderna cooperazione nel nostro territorio.
Allargando
inoltre il confronto, per quanto le nostre modeste forze ed i graditi
collaboratori ci consentiranno, ai temi attigui della ‘democrazia economica’ e della
responsabilità di impresa, della ‘democrazia reputazionale’ e dell’economia
circolare, ed anche della ‘democrazia-in-quanto-tale’ e della ricerca del
benessere e della felicità.
NOTA
A – con la definizione di “endoponia” Aldo Capitini inseriva la ricerca della
felicità anche nel lavoro, e non solo nella liberazione dal lavoro, nella sua
visione di una rivoluzione nonviolenta, del “controllo dal basso” e della
“onnicrazia”; rammento il discorso dalla sua voce, ma non trovo al momento la
fonte editoriale precisa tra le sue opere degli anni ’50 e ’6020 (forse
solo sul bollettino “Azione Nonviolenta”?): datazione significativa, perché
evidenzia la divergenza dalle correnti principali della sinistra, che allora
individuavano come strumento principale di emancipazione – seppur attraverso
vie legali – la ‘presa del potere’ statale e la nazionalizzazione o
socializzazione dei mezzi di produzione; nonché la distanza dall’illuminismo
paternalista di Olivetti (anche se Capitini pubblicava parte delle sue opere
presso le edizioni di Comunità), che – pur circondandosi di psicologi e
sociologi per comprendere e attenuare il problema - non ha mai osato smentire
la dura oggettività del lavoro ripetitivo alla catena di montaggio: si veda il
romanzo di Ottiero Ottieri “Donnarumma all’assalto”. 21 (Senza la
pretesa di liquidare con queste due parole il fenomeno Olivetti).22
NOTA
B – in tal senso ad esempio Diamond 1,2,3 da me recensito su
UTOPIA21 di maggio 2017; parzialmente divergenti le ricerche di Graeber4,29,
testi su cui intendo tornare in prossimi numeri di UTOPIA2.
NOTA
C – oltre alla storia della cooperazione parallela al movimento operaio in
Europa negli ultimi 2 secoli (su cui torneremo con interviste mirate a
emblematiche storie nel varesotto) appare significativa l’esperienza di
cooperativa agricola e civica in corso nel comune andaluso di Marinaleda.22
NOTA
D – la riduzione dell’orario di lavoro è un tema classico del movimento
operaio, attraverso le tappe storiche delle 8 ore al giorno e delle 40 ore
settimanali; andare oltre pare difficile soprattutto in Italia, dopo il noto
conflitto tra il 1° governo Prodi e il partito di Rifondazione Comunista di
Bertinotti, che sbandierò l’obiettivo delle 35 ore ottenendo però solo la
caduta di quel governo nel 1998; più avanti è andata la Francia, con la legge
sulle 35 ore (seppur rimessa in discussione), e la Germania, dove il rinnovo
dei contratti dei metalmeccanici, già consolidati a 35 ore, sta definendo in
questi giorni una nuova opzione temporanea a 28 ore settimanali per i
lavoratori che lo richiedono, riprendo però anche l’opzione delle 40 ore,
sempre per una parte dei lavoratori e su base volontaria; la questione è ben
rappresentata da Agostinelli12, mentre l’intervista di Fagiani a
Biffi10 espone con chiarezza l’obiezione relativa alla elevata
specializzazione delle mansioni, che renderebbe difficile una generalizzazione
delle riduzioni di orario nei moderni cicli produttivi.
NOTA
E - Anche nelle esperienze socialiste
(non so in quelle estreme, tipo il regime di Pol Pot in Cambogia negli ultimi
anni ’70), l’impresa, ancorché di proprietà pubblica, è sempre rimasta come
elemento centrale per la produzione di beni, e nei vari modelli capitalistici
le imprese, oltre ad espandersi sempre più anche nella produzione di servizi,
esprimono una evidente capacità di egemonia sociale ed in parte anche politica
(incluse le mitiche piccole e medie imprese). Il che non esclude ovviamente che
nell’interesse pubblico non possano e debbano essere controllate,
tendenzialmente, dall’alto, da parte dello Stato (più facilmente, ad esempio,
in Cina), e dal basso, da parte dei lavoratori come da parte dei consumatori
(tema in parte affrontato da Becchetti23,24 e su cui occorrerà
