IL FUTURO (O IL PASSATO?)
DEL CAPITALISMO,
NEI DESIDERI DI PAUL COLLIER
di Aldo
Vecchi
Nel saggio di Paul
Collier sul futuro del capitalismo, pur apprezzando i contenuti di singole
proposte di riforma, ho riscontrato una impostazione (suo malgrado) ideologica,
ancorata a pregiudizi accademici e politici, e nostalgica di perduti (o
immaginari) assetti comunitari di famiglie, imprese e stati, fondati su un
etica ed una solidarietà limitata al “noi”.
Il
contenuto del saggio di Paul Collier1, economista oxfordiano di
lungo corso, mi è apparso interessante, perché – pur dall’interno di una cultura
accademica filo-capitalista e di ‘globalizzatore pentito’ – muove da una ampia constatazione
su quanto “il capitalismo [stia]
generando società divise, nelle quali molte persone conducono vite dominate
dall’ansia” (e altre considerazioni sul discredito di cui oggi gode il
capitalismo “in quanto avido, egoista e corrotto”), e formula delle proposte
migliorative, parte delle quali risultano condivise da diversi autori (e sono probabilmente condivisibili):
-
l’inserimento
nei Consigli di Amministrazione delle grandi imprese di rappresentanti dei
lavoratori, dei consumatori e delle società locali (proposta questa che
accomuna Atkinson&Barca2,3,
Thomas Piketty e lo stesso Matteo Renzi…)
-
la
tassazione delle rendite territoriali (nelle metropoli in ascesa) e delle
posizioni monopolistiche, nonché il
contrasto alla elusione fiscale internazionale;
-
una
intensa e ben modulata attività di rilocalizzazione industriale per le aree in
declino;
-
il
ripristino di politiche per le abitazioni delle famiglie meno abbienti;
-
un
cauto ricorso alla riduzione degli orari di lavoro, a limiti ai licenziamenti,
nonché a minimi salariali ed a minimi pensionistici (in particolare rispetto ai
limiti dell’assetto privatistico dei fondi
pensione anglosassoni);
-
la
penalizzazione di professioni lautamente pagate e però in realtà inutili o
nocive, come gli speculatori borsistici e gli “avvocati d’affari”;
-
una
serie di attenzioni alla formazione (soprattutto a fronte della spietata
selettività del sistema scolastico anglosassone), dall’età pre-scolare (sul
modello francese[A])
all’istruzione tecnica para-aziendale (sul modello tedesco);
-
una
insistita petizione in favore delle famiglie, verso un “maternalismo sociale”,
indulgente e non-moralista e contro gli eccessi del “paternalismo sociale” (che
spesso sottrae i bambini alle famiglie in difficoltà per parcheggiarli in
affido)[B].
Tali
formulazioni di politiche statuali riformiste[C], nella direzione di
ricostruire una “famiglia etica”, una “impresa etica” ed uno “stato etico” [D], si accompagnano a più
confuse proposizioni in favore di un “mondo etico”, che secondo l’Autore
dovrebbero passare attraverso un Direttorio delle Grandi Potenze (poiché le
attuali organizzazioni internazionali non possono funzionare per eccesso di
democraticismo[E])
ed un solido freno alle migrazioni.
Migrazioni
che per Collier storicamente hanno avvantaggiato solo i migranti, e non gli
Stati di partenza (depauperati così di risorse umane) né quelli di arrivo (ove
si va a sconvolgere il mercato del lavoro, ed anche quello delle abitazioni): affermazione questa che – oltre ad essere
discutibile “eticamente”, mi sembra anche storicamente non vera, guardando ad
esempio alle traiettorie di migrazioni e PIL di aree di arrivo come USA, Canada
e Australia (od anche Svizzera, Lombardia…), e di aree di partenza come
l’Italia nel secolo 1870-1970, e ponendo attenzione a fenomeni quali le rimesse
degli emigranti ed i ritorni culturali, dai “clerici vagantes” in poi.
Per
profughi e migranti Collier propone solo una razionalizzazione delle politiche
di aiuti promosse dai paesi ricchi, da gestire nei territori prossimi ai
focolai di crisi, per un dovere di soccorso che sta al di fuori dei patti di
reciprocità solidale (ovvero: tra “noi”
ci si scambia diritti e doveri, verso “gli altri”, deve bastare l’elemosina,
perché è impensabile – ed anzi dannosa -
una solidarietà universalista).
