giovedì 27 settembre 2018

UTOPIA21 - SETTEMBRE 2018 - PSICOANALISTI SENZA UTOPIE?




Una lettura in parallelo – da parte di un non-specialista - tra le riflessioni, anche esterne alla disciplina psicoanalitica, di 3 studiosi interessati al futuro dell’umanità, dopo la caduta dei miti rivoluzionari della sinistra.   


Sommario:

Premessa
Zoja
Madera
Recalcati



PREMESSA

Il divario tra i concreti problemi della difficile convivenza (degli uomini tra di loro e tra gli uomini ed il pianeta Terra) e la prevalente inconsapevolezza di tali problemi tra gli uomini stessi, ed ancor più l’illogicità del consenso di massa verso movimenti populisti e sovranisti che esplicitamente teorizzano il trasferimento di ulteriori risorse dai poveri ai ricchi (flat tax, che dilaga dagli USA all’Italia, dalla Russia ai suoi ex-Satelliti), evidenziano l’importanza di tutte le scienze che indagano sulla soggettività.

Pertanto, anche se nella mia formazione ed esperienza di urbanista e di funzionario mi sono trovato più a mio agio a contatto con discipline prossime di carattere “oggettivo”, come la storia, la sociologia, il diritto e l’economia politica,  rilevo una spinta crescente ad incuriosirmi – sempre da dilettante – anche a materie più remote come l’antropologia e la psicoanalisi: quest’ultima evidentemente per me più ostica, per cui mi limito, in questa breve rassegna, a qualche commento a testi di 3 autori (qui ordinati per età decrescente) che – pur essendo psicoanalisti e forse però proprio per alcune loro peculiarità biografiche  - hanno voluto occuparsi anche del mondo esterno alla loro disciplina, ed adottare un taglio divulgativo (pur con notevoli differenze nella accessibilità del linguaggio; per questo oscillo tra il riassunto con parole mie e l’impiego invece di ampie citazioni).




ZOJA

Utopie minimaliste

Luigi Zoja, psichiatra di scuola Junghiana e laureato dapprima in economia, in “Utopie minimaliste” 1 percorre in lungo ed in largo i temi socio-economici e politici nel passaggio dal secolo XX al XXI, dalla caduta del comunismo e di ogni mitologia rivoluzionaria alla crisi dello stato sociale, dalla globalizzazione finanziaria allo stress ambientale del pianeta terra, cercando di applicare alla storia del mondo alcune categorie di interpretazione  proprie della sua esperienza di psicanalista (junghiano): a mio avviso con risultati alterni.

I contenuti più strettamente descrittivi delle contraddizioni e disuguaglianze nel mondo contemporaneo, ed a partire dal crollo del blocco sovietico, mi sono sembrati corretti, ma non particolarmente originali.
Pregevole mi è parso il tentativo di contrapporre al liberista ed anti-solidale “Tax Freedom Day” (il giorno dell’anno in cui il contribuente ha finito di lavorare per pagare tasse e contributi) un calcolo dei pochi giorni che all’uomo occidentale bastano ogni anno per procurarsi quanto è veramente necessario; più scontate le considerazioni sul disagio dei contribuenti verso il fisco a dimensioni nazionali, anche perché le nazioni appaiono scavalcate dalla globalizzazione, a fronte di una accettazione più facile del carico fiscale in presenza di istituzioni locali forti e federate (esempio svizzero).

Più interessanti, ma discutibili, le considerazioni antropologiche e psicologiche.
Un assioma di fondo di Zoja è che “tenere un diario, annotare i propri sogni,  o comunque  cercare di conoscere meglio se stessi, col tempo finirà coll’essere anche per la società un contributo più importante che il partecipare a manifestazioni rumorose”; raggiungere “l’individuazione” (cioè in sostanza la pace con se stessi) è la premessa ad una vera empatia sociale ed ambientale, fondata più sulla “vergogna” della corresponsabilità nei mali del mondo che sull’indignazione per il male altrui.
Per altro, dice Zoja, il raggiungimento dell’individuazione non si può programmare (mi sembra che assomigli un po’ alla grazia divina calvinista).

