Una lettura in
parallelo – da parte di un non-specialista - tra le riflessioni, anche esterne
alla disciplina psicoanalitica, di 3 studiosi interessati al futuro
dell’umanità, dopo la caduta dei miti rivoluzionari della sinistra.
Sommario:
Premessa
Zoja
Madera
Recalcati
PREMESSA
Il
divario tra i concreti problemi della difficile convivenza (degli uomini tra di
loro e tra gli uomini ed il pianeta Terra) e la prevalente inconsapevolezza di
tali problemi tra gli uomini stessi, ed ancor più l’illogicità del consenso di massa verso movimenti
populisti e sovranisti che esplicitamente teorizzano il trasferimento di
ulteriori risorse dai poveri ai ricchi (flat tax, che dilaga dagli USA
all’Italia, dalla Russia ai suoi ex-Satelliti), evidenziano l’importanza di
tutte le scienze che indagano sulla soggettività.
Pertanto, anche se
nella mia formazione ed esperienza di urbanista e di funzionario mi sono
trovato più a mio agio a contatto con discipline prossime di carattere “oggettivo”, come la storia,
la sociologia, il diritto e l’economia politica, rilevo una spinta crescente ad incuriosirmi –
sempre da dilettante – anche a materie più remote come l’antropologia e la psicoanalisi:
quest’ultima evidentemente per me più ostica, per cui mi limito, in questa
breve rassegna, a qualche commento
a testi di 3 autori (qui ordinati per età decrescente) che – pur essendo
psicoanalisti e forse però proprio per alcune loro peculiarità biografiche - hanno voluto occuparsi anche del mondo
esterno alla loro disciplina, ed adottare un taglio divulgativo (pur con
notevoli differenze nella accessibilità del linguaggio; per questo oscillo tra
il riassunto con parole mie e l’impiego invece di ampie citazioni).
ZOJA
Luigi
Zoja, psichiatra di scuola Junghiana e laureato dapprima in economia, in
“Utopie minimaliste” 1 percorre in lungo ed in largo i temi
socio-economici e politici nel passaggio dal secolo XX al XXI, dalla caduta del
comunismo e di ogni mitologia rivoluzionaria alla crisi dello stato sociale,
dalla globalizzazione finanziaria allo stress ambientale del pianeta terra,
cercando di applicare alla storia del mondo alcune categorie di
interpretazione proprie della sua
esperienza di psicanalista (junghiano): a
mio avviso con risultati alterni.
I contenuti più
strettamente descrittivi delle contraddizioni e disuguaglianze nel mondo
contemporaneo, ed a partire dal crollo del blocco sovietico, mi sono sembrati
corretti, ma non particolarmente originali.
Pregevole mi è parso il
tentativo di contrapporre al liberista ed anti-solidale “Tax Freedom Day” (il
giorno dell’anno in cui il contribuente ha finito di lavorare per pagare tasse
e contributi) un calcolo dei pochi giorni che all’uomo occidentale bastano ogni
anno per procurarsi quanto è veramente necessario; più scontate le considerazioni
sul disagio dei contribuenti
verso il fisco a dimensioni nazionali, anche perché le nazioni appaiono scavalcate
dalla globalizzazione, a fronte di una accettazione più facile del
carico fiscale in presenza di
istituzioni locali forti e federate (esempio svizzero).
Più interessanti, ma
discutibili, le considerazioni antropologiche e psicologiche.
Un
assioma di fondo di Zoja è che “tenere un diario, annotare i propri sogni, o comunque
cercare di conoscere meglio se stessi, col tempo finirà coll’essere
anche per la società un contributo più importante che il partecipare a
manifestazioni rumorose”; raggiungere “l’individuazione” (cioè in sostanza la pace con se stessi) è la premessa ad una vera
empatia sociale ed ambientale, fondata più sulla “vergogna” della
corresponsabilità nei mali del mondo che sull’indignazione per il male altrui.
Per
altro, dice Zoja, il raggiungimento dell’individuazione non si può programmare (mi sembra che assomigli un po’ alla grazia
divina calvinista).
