Un testo sulla complessità della città contemporanea, tra sogni e bisogni, immaginario e desideri, anche alla luce del percorso storico verso città ideali, utopiche o distopiche
Sommario:
- premessa
-
la
divaricazione delle domande sociali
-
carrellata
storica sulle utopie (urbane)
- recepire l’immaginario, costruire il
futuro
PREMESSA
“Desideri
di città. Utopie Speranze Illusioni” del sociologo Giandomenico Amendola,
raccogliendo in parte testi già in precedenza elaborati, intesse alcuni
ragionamenti sulla città come soggetto e come oggetto di “desideri”, che mi
sembra opportuno suddividere in 3 parti:
- una
introduzione sulle domande sociali che oggi investono le città e i tentativi di
pianificarle;
-
una breve storia dell’utopia, con
approfondimenti sui temi urbani;
- una
panoramica sul pensiero contemporaneo in materia di “città migliore”, con
particolare attenzione all’immaginario.
Più
volte, ma a mio avviso un po’
frettolosamente, l’Autore precisa che nelle città “la società si condensa”,
trascurando perciò il resto del mondo, forse ridotto a contorno da cui si sogna
e si desidera la città (come nel capitolo su “L’immaginario urbano degli
italiani” – da pag. 122 - , che però si riferisce ai film di Fellini e all’Italia
del 1961); mentre a mio avviso le
tematiche trattate nel testo meriterebbero – parlando dell’Europa- una
estensione “al territorio”, sia dove di fatto è comunque urbano, ancorché meno
“denso”, sia dove forse ancora non lo è, le “aree interne”, altrimenti
appannaggio della sola “mitologia dei borghi” (con tutto il rispetto per il
“paesologo” Franco Arminio).
LA DIVARICAZIONE DELLE DOMANDE
SOCIALI
Le
domande sociali sono indagate da Amendola, partendo dalla constatazione della
frammentazione dei soggetti e dalla difficoltà di ascolto per chi governa,
anche nelle città medie che più facilmente potrebbero essere città “felix”,
suggerendo una divaricazione tipologica tra le tendenze in atto, che contempla
pertanto (astrattamente separate):
- la
“città della competizione” o “città-impresa”, che nel quadro della
de-industrializzazione e della concorrenza globale, vede il “marketing urbano”
convergere nella omologazione di “città-vetrina”;
-
la “città spettacolo”, dove prevalgono
commercio e svago, apparentemente aperte ai desideri di tutti, gerarchizzando
però nei prezzi chi può o non può permetterselo;
-
la ”città pachwork”, che combina variamente le
differenze;
-
la “città delle possibilità”, che appare su
misura come un esercizio di “zapping”;
-
la “città bella”, che punta sull’attrazione,
rendendosi leggibile con la “narrazione”;
- la
“città sicura”, che rischia però di frantumarsi in isole sorvegliate, che
espellono fuori dai confini ogni variabile indesiderata.
Nella
fatica di comporre spinte divaricanti, Amendola accomuna un poco tutti i
tentativi di pianificazione, dalla città industriale in poi (mettendo in un uno
cesto, ad esempio, Haussman e Cerda, Geddes e Munford, Le Corbusier e tutto il
CIAM), in quanto visioni “dall’alto” della città come sistema od organismo,
contrapponendo loro l’esperienza soggettiva della “città dei cittadini”, vista
“dal basso”, da scrittori e pensatori, attraverso una lunga linea che va da
Poe/Baudelaire/Benjamin…. a Jane Jakobs, Debord e De Certau.
In
questo ambito, addebitando agli urbanisti demiurghi gli insuccessi delle
mega-strutture (emblematica la definitiva demolizione delle torri di Pruitt Igoe
presso St.Louis, progettate da Minoru Yamasaki), l’Autore sembra attribuire una
maggior saggezza alla nascente sociologia (superata la fase più determinista
della scuola di Chicago): “Chi governa deve rispondere non solo ai bisogni,
come nel passato, ma anche ai desideri. Richard Sennett, proclamandosi urban
anarchist, contrappone nell’opera ‘La coscienza dell’occhio” la città di
Apollo, regolata e perfetta, a quella di Dioniso, che rifiuta la routine e il
banale come principio guida della progettazione” [1].
E,
per inciso, Amendola incrina anche il mito della “progettazione partecipata”
sperimentata dall’architetto Giancarlo De Carlo a Terni, villaggio Matteotti
(1969), rivelando che “i rapporti dei sociologi vennero consegnati solo quando
i cantieri erano già in piena attività, e i giochi, quindi, già fatti.”