tornare). Non mi convince però la visione pacificata dell’equilibrio
‘territorialista’ di Magnaghi28,29, fondato sulla piena
valorizzazione delle risorse locali, perché a mio avviso sottovaluta i
conflitti insiti comunque nel rapporto capitale-lavoro e nei mercati globali a
cui le imprese locali solo in parte possono sottrarsi. Conflitti con cui deve
misurarsi anche lo sforzo –spesso ipotizzato a scala locale ed ‘urbana’28
- di trasformare l’economia da ‘lineare’ a ‘circolare’ piegando in tal senso la
logica delle aziende
Fonti:
1. Jared Diamond “IL
TERZO SCIMPANZÉ - Ascesa e caduta del primate homo sapiens” Bollati
Boringhieri, Torino 1994 e 2006
2. Jared Diamond “ARMI,
ACCIAIO E MALATTIE - Breve storia degli ultimi tredicimila anni” – Einaudi,
Torino 1997
3. Aldo Vecchi,
recensioni sui testi 1 e 2 in “UTOPIA21” maggio 2017
4. David Graeber “DEBITO. I PRIMI 5.000 ANNI” - Il Saggiatore,
Milano 2012
5. Gèrard Delille “L’ECONOMIA DI DIO. Famiglia e mercato tra
cristianesimo, ebraismo, Islam” -
Salerno Editrice, Roma 2013
6. Paul Mason - “POSTCAPITALISMO – Una
guida al nostro futuro” – Saggiatore, Milano 2015
7. Aldo Vecchi,
recensione sul testo 6 in “UTOPIA21” marzo 2017
8. Guy Standing “PRECARI. La nuova classe esplosiva”
- Il Mulino, Bologna 2012
9. Fulvio Fagiani “IL
FUTURO DEL LAVORO TRA AUTOMAZIONE E PIATTAFORME – 1^ PARTE” in “UTOPIA21”
gennaio 2018
10. Fulvio Fagiani
“CONVERSAZIONE-INTERVISTA CON ALFREDO BIFFI” in “UTOPIA21” novembre 2017
11. Fulvio Fagiani
“CONVERSAZIONE-INTERVISTA CON LELIO DEMICHELIS” in “UTOPIA21” settembre 2017
12. Mario Agostinelli
“LIBERAZIONE DEL ‘TEMPO PROPRIO’ ATTRAVERSO LA RIDUZIONE DELL’ORARIO” settembre
2017 www.workingclass.it
13. Giovanni Perazzoli
“CONTRO LA MISERIA – viaggio nell’Europa del nuovo welfare” - Laterza, Bari 2014
14. Luc Boltanski e Eve
Chiapello “IL NUOVO SPIRITO DEL CAPITALISMO” – Mimesis, Milano/Udine 2014
15. Aldo Vecchi,
recensione sul testo 14 in “UTOPIA21” gennaio 2018
16. Maurizio Pallante
“LA DECRESCITA FELICE. La qualità della vita non dipende dal PIL” – Editori
Riuniti, Roma 2005
17. Herbert Marcuse “L'
UOMO A UNA DIMENSIONE” – Einaudi, Torino riedizione 1999
18. Dardot, Laval “LA
NUOVA RAGIONE DEL MONDO – DeriveApprodi, 2013
19. Fulvio Fagiani,
recensione sul testo 18 in “UTOPIA21” novembre 2017
20. Aldo Capitini “LE
RAGIONI DELLA NONVIOLENZA: ANTOLOGIA DEGLI SCRITTI”, a cura di Mario Martini,
Edizioni ETS, Pisa, 2004
21. Ottiero Ottieri
“DONNARUMMA ALL'ASSALTO” Bompiani, Milano 1959 (ristampa: Garzanti)
22. Douglas Hamilton
“MARINALEDA, IL PAESE DOVE NON ESISTE DISOCCUPAZIONE” settembre 2016 su
www.vita.it
24. Lorenzo Becchetti
“CAPIRE L’ECONOMIA IN SETTE PASSI” - Minimum fax, Roma 2016
25. Aldo Vecchi,
recensione sul testo 24 in “UTOPIA21” settembre 2017
26. Alberto Magnaghi
“IL PROGETTO LOCALE – verso la coscienza di luogo” Bollati Boringhieri, Torino
2000 e 2011
27. Aldo Vecchi,
recensione sul testo 26 in “UTOPIA21” luglio 2017, all’interno dell’articolo
“IL DIBATTITO SULLA CRESCITA E SULLA SOSTENIBILITA’ DEI FENOMENI URBANI E
METROPOLITANI (PARTE 2^)”
28. Gabriella Pultrone
“CITTA’ AL CENTRO DELLA ‘RIVOLUZIONE CIRCOLARE’: DALLA CRISI NUOVA OPPORTUNITA’
DI RINASCITA” in “URBANISTICA INFORMAZIONI –
SPECIAL ISSUE n° 272 (atti della 10^ giornata di studi INU, Napoli
dicembre 2017) – da pag. 295 (l’indice del fascicolo è inattendibile)
29. Aldo Vecchi,
recensione sui precedenti testi 4,5,8,13 su questo blog “relativamente, sì”, in appositi POST e nella pagina ULTERIORI
LETTURE
PERVENUTO TRAMITE FACE-BOOK
RispondiEliminaUna buona ricerca e un valido contributo per chi abbia a cuore il miglioramento della condizione umana, legato non solo al lavoro, pur così importante, ma anche ad un'equità sociale ed esistenziale, che prescinde (ma non saprei fino a che punto), se ad attuare simili ipotesi organizzative del lavoro e della società, siano governi di Sinistra o di Destra moderata. Con una battuta direi: passiamo la palla a Di Maio e a Salvini. Buona fortuna.
M.C.