Pur
comprendendo l’importanza dei riti e dei miti (archetipi junghiani) correlati
alla militanza rivoluzionaria, Zoja considera molto dannosi i comportamenti
astrattamente e “alienatamente” altruisti, propri del ciclo storico comunista,
e propone la ricerca di un culto più intimista e rilassato di “utopie
minimaliste”; confidando che nella rassegnata resistenza passiva della
“generazione indifferente” possano maturare (anziché il narcisismo egoista, che a me sembra comunque incombente)
comportamenti solidali, secondo la “naturale socialità dell’uomo” cara a
Jung, ed alternativi alla omologazione
consumista, incontrando anche altre culture e altri archetipi: la natura,
grande madre, ufficializzata anche nelle costituzioni delle nuove democrazie
andine, e la comunità dei viventi, animali e vegetali inclusi, propria delle
religioni orientali.
(Temi
che Zoja ritrova nella cultura occidentale solo di recente, con Peter Singer e
Paolo De Benedetti, considerando Francesco d’Assisi come un eccezione isolata: trascura invece, a mio avviso, importanti
pensatori e testimoni del Novecento, cresciuti tra cristianesimo ed
illuminismo, come Albert Schweizer e Aldo Capitini, quest’ultimo rilevante non
solo per il vegetarianesimo e la non-violenza come strumento di lotta, ma anche
per la ricerca della felicità entro il lavoro, “endoponia”, che può
assomigliare alla “individuazione”, su un versante più laburista).
Proseguendo
un ragionamento di Freud, Zoja contempla uno sviluppo a tappe del superamento
dell’ego-centrismo occidentale attraverso Galileo e Copernico (la terra perde
il centro nell’universo), Darwin (anche l’uomo appartiene al regno animale),
Freud stesso (l’io razionale come parte minoritaria della psiche) per arrivare
ad un pieno rispetto di tutte le specie viventi e degli equilibri
dell’ecosfera.
(Si potrebbe rilevare
un parallelo con il pensiero di Hannah Arendt, riepilogato su Utopia21 da Antonio
G.Balistreri 2 ).
Correlato
è il percorso culturale proposto attraverso:
-
Thoreau e Chomsky (contro Foucault, per il socialismo libertario, senza
paradigmi preconcetti ed anche come
autorealizzazione dell’individuo),
-
Borges (sorprendentemente anti-nazionalista)
-
Enzensberger sul minimo di civiltà (le condizioni per la convivenza civile,
assicurate in ristretti luoghi del globo) e sulle contraddizioni del superfluo,
che portano alla povertà di spazio e di
tempo.
Con
ulteriori riflessioni di Zoja sull’attesa che divora la vita, vuoi per eccesso
di pretese (ad esempio la non accettazione dell’invecchiamento), vuoi invece
per carenze di garanzie (il precariato).
Mi sembra interessante
la proposizione dei “diritti dell’uomo nell’ambiente” non solo come difesa dagli
inquinamenti, ma come “diritti positivi” all’acqua, all’aria respirabile, al
cibo, alla luce ma anche al buio ed al silenzio, al poter camminare sulla
superficie terrestre senza pericoli e barriere: il tutto anche come diritto alla
salute psichica (e qui però mi sarei aspettato di apprendere maggiori dati
sulla concretezza del disagio e del benessere per l’umanità urbana
contemporanea).
Più debole invece mi
pare la proposizione dei diritti della natura, che non solo sono indeboliti,
come dice Zoja, perché gli animali non votano, ma anche (tema ignorato da Zoja)
per i rischi di fondamentalismo impliciti in ogni rappresentanza della natura
assunta da gruppi umani (rischi maggiori, secondo me, di quelli insiti nelle militanze rivoluzionarie socialiste dei
precedenti due secoli; perché alla fin fine i poveri, votando, magari in modo
sbagliato, possono liberarsi dei falsi rappresentanti: i criceti invece
no).
Non mi ha convinto
affatto la sua semplificazione sulle “generazioni”: la “generazione impegnata”,
dal dopoguerra agli anni 70, che lottava contro le disuguaglianze in un periodo
in cui il capitalismo, mitigato dalla socialdemocrazia, consentiva il massimo
di relativa uguaglianza, e la successiva “generazione indifferente”, che non
lotta più, mentre le disuguaglianze nei paesi sviluppati tornano ad espandersi
ai massimi livelli.
Avendo appartenuto alla
prima, rammento benissimo che la componente “impegnata” riuscì, chiassosamente
e capillarmente, a conquistare una centralità politica e mediatica: ma era una
componente minoritaria dell’universo statistico dei giovani di allora (ad
esempio – come già ho ricordato in “68” 3 , sono certo che la
maggioranza dei miei compagni di liceo non ha mai preso parte ad alcuna
manifestazione), e mi sembra scorretto confondere la parte con il tutto,
trascurando i conflitti interni alle generazioni.