CARRELLATA STORICA SULLE
UTOPIE (URBANE)
La
carrellata storica[2]
sulle Utopie (e Distopie, che in parte assomiglia ai riassunti già da me
commentati dei filosofi Carlo Altini e Franco Mordacci), si sofferma in
particolare sulle proiezioni architettoniche ed urbanistiche dei vari autori, a
partire da Tommaso Moro (anno 1516: strade curvilinee larghe venti piedi, case
di 3 piani con giardino fronte e retro, facciate da completare a cura degli
utenti) attraverso Louis Sebastian Mercier (nel 1771 per l’anno 2440: strade
ampie e illuminate, fontane, tetti verdi, veicoli solo per anziani e malati) fino
a Giulio Verne (nel 1889 per l’anno 2890: strade larghe 100 metri con
grattacieli alti 300, temperatura costante, aerei omnibus locali e
intercontinentali a 1500 km/h), ed inoltre evidenzia (illustrando anche alcune
parziali realizzazioni di progetti utopici):
- il
passaggio dalle città utopiche rinascimentali poste in “altri luoghi” ad
“ucronie” proiettate in tempi futuri (anche perché nel frattempo l’intera Terra
era stata esplorata);
-
nel percorso dal Settecento proto-industriale
all’Ottocento pienamente industrializzato (nei paesi a capitalismo più
sviluppato), una progressiva presa di distanza dagli entusiasmi per il
progresso fino ad esplicite scelte anti-industriali ed “anti-urbane”, come le
Garden Cities;
- una
specie di fuoco d’artificio finale nelle teorie di Lefebvre sul “diritto alla
città”, che si intrecciano con gli slogan del ’68 parigino, quali “sotto
l’asfalto, la sabbia”[3], liberando in qualche
misura i sogni e i desideri dal confronto concreto con i bisogni e con le
risorse (con il rischio a mio avviso di
perdersi in vicoli ciechi di soggettivismo autoreferenziale, come accaduto per
parte dei movimenti giovanili degli ultimi anni 70; come slogan rappresentativo
suggerirei “vogliamo tutto”).
RECEPIRE L’IMMAGINARIO,
COSTRUIRE IL FUTURO
Nei
capitoli finali, mentre dà atto ad architetti ed urbanisti della loro
intrinseca propensione a immaginare il futuro, in quanto professionisti del
“progetto”, Amendola rivendica alle scienze sociali (superate le oscillazioni
iniziali della sociologia verso una pura registrazione di leggi permanenti) una
capacità di lettura critica della società, foriera di cambiamenti, ed
intrecciata con l’inespresso, i sogni e l’immaginario.
Riproducendo
anche - senza commenti e quindi, suppongo, condividendola – la seguente
citazione da Edgar Morin (che a mio
avviso esprime un “caso limite” di una realtà più complessa in materia di
libertà individuale e condizionamenti sociali): “Questo complesso di
immaginari … costituisce una secrezione placentare che ci avvolge e ci nutre.
Anche allo stato di veglia e anche fuori dallo spettacolo, l’uomo cammina,
solitario, circondato da una nuvola di immagini, dalle sue ‘fantasie’. E non
soltanto questi sogni da desto: gli amori che egli crede di carne e di lacrime
sono cartoline postali animate, rappresentazioni deliranti. Le immagini
scivolano fra la sua percezione e lui stesso, gli fanno vedere ciò che egli
crede di vedere. La sostanza immaginaria si confonde con la nostra vita
d’anima, la nostra realtà affettiva”.[4]
L’Autore
constata che nel mondo contemporaneo, salvo alcuni tecnologi molto presi dalla
propria specializzazione, scarseggiano proiezioni/previsioni compiute sul futuro
e tanto meno su “città ideali”,
- per la
consapevolezza della complessità di tutti i fenomeni sociali ed a maggior
ragione delle dinamiche urbane,
- per la
velocità di accavallamento di tecnologie sempre nuove,
mentre
è diffusa una tensione critica sul presente che porta comunque a “costruire il
futuro”.
Nella
sua conclusione, piuttosto ottimistica, l’Autore postula che nel dialogo
interdisciplinare e nel concreto ascolto delle frammentate domande sociali,
anche inespresse, siano possibili percorsi inclusivi per progettare la
trasformazione delle città, ma a mio
avviso lascia aperte (anche utilmente) le contraddizioni tra
- città e non città
-
bisogni
oggettivi e desideri soggettivi
- partecipazione democratica e strategie
globali.
In particolare a mio parere
oggi (nei paesi occidentali) le forme di partecipazione democratica sono sì
molto compresse – dai condizionamenti sociali, pubblicitari e mediatici, ancor
prima che dalla stratificazione dei poteri tecno-capitalisti e statuali –, ma
la liberazione dei ceti e soggetti subordinati è un orizzonte insufficiente per
fronteggiare i problemi strategici comuni all’intera umanità, che si possono
compendiare nel concetto di crisi ambientale.
Il problema non è solo che
oltre al pane vogliamo le rose: vogliamo un mondo che sia ancora in grado di
offrire pane e rose, per tutti.
Rammentando anche le
preoccupazioni di Hans Jonas circa la difficoltà delle democrazie nel
perseguire finalità ecologiche: difficoltà aumentate dai fenomeni populisti e
sovranisti, in cui le rappresentanze popolari sono inquinate da tonnellate di
propaganda di varia origine.
aldovecchi@hotmail.it
Fonti:
1.
Giandomenico
Amendola – DESIDERI DI CITTA’. UTOPIE SPERANZE ILLUSIONI – Progedit, Bari 2022
2.
Francesco
Indovina - ORDINE E DISORDINE NELLