sabato 29 dicembre 2018

note di Anna&Aldo sul testo di Stefano Levi della Torre "Qualche considerazione sulla storia in corso" - luglio 2018


Con riferimento al testo di Stefano Levi della Torre
http://www.razzismobruttastoria.net/2018/07/26/qualche-considerazione-sulla-storia-corso-stefano-levi-della-torre-giugnoluglio-2018/
abbiamo apprezzato molto il contributo di Stefano alla comprensione della “storia in corso”, ma riteniamo utile mettere in evidenza qualche dubbio e dissenso che sono emersi dalla sua lettura; poiché siamo arrivati a poco più i 2 paginette, a fronte delle oltre 20 di Stefano, parrebbe che le convergenze siano ampie e superino le seguenti specifiche divergenze.

Note di Anna Maria Vailati e Aldo Vecchi, agosto 2018  

Pensiamo che si debba approfondire il tema della scomposizione sociale e culturale delle classi operaie occidentali.NOTA *
Considerandola anche come effetto collaterale e contradditorio di qualche decennio di battaglie contro la fatica del lavoro, per l’istruzione, per l’emancipazione da un modello antropologico “casa-e-famiglia”, ecc..
Ed in relazione alla consapevole reazione neo-liberista, che è un altro contro-effetto del successo di tutto  un ciclo di lotte sociali dopo il 1945.
Ipotizzeremmo addirittura che, pur senza il contributo (comunque poi decisivo) della caduta del modello sovietico, tale scomposizione stia alla base della crisi politica delle sinistre europee, ed in particolare:
-          della progressiva auto-referenzialità delle sue “rappresentanze”, non più innervate da una frequente spinta di nuove avanguardie derivanti dalle lotte sociali,
-          della risorgente tendenza alla frammentazione settaria, pur ben radicata in tutta la storia del movimento operaio, ma attenuata nel periodo post-bellico.

Non ci sembra altrettanto determinato dalla suddetta scomposizione sociale l’orientamento della maggioranza delle forze di sinistra europee, soprattutto nelle loro esperienze di governo, in favore della subalternità ideologico-culturale rispetto al neo-liberismo montante (subalternità che apparve subita ai tempi dell’Ulivo, ed invece rivendicata ai tempi del PD); orientamento moderato che ha trovato alimento nella crescente debolezza dei sindacati (date le nuove condizioni del mercato del lavoro), nell’oggettivo peso dei  problemi di sostenibilità del welfare (allungamento della vita media e denatalità, altri effetti collaterali del progresso sociale)  e di improduttività dello Stato-Imprenditore (non solo in Italia): ma soprattutto nella mancanza di un nuovo orizzonte di politica economica (e culturale) alternativo al fallimento del socialismo reale.
Ci sembra infatti importante constatare che in quasi tutti i paesi della vecchia Europa (al di qua del nuovo “muro” di Visegrad) a sinistra delle “sinistre di governo” sono sorti movimenti e partiti che non hanno sposato la deriva neo-liberista (l’ha comunque dovuta accettare Syriza di Tsipras in Grecia), e non per questo sono riusciti a contendere il consenso crescente alle forze populiste e sovraniste (salvo forse in Portogallo e Spagna, Catalunya esclusa), finendo talvolta per rincorrerle ed imitarle (France Insoumise di Mélenchon): ciò si è verificato soprattutto in Germania (dove Verdi e Linke ristagnano mentre la socialdemocrazia arretra, ed avanza solo la nuova destra dell’AFD) ed in Italia (dove a sinistra del PD si sono schierati nel tempo numerosi partiti, personaggi e cartelli elettorali, ma scarsissimi elettori e pure scarsi militanti effettivamente in campo): ed anche in questa fascia estrema delle  sinistre ci pare che il nocciolo sia la mancanza di una credibile prospettiva, che vada oltre la rivendicazione di una maggior spesa pubblica (poco seria soprattutto in Italia, dato il debito variamente accumulato ben prima della grande crisi).

Anche la sconfitta di Genova nel 2001 del movimento no-global contro il G8 si inscrive, secondo noi, nella carenza di prospettiva (anche se vi erano interessanti intuizioni nuove), aggravata dalla  scelta tattica di cadere di fatto nella trappola dello scontro militare sui confini della ”zona rossa”  anziché isolare i black-blok e abbandonarli alla loro guerriglia di posizione, sviluppando invece (altrove ?) azioni non-violente, che avrebbero forse potuto conservare dimensioni di massa al movimento, in parte ancora riscontrabili nell’ondata pacifista che invano tentò di contrastare la seconda guerra USA all’Irak, due anni dopo.
(Nel nostro piccolo orto extraparlamentare, fummo più saggi quel 12 dicembre del 1971 in piazza Leonardo…).

La prospettiva da cercare, secondo noi, deve sì incrociarsi di nuovo con il disagio delle “vittime del sistema”, a partire dai cosiddetti penultimi cui siamo territorialmente e socialmente contigui: è necessario, ma è insufficiente.

Necessario, perché – un'altra contraddizione dialettica -  muovere dai bisogni immediati degli oppressi include sempre un po’di vittimismo (vittimismo brillantemente scippato da parte delle destre nazional-socialiste già nella crudele prima metà del Novecento), che fu ed è stato storicamente anche un carburante naturale delle lotte di classe, da sinistra, indubbiamente dal Giuramento della Pallacorda in poi: basti pensare alle canzoni anarchiche e socialiste, partigiane e sessantottine, da “siam la canaglia pezzente” a “se otto ore vi sembran poche”, da “la plebe sempre all’opra china”    a “gridavano, pensi, di essere sfruttati”.
Il vittimismo, gestito da destra, includendo offese presunte (tipo “la Vittoria Mutilata”), serve a fare “di ogni erba un fascio”, unendo interessi divergenti contro presunti nemici comuni.
Mentre l’ideale rivoluzionario, variamente coniugato nell’Ottocento e nel Novecento, tendeva a ricomporre le rivendicazioni settoriali e le speranze di riscatto in un disegno (confuso ma) unitario (l’unità di classe), in qualche misura inter-categoriale e internazionalista (in verità con gravi cadute scioviniste, non solo quando raccolte e gestite “da destra”: dall’adesione di gran parte dei partiti socialisti della 2^ internazionale ai singoli fronti nazionali nella prima guerra mondiale, nonché ad alcune delle ultime imprese coloniali, al razzismo implicito in sindacati non inclusivi in paesi di precoce immigrazione straniera, come Gran Bretagna e Francia, fino all’adesione popolare alle repressioni dell’URSS contro gli operai di Ungheria, Polonia, Cecoslovacchia…).
Tuttavia, nella variegata storia delle sinistre europee, lo spirito, non solo tra i “riformisti”, era quello di accettare mediazioni e battute d’arresto in nome di una futura possibile vittoria generale delle vittime contro “i padroni”: un nemico che – utilmente - c’era, ma risultava sempre più sfumato, man mano che:
- al di là del Muro il socialismo reale assomigliava sempre più ad un capitalismo di stato,
- al di qua del Muro si instauravano compromessi sociali e sindacali anche vantaggiosi,
- l’istruzione e gli stili di vita attenuavano le distanze antropologiche tra operai e padroni, con di mezzo tutta la varietà dei ceti e delle figure intermedie, in particolare nelle piccole imprese (si sviluppava cioè la suddetta “scomposizione della classe operaia”, anche prima della grande globalizzazione di fine Novecento e della grande informatizzazione di questo inizio di secolo).