Pur comprendendo l’importanza dei riti e dei miti (archetipi junghiani) correlati alla militanza rivoluzionaria, Zoja considera molto dannosi i comportamenti astrattamente e “alienatamente” altruisti, propri del ciclo storico comunista, e propone la ricerca di un culto più intimista e rilassato di “utopie minimaliste”; confidando che nella rassegnata resistenza passiva della “generazione indifferente” possano maturare (anziché il narcisismo egoista, che a me sembra comunque incombente) comportamenti solidali, secondo la “naturale socialità dell’uomo” cara a Jung,  ed alternativi alla omologazione consumista, incontrando anche altre culture e altri archetipi: la natura, grande madre, ufficializzata anche nelle costituzioni delle nuove democrazie andine, e la comunità dei viventi, animali e vegetali inclusi, propria delle religioni orientali.  
(Temi che Zoja ritrova nella cultura occidentale solo di recente, con Peter Singer e Paolo De Benedetti, considerando Francesco d’Assisi come un eccezione isolata: trascura invece, a mio avviso, importanti pensatori e testimoni del Novecento, cresciuti tra cristianesimo ed illuminismo, come Albert Schweizer e Aldo Capitini, quest’ultimo rilevante non solo per il vegetarianesimo e la non-violenza come strumento di lotta, ma anche per la ricerca della felicità entro il lavoro, “endoponia”, che può assomigliare alla “individuazione”, su un versante più laburista).

Proseguendo un ragionamento di Freud, Zoja contempla uno sviluppo a tappe del superamento dell’ego-centrismo occidentale attraverso Galileo e Copernico (la terra perde il centro nell’universo), Darwin (anche l’uomo appartiene al regno animale), Freud stesso (l’io razionale come parte minoritaria della psiche) per arrivare ad un pieno rispetto di tutte le specie viventi e degli equilibri dell’ecosfera.
(Si potrebbe rilevare un parallelo con il pensiero di Hannah Arendt, riepilogato su Utopia21 da Antonio G.Balistreri 2 ).
Correlato è il percorso culturale proposto attraverso:
- Thoreau e Chomsky (contro Foucault, per il socialismo libertario, senza paradigmi preconcetti ed anche  come autorealizzazione dell’individuo),
- Borges (sorprendentemente anti-nazionalista)
- Enzensberger sul minimo di civiltà (le condizioni per la convivenza civile, assicurate in ristretti luoghi del globo) e sulle contraddizioni del superfluo, che portano alla povertà di spazio  e di tempo.
Con ulteriori riflessioni di Zoja sull’attesa che divora la vita, vuoi per eccesso di pretese (ad esempio la non accettazione dell’invecchiamento), vuoi invece per carenze di garanzie (il precariato).

Mi sembra interessante la proposizione dei “diritti dell’uomo nell’ambiente” non solo come difesa dagli inquinamenti, ma come “diritti positivi” all’acqua, all’aria respirabile, al cibo, alla luce ma anche al buio ed al silenzio, al poter camminare sulla superficie terrestre senza pericoli e barriere: il tutto anche come diritto alla salute psichica (e qui però mi sarei aspettato di apprendere maggiori dati sulla concretezza del disagio e del benessere per l’umanità urbana contemporanea).  
Più debole invece mi pare la proposizione dei diritti della natura, che non solo sono indeboliti, come dice Zoja, perché gli animali non votano, ma anche (tema ignorato da Zoja) per i rischi di fondamentalismo impliciti in ogni rappresentanza della natura assunta da gruppi umani (rischi maggiori, secondo me,  di quelli insiti nelle  militanze rivoluzionarie socialiste dei precedenti due secoli; perché alla fin fine i poveri, votando, magari in modo sbagliato, possono liberarsi dei falsi rappresentanti: i criceti invece no). 

Non mi ha convinto affatto la sua semplificazione sulle “generazioni”: la “generazione impegnata”, dal dopoguerra agli anni 70, che lottava contro le disuguaglianze in un periodo in cui il capitalismo, mitigato dalla socialdemocrazia, consentiva il massimo di relativa uguaglianza, e la successiva “generazione indifferente”, che non lotta più, mentre le disuguaglianze nei paesi sviluppati tornano ad espandersi ai massimi livelli.
Avendo appartenuto alla prima, rammento benissimo che la componente “impegnata” riuscì, chiassosamente e capillarmente, a conquistare una centralità politica e mediatica: ma era una componente minoritaria dell’universo statistico dei giovani di allora (ad esempio – come già ho ricordato in “68” 3 , sono certo che la maggioranza dei miei compagni di liceo non ha mai preso parte ad alcuna manifestazione), e mi sembra scorretto confondere la parte con il tutto, trascurando i conflitti interni alle generazioni.

