Con riferimento al testo di Stefano Levi della Torre
http://www.razzismobruttastoria.net/2018/07/26/qualche-considerazione-sulla-storia-corso-stefano-levi-della-torre-giugnoluglio-2018/
abbiamo
apprezzato molto il contributo di Stefano alla comprensione della “storia in
corso”, ma riteniamo utile mettere in evidenza qualche dubbio e dissenso che
sono emersi dalla sua lettura; poiché siamo arrivati a poco più i 2 paginette,
a fronte delle oltre 20 di Stefano, parrebbe che le convergenze siano ampie e
superino le seguenti specifiche divergenze.
Pensiamo che si debba approfondire il tema della scomposizione
sociale e culturale delle classi operaie occidentali.NOTA *
Considerandola anche come effetto collaterale e
contradditorio di qualche decennio di battaglie contro la fatica del lavoro,
per l’istruzione, per l’emancipazione da un modello antropologico
“casa-e-famiglia”, ecc..
Ed in relazione alla consapevole reazione
neo-liberista, che è un altro contro-effetto del successo di tutto un ciclo di lotte sociali dopo il 1945.
Ipotizzeremmo addirittura che, pur senza il
contributo (comunque poi decisivo) della caduta del modello sovietico, tale
scomposizione stia alla base della crisi politica delle sinistre europee, ed in
particolare:
-
della progressiva auto-referenzialità delle sue
“rappresentanze”, non più innervate da una frequente spinta di nuove
avanguardie derivanti dalle lotte sociali,
-
della risorgente tendenza alla frammentazione
settaria, pur ben radicata in tutta la storia del movimento operaio, ma
attenuata nel periodo post-bellico.
Non ci sembra altrettanto determinato dalla
suddetta scomposizione sociale l’orientamento della maggioranza delle forze di
sinistra europee, soprattutto nelle loro esperienze di governo, in favore della
subalternità ideologico-culturale rispetto al neo-liberismo montante
(subalternità che apparve subita ai tempi dell’Ulivo, ed invece rivendicata ai
tempi del PD); orientamento moderato che ha trovato alimento nella crescente
debolezza dei sindacati (date le nuove condizioni del mercato del lavoro),
nell’oggettivo peso dei problemi di
sostenibilità del welfare (allungamento della vita media e denatalità, altri
effetti collaterali del progresso sociale) e di improduttività dello Stato-Imprenditore
(non solo in Italia): ma soprattutto nella mancanza di un nuovo orizzonte di
politica economica (e culturale) alternativo al fallimento del socialismo
reale.
Ci sembra infatti importante constatare che in
quasi tutti i paesi della vecchia Europa (al di qua del nuovo “muro” di
Visegrad) a sinistra delle “sinistre di governo” sono sorti movimenti e
partiti che non hanno sposato la deriva neo-liberista (l’ha comunque dovuta
accettare Syriza di Tsipras in Grecia), e non per questo sono riusciti a
contendere il consenso crescente alle forze populiste e sovraniste (salvo
forse in Portogallo e Spagna, Catalunya esclusa), finendo talvolta per rincorrerle
ed imitarle (France Insoumise di Mélenchon): ciò si è verificato soprattutto in
Germania (dove Verdi e Linke ristagnano mentre la socialdemocrazia arretra, ed
avanza solo la nuova destra dell’AFD) ed in Italia (dove a sinistra del PD si
sono schierati nel tempo numerosi partiti, personaggi e cartelli elettorali, ma
scarsissimi elettori e pure scarsi militanti effettivamente in campo): ed anche
in questa fascia estrema delle sinistre
ci pare che il nocciolo sia la mancanza di una credibile prospettiva, che vada
oltre la rivendicazione di una maggior spesa pubblica (poco seria soprattutto
in Italia, dato il debito variamente accumulato ben prima della grande crisi).
Anche la sconfitta di Genova nel 2001 del movimento
no-global contro il G8 si inscrive, secondo noi, nella carenza di prospettiva
(anche se vi erano interessanti intuizioni nuove), aggravata dalla scelta tattica di cadere di fatto nella
trappola dello scontro militare sui confini della ”zona rossa” anziché isolare i black-blok e abbandonarli
alla loro guerriglia di posizione, sviluppando invece (altrove ?) azioni
non-violente, che avrebbero forse potuto conservare dimensioni di massa al
movimento, in parte ancora riscontrabili nell’ondata pacifista che invano tentò
di contrastare la seconda guerra USA all’Irak, due anni dopo.
(Nel nostro
piccolo orto extraparlamentare, fummo più saggi quel 12 dicembre del 1971 in
piazza Leonardo…).
La prospettiva da cercare, secondo noi, deve sì
incrociarsi di nuovo con il disagio delle “vittime del sistema”, a partire dai
cosiddetti penultimi cui siamo territorialmente e socialmente contigui: è
necessario, ma è insufficiente.
Necessario, perché – un'altra contraddizione
dialettica - muovere dai bisogni
immediati degli oppressi include sempre un po’di vittimismo (vittimismo brillantemente
scippato da parte delle destre nazional-socialiste già nella crudele prima metà
del Novecento), che fu ed è stato storicamente anche un carburante naturale
delle lotte di classe, da sinistra, indubbiamente dal Giuramento della
Pallacorda in poi: basti pensare alle canzoni anarchiche e socialiste,
partigiane e sessantottine, da “siam la canaglia pezzente” a “se otto ore vi
sembran poche”, da “la plebe sempre all’opra china” a “gridavano, pensi, di essere sfruttati”.
Il vittimismo, gestito da destra, includendo offese
presunte (tipo “la Vittoria Mutilata”), serve a fare “di ogni erba un fascio”,
unendo interessi divergenti contro presunti nemici comuni.
Mentre l’ideale rivoluzionario, variamente
coniugato nell’Ottocento e nel Novecento, tendeva a ricomporre le
rivendicazioni settoriali e le speranze di riscatto in un disegno (confuso ma)
unitario (l’unità di classe), in qualche misura inter-categoriale e
internazionalista (in verità con gravi cadute scioviniste, non solo quando
raccolte e gestite “da destra”: dall’adesione di gran parte dei partiti socialisti
della 2^ internazionale ai singoli fronti nazionali nella prima guerra
mondiale, nonché ad alcune delle ultime imprese coloniali, al razzismo
implicito in sindacati non inclusivi in paesi di precoce immigrazione
straniera, come Gran Bretagna e Francia, fino all’adesione popolare alle
repressioni dell’URSS contro gli operai di Ungheria, Polonia, Cecoslovacchia…).
Tuttavia, nella variegata storia delle sinistre
europee, lo spirito, non solo tra i “riformisti”, era quello di accettare
mediazioni e battute d’arresto in nome di una futura possibile vittoria
generale delle vittime contro “i padroni”: un nemico che – utilmente - c’era,
ma risultava sempre più sfumato, man mano che:
- al di là del Muro il socialismo reale
assomigliava sempre più ad un capitalismo di stato,
- al di qua del Muro si instauravano compromessi
sociali e sindacali anche vantaggiosi,
- l’istruzione e gli stili di vita attenuavano le
distanze antropologiche tra operai e padroni, con di mezzo tutta la varietà dei
ceti e delle figure intermedie, in particolare nelle piccole imprese (si
sviluppava cioè la suddetta “scomposizione della classe operaia”, anche prima
della grande globalizzazione di fine Novecento e della grande informatizzazione
di questo inizio di secolo).
Oggi, invece, constatandoci ormai da tempo orfani
di orizzonti alternativi (sia rivoluzionari che riformisti), e per questo
necessariamente (a breve termine) minoritari, confrontarci con e tra i
penultimi risulta insufficiente: dobbiamo sforzarci di capire di nuovo al
meglio come funziona “il sistema” e le sofferenze di tutte le sue
vittime, considerando:
- da un lato che – pur espandendosi le dimensioni
virtuali ed immateriali, aumentando la confusione tra produttori e consumatori,
nonché tra lavoratori dipendenti ed indipendenti, e sovrapponendosi le vecchie
e le nuove schiavitù - la
globalizzazione comporta una gigantesca espansione dello sfruttamento
capitalista, che assoggetta, masse crescenti di persone subalterne e spesso
sfruttate in tutti i continenti (pur in forme diverse e molto specifiche, non
come le generiche “moltitudini” di Toni Negri, che soffrono il dominio
imperiale anche semplicemente esistendo e respirando)
- e, d’altro lato, il “finanz-capitalismo” nel
contempo minaccia le sorti della biosfera (o quanto meno la sua abitabilità per
tutti gli esseri umani) spingendo a fondo l’assalto alle risorse naturali ed
agli equilibri ambientali (temi ecologici oggi in Italia malamente monopolizzati
e banalizzati dal Movimento5Stelle, tra incultura e contraddizioni abissali).
Da qui cercare amici e nemici, vicini e lontani, ed
in prospettiva un qualche nuovo orizzonte planetario, di una umanità migliore:
per riuscire così a modificare gli “ordini del giorno”:
·
Avendo il coraggio di riproporre tra gli europei
la solidarietà non solo con i profughi ed i migranti, ma anche con tutti gli
altri “sfruttati a casa loro”; ed anche qualche dose di austerità e sobrietà
dei consumi: in favore dell’ambiente ed in favore dei poveri più poveri.
·
Demistificando i meccanismi, legali e illegali,
che trasferiscono potere di controllo e risorse economiche dai comuni mortali ai gruppi dominanti, a
scala locale ed a scala globale (che non sono genericamente “le banche”).
·
Denunciando le manipolazioni della comunicazione,
a tutti i livelli, e affrontando il difficile tema della “post-verità”.
·
Ipotizzando (a rischio di errore) che
l’estensione dei poteri pubblici sovranazionali (dall’Europa all’ONU) sia
ancora uno strumento utile per comprimere quanto abbisogna i poteri privati.
Ma con la consapevolezza che assieme alla scomposizione
sociale è maturata anche una sorta di involuzione antropologica, che associa
alla senescenza delle società europee un facile allignare delle paure, ed un
declinare delle speranze; che contempla con la globalizzazione anche una sorta
di coscienza della finitezza del globo; che prende atto in qualche misura del
tema dell’esaurimento delle risorse naturali, ma tende a viverlo in salsa
egoistica, cioè verso l’accaparramento per se di quanto ancora si possa
arraffare (sintomatici i pessimi argomenti dell’ex operaista Asor Rosa nel
teorizzare la bontà della sua “pensione d’oro”, contro la “piatta omogeneità
della massa”: e speriamo non tocchino anche le nostre pensioni, che sono invero
assai più basse…).
Perciò il programma di pensiero e di eventuale
azione è invero alquanto ambizioso.
Anche se già praticato, in nicchie ancora separate,
da organizzazioni di volontariato, centri di ricerca, cooperative di produzione,
testate giornalistiche.
La parola “partito”, invece, al momento sembra
determinare reazioni allergiche, almeno in Italia.
Prima o poi sarà utile: però bisogna anche pensare
a cosa farsene dei residui dei partiti esistenti, iniziando dall’ingombrante
corpaccione del PD, che resta comunque il principale luogo di riferimento,
quanto meno, per i ceti medi urbani di sentimenti progressisti (ceto in cui
ricadono, oggettivamente, i grilli parlanti come noi) e forse anche per i
lavoratori storicamente sindacalizzati.
Tralasciamo
perché irrilevanti (soprattutto in un’ottica di superamento dei settarismi) le
divergenze da Stefano sull’equiparazione Renzi-Berlusconi, a nostro avviso solo
parziale e tendenziale (ad esempio non operante sugli “80 Euro” o
sull’autonomia della magistratura – cui Renzi ha tolto solo qualche giorno di
ferie - per non parlare del capitolo “diritti civili”), o sulla brutta stesura
della riforma Boschi, indubitabile, ma che non crediamo abbia turbato più di
tanto gli elettori comuni.
NOTA * - la scomposizione delle classi ed i connessi mutamenti
antropologici sono tra gli argomenti su
cui indirizziamo le nostre letture da pensionati; ci permettiamo di rimandare
alle recensioni di Aldo sul blog “relativamente, sì” e su “Utopia21”: Augé,
Bauman, Castells, Maffesoli, Boltanski&Chiapello, Mason, Standing, ecc..
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