A fronte della scomparsa del professor
Lodovico Meneghetti, mi ha colpito – rispetto alla sua importanza come architetto,
come urbanista, come docente e come intellettuale - la scarsa eco sulla stampa
generalista (brevi necrologi solo su “Il Giorno”, sulla pagina novarese de “La
Stampa” e sul settimanale diocesano novarese) e lo spazio piuttosto limitato
anche tra gli ex-colleghi ed allievi su FaceBook (tra cui Emilio Battisti e
Fabrizio Bottini), con molti brevi saluti o “mi piace”: vedi un estratto delle
“schermate” in Appendice a questo testo).
In seguito, sempre su FaceBook, una
anticipazione di Abitare https://www.abitare.it/it/news/2020/07/24/addio-a-lodovico-meneghetti-architetto-urbanista-docente/
Spero di più dalle riviste di settore, a
partire da quelle dell’I.N.U. (anche se probabilmente sono molti i colleghi
urbanisti che nei decenni Meneghetti ha mandato a quel paese…).
Poiché
la biografia ed il profilo complessivo di Meneghetti sono abbastanza bene
tratteggiati su Wikipedia https://it.wikipedia.org/wiki/Lodovico_Meneghetti
, mi è sembrato opportuno scrivere una breve memoria del tutto personale, da
scambiare con gli interlocutori che eventualmente la riterranno interessante.
Nel
67-68 ero iscritto al primo anno della Facoltà di Architettura del Politecnico
di Milano, e ad un certo punto, dopo aver assaggiato brevemente i corsi
tradizionali, anche noi “matricole” (che – talora con fatica – avevamo appena
scelto l’indirizzo di studi universitario) ci trovammo davanti all’imprevista
scelta del “gruppo di ricerca” da frequentare dentro la “sperimentazione” che
rivoluzionava l’impostazione didattica.
In
vetrina c’era l’intera facoltà (docenti scientifici e/o reazionari esclusi) con
la presentazione dei diversi programmi, spesso fumosi e improvvisati o comunque
difficili da capire per i neofiti, ancor più spaesati (in specie se provenienti
dai paesi di provincia) nel capire i sottostanti sistemi di potere ed i
possibili percorsi di qualificazione personale: la maggioranza dei miei
compagni di corso, per prudenza, si ancorò ai docenti che comunque sarebbero
capitati al primo anno, ovvero Gregotti (per gli studenti con cognomi dalla A
alla L) e Pollini (dalla M alla Z); una minoranza più spericolata (me compreso)
si buttò invece all’avventura.
Attratto
dall’urbanistica, dopo una breve fascinazione per la proposta di Silvano
Tintori (distinto e colto, già allora parlava di “territorio antropizzato” e
mostrava sensibilità ambientaliste) e forse temendo troppa incertezza
nell’iscriversi a Campos Venuti o De Carlo (invitati ad insegnare direttamente
dall’Assemblea)[A],
trovai molto convincente la proposta del gruppo Bottoni-D’Angiolini-Meneghetti
(più Vercelloni e Redaelli) che – benedetta dal “Libro Bianco” degli studenti
in una precedente occupazione della facoltà[B] – prometteva una solida
indagine sui fattori strutturali degli insediamenti, esaminando popolazione
(investimenti) e reddito, flussi di traffico e trasformazioni del suolo
(“tendenza insediativa”), in particolare nelle regioni del Triangolo
Industriale.
Se
il professor Piero Bottoni, già anziano, era soprattutto il “padre nobile” del
gruppo, che ogni tanto rammentava i CIAM e LeCorbusier [C], e Lucio Stellario
d’Angiolini l’ideologo supremo della “coerenza regionale” (con un incrocio
“lombardiano” tra rivoluzione tecnocratico-operaista e ammirazione – a forza di
studiarlo - verso lo stesso capitalismo “schumpeteriano” e verso
l’industrialismo comunque, alla faccia “delle contesse di Italia Nostra”), Meneghetti
- allora assistente e poi incaricato di Topografia – era indubbiamente il più
appariscente del gruppo sulla scena assembleare, sia per gli attributi fisici,
come lo sguardo sulfureo e la voce a
bassa tonalità (tra Ugo Tognazzi e Sandro Ciotti, ma con accento novarese), sia
per la verve polemica e per il profilo
culturale da “cavaliere solitario”, nelle battaglie urbanistiche locali – come
Consigliere/Assessore e come urbanista - (ed allora anche con la scelta
dell’università a tempo pieno), e però con un retroterra complesso, tra il jazz
e le arti visive, e l’esperienza (chiusa proprio allora) della progettazione a
tutto campo con Gregotti e Stoppino; o con la teorizzazione – in una
occasionale pausa pranzo, all’ingresso degli “Istituti” - che “era giusto non
avere figli”.
Nelle
alterne vicende della Facoltà e della Sperimentazione (occupazione, esami
annullati e ripetuti, defenestrazione dell’amatissimo preside Carlo De Carli ed
arrivo dell’abilissimo preside Paolo Portoghesi), mi ritrovai così a
partecipare per due anni alle attività del gruppo Bottoni, ed in particolare –
mi pare – ad imparare qualcosa, innanzitutto da D’Angiolini e da Meneghetti:
-
qualcosa
di negativo, anche, come una certa aggressività polemica fondata sulla
presunzione del sapere tecnico/politico (ma erano cattivi maestri indubbiamente
anche molti leaders studenteschi), oppure cos’è un sistema di relazioni
personali di potere (soprattutto D’Angiolini[D]);
-
molto
di positivo, riguardo ad esempio
o
allo
studio intenso e selettivo dei dati statistici[E], ma anche di informazioni
eterodosse (e anche di parte “padronale”),
o
all’apertura
interdisciplinare, soprattutto verso l’economia (“Mondo economico” era lettura
obbligata), la demografia (leggendo Livi Bacci), la geografia (ascoltando di
persona – ma non sempre capendolo – Lucio Gambi): i problemi prima degli
steccati disciplinari,
o
all’analisi
delle forze sociali in campo (non solo padroni e operai, ma anche “dove vanno i piedi dei
consumatori”), a livello territoriale, sia macro che micro, che determinano il
divenire dei luoghi, spesso più dei “piani urbanistici” (e certo più delle “buone
intenzioni”),
o
ad
una attenzione non rituale alla lotta di classe, nelle sue varie forme
(compresa l’acculturazione, le rimesse degli emigranti, il lavoro femminile
domestico e a domicilio…),
o
all’uso
“politico” degli strumenti tecnici e giuridici, di cui essere, per quanto
possibile, padroni e non schiavi,
o
all’importanza
della gestione/applicazione dei piani urbanistici, rispetto alla mera fase di
progettazione degli stessi (da qui la teoria meneghettiane[F] dell’”urbanista condotto”,
che ho poi personalmente declinato e sperimentato – iniziando pericolosamente sulla
scia piemontese di Astengo - come “tecnico comunale”),
o
alla
non-separazione tra “urbanistica” e “architettura” (ma anche tra “struttura” e
“sovra-struttura”: necessario però ricordarsi la differenza tra questi poli
dialettici).
Poi
presi un’altra strada didattica (e politica)[G] – anche se ci fu chi,
forse, frequentò lo stesso gruppo per tutti e 5 gli anni di corso -; con altri
professori (e compagni) imparai altre cose (e iniziai a disimpararne altre).
Però
nello scontro sul commissariamento della Facoltà, successivo all’occupazione
con i baraccati di via Tibaldi, nel 1971 (con defenestrazione anche
dell’abilissimo – ma troppo audace – preside Portoghesi) ci trovammo alla fin
fine a bloccare le (nostre) lauree, finché nell’aprile del 1973 il commissario
Beguinot si defilò (parzialmente), ma l’assemblea impose che venissero
esaminati per primi i gruppi di laureandi con docenti sospesi: tra questi, in
parallelo, c’era un nostro super-gruppo con diverse tesine disciplinari, ma
accomunate dal docente sospeso, Giacomo Scarpini (che presentammo – anzi solo
le compagne parlarono e presentarono - come una sorta di “oggetto di tesi”), e
c’era un gruppo di laureandi più classicamente studiosi, con relatore proprio
Lodovico Meneghetti.
Negli
anni ’90, quando ero tecnico comunale a Sesto Calende, suggerii Meneghetti come
membro della Giuria per il Concorso “Piazze” e fu una bella occasione per
re-incontrarlo, perfettamente in forma, e polemico come sempre: il progetto da
lui caldeggiato, e vincente, è stato anche in parte attuato (pergolati
esclusi).
Più
tardi qualche contatto epistolare: con Anna, che per Meneghetti rimaneva “la
Vailati”, sottoponemmo la ricerca “tra-i-laghi” all’attenzione del Professore;
non ha invece apprezzato la rivista “Utopia21”.
Sul
finire del secolo capitò ad Anna di incontrare per caso Meneghetti, in
trasferta a Novara per comprare da Camporelli gli omonimi “biscottini”, da
riportare in treno a Milano, trovandolo assai cordiale.
Negli
ultimi anni confesso di non aver seguito e condiviso tutti i suoi interventi su
“Eddyburg”, perché talvolta lo trovavo un po’ rigido e ripetitivo: però si
trattava sempre di un “signor punto di vista”, non proclive alle mode (un po’
sbracate) dei tempi recenti.
[A]
Confesso la mia buffa interpretazione dell’elenco ciclostilato con i nomi dei
docenti, cui era aggiunto all’ultimo, ma con un timbro, “CAMPOS VENUTI”: non
conoscendo l’illustre autore di “Amministrare l’urbanistica” (solo poi
acquistai la prima edizione, del giugno 1967), pensavo fosse una formula di
rito, in latino maccheronico/medievale, che nelle università riservasse un
posto per chi arrivava all’ultimo minuto…
[B]
Negli anni successivi al ’69 mi trovai a contrappormi a tale “benedizione”
datata, che Meneghetti reiteratamente sbandierava, mentre una parte degli
studenti degli anni ’70 (e segnatamente noi del Collettivo Autonomo)
rivendicava la libertà di rimettere in discussione i meriti dei docenti,
soprattutto riguardo al riformarsi delle gerarchie accademiche (e
“sub-accademiche”: i cosiddetti “mini-docenti”, cioè studenti incorporati nei
nuovi meccanismi del sapere e del potere): d’altronde, già nel ’68, il “gruppo
di ricerca” Bottoni autovalutò “27/30” il lavoro svolto in quei primi mesi, ma
rifiutò l’assegnazione di “30/30” che i docenti avrebbero voluto per quattro
studenti “più meritevoli”.
[C]
Qualche anno più tardi incontrai Giovanni Astengo in quanto Presidente della
Commissione per un concorso alla Regione Piemonte, in cui l’orale era ormai
pro-forma perché i candidati promossi alla prova scritta (tra cui io) erano
meno dei posti da assegnare, e fu un profluvio di ricordi della nave dei CIAM e
di LeCorbusier che cantava “allons enfants dans la brasserie…” (birreria da cui probabilmente d’altronde la
Commissione arrivava).
[D]
Sia all’interno del gruppo, perché essere “Bottoniani” era più che altro una
espressione geografica, localizzata in Aula V (e al 5°piano del cubo color
melanzana degli Istituti), essere “D’Angioliniani” era molto di più (allora non
mi pare che ci fossero i “Meneghettiani”- o forse lo ero io stesso, ma a mia
insaputa…); sia nelle aggregazioni didattiche, quella con Canella e Rossi “in
nome della rivoluzione d’ottobre” (?), e ancor più spregiudicata quella
ulteriormente allargata a Campos Venuti ed alla banda dei 4 della
“Città-Fabbrica” (Magnaghi-Perelli-Stevan-Sarfatti), in quanto “asse
formativo”, commentata dallo stesso Perelli con il tango “Aggreghiamoci dal basso - con Boatti Fior del Campos” ed avversata
(o favorita?) da una parte del movimento con lo slogan (mio?) “Tutti aggressivi
dai Big” (Claudia Capurso mi ha di
recente trasmesso, ripescandola dai suoi archivi, l’omonima mozione del 26 novembre 1970,
alquanto buffa al rileggerla oggi).
[E] Come
esemplificato nel testo di Meneghetti “ASPETTI DI GEOGRAFIA DELLA POPOLAZIONE –
Italia 1951-1967”, CLUP, Milano 1971.
[F] Subii
infatti un tentativo di “licenziamento politico” da parte di socialisti locali,
“diversi da Astengo”.
[G]
In particolare perché dissentivo – piuttosto isolato, anche se forse in silente
sintonia con Meneghetti e pochi altri “non-d’angioliniani”– dalla scelta, a mio
avviso strumentale alla partecipazione di parte dei docenti all’omonimo
concorso, del tema “Università in Calabria” (con poca coerenza “regionale” rispetto
alle premesse): anche se poi con un nostro gruppo di laureandi del Collettivo
Autonomo, con altre premesse, ci occupammo proprio della “questione
meridionale” come tesi di laurea.