Non mi convince nemmeno il paradigma di Che Guevara come padre irresponsabile sia verso i suoi figli naturali che verso i suoi figli politici, anche se appare efficace la descrizione della parabola discendente del militante rivoluzionario frustrato (e non eroicamente caduto), che diviene incapace di leggere la realtà e di abbandonare strumenti concettuali ormai fallimentari e controproducenti: tutte queste critiche mi sembrano efficaci applicandole a chi ha scelto una militanza volontaria, molto meno per tutti coloro che hanno lottato, e lottano, semplicemente prendendo coscienza della loro oggettiva condizione subalterna e di sfruttamento (ed a cui manca il tempo forse per sfogarsi sul suddetto lettino dello psicanalista).

Per finire, anche se è chiaro il fallimento del comunismo nel tentativo di realizzare un uomo nuovo (da Stalin a Pol Pot) ed anche l’effetto controproducente dell’estremismo rivoluzionario (Che Guevara), occorre forse chiedersi se le mitigazioni di tipo socialdemocratico al capitalismo nel periodo 1945-75 (nei soli paesi sviluppati) sarebbero state possibili senza che aleggiasse altrove lo “spettro del comunismo”; ed infatti con il declino e poi il crollo del blocco sovietico abbiamo assistito ad un rilancio del liberismo finanziario selvaggio.
D’altro canto la strada di migliorare l’uomo per migliorare il mondo, pur in chiave diversa dalla “individuazione” junghiana, è stata a lungo predicata dal cattolicesimo democratico (quando la Chiesa ha perso il potere temporale e la pretesa di insegnare ad obbedire ai sovrani cattolici), ma non mi sembra con grandi risultati sociali, almeno all’interno dei paesi ricchi.
Forse anche il riformismo, per essere efficace, ha bisogno di qualche dose di utopia non troppo minimalista e di una dimensione collettiva ed in qualche misura militante, a partire dagli interessi concreti dei soggetti sociali (probabilmente a partire dai paesi poveri, e sperabilmente in armonia con la grande-madre-terra).
Inoltre la giusta attenzione alla psicologia individuale non può trascurare quel mondo a se che costituisce la psicologia delle masse ed influisce sui comportamenti collettivi (da Gustave Le Bon ad Elias Canetti).







MADERA

Sconfitta e utopia. Identità e feticismo attraverso Marx e Nietzsche

Romano Madera (intellettuale di origine varesina, inizialmente giovane cattolico, a seguito del 68 militante del Gruppo Gramsci, successivamente filosofo – ora professore emerito - ed anche psichiatra di scuola junghiana), all’interno di un testo4 più ampio, complesso e difficile, su cui mi riservo di tornare, riproduce un suo breve saggio del 2011,  “IL CODICE GENETICO DELLA CIVILTA’ DELL’ACCUMULAZIONE NELLE SCOPERTE DI MARX”, dove riconosce in Marx una scoperta fondamentale, profetica rispetto alla situazione sociale del suo tempo: il “feticismo” della merce.
Secondo Madera, il nocciolo della teoria marxiana, relativo al rapporto tra lavoro salariato e capitale, ma comprensivo dell’intera economia politica, consiste nel sovrapporsi delle contraddizioni tra valore d’uso e valore di scambio, tra lavoro privato e lavoro sociale, tra lavoro concreto e lavoro astratto, e – per finire – tra la mercificazione delle persone e la “personificazione” delle merci, tipica del moderno consumismo (mentre il capitalismo nella sua fase sorgente, si era avvalso delle preesistenti ideologie del lavoro e del risparmio).
Sino ad arrivare effettivamente oggi, con la globalizzazione dei mercati, alla monetizzazione di beni ambientali ed immateriali o virtuali ed all’assoggettamento alla logica capitalistica di funzioni intellettuali un tempo autonome, di carattere direzionale oppure creativo, dello spettacolo e del tempo libero.
Il lavoro, parcellizzato e dequalificato (salvo segmenti privilegiati, ma sottoposti alla pressione di orari senza limiti oppure di erogare prestazioni non pagate), cade in balia di forze incontrollabili, con parallela atomizzazione delle relazioni sociali e private, e diffondersi dell’egotismo e del narcisismo, con un dilagare del desiderio che trova limiti solo nell’impossibilità materiale di appagamento (il che mi sembra assomigli alla descrizione della “società liquida” da parte di Zygmunt Bauman5,6, autore però non citato nella ricca bibliografia di Madera, che spazia invece da Debord a Marcuse, da Severino ad Heidegger, da Musil a Derrida, da Nietzsche a Foucault, da Lasch a Ehrenberg ed altri a me francamente sconosciuti).
Anche alla luce della sua esperienza professionale, Madera rileva una “ruolizzazione parcellizzante”, che sottrae ai rapporti del lavoro con la natura e con i bisogni, e rende i lavoratori/consumatori, subordinati, “terminali incorporati nel megautoma universale che minaccia la natura stessa”, mentre – malgrado la retorica dei diritti universali – gli ultimi della terra restano esclusi dall’accesso a beni fondamentali, quali l’acqua, il cibo, la salute.

Ma – qui si apre la critica specifica di Madera a Marx – il Marx ‘del Capitale’ (schematizzando), preconizza una classe operaia tutta interna alle leggi produttive capitalistiche e portata a riprodursi in condizioni di “eccedenza” quantitativa rispetto al numero dei posti di lavoro, riproponendo pertanto la concorrenza tra i lavoratori stessi, che costituisce il punto di forza primo del capitale nell’assoggettare la merce-lavoro; mentre il Marx ‘del Manifesto’ (sempre schematizzando) ipotizza una “coscienza enorme” affinché la classe operaia riacquisti il controllo del ciclo produttivo, sottraendosi al “feticismo”.
La storia – secondo Madera – ha abbondantemente dimostrato che il ‘Marx del Manifesto’ aveva torto e che “l’analisi marxiana, depurata dalle purtroppo vane speranza dialettiche di Marx, insegna a capire perché il capitale sia insuperabile, e proprio per il suo carattere feticistico, dalle rivendicazioni economico-politiche dei lavoratori”, riassorbibili anche perché l’immaginario dei lavoratori è pesantemente condizionato dall’ideologia capitalistica (nessuno ipotizza più una società radicalmente diversa).
La conclusione di Madera è che la rivoluzione non si può fare contro il capitale, né la si è fatta con “Il Capitale”, e che – come dice nel sotto-titolo del saggio - la teoria marxiana si è rivelata “una diagnosi straordinaria, una prognosi mediocre ed una terapia inconsistente”; anzi la critica “scientifica” dell’economia politica e la nobile speranza della rivoluzione (analogamente alle promesse irrealizzabili di Prometeo) si sono configurate, involontariamente, come una “utopia”; sconfitta, sul piano delle ideologie, da quella stessa ‘religione del Dio-denaro’ che l’analisi marxiana aveva denunciato e demistificato.

Tuttavia Madera non esclude che – recuperando la critica marxiana al capitalismo nell’orizzonte della vita - e valorizzando la concretezza delle biografie dei soggetti, che si trovano a disagio in questo sistema di produzione e consumo (qui viene utile l’armamentario psicanalitico, analogamente alla cura didattica a base di antropologia proposta da Marc Augé), possano svilupparsi piccole concrete “eutopie”, nicchie di superamento della logica dell’accumulazione, senza pretese di alcuna unità ecumenica, ma con la speranza di sopravvivere ad un eventuale collasso degli attuali assetti sociali.
Ovvero recuperare Marx come un “ultimo profeta di Israele” (mi chiedo se non sia il penultimo, prima di Freud) anche se al momento la salvezza non può essere per tutto il popolo ma solo – figurativamente - per il “resto di Israele” (cose che succedevano frequentemente ai profeti di Israele, perdendosi tribù defilate oppure in temporanea cattività).

Di mio aggiungerei solo un richiamo alla lettura, in parte diversa, che Boltanski e Chiapello rivolgono al “3° spirito del capitalismo”,7,8 perché è vero che riassorbe dinamicamente le diverse successive forme di critica, ma si apre anche a nuove contraddizioni, ed una attenzione potenziale al sempre più esteso esercito di lavoratori, salariati o subordinati, e talora schiavizzati, diffuso nei terzi e quarti mondi della globalizzazione, perché poco sappiamo della loro soggettività, più avvezza alle religioni tradizionali, che non al lettino dell’analista  o al sindacalismo trade-unionista, ma che potrebbe riservare qualche sorpresa allo “stato delle cose presenti”.



RECALCATI


Ritratti del desiderio

Massimo Recalcati (prima agrotecnico e filosofo, poi psicanalista lacaniano), nella introduzione a “RITRATTI DEL DESIDERIO”,9 difende la psicoanalisi dagli attacchi provenienti dalle più moderne forme di psicoterapia e di neuro-scienze, rivendicandone innanzitutto l’istanza “etica”.
Riporto il suo pensiero con larghe citazioni, stante la chiarezza del linguaggio adottato: “Se il Novecento è stato il secolo del sacrificio della singolarità, schiacciata sotto il peso inumano dell’universale ideologico della Causa, la teoria e la pratica della psicoanalisi, sin dalla sua origine, si è posta [SIC: io avrei scritto “si sono poste”] al servizio del carattere insacrificabile della singolarità. Non certo della natura borghese dell’Io e dell’individualismo liberista, ma di quella singolarità più ampia, che sconfina in zone dell’essere che eccedono la coscienza e la sua illusione (cartesiana) di padronanza. La singolarità irregolare e anarchica dell’inconscio impone infatti di ripensare innanzitutto il concetto stesso di identità”.
Il merito fondamentale di Freud è di aver scoperto che “… l’eccessivo compattamento identitario del soggetto non è una virtù da salvaguardare, ma è la vera malattia da curare. La divisione multipla interna al soggetto – tra coscienza, preconscio e di inconscio …. _ ci costringe infatti a ridisegnare la nostra idea della vita umana. L’Io non è mai padrone in casa propria: l’alterità non è innanzitutto esperienza dello straniero che viene dal di fuori, ma del nostro essere, della nostra più profonda intimità” …”Ne deriva …un’inedita concezione della malattia e della sofferenza psichica che scaturirebbe non tanto da una assenza o da una debolezza dell’Io, ma da una sua postura troppo rigida, da una mancanza di democrazia interna che vorrebbe escludere la voce dell’inconscio dal parlamento interno del soggetto”.
Recalcati prosegue esplicitando che “… il volto dello straniero che si tratta di accogliere…. “ è “quello del desiderio… E’ questo un punto nevralgico presente nel pensiero di Freud, ripreso con forza da Lacan: non solo la vita si ammala per un eccesso di solidificazione dell’identità, ma anche quando essa volta le spalle alla chiamata del desiderio, quando tradisce … la sua vocazione, il suo talento fondamentale. Questo desiderio …. non può essere normalizzato, irreggimentato, assoggettato da nessun principio, compreso quello di realtà” (e qui interrompo le lunghe citazioni per avanzare qualche dubbio: anche se probabilmente il tema della responsabilità è trattato da Recalcati in altri suoi testi, tra cui la trilogia su Telemaco, paternità e maternità, a leggere questo brano mi sembra che l’illimitata espansione del desiderio riproponga una sorta di narcisismo dell’inconscio, non meno pericoloso di quello dell’Io).
“La difesa della singolarità comporta l’opzione per un pensiero laico, anti-dogmatico, anti-fondamentalista, critico nei confronti di ogni assimilazione del singolare nelle procedure anonime dell’universale. E’ il tratto, se si vuole, irriducibilmente ‘femminista’ della psicoanalisi: la cura è cura per il particolare … Questo comporta un attrito fatale nei confronti di tutte le pratiche di normalizzazione autoritaria e di medicalizzazione disciplinare della vita. La vita del desiderio – la vita della singolarità – è sempre vita storta, difforme, deviante, bizzarra.”
Per cui … “La psicoanalisi è una teoria critica della società: il potere che impone una misura unica della felicità diviene necessariamente totalitario.”
Perché d’altronde “La psicoanalisi svela che esiste nell’uomo una tendenza pulsionale ad amare più le catene della [che non la] propria libertà, a disfarsi del proprio desiderio, a consegnarsi nelle mani di una autorità che in cambio della cessione della propria libertà, assicurerebbe la protezione della vita. E’ la dimensione ‘fascista’ della psicologia delle masse ….”
Al termine di questa appassionata ed appassionante difesa non solo della psicoanalisi, ma della essenza delle libertà individuali (ed ancor più dell’attenzione per i diversi), mi chiederei ancora, però, su cosa possa basarsi una proficua convivenza sociale: escludendo che il Potere imponga una felicità standardizzata, i soggetti riusciranno a dialogare, anche al di là dei singoli desideri, per stabilire fini e mezzi di un minimo di beni comuni? Ad esempio, se tutti giustamente coltivano talenti artistici, ci si riesce ad accordare su dei turni di corvée per procurarsi il cibo e rimuovere i rifiuti? E come la mettiamo con la divisione capitalistica del lavoro, che a modo suo i problemi pratici li ha già risolti, ma ci lascia enormi scorie di infelicità individuali e collettive? 

E’ lo stesso Recalcati (“la Repubblica” del 28-11-17) ad appellarsi pesantemente al ‘principio di realtà’, quando invita la sinistra a ri-leggere il Turati del 1921 (contro lo scissionismo settario del nascente partito Comunista e – profeticamente - sugli esiti della rivoluzione sovietica), nonché ad elaborare finalmente il lutto per la caduta dei miti novecenteschi, da Gramsci alla Resistenza, che alimentano un massimalismo conservatore, ostile alla concretezza del riformismo possibile.
Invita anche a individuare (con Renzi), in Obama la sinistra di oggi.
In questa dissertazione, alquanto professionale riguardo alla salute mentale della sinistra (ma esente da attenzione alla salute mentale di larga parte della popolazione immersa nelle trasformazioni sociali connesse alla globalizzazione), Recalcati giustamente propone di elaborare proposte politiche a partire dai problemi attuali.
Esclude però il ricorso all’utopia, che identifica con il passatismo della sinistra nostalgica.

Sul che dissento nettamente, perché il tramonto del “socialismo reale” e la necessaria approfondita riflessione su tale tramonto (e sulle ingombrati macerie che ha lasciato, da Putin alle tendenze ora egemoni negli ex-satelliti dell’URSS) non escludono, ma anzi implicano una ricerca radicale e senza pregiudizi sulle contraddizioni del mondo di oggi, che mi pare sia modernamente capitalista, ma non per questo debba necessariamente permanere tal quale per sempre.
Il massimalismo è improduttivo, ma di riformismo non ce n’è uno solo: senza le utopie di Cesare Beccaria o di Maria Montessori, di Gandhi o Martin Luther King, che riformismo avremmo oggi?

Sperando di sopravvivere a Trump, non credo ci sia solo Obama nei nostri orizzonti: penso ad esempio a  Carlin Petrini, a Pepe Mujica, a Papa Francesco …  

Fonti:
1.    Luigi Zoja “UTOPIE MINIMALISTE – UN MONDO PIU’ DESIDERABILE ANCHE SENZA EROI” – Chiare Lettere, Milano 2013
2.    Antonio G. Balistreri “HANNAH ARENDT. Ecc.” su UTOPIA21 di luglio 2018 https://drive.google.com/file/d/1ZFTPp_LIiWObYrSRZv2fe-YtWIprgwaA/view?usp=sharing e su questo stesso numero, settembre 2018
3.    Anna Maria Vailati e Aldo Vecchi “Sessantotto” su UTOPIA21 del maggio 2018 https://drive.google.com/file/d/19F8htY0me_Mfsd4CcFhXha7piLEq3BL_/view?usp=sharing
4.    Romano Madera “SCONFITTA E UTOPIA. IDENTITÀ E FETICISMO ATTRAVERSO MARX E NIETZCHE”  - Mimesis edizioni, Sesto San Giovanni 2018
5.    Zygmunt Bauman “MODERNITA’ LIQUIDA” – Laterza, Bari 2015
6.    su Bauman vedi anche Antonio G. Balistreri “ZIGMUNT BAUMAN INTERPRETE DEL NOSTRO TEMPO” in UTOPIA21 maggio 2017 https://drive.google.com/file/d/0BzaFw8WEAEgYcXpjMlpzYTFWQjQ/view?usp=sharing
7.    Luc Boltanski e Eve Chiapello “IL NUOVO SPIRITO DEL CAPITALISMO” – Mimesis, Milano/Udine 2014
8.    Aldo Vecchi “IL TERZO SPIRITO DEL CAPITALISMO, INDAGATO DA BOLTANSKI E CHIAPELLO” su UTOPIA21 gennaio 2018 https://drive.google.com/file/d/18rOwVEv0Uv-uYPjmBw7OdeXY4aKczbyg/view?usp=sharing e su questo blog
9.    Massimo Recalcati “RITRATTI DEL DESIDERIO” – Raffaello  Cortina Editore, Milano 2012

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