Ancor meno accettabile,
oltre che irrealistica, mi sembra poi l’ipotesi strumentale di Collier per conseguire l’insieme dei risultati sopra
accennati:
l’Autore sogna una (auto?) riforma
della politica (soprattutto britannica) finalizzata a ricostruire un centrismo
moderato (meglio se bi-partisan, con in più l’abbandono del sistema elettorale
maggioritario in favore del proporzionale [F]), attraverso l’abolizione
del recente ricorso alla elezione diretta dei leaders di partito da parte degli
iscritti (una democraticità che premia gli estremisti, addensati nella base dei
partiti stessi, sostiene Collier) ed il ritorno alla designazione da parte dei
parlamentari eletti (oppure in subordine – ma con scarso favore dello stesso
Autore – mediante un allargamento a primarie aperte, dove peserebbero di meno
gli elementi estremizzanti).
Ma
ciò che mi fa maggiormente dubitare della praticabilità della via riformista
proposta da Collier (al di là della attuabilità ed efficacia di alcune singole
sue ricette socio-economiche) è l’impianto generale – filosofico, antropologico
e sociologico – delle sue riflessioni, che è ben esplicitato – e quindi
confutabile –, ma a mio avviso errato storicamente ed anche “eticamente” – e
quindi da confutare -.
Collier
si qualifica come pragmatico ed anti-ideologico.
Giustamente
insiste sulla necessità di monitorare gli esperimenti riformisti di varia
natura: ma assume come strumenti di valutazione ‘indiscutibili’ le misurazioni
tipiche delle accademie anglosassoni, dai test PISA sull’apprendimento[G] (di cui non escludo l’utilità comparativa, ma di cui molti evidenziano
la riduttività meccanicista rispetto alla ricchezza umana dell’apprendere),
alle classifiche internazionali sulla qualità degli Atenei (quelle in cui gli Atenei anglosassoni risultano sempre e soli in
testa), fino alle indagini internazionali sulla “felicità” (in esito ai
quali Collier attribuisce infelicità all’Africa perché ancora piena di
piccoli contadini, non subordinati ad imprese capitalistiche…).
Il
suo pragmatismo inoltre è agganciato ad una precisa corrente filosofica Pragmatica,
che risale a Hume ed a Adam Smith (non tanto però quello della “Ricchezza delle
Nazioni”, quanto piuttosto quello della “Teoria dei sentimenti morali”), e si
ritrova in C.S. Peirce[H], ed aborre non solo le
ideologie fondamentaliste (tra cui il neo-liberismo che riduce i comportamenti
all”uomo economico” ed il marxismo, che
per Collier coincide con il totalitarismo staliniano), ma soprattutto gli
individualisti, di destra e di sinistra, e tra questi ultimi:
-
gli
utilitaristi, seguaci di Bentham e Stuart
Mill, che seguono l’errata ricerca paternalista di una maggior utilità
per tutti
-
i
giuristi Rawlsiani, che inseguono ostinatamente i diritti delle minoranze.
Secondo
Collier sono queste due correnti, insediatesi ‘abusivamente’ ai vertici dei
partiti di centro-sinistra, ad aver rovinato una certa sana socialdemocrazia -
fondata sulle obbligazioni solidali e sulle identità condivise – e ad aver interrotto (quasi più che non i
neo-liberisti, sembrerebbe, leggendo il saggio…) il magnifico progresso
sociale del periodo 1945-1970, gestito in modo convergente dalle classi
dirigenti occidentali, sia di centro-sinistra che di centro-destra.
Per
Collier tutti gli altri sono “ideologici”.
Tranne
chi – come lui stesso ed un ristretto gruppo di accademici anglosassoni – si fonda
su un approccio scientifico: in tale lettura della realtà spicca il contributo dello
psicologo sociale Jonathan Haidt (newyorkese, nato nel 1963), secondo il quale
i comportamenti umani non sono motivati dal mero interesse economico, bensì da
un insieme di valori, tra i quali emergono (a scala mondiale) “lealtà, equità,
libertà, autorità, cura del prossimo, sacralità”: “I valori dell’utilitarismo
sono tutt’altro che verità universali” … “L’equità e la fedeltà … sostengono
congiuntamente la norma della reciprocità, la quale collega la nostra
fondamentale spinta a ricevere stime con
il senso di vergogna e di colpa che proviamo quando non adempiamo a
un’obbligazione”.
Personalmente
apprezzo questo tipo di ricerche che allargano la rappresentazione dell’umanità
oltre i ristretti confini dell’economicismo [I], ma Collier, nella sua incrollabile certezza pragmatica,
tende a racchiudere il principio di reciprocità entro ristretti confini
identitari di appartenenza, familiare, locale ed al massimo nazionale, esaltando
i valori comunitari della “narrazione” come costitutivi del “sistema di
credenze” che orienta ogni persona, al di sopra del sapere scolastico e della
razionalità individuale.
Se è positivo, a mio
avviso, negare una continuità darwiniana tra il cosiddetto “gene egoista” ed i
comportamenti dell’”uomo economico” (Collier rammenta che nell’evoluzione
dell’Homo sapiens non risulta premiato l’individuo più avido, bensì la capacità
di cooperazione tribale), la sopravvalutazione delle “relazioni” e del “noi”
porta Collier a sostenere addirittura che “il ragionamento motivato può
condurre al disastro”, ed a mitizzare una armonia educatrice (che forse non sono mai esistite [J])
nella “famiglia etica” e
nell’”impresa etica” dei favolosi anni 45-70, quando dominava una
socialdemocrazia solidale, fondata su reciprocità di diritti e doveri (erede
diretta della suprema solidarietà nazionale della precedente fase bellica: una
coesione tale da convincere anche i ricchi a pagare tasse con alte aliquote,
perché a favore dei poveri, però connazionali) [K].
Un
quadro comunitario idilliaco, purtroppo poi disturbato da femministe, immigrati
e giuristi rawlsiani… Collier arriva a individuare nella rivendicazione dei
genitori LGBT di menzionare nei documenti scolastici solo “genitore1 e
genitore2” un attentato alla trasmissione dei valori familiari tradizionali,
fondati su “padre e madre” (questa specie
di gelosia dei conservatori di vario tipo verso i nuovi diritti non l’ho mai
capita, perché non vedo cosa tolga alla famiglia tradizionale – e alle sue
tradizionaliste narrazioni - il fatto che in altre famiglie si divorzi,
abortisca, oppure si confondano ruoli e generi sessuali).
Poiché l’Autore
appoggia spesso le sue asserzioni sulla esperienza personale e familiare sua e
di cugini e parenti (rimasti poveri), mi permetterei di contrapporre qualche
esperienza in parte diversa, in un’Italia degli anni ’50 che non era per nulla
unificata dal sentimento nazionale, in cui gli strascichi della ‘guerra civile
europea’ 1917-1945 separavano profondamente le narrazioni identitarie dei
‘rossi” e dei ‘neri’ (neri fascisti e/o neri clericali), degli operai e dei
borghesi [L], ed i valori
ufficialmente trasmessi dalla Chiesa e dalle Famiglie erano contraddetti, ad
esempio, (prima dell’omologazione televisiva) dalle contro-narrazioni di
osterie, bar (ed anche oratori); contro-narrazioni per lo più maschiliste: il
successo con le donne, negli affari, nello sport.
Una dialettica complessa,
che si è evoluta negli anni ’60 anche in base ai “ragionamenti motivati” del
dissenso individuale e collettivo, poderoso motore di una ‘modernizzazione’
discutibile forse, ma inevitabile per l’Italia, verso una società aperta e pluralista
(ed anche assai contraddittoria...).
Complessivamente invece
Collier rimuove la categoria del conflitto dall’idea di progresso, che
deriverebbe invece da un conservatorismo illuminato (un conservatorismo cui
purtroppo sono scappate di mano la rivoluzioni inglese, americana, francese e
russa, e forse la stessa rivoluzione industriale, perché il tipico imprenditore
alla Adam Smith, probabilmente ha dovuto infrangere più di uno dei valori
tribali a lui tramessi dalle precedenti generazioni).
E non coglie, ad
esempio, nel secolo breve dal 1917 al 1989, l’importanza che lo spauracchio
della rivoluzione bolscevica (malgrado i suoi orrori ed il suo finale
fallimento) ha riverberato in Occidente, sia presso gli operai, più o meno
socialdemocratici, ma spesso uniti nelle lotte sindacali [M]
, sia presso le classi dirigenti, che hanno dovuto blandire tali masse (e
assorbire tali lotte) con promesse e concessioni, smettendo di farlo appena
possibile, anche grazie alla crisi e alla caduta del ‘socialismo reale’.
Inoltre non pone
l’eccezionale ed irripetibile crescita “illimitata” del secondo dopoguerra in
Occidente in correlazione con il saccheggio delle risorse ambientali ed umane
del terzo mondo, tanto da infrangersi per l’appunto sulla crisi petrolifera
degli anni ’70, che ha iniziato ad interrompere tale saccheggio.
Nel
magnificare l’impresa capitalista come necessaria forma dell’organizzazione
della produzione e levatrice del benessere, Collier rimprovera i “vecchi
romantici che auspicano un ritorno ad una società di artigiani, contadini e
comunità”: però altrettanto illusorio mi
appare il suo desiderio di tornare a quel capitalismo classico, ma temperato,
del periodo 1945-1970, liberandolo dal successivo “dannoso malfunzionamento”.
Convinto
che “non c’è niente di intrinsecamente disonesto nel capitalismo” (affermazione su cui mi sentirei di dissentire
[N])
non si chiede perché “l’ultima volta che … ha funzionato bene è stato”
per l’appunto “tra il 45 e il 70” (a mio
avviso, ad esempio, perché la tendenza all’accumulazione è intrinseca al
capitalismo, trascende l’etica del singolo capitalista, e può trovare solo
fuori di sé un argine significativo, o nell’esaurimento delle risorse – ivi
compresa l’estenuata espansione del debito pubblico e privato - , o nella
rivolta di qualche segmento – vecchio o nuovo – dal mondo degli sfruttati).
Ma
si limita ad auspicare che – a partire dal diffuso disprezzo per l’odierno
capitalismo - si ricostruiscano le condizioni “etiche” di quel periodo magico,
ricostruendo un tessuto comunitario di famiglia, impresa e patria che – Collier stesso lo riconosce – il
moderno capitalismo stesso ha contribuito ad erodere e dissipare: innescando però
nuove contraddizioni che potrebbero divenire esplosive, ma in direzioni
tutt’affatto diverse dalla nostalgica riproposizione delle armonie perdute,
oppure in loro tragiche caricature, come le spinte populiste e sovraniste stanno ad indicare (nella direzione della
esclusione violenta e non della
inclusione solidale).
Altro che convergenza
politica al centro mediante qualche alchimia sulla nomina dei leaders dei
partiti britannici (vedi sopra)…
Proiettato
nella sua ‘retro-topia’ edulcorata, l’Autore poco si preoccupa delle effettive
tendenze future della complessa e conflittuale società dominata da questo
capitalismo, dedicando brevi cenni alla digitalizzazione ed automazione (nella
sua convinzione che i posti di lavoro perduti si ricostruiscano in altri
settori) ed ai problemi climatici ed ambientali (con le potenziali crisi socio-economiche
di cui la pandemia coronavirus costituisce un poderoso assaggio): senza
comprendere che tale mutamento di contesto rende impossibile il ritorno ad un
passato localista ed identitario.
Fonti:
1.
Paul
Collier – IL FUTURO DEL CAPITALISMO – Laterza, Bari-Roma 2020
2.
Forum
Disuguaglianze Diversità – 15 PROPOSTE PER LA GIUSTIZIA SOCIALE – 2019 - https://www.forumdisuguaglianzediversita.org/proposte-per-la-giustiziasociale/
3.
Aldo
Vecchi - COME COMBATTERE LE DISUGUAGLIANZE: LE 15 PROPOSTE DEL “FORUM” – su
UTOPIA21, maggio 2020 - https://drive.google.com/file/d/1udb1x44_L_Y6pCywG5ccSxK4PQEkCYot/view.
4.
David
Graeber – DEBITO: I PRIMI 5.000 ANNI – il Saggiatore – Milano 2012
5.
Aldo
Vecchi “DEBITO E DEMOCRAZIA SECONDO DAVID GRAEBER” su UTOPIA21, luglio 2018 https://drive.google.com/file/d/1KNHwvYRdAOgatgudIQMBtJt5Q3shSWl/view
6.
Emanuele
Felice - STORIA ECONOMICA DELLA FELICITA’ – Il Mulino, Bologna 2018
7.
Aldo
Vecchi - LA “STORIA ECONOMICA DELLA FELICITÀ” (O QUANTO MENO DEL BENESSERE) DI
EMANUELE FELICE – su UTOPIA21, marzo 2019 - https://drive.google.com/file/d/1838x-yKTFJ8ru-TRtkGjczuxEiacMxQ9/view.
8.
Paolo
Prodi - 7° NON RUBARE – il Mulino, Bologna 2009
9.
Aldo
Vecchi “PAOLO PRODI: 7° NON RUBARE” su UTOPIA21, settembre 2018 https://drive.google.com/file/d/1yhn8fOy9AWX1zXrx1LjcxtqaMJ2opsHk/view
10.
Aldo
Vecchi e Fulvio Fagiani - IL DIALOGO TRA FERRARIS E DEMICHELIS SU TECNICA E
UMANITA’ – su UTOPIA21, novembre 2019 - https://drive.google.com/file/d/1piUV1BaaiW5qcyiSecmY9MsdBPyJGE8E/view.
11.
Karl
Marx – LAVORO SALARIATO E CAPITALE – Editori Riuniti, Roma 1960
12.
Paolo
Leon - IL CAPITALISMO E LO STATO – Castelvecchi editore, Roma, 2014
13.
Aldo
Vecchi - IL “TESTAMENTO” DI PAOLO LEON SUL CAPITALISMO E LO STATO- su UTOPIA21,
gennaio 20’19 - https://drive.google.com/file/d/1sQV6xQqlv0AyibwQDjMxWI5AESKVT7_S/view.
[A] Probabilmente a Collier sfuggono le
eccellenze di Reggio Emilia, perché in generale il suo testo ignora l’Italia
(unico accenno è a Beppe Grillo, menzionato in un elenco di leaders populisti,
sotto-elenco “uomini di spettacolo”, insieme a Donald Trump).
[B]
Collier (che, ignorando le eccellenze reggiane, ignora anche il fenomeno
Bibbiano) attribuisce notevole rilevanza al fenomeno delle maternità
precoci; consultando l’ultima statistica emanata dall’UNFPA (agenzia ONU per la
pianificazione familiare) ho riscontrato in effetti che nel periodo 2011-2017
le maternità tra i 15 ed i 19 anni, pari al 44 per 1.000 a scala mondiale
(oltre il 100 x 1.000 nei paesi più poveri), oscillano nei paesi più sviluppati
attorno al 14 x 1.000, ma con una differenza significativa tra i paesi
anglosassoni (USA 20, GB 14) ed i paesi dell’Europa Occidentale continentale
(Germania e Spagna 8, Francia e Italia 5).
[C]
Come
spesso accade per gli accademici anglosassoni (compreso lo stesso David
Graeber), talune riforme molto semplici, ma più radicali, come il divieto dei
licenziamenti individuali immotivati oppure l’istruzione superiore gratuita,
non figurano nel campo delle possibilità.
[D]
Attribuirei
quanto meno al Traduttore, se non all’Autore, di non aver sciolto l’ambiguità
semantica rispetto al significato che l’espressione “stato etico” ha assunto
nella nostra lingua, a partire da Hegel e poi da Gentile, in contrapposizione
allo “stato liberale”, e non certo nella direzione proposta da Collier, di uno
stato fondato su una equità dei rapporti sociali.
[E] Nella rassegna degli insuccessi delle
organizzazioni internazionali negli ultimi decenni, l’Autore – che tra l’altro
classifica la NATO degli anni 50-60 come esempio virtuoso di fraterna
cooperazione tra uguali (no comment)
– non si occupa per nulla della “Conferenza delle Parti” sulla questione
climatica, che – anche se non ha
purtroppo ancora raggiunto i risultati auspicabili - a me sembra che comunque
abbia delineato un percorso corretto di contemperazione collaborativa tra
interessi assai diversi, pur sviluppandosi – come in tal caso è indispensabile
– in ambito mondiale: Assai discutibili e contradditorie mi sembrano anche le
poche e sparse considerazioni di Collier sull’Unione Europea, su cui non mi
soffermo.
[F]
Collier dichiara di apprezzare la
moderazione forzata dei governi di coalizione imposti da leggi elettorali
proporzionali, quali quelle vigenti nei Paesi Bassi ed in Scandinavia; in altra
parte del testo, però contraddittoriamente elogia le politiche di Macron, la
cui moderazione scaturisce invece da un sistema maggioritario a doppio turno.
[G]
In altra parte del testo l’Autore
mostra di apprezzare anche la formazione fondata che su qualità “non
cognitive”, riferita però alle figure tecniche operative, esemplificate dagli
istituti tecnici superiori tedeschi.
[H] Charles Sanders Peirce, matematico e
filosofo statunitense, 1839-1914)
[I]
Ad esempio quelle, non lontane
nella loro essenza ma assai divergenti nelle conclusioni, di David Graeber4,5;
oppure il filone italiano dell’”economia civile”, da Antonio Genovesi nel ‘700
ad oggi con Zamagni-Bruni-Becchetti ed altri.6,7
[J]
D’altronde lo stesso Collier da’
atto che nelle famiglie tradizionali “alcuni aspetti … equivalevano a una
deprimente patina che nascondeva rapporti di potere e abusi”
[K]
Non intendo sottovalutare le
preoccupazioni sollevate da Collier riguardo al peso delle differenze
etnico-linguistiche (in particolare a fronte dei fenomeni migratori) ed alla
necessità educativa e sociale di far corrispondere i doveri ai diritti: ma mi
piace pensarle come necessarie articolazioni di un ragionamento limpidamente
solidale, alla scala del mondo intero.
[L]
A
questi miei ricordi corrispondono riscontri corposi nella letteratura, “bassa”
come in Guareschi, od “alta”, come in Bianciardi, Cassola, Lajolo, Morselli, ma
anche nelle impietose autobiografie di Christa Wolf oppure di Annie Ernaux, od
ancora nella narrativa “borghese” contemporanea spagnola, da Cercas a Marias.
[M]
Guidate anche da dirigenti
marxisti, ma non per questo totalitari,
da Giuseppe Di Vittorio a BrunoTrentin.
[N]
I
filosofi greci non si ponevano il problema dell’onestà dello schiavismo; Paolo
Prodi8,9 racconta molto bene quanto sia cambiato il concetto di
“onestà” nell’Europa Cristiana dal medioevo in poi riguardo al prestito di
danaro con interesse; nel mondo attuale in molti paesi è considerata tuttora
“onesta” la pena di morte; gli anti-specisti cercano di aprire la strada ad una
consapevolezza della disonestà del subordinare, uccidere e mangiare gli altri animali.
E dove e da quanto tempo le donne hanno un’anima, il diritto di voto, il
diritto (teorico!) alla parità stipendiale?
In questa complessa
dinamica storica mi sembra assurdo postulare l’assoluta “onestà” del
capitalismo, che – seppur etico il più possibile, e ammesso che produca
articoli non dannosi all’ambiente e alla società (e tralasciando il complesso
argomento della Alienazione)10- presuppone finora sempre comunque
(come dimenticano tutti gli ‘interclassisti’, ben diffusi – ad esempio, nelle
aree politiche del PD e dei 5Stelle):
-
che l’imprenditore ricavi il profitto
dallo sfruttamento del lavoro salariato (per quanto “giusta” sia la mercede),11
-
che il successo dell’impresa comporti un
minor successo (ma anche la tendenziale rovina) dei concorrenti, nonché in
qualche misura dei fornitori e dei clienti, 12,13
-
che nel mercato del lavoro agisca un
differenziale tra il valore di una mansione e quella di un’altra (limitando a
eccezioni i casi in cui il merito è riconosciuto in termini non monetari).
Il vero problema è che non è stato
ancora collaudato un sistema alternativo in grado di funzionare a grande scala:
ben vengano dunque nel frattempo tutte le esplorazioni sul possibile
temperamento “etico” dello stesso capitalismo.
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