Oggi, invece, constatandoci ormai da tempo orfani di orizzonti alternativi (sia rivoluzionari che riformisti), e per questo necessariamente (a breve termine) minoritari, confrontarci con e tra i penultimi risulta insufficiente: dobbiamo sforzarci di capire di nuovo al meglio come funziona “il sistema” e le sofferenze di tutte le sue vittime, considerando:
- da un lato che – pur espandendosi le dimensioni virtuali ed immateriali, aumentando la confusione tra produttori e consumatori, nonché tra lavoratori dipendenti ed indipendenti, e sovrapponendosi le vecchie e le nuove schiavitù  - la globalizzazione comporta una gigantesca espansione dello sfruttamento capitalista, che assoggetta, masse crescenti di persone subalterne e spesso sfruttate in tutti i continenti (pur in forme diverse e molto specifiche, non come le generiche “moltitudini” di Toni Negri, che soffrono il dominio imperiale anche semplicemente esistendo e respirando)
- e, d’altro lato, il “finanz-capitalismo” nel contempo minaccia le sorti della biosfera (o quanto meno la sua abitabilità per tutti gli esseri umani) spingendo a fondo l’assalto alle risorse naturali ed agli equilibri ambientali (temi ecologici oggi in Italia malamente monopolizzati e banalizzati dal Movimento5Stelle, tra incultura e contraddizioni abissali).
Da qui cercare amici e nemici, vicini e lontani, ed in prospettiva un qualche nuovo orizzonte planetario, di una umanità migliore: per riuscire così a modificare gli “ordini del giorno”:
·         Avendo il coraggio di riproporre tra gli europei la solidarietà non solo con i profughi ed i migranti, ma anche con tutti gli altri “sfruttati a casa loro”; ed anche qualche dose di austerità e sobrietà dei consumi: in favore dell’ambiente ed in favore dei poveri più poveri.
·         Demistificando i meccanismi, legali e illegali, che trasferiscono potere di controllo e risorse economiche  dai comuni mortali ai gruppi dominanti, a scala locale ed a scala globale (che non sono genericamente “le banche”).
·         Denunciando le manipolazioni della comunicazione, a tutti i livelli, e affrontando il difficile tema della “post-verità”.
·         Ipotizzando (a rischio di errore) che l’estensione dei poteri pubblici sovranazionali (dall’Europa all’ONU) sia ancora uno strumento utile per comprimere quanto abbisogna i poteri privati.     

Ma con la consapevolezza che assieme alla scomposizione sociale è maturata anche una sorta di involuzione antropologica, che associa alla senescenza delle società europee un facile allignare delle paure, ed un declinare delle speranze; che contempla con la globalizzazione anche una sorta di coscienza della finitezza del globo; che prende atto in qualche misura del tema dell’esaurimento delle risorse naturali, ma tende a viverlo in salsa egoistica, cioè verso l’accaparramento per se di quanto ancora si possa arraffare (sintomatici i pessimi argomenti dell’ex operaista Asor Rosa nel teorizzare la bontà della sua “pensione d’oro”, contro la “piatta omogeneità della massa”: e speriamo non tocchino anche le nostre pensioni, che sono invero assai più basse…).
  
Perciò il programma di pensiero e di eventuale azione è invero alquanto ambizioso.
Anche se già praticato, in nicchie ancora separate, da organizzazioni di volontariato, centri di ricerca, cooperative di produzione, testate giornalistiche.
La parola “partito”, invece, al momento sembra determinare reazioni allergiche, almeno in Italia.
Prima o poi sarà utile: però bisogna anche pensare a cosa farsene dei residui dei partiti esistenti, iniziando dall’ingombrante corpaccione del PD, che resta comunque il principale luogo di riferimento, quanto meno, per i ceti medi urbani di sentimenti progressisti (ceto in cui ricadono, oggettivamente, i grilli parlanti come noi) e forse anche per i lavoratori storicamente sindacalizzati.

Tralasciamo perché irrilevanti (soprattutto in un’ottica di superamento dei settarismi) le divergenze da Stefano sull’equiparazione Renzi-Berlusconi, a nostro avviso solo parziale e tendenziale (ad esempio non operante sugli “80 Euro” o sull’autonomia della magistratura – cui Renzi ha tolto solo qualche giorno di ferie - per non parlare del capitolo “diritti civili”), o sulla brutta stesura della riforma Boschi, indubitabile, ma che non crediamo abbia turbato più di tanto gli elettori comuni.

NOTA * - la scomposizione delle classi ed i connessi mutamenti antropologici sono tra gli  argomenti su cui indirizziamo le nostre letture da pensionati; ci permettiamo di rimandare alle recensioni di Aldo sul blog “relativamente, sì” e su “Utopia21”: Augé, Bauman, Castells, Maffesoli, Boltanski&Chiapello, Mason, Standing, ecc..


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