Il testo del sociologo inglese delinea un blocco di potere, economico-politico-culturale, interessato a occuparsi del grado di “felicità” individuale di lavoratori, consumatori e cittadini, escludendone la partecipazione soggettiva (e le eventuali velleità di discutere i presupposti gerarchici della società contemporanea).
Sommario:
-
premessa
-
fondamenti storici
-
risvolti attuali
-
margini alternativi
-
alcune osservazioni
PREMESSA
“La
fabbrica della felicità”1, edito nel 2015, affronta la realtà
contemporanea (e crescente) della gestione attiva del benessere psicologico
(individuale) da parte di imprese ed istituzioni, soprattutto nel mondo
anglosassone, con sistematici flash-back sulla evoluzione di tale tendenza
negli ultimi due secoli, attraverso diverse scuole e discipline (ancora e quasi solo nel mondo anglosassone).
Con
l’ambizione, soprattutto nel capitolo conclusivo, di de-costruire tale
complesso culturale e tecnocratico, svelandone i blandi riferimenti filosofici
e le solide motivazioni socio-politiche, e cercando di contrapporre uno schema
alternativo, di pensiero e di ricerca.
Nel
panorama contemporaneo, in particolare dopo la crisi finanziaria del 2008,
Davies evidenzia inizialmente:
-
l’emergere
di narrazioni e di pratiche di meditazione e di auto-cura per i manager, dal
Forum di Davos in giù, come rimedio e prevenzione dello stress per gli stessi
dirigenti, (l’Autore riferisce che c’è anche chi ha teorizzato come la crisi del
2008 – non potendo sbagliarsi la logica dei mercati – fosse effetto di
peculiari squilibri ormonali di alcune figure di vertice…) ed anche come nuovo
strumento di gestione del “capitale umano” delle aziende;
-
l’espandersi
di classificazioni patologiche e di trattamenti psicologici e farmacologici per
gli strati più sofferenti della forza lavoro, sia occupata che disoccupata, per
arginare i costi crescenti sia della disaffezione lavorativa sia del welfare
(in particolare Davies racconta l’accanimento delle agenzie – anche private –
incaricate di ri-motivare i disoccupati in Gran Bretagna, mirando a proclamarli
comunque “idonei”, come abbiamo imparato anche da efficaci film di Ken Loach).
Nel
suo procedere, il testo si occupa anche della trasformazione di tutte queste
attenzioni psicologiche:
-
in
iniziative commerciali per collocare nuovi prodotti, dai farmaci ai software
salutistici e sportivi, oltre che per sorreggere agenzie di consulenza,
accademie e singoli “guru” di gran moda,
-
ma
soprattutto nella sorveglianza e nell’indirizzamento della massa dei
cittadini-consumatori, in particolare – ma non solo - attraverso i social-media
e le gratificazioni che possono offrire, tra amicizie e “like”.
FONDAMENTI STORICI
La
carrellata storica è spesso contrassegnata da gustosi aneddoti (probabilmente talora alquanto detrattivi)
– ed include, tra gli altri:
-
Jeremy
Bentham (GB, 1748-1832), tra i precursori raccontati nel libro forse il più
filosofo (anche se non era compiutamente tale), che fondò l’utilitarismo, cioè
una visione in cui l’uomo è dominato dal binomio piacere/dolore, come teoria
per una gestione “scientifica” della società nel suo insieme, a partire dal
mercato (che già ottimizza gli scambi tra gli individui), puntando su ogni
quantificazione possibile con gli strumenti dell’epoca, e esplicita sfiducia
verso il “linguaggio verbale” (cioè non matematico);
-
Gustav
T. Fechner (1801-1887), fisiologo di Lipsia, che intuì la componente “energia”
nel flusso funzionale del cervello e si applicò a quantificare le percezioni;
-
Williams
Jevons (GB, 1835-1882), economista di formazione religiosa, che approfondì
l’equivalenza tra “piacere” e “denaro” nell’ottica del consumatore, spostando
su di esso l’attenzione degli altri economisti (finora attenti soprattutto al
ciclo produttivo); il suo allievo Edgeworth immaginò addirittura l’invenzione
di un “edonimetro”;
-
Wilhelm
Hundt (1832-1920), biologo tedesco, che avviò sperimentazioni psicotecniche su
colleghi e allievi, inventando tra l’altro il “tachistoscopio” (misura delle reazioni
di fronte ad immagini rapide), ma nella sua “metafisica” non aveva pretesa di
banalizzarne l’uso a scopi pubblicitari, come invece successivamente diversi
suoi seguaci americani;
-
Frederick
Taylor (USA, 1856-1915), ingegnere e consulente aziendale, che rivoluzionò i
sistemi produttivi (anche in risposta ad una crisi da “esaurimento della
forza-lavoro”, per la fatica richiesta nel ciclo produttivo a fine ‘800),
innestando una gestione manageriale di tutte le fasi del processo produttivo
(“tempi e metodi”);
-
John
Watson (USA, 1878-1958), inizialmente studioso del comportamento degli animali,
che diede veste scientifica al “comportamentismo” studiando movimenti e
reazioni di soggetti NON consapevoli, offrendo un metodo “oggettivo” per la
pubblicità (di cui divenne manager nella compagnia JWT, operante tra l’altro
per General Motors a scala internazionale, con iniziali difficoltà di trasposizione
in Europa del metodo dei sondaggi di mercato);
-
George
Gallup (USA, 1901-1984), statistico, che fondò l’omonima impresa per lo
svolgimento massiccio di sondaggi demoscopici (raramente “neutrali”)[1], mentre nel dopoguerra si
sviluppò anche l’analisi delle nicchie di mercato con i “focus group”;
-
Elton
Mayo (Australia, 1880-1949), che introdusse negli U.S.A. la cura psicologica
nella gerarchia aziendale, per temperare gli eccessi del taylorismo
(interessante che considerasse le tendenze socialisteggianti come nevrosi da
curare…);
-
Jacob
Moreno (1889-1974), allievo di Freud, rumeno/austriaco e poi statunitense, che
spostò il campo di ricerca dal ‘paziente in studio’ alle ‘relazioni in strada’,
proponendo studi “socio-metrici” (di difficile sviluppo fino all’avvento dei
computers) per valutare la soddisfazione dell’individuo dal numero delle sue
“connessioni”, ed anticipò quindi la logica degli attuali social-media;
-
Hans
Seyle (1907-1982), medico austriaco e poi canadese, che individuò nella
generalità dei malati, la “sindrome dell’essere malati” e quindi la dialettica
complessiva tra benessere e “stress”, al di là delle singole patologie,
sviluppando una teoria sugli stimoli, eccessivi oppure scarsi ed una visione
armonica di “altruismo egoista”;
-
Ronald
Kuhn (CH, 1912-2005) e Nathan Kline (USA, 1916-1983), psichiatri e ricercatori
farmaceutici che - lungo altri percorsi – scoprirono per caso (e separatamente,
nel 1958-59) i primi farmaci anti-depressivi.
Davies
richiama inoltre l’attenzione sulla
scuola degli economisti neo-liberisti di Chicago (i cosiddetti Chicago Boys,
allenati dagli
anni ’30 ad un metodo di accaniti seminari di confronto), che - in quanto appartati e periferici rispetto
alla precedente egemonia keynesiana della West Coast , e anche per questo
desiderosi di riscatto – presero il sopravvento come consiglieri politici
nell’epoca di Reagan (ma con Milton Friedman anche prima per Pinochet), esasperando
la cultura competitiva già propria della società statunitense: per loro, scrive
Davies “L’ineguaglianza non era una specie di ingiustizia morale, bensì
un’accurata rappresentazione della distanza tra il desiderio e il potere di
soddisfarlo”.
(L’Autore
evidenzia anche quanto la stessa competitività esasperata, tipicamente in campo
sportivo, sia diffusamente causa di sindromi depressive).
Con
una vicenda simile a quella dei Chicago Boys, Davies segnala il successo, a
metà anni ’70, della scuola psicologica di St Louis (derivante dallo psichiatra
svizzero non-freudiano Kraepelin), anch’essa appartata e negletta dalle
correnti in precedenza egemoni, che – a fronte di una crisi dell’Associazione
Psichiatrica Americana (anche a seguito dei movimenti libertari degli ’60) – fornì le basi per una svolta (guidata
da Robert Spitzer, pur proveniente dall’A.P.A.) imperniata su una
classificazione analitica dei sintomi psichici e sull’empirismo di cure
specifiche, in prevalenza farmacologiche (compiacendo così, tra l’altro,
compagnie farmaceutiche ed assicurative).
RISVOLTI ATTUALI
Dagli
sviluppi di questa storia complessa – cui secondo l’Autore hanno contribuito
anche gli “psicologi umanisti”, come Maslow e Rogers, riducendo
l’anticonformismo dei movimenti giovanili degli anni ’60 a ricerca della
realizzazione personale – sono maturate negli ultimi decenni diverse discipline
che si collocano tra scienza, neuro-scienza e pseudo-scienza, e convergono nel
ricercare un controllo sui comportamenti umani resi il più possibile oggettivi
e non “viziati” da ciò che pensano (o dicono) in proposito le persone oggetto
di esame.
Ad
esempio la massa di comunicazioni verbali su Twitter viene analizzata – a prescindere
dalle intenzioni esplicite degli utenti - per desumerne valutazioni sullo stato
di felicità o meno di segmenti geografici o temporali della popolazione (talora con risultati degni di Max Catalano:
ad esempio, c’è più felicità al sabato che al martedì, come già ci insegnava
Giacomo Leopardi, senza bisogno di indagini demoscopiche).
In
particolare questo avviene (limitandomi
ad alcuni caposaldi):
-
sul
fronte delle ricerche di laboratorio sul cervello e sulle reti neuronali (ad
esempio con la fMRI, risonanza magnetica funzionale), nonché sulla connessa
farmacologia;
-
sul
fronte della analisi dei “big data”, che hanno il pregio di essere abbondanti,
assai meno costosi dei sondaggi, perché forniti spontaneamente dagli stessi
utenti, che sono spesso spinti da componenti narcisistiche: vedi social media,
ma anche apparecchi di misurazione costante
di prestazioni corporali – sportive o salutiste -; e complessivamente le
applicazioni per la domotica (internet delle cose) e la smart city, applicazioni
in cui l’utente è tanto agevolato quanto costantemente monitorato.
Ed
ancor di più nel perverso intreccio tra tali due fronti, con lo spionaggio
occulto, tramite videocamere in luoghi pubblici e privati (ma anche dai nostri
apparecchi personali) dei movimenti facciali, per trarne informazioni utili
alla produzione ed al marketing.
Tutto
questo sforzo ideologico e organizzativo è propiziato, secondo Davies, dal
convergere degli interessi (a mio avviso in
parte distinti, anche se ciò non so quanto sia rilevante) del potere
economico, del potere politico (ed anche – esplicitamente – di quello militare)
e di quello delle élites accademiche direttamente coinvolte (considerata la
dimensione dei finanziamenti così indirizzati nella spesa per la ricerca e la
cultura) nell’occuparsi dello stato di benessere psichico degli individui (e
quindi delle masse),
-
per
alleviarne quanto possibile le possibili situazioni patologiche, a condizione che
non si inneschi nessuna riflessione collettiva sulle cause profonde di tali
disagi e sofferenze,
-
e
per orientare quanto più possibile le tendenze di comportamento ed opinione,
sia nei consumi che nelle scelte politiche.
MARGINI ALTERNATIVI
Soprattutto
nell’ottavo ed ultimo capitolo, Davies contrappone a questa poderosa macchina
del consenso alcune esperienze e tendenze alternative, tra cui, quale esempio paradigmatico,
l’esperimento della fattoria Growing Well di Aldridge, nel Nord
dell’Inghilterra, con un progetto di cura psichica attraverso il verde e la
coltivazione, utilizzata anche dal sistema sanitario ufficiale, che però non ne
ha colto la specificità di attivizzare gli ospiti (temporanei o permanenti)
anche come soggetti consapevoli nella gestione della comunità e delle colture
(esperienze presenti anche in Italia nelle comunità di recupero), e più in
generale le scuole degli psicologi di comunità (USA anni ’60) ed oggi degli
psicologi clinici e degli epidemiologi sociali, che studiano le sofferenze
psichiche anche come effetto dei rapporti di lavoro (o della disoccupazione) e
delle costrizioni istituzionali e sociali, a partire dalle disuguaglianze e
dalle discriminazioni.
Orientamenti
di questo genere, con un corretto spazio in favore della soggettività, sono
emersi parzialmente anche in passato, dall’Illuminismo in poi, ad esempio nella
conduzione di sondaggi demoscopici non pilotati, oppure nella gestione di
aziende più aperte alla cooperazione, ma senza configurare un modello sociale
alternativo, e spesso finendo riassorbiti come mere tecniche di alleviamento
dei sistemi dominanti di controllo e di oppressione.
Così
pure i tentativi di sottrarsi ai suddetti meccanismi di dominio attraverso un
soggettivismo radicale, con una fuga mistica “romantica, soggettiva baldoria
nei misteri della coscienza, delle libertà e delle sensazioni”, finiscono, dice
Davies, per essere funzionali al sistema egemone, che soprattutto tende ad
evitare l’opposizione di una critica razionale: chi detiene gli algoritmi
seleziona e controlla, e lascia agli esclusi la paccottiglia emozionale, “siate
empatici”.
Il
punto nodale per sviluppare invece una possibile critica razionale, e quindi un
programma alternativo, secondo Davies, sta nell’impostazione filosofica, che
per l’empirismo psicotecnico dominante è per lo più implicita od oscura, e
tutto sommato risale sempre all’utilitarismo di Bentham, e quindi tratta gli
uomini come animali sensibili al dolore o al piacere; a tale orizzonte,
l’Autore contrappone soprattutto il pensiero di Wittgenstein sul linguaggio
come espressione umana irriducibile ad una neutra oggettività, mentre – anche secondo
Rom Harré (filosofo neozelandese, e poi britannico, 1927-2019) – il linguaggio
umano è comprensibile ed interpretabile solo nell’ascolto e nella relazione con
l’esperienza di chi ascolta.
Senza
ipotizzare una sfera metafisica (ancora presente ad esempio in Fencher e in
Wundt),
secondo
l’Autore occorre dare importanza a ciò che le persone dicono, restituire loro la
legittima interpretazione di sé stessi e la facoltà di criticare la situazione
in cui si trovano, perché rimostranze e lamentele non sono di per sé sintomo di
disagio psichico.
Invece
di insegnare ai singoli a denominare e quantificare l’eventuale sofferenza (in
una spirale di narcisismo solitario e deprimente), i ricercatori ed i terapeuti
dovrebbero approcciarsi con umiltà, con “calore, gentilezza ed empatia”, usare
di più l’orecchio che non gli occhi, ed estendere la ricerca delle cause del
disagio oltre l’individuo e la famiglia, de-medicalizzare l’infelicità e
promuovere la capacità di discutere democraticamente (anziché ad “adeguarsi” al
sistema).
Un
brevissimo cenno alle disillusioni del socialismo non distoglie Davies dal
proporre anche più ampie prospettive di riforma socio-politica in senso
democratico ed egualitario (quelle per l’appunto che oggi sono inibite dai
meccanismi di controllo psico-sociale), tra le quali:
- spostare
le risorse pubbliche nella ricerca neuro-psichico-comunicativa dall’attuale
asse “comportamentista” ad una pluralità di filoni, che non escludano le
alternative socio-politiche;
-
ridurre
gli orari di lavoro ed aumentare il numero degli occupati;
-
allargare
le esperienze di imprese cooperative e quelle in cui si sperimenta un maggior
coinvolgimento effettivo dei lavoratori [2];
-
comprimere
gli spazi pubblicitari e soprattutto contrastarne le modalità subdole e
subliminali.
ALCUNE OSSERVAZIONI
Benché il testo, di
oltre 250 pagine, illustri in modo dettagliato gran parte dei complessi argomenti (e ne ho apprezzato il taglio
divulgativo, accessibile a chi – come me – non è un addetto ai lavori
psicologici), poiché coinvolge collateralmente anche altre importanti questioni,
mi sembra che queste siano affrontate invece in modo troppo sbrigativo, oppure
troppo ristretto ad un ottica ‘anglosassone’.
Tra le carenze da me
riscontrate segnalo soprattutto:
-
l’automazione/digitalizzazione
e l’Intelligenza Artificiale come cause specifiche di alienazione nel rapporto
uomo/macchina (anche nel tempo libero, ed anche a prescindere dai rapporti di
lavoro gerarchizzati), nonché di crisi delle forme tradizionali di occupazione[3];
-
l’inquadramento storico
sulla ‘ricerca della felicità’, sostanzialmente limitato all’Occidente (meglio
se anglo-sassone) dopo l’Illuminismo [4],
salvo un fugace richiamo ad Aristotele;
-
l’alternativa
filosofica (e antropologica) all’utilitarismo, incentrata sul solo Wittgenstein
e sulla peculiarità del linguaggio, mentre – dopo il tramonto della metafisica
e delle concezioni spiritualiste sull’anima – mi sembra che siano più numerosi
i pensatori (di diverse tendenze) che valorizzano comunque la specificità
umanistica e l’integrità della persona, distinguendosi da un mero materialismo
meccanicista; da Heidegger (e Severino) a Sartre[5],
da Marcuse a Lukacs, da Mounier a Bloch, da Bauman ad Augé (a anche
anglosassoni… ad esempio da Russel a Rawls);
-
il carattere
“industriale” della commercializzazione del benessere psichico, che andrebbe forse inquadrato in un più vasto
contesto di analisi dell’industria culturale o addirittura di quella che Sergio
Bellucci definisce “industria di senso” 6,7, sia riguardo ai
condizionamenti che derivano da tutti i mezzi di comunicazione, sia riguardo al
depotenziamento delle altre fonti di valori e mitologie (religione, tradizioni,
politica);
-
il contesto storico
politico-culturale, dove mi sembra che il testo sottovaluti la portata dei
movimenti radicali degli anni ’60 e ‘70 del Novecento (in particolare in campo
psichiatrico – seppur divergenti – l’anti-psichiatria e la straordinaria
esperienza, concreta e rivoluzionaria – di Basaglia&C; mentre sul piano
culturale più ampio manca – ad esempio – la Scuola di Francoforte [6]
e l’intera Francia [7],
menzionata solo per l’antico Cartesio[8])
e dei significativi retaggi ancora attivi [9],
ed inoltre sottovaluti ancor di più il peso del riflusso connesso sia
all’esaurirsi o alla sconfitta di tali movimenti, sia alla caduta del
‘socialismo reale’ (il cui peso psicologico ha richiamato invece l’attenzione,
anche disciplinare, di autori coma Zoja, Madera e Recalcati, che hanno ritenuto
di dedicarvi interi libri): caduta a mio avviso fortemente incidente, per
diversi motivi, sia nell’Europa mediterranea sia nell’Europa Orientale.
Inoltre ho
l’impressione che – pur in una trattazione equilibrata – in taluni casi
l’Autore tradisca troppo i suoi giudizi (pre-giudizi) ‘anti-capitalistici’: io
personalmente non fatico a condividerli, ma non penso che altrettanto avvenga
per la generalità dei lettori.
In particolare, nel
meritorio percorso di demistificazione della falsa neutralità delle discipline
scientifiche esaminate, mi sembra che Davies lasci poco spazio
-
sia alle contraddizioni
interne al blocco socio-culturale dominante, che possono aprire occasioni per
mutamenti di egemonia,
-
sia – in tale ambito - alla
possibile ‘buona fede’ di settori di politici e scienziati, sinceramente
interessati al benessere dei cittadini, ma di fatto coinvolti nel paradigma
culturale del controllo psico-sociale, come da Davies ben delineato,
-
sia alla
controvertibilità e riutilizzabilità di singoli avanzamenti scientifici (ad
esempio nel campo delle neuro-scienze), che potrebbero assumere un diverso segno
proprio a seguito di una battaglia culturale di de-mistificazione, come quella
propugnata dallo stesso Davies.
Infine mi sembra
interessante considerare come la ‘teoria dell’ascolto’ possa costituire anche
un utile spunto critico (e per quanto mi riguarda anche in parte auto-critico)
-
sia verso la vulgata
marxista di considerare gli sfruttati anche come vittima dell’egemonia
culturale borghese, e quindi da redimere e liberare anche ‘a loro insaputa’,
-
sia verso la
presunzione scientista che caratterizza non solo i bio-psicologi, ma anche – ad
esempio – architetti e urbanisti.
A fronte di tali vizi del
“sapere esperto” sono in atto da tempo contro-tendenze meritorie, come – in
campo politico-sociale – il monito maoista di “fare inchiesta tra le masse” o
agli antipodi i movimenti di auto-determinazione (dal femminismo in poi) ed -
in campo urbanistico – le varie esperienze di ‘partecipazione’ a livello di
quartiere (e più di recente anche istituzionale, come raccomandano le direttive
europee sul paesaggio e sulle valutazioni ambientali strategiche, in qualche
modo recepite ed attuate anche in Italia).
Con il rischio però del
populismo, fino alle degenerazioni anti-scientifiche di no-vax e terrapiattisti
(non troppo in auge in tempi di Pandemia).
Fonti:
1.
William
Davies – L’INDUSTRIA DELLA FELICITA’ – Einaudi, Torino 2016
2.
Ronald
Inglehart - LA SOCIETÀ POSTMODERNA - MUTAMENTO, IDEOLOGIE
E VALORI IN 43 PAESI - Roma, Editori Riuniti
1998
3.
Ronald
Inglehart - CULTURAL EVOLUTION. PEOPLE’S
MOTIVATIONS ARE
CHANGING AND RESHAPING THE WORLD - Cambridge
University Press
2018
4.
Aldo
Vecchi – INGLEHART E LA POST-MODERNITÀ - su UTOPIA21 del novembre 2018
https://drive.google.com/file/d/1e23dr6OMPGRzhpDWegKWdhrz6h4DAcIt/view
5.
Fulvio
Fagiani - CAPIRE IL POPULISMO. UNA RASSEGNA COMMENTATA DI RIFLESSIONI – su
Utopia21 del luglio 2019 https://drive.google.com/file/d/1mCbXRn6J0LFVRZNxjWMDCT8E-_Q8960J/view.
6.
Sergio
Bellucci - L'INDUSTRIA DEI SENSI – Harpo, Roma 2019
7.
Conferenza
di Sergio Bellucci - "Dall’industria del senso al welfare delle relazioni”
in Festival Utopia 2020: 1a parte - https://youtu.be/BuAZkdWX9no 2a
parte - https://youtu.be/4ALJjyOqh9g
8.
Anna
Maria Vailati e Aldo Vecchi - SUPERARE IL LAVORO SALARIATO? – SU Utopia21,
gennaio 2021 https://drive.google.com/file/d/1WvDHNKBmPzcdk9JsIdG9_M6EQLH0H4bJ/view,
9.
Fulvio
Fagiani - IL FUTURO DEL LAVORO TRA AUTOMAZIONE E PIATTAFORME – 1^ PARTE e 2^
PARTE – su Utopia 21, del gennaio e del marzo 2018, anche in Quaderno n.7 ‘LA SOCIETA’ DIGITALE’ - https://drive.google.com/file/d/18zfF-qmqR75xXxNgI3gqyEfAGzeSbw_6/view
10.
Fulvio Fagiani - IL LAVORO TRA
DIGITALIZZAZIONE E TRANSIZIONE ECOLOGICA – su Utopia21, gennaio 2020 https://drive.google.com/file/d/1yEYhHff3ABmdSlbmsGfgxwwhgtncgBBA/view
11.
Fulvio
Fagiani - CONVERSAZIONE-INTERVISTA CON LELIO DEMICHELIS SULL’ALIENAZIONE – su
Utopia21, gennaio 2019[av1]
https://drive.google.com/file/d/1GLcgwdT1dCgxdGIP5aZzv1L2FFF5rVBg/view
12.
Maurizio
Ferraris - RISPOSTA SUL “CAPITALISMO DOCUMEDIALE” – su “UTOPIA21” maggio 2019 -
https://drive.google.com/file/d/1zvydYKwaceoozsoQjWOJTAUffaSJ4dmD/view
13.
Fulvio
Fagiani e Aldo Vecchi - IL DIALOGO TRA FERRARIS E DEMICHELIS SU TECNICA E
UMANITÀ – su Utopia21, settembre 2019 https://drive.google.com/file/d/1kfQ6QaOfbN_IiJCPZMlkIEikXUFzBynG/view
14.
Aldo Vecchi - CONVERSAZIONI SULLA SOCIETA’
DIGITALE – su Utopia21, gennaio 2020 https://drive.google.com/file/d/1BsdIBP6FZpJ5fg767kbjIBxxdBHAEtPN/view
15. Emanuele
Felice “STORIA ECONOMICA DELLA FELICITA’” – Il Mulino, Bologna 2018.
[1]
Può essere interessante constatare
come nel successivo sviluppo della metodologia dei sondaggi rientrino anche
esperienze come le ricerche di Inglehart 2,3,4,5 e altri sul ‘grado
di felicità’ di tutti i popoli del mondo, che in qualche misura rispecchiano,
in campo sociologico, le presunzioni scientiste (tipicamente anglosassoni) che
sono oggetto dello studio di Davies in campo psicologico.
[2]
Su questi temi ci stiamo
cimentando su Utopia21, come indicano tra l’altro l’articolo di Fulvio Fagiani
in questo stesso numero (e gli altri contributi ivi richiamati), e quello di
Anna Maria Vailati e mio nel numero di gennaio 8: dove però,
auspicando la cooperazione come alternativa radicale al lavoro salariato, per
ragioni di giustizia sociale e di contrasto all’alienazione, non si confidava
per questo in una automatica corrispondenza tra liberazione dallo sfruttamento
e superamento dell’infelicità.
[3]
Temi di cui Utopia21 si è
ampliamente occupata, negli scritti di Fulvio Fagiani 9,10 e nei
contributi, diretti ed indiretti di Maurizio Ferraris e Lelio Demichelis 11,12,13,
nonché nel resoconto dell’edizione 2019 del Festival dell’Utopia 14
[4] Vedi invece ad esempio il testo di
Emanuele Felice, da me recensito nel 2019 15,16
[5]
Leggo giusto il 24 febbraio su
Repubblica un passo dal nuovo libro di Massimo Recalcati “Ritorno a Jean-Paul
Sartre” : “Nell’epoca del trionfo scientista della valutazione quantitativa,
delle neuroscienze, del paradigma cognitivo-comportamentale …. ripensare
l’irriducibilità della soggettività umana che il filosofo francese ha sempre
difeso è ai miei occhi un’operazione quanto mai necessaria”.
[6]
Adorno, Horkheimer, Marcuse,
Habermas
[7] Lévi-Strauss, Foucault, Althusser, Barthes, Deleuze - Guattari
[8] Per quanto riguarda l’Italia, poi – se
ho letto bene – figura solo, in una nota, un testo di Toni Negri
[9]
Ad esempio, in campo psichiatrico,
l’insegnamento tuttora fertile ed il successo letterario di Eugenio Borgna.