Non mi convince nemmeno
il paradigma di Che Guevara come padre irresponsabile sia verso i suoi figli
naturali che verso i suoi figli politici, anche se appare efficace la
descrizione della parabola discendente del militante rivoluzionario frustrato
(e non eroicamente caduto), che diviene incapace di leggere la realtà e di
abbandonare strumenti concettuali ormai fallimentari e controproducenti: tutte
queste critiche mi sembrano efficaci applicandole a chi ha scelto una militanza
volontaria, molto meno per tutti coloro che hanno lottato, e lottano,
semplicemente prendendo coscienza della loro oggettiva condizione subalterna e
di sfruttamento (ed a cui manca il tempo forse per sfogarsi sul suddetto
lettino dello psicanalista).
Per finire, anche se è
chiaro il fallimento del comunismo nel tentativo di realizzare un uomo nuovo
(da Stalin a Pol Pot) ed anche l’effetto controproducente dell’estremismo rivoluzionario
(Che Guevara), occorre forse chiedersi se le mitigazioni di tipo
socialdemocratico al capitalismo nel periodo 1945-75 (nei soli paesi
sviluppati) sarebbero state possibili senza che aleggiasse altrove lo “spettro
del comunismo”; ed infatti con il declino e poi il crollo del blocco sovietico
abbiamo assistito ad un rilancio del liberismo finanziario selvaggio.
D’altro canto la strada
di migliorare l’uomo per migliorare il mondo, pur in chiave diversa dalla
“individuazione” junghiana, è stata a lungo predicata dal cattolicesimo
democratico (quando la Chiesa ha perso il potere temporale e la pretesa di
insegnare ad obbedire ai sovrani cattolici), ma non mi sembra con grandi
risultati sociali, almeno all’interno dei paesi ricchi.
Forse anche il riformismo,
per essere efficace, ha bisogno di qualche dose di utopia non troppo
minimalista e di una dimensione collettiva ed in qualche misura militante, a
partire dagli interessi concreti dei soggetti sociali (probabilmente a partire
dai paesi poveri, e sperabilmente in armonia con la grande-madre-terra).
Inoltre la giusta
attenzione alla psicologia individuale non può trascurare quel mondo a se che
costituisce la psicologia delle masse ed influisce sui comportamenti collettivi
(da Gustave Le Bon ad Elias Canetti).
MADERA
Romano
Madera (intellettuale di origine varesina, inizialmente giovane cattolico, a
seguito del 68 militante del Gruppo Gramsci, successivamente filosofo – ora
professore emerito - ed anche psichiatra di scuola junghiana), all’interno di
un testo4 più ampio, complesso e difficile, su cui mi riservo di
tornare, riproduce un suo breve saggio del 2011, “IL CODICE GENETICO DELLA CIVILTA’
DELL’ACCUMULAZIONE NELLE SCOPERTE DI MARX”, dove riconosce in Marx una scoperta
fondamentale, profetica rispetto alla situazione sociale del suo tempo: il
“feticismo” della merce.
Secondo
Madera, il nocciolo della teoria marxiana, relativo al rapporto tra lavoro
salariato e capitale, ma comprensivo dell’intera economia politica, consiste
nel sovrapporsi delle contraddizioni tra valore d’uso e valore di scambio, tra
lavoro privato e lavoro sociale, tra lavoro concreto e lavoro astratto, e – per
finire – tra la mercificazione delle persone e la “personificazione” delle merci,
tipica del moderno consumismo (mentre il capitalismo nella sua fase sorgente,
si era avvalso delle preesistenti ideologie del lavoro e del risparmio).
Sino
ad arrivare effettivamente oggi, con la globalizzazione dei mercati, alla
monetizzazione di beni ambientali ed immateriali o virtuali ed
all’assoggettamento alla logica capitalistica di funzioni intellettuali un
tempo autonome, di carattere direzionale oppure creativo, dello spettacolo e
del tempo libero.
Il
lavoro, parcellizzato e dequalificato (salvo segmenti privilegiati, ma
sottoposti alla pressione di orari senza limiti oppure di erogare prestazioni
non pagate), cade in balia di forze incontrollabili, con parallela
atomizzazione delle relazioni sociali e private, e diffondersi dell’egotismo e
del narcisismo, con un dilagare del desiderio che trova limiti solo
nell’impossibilità materiale di appagamento (il che mi sembra assomigli alla
descrizione della “società liquida” da parte di Zygmunt Bauman5,6,
autore però non citato nella ricca bibliografia di Madera, che spazia invece da
Debord a Marcuse, da Severino ad Heidegger, da Musil a Derrida, da Nietzsche a
Foucault, da Lasch a Ehrenberg ed altri a me francamente sconosciuti).
Anche
alla luce della sua esperienza professionale, Madera rileva una “ruolizzazione
parcellizzante”, che sottrae ai rapporti del lavoro con la natura e con i
bisogni, e rende i lavoratori/consumatori, subordinati, “terminali incorporati
nel megautoma universale che minaccia la natura stessa”, mentre – malgrado la
retorica dei diritti universali – gli ultimi della terra restano esclusi
dall’accesso a beni fondamentali, quali l’acqua, il cibo, la salute.
Ma
– qui si apre la critica specifica di Madera a Marx – il Marx ‘del Capitale’
(schematizzando), preconizza una classe operaia tutta interna alle leggi
produttive capitalistiche e portata a riprodursi in condizioni di “eccedenza” quantitativa rispetto al
numero dei posti di lavoro, riproponendo pertanto la concorrenza tra i
lavoratori stessi, che costituisce il punto di forza primo del capitale
nell’assoggettare la merce-lavoro; mentre il Marx ‘del Manifesto’ (sempre
schematizzando) ipotizza una “coscienza enorme” affinché la classe operaia
riacquisti il controllo del ciclo produttivo, sottraendosi al “feticismo”.
La
storia – secondo Madera – ha abbondantemente dimostrato che il ‘Marx del
Manifesto’ aveva torto e che “l’analisi marxiana, depurata dalle purtroppo vane
speranza dialettiche di Marx, insegna a capire perché il capitale sia
insuperabile, e proprio per il suo carattere feticistico, dalle rivendicazioni
economico-politiche dei lavoratori”, riassorbibili anche perché l’immaginario
dei lavoratori è pesantemente condizionato dall’ideologia capitalistica
(nessuno ipotizza più una società radicalmente diversa).
La
conclusione di Madera è che la rivoluzione non si può fare contro il capitale,
né la si è fatta con “Il Capitale”, e che – come dice nel sotto-titolo del
saggio - la teoria marxiana si è rivelata “una diagnosi straordinaria, una
prognosi mediocre ed una terapia inconsistente”; anzi la critica “scientifica”
dell’economia politica e la nobile speranza della rivoluzione (analogamente
alle promesse irrealizzabili di Prometeo) si sono configurate,
involontariamente, come una “utopia”; sconfitta, sul piano delle ideologie, da
quella stessa ‘religione del Dio-denaro’ che l’analisi marxiana aveva
denunciato e demistificato.
Tuttavia
Madera non esclude che – recuperando la critica marxiana al capitalismo
nell’orizzonte della vita - e valorizzando la concretezza delle biografie dei
soggetti, che si trovano a disagio in questo sistema di produzione e consumo
(qui viene utile l’armamentario psicanalitico, analogamente alla cura didattica
a base di antropologia proposta da Marc Augé), possano svilupparsi piccole
concrete “eutopie”, nicchie di superamento della logica dell’accumulazione,
senza pretese di alcuna unità ecumenica, ma con la speranza di sopravvivere ad
un eventuale collasso degli attuali assetti sociali.
Ovvero
recuperare Marx come un “ultimo profeta di Israele” (mi chiedo se non sia il penultimo, prima di Freud) anche se al
momento la salvezza non può essere per tutto il popolo ma solo –
figurativamente - per il “resto di Israele” (cose che succedevano
frequentemente ai profeti di Israele, perdendosi tribù defilate oppure in
temporanea cattività).
Di mio aggiungerei solo
un richiamo alla lettura, in parte diversa, che Boltanski e Chiapello rivolgono
al “3° spirito del capitalismo”,7,8 perché è vero che riassorbe
dinamicamente le diverse successive forme di critica, ma si apre anche a nuove
contraddizioni, ed una attenzione potenziale al sempre più esteso esercito di
lavoratori, salariati o subordinati, e talora schiavizzati, diffuso nei terzi e
quarti mondi della globalizzazione, perché poco sappiamo della loro
soggettività, più avvezza alle religioni tradizionali, che non al lettino
dell’analista o al sindacalismo trade-unionista,
ma che potrebbe riservare qualche sorpresa allo “stato delle cose presenti”.
RECALCATI
Massimo
Recalcati (prima agrotecnico e filosofo, poi psicanalista lacaniano), nella
introduzione a “RITRATTI DEL DESIDERIO”,9 difende la psicoanalisi
dagli attacchi provenienti dalle più moderne forme di psicoterapia e di
neuro-scienze, rivendicandone innanzitutto l’istanza “etica”.
Riporto
il suo pensiero con larghe citazioni, stante la chiarezza del linguaggio
adottato: “Se il Novecento è stato il secolo del sacrificio della singolarità,
schiacciata sotto il peso inumano dell’universale ideologico della Causa, la
teoria e la pratica della psicoanalisi, sin dalla sua origine, si è posta [SIC: io avrei scritto “si sono poste”]
al servizio del carattere insacrificabile della singolarità. Non certo
della natura borghese dell’Io e dell’individualismo liberista, ma di quella
singolarità più ampia, che sconfina in zone dell’essere che eccedono la
coscienza e la sua illusione (cartesiana) di padronanza. La singolarità
irregolare e anarchica dell’inconscio impone infatti di ripensare innanzitutto
il concetto stesso di identità”.
Il
merito fondamentale di Freud è di aver scoperto che “… l’eccessivo
compattamento identitario del soggetto non è una virtù da salvaguardare, ma è
la vera malattia da curare. La divisione multipla interna al soggetto – tra
coscienza, preconscio e di inconscio …. _ ci costringe infatti a ridisegnare la
nostra idea della vita umana. L’Io non è mai padrone in casa propria:
l’alterità non è innanzitutto esperienza dello straniero che viene dal di
fuori, ma del nostro essere, della nostra più profonda intimità” …”Ne deriva
…un’inedita concezione della malattia e della sofferenza psichica che
scaturirebbe non tanto da una assenza o da una debolezza dell’Io, ma da una sua
postura troppo rigida, da una mancanza di democrazia interna che vorrebbe
escludere la voce dell’inconscio dal parlamento interno del soggetto”.
Recalcati
prosegue esplicitando che “… il volto dello straniero che si tratta di
accogliere…. “ è “quello del desiderio… E’ questo un punto nevralgico presente
nel pensiero di Freud, ripreso con forza da Lacan: non solo la vita si ammala
per un eccesso di solidificazione dell’identità, ma anche quando essa volta le
spalle alla chiamata del desiderio, quando tradisce … la sua vocazione, il suo
talento fondamentale. Questo desiderio …. non può essere normalizzato,
irreggimentato, assoggettato da nessun principio, compreso quello di realtà” (e qui interrompo le lunghe citazioni per
avanzare qualche dubbio: anche se probabilmente il tema della responsabilità è
trattato da Recalcati in altri suoi testi, tra cui la trilogia su Telemaco,
paternità e maternità, a leggere questo brano mi sembra che l’illimitata
espansione del desiderio riproponga una sorta di narcisismo dell’inconscio, non
meno pericoloso di quello dell’Io).
“La
difesa della singolarità comporta l’opzione per un pensiero laico,
anti-dogmatico, anti-fondamentalista, critico nei confronti di ogni
assimilazione del singolare nelle procedure anonime dell’universale. E’ il
tratto, se si vuole, irriducibilmente ‘femminista’ della psicoanalisi: la cura
è cura per il particolare … Questo comporta un attrito fatale nei confronti di
tutte le pratiche di normalizzazione autoritaria e di medicalizzazione disciplinare
della vita. La vita del desiderio – la vita della singolarità – è sempre vita
storta, difforme, deviante, bizzarra.”
Per
cui … “La psicoanalisi è una teoria critica della società: il potere che impone
una misura unica della felicità diviene necessariamente totalitario.”
Perché
d’altronde “La psicoanalisi svela che esiste nell’uomo una tendenza pulsionale
ad amare più le catene della [che non la]
propria libertà, a disfarsi del proprio desiderio, a consegnarsi nelle mani
di una autorità che in cambio della cessione della propria libertà,
assicurerebbe la protezione della vita. E’ la dimensione ‘fascista’ della
psicologia delle masse ….”
Al termine di questa
appassionata ed appassionante difesa non solo della psicoanalisi, ma della
essenza delle libertà individuali (ed ancor più dell’attenzione per i diversi),
mi chiederei ancora, però, su cosa possa basarsi una proficua convivenza
sociale: escludendo che il Potere imponga una felicità standardizzata, i
soggetti riusciranno a dialogare, anche al di là dei singoli desideri, per
stabilire fini e mezzi di un minimo di beni comuni? Ad esempio, se tutti
giustamente coltivano talenti artistici, ci si riesce ad accordare su dei turni
di corvée per procurarsi il cibo e rimuovere i rifiuti? E come la mettiamo con
la divisione capitalistica del lavoro, che a modo suo i problemi pratici li ha
già risolti, ma ci lascia enormi scorie di infelicità individuali e collettive?
E’
lo stesso Recalcati (“la Repubblica” del 28-11-17) ad appellarsi pesantemente
al ‘principio di realtà’, quando invita la sinistra a ri-leggere il Turati del
1921 (contro lo scissionismo settario del nascente partito Comunista e – profeticamente
- sugli esiti della rivoluzione sovietica), nonché ad elaborare finalmente il
lutto per la caduta dei miti novecenteschi, da Gramsci alla Resistenza, che
alimentano un massimalismo conservatore, ostile alla concretezza del riformismo
possibile.
Invita
anche a individuare (con Renzi), in Obama la sinistra di oggi.
In
questa dissertazione, alquanto professionale riguardo alla salute mentale della
sinistra (ma esente da attenzione alla
salute mentale di larga parte della popolazione immersa nelle trasformazioni
sociali connesse alla globalizzazione), Recalcati giustamente propone di
elaborare proposte politiche a partire dai problemi attuali.
Esclude
però il ricorso all’utopia, che identifica con il passatismo della sinistra
nostalgica.
Sul che dissento
nettamente, perché il tramonto del “socialismo reale” e la necessaria
approfondita riflessione su tale tramonto (e sulle ingombrati macerie che ha
lasciato, da Putin alle tendenze ora egemoni negli ex-satelliti dell’URSS) non
escludono, ma anzi implicano una ricerca radicale e senza pregiudizi sulle
contraddizioni del mondo di oggi, che mi pare sia modernamente capitalista, ma
non per questo debba necessariamente permanere tal quale per sempre.
Il massimalismo è
improduttivo, ma di riformismo non ce n’è uno solo: senza le utopie di Cesare
Beccaria o di Maria Montessori, di Gandhi o Martin Luther King, che riformismo
avremmo oggi?
Sperando di
sopravvivere a Trump, non credo ci sia solo Obama nei nostri orizzonti: penso
ad esempio a Carlin Petrini, a Pepe
Mujica, a Papa Francesco …
Fonti:
1.
Luigi
Zoja “UTOPIE MINIMALISTE – UN MONDO PIU’ DESIDERABILE ANCHE SENZA EROI” –
Chiare Lettere, Milano 2013
2.
Antonio
G. Balistreri “HANNAH ARENDT. Ecc.” su UTOPIA21 di luglio 2018 https://drive.google.com/file/d/1ZFTPp_LIiWObYrSRZv2fe-YtWIprgwaA/view?usp=sharing e su questo stesso
numero, settembre 2018
3.
Anna
Maria Vailati e Aldo Vecchi “Sessantotto” su UTOPIA21 del maggio 2018 https://drive.google.com/file/d/19F8htY0me_Mfsd4CcFhXha7piLEq3BL_/view?usp=sharing
4.
Romano
Madera “SCONFITTA E UTOPIA. IDENTITÀ E FETICISMO ATTRAVERSO MARX E NIETZCHE” - Mimesis edizioni, Sesto San Giovanni 2018
5.
Zygmunt
Bauman “MODERNITA’ LIQUIDA” – Laterza, Bari 2015
6.
su
Bauman vedi anche Antonio G. Balistreri “ZIGMUNT BAUMAN INTERPRETE DEL NOSTRO
TEMPO” in UTOPIA21 maggio 2017 https://drive.google.com/file/d/0BzaFw8WEAEgYcXpjMlpzYTFWQjQ/view?usp=sharing
7.
Luc
Boltanski e Eve Chiapello “IL NUOVO SPIRITO DEL CAPITALISMO” – Mimesis,
Milano/Udine 2014
8.
Aldo
Vecchi “IL TERZO SPIRITO DEL CAPITALISMO, INDAGATO DA BOLTANSKI E CHIAPELLO” su
UTOPIA21 gennaio 2018 https://drive.google.com/file/d/18rOwVEv0Uv-uYPjmBw7OdeXY4aKczbyg/view?usp=sharing e su questo blog
9. Massimo
Recalcati “RITRATTI DEL DESIDERIO” – Raffaello
Cortina Editore, Milano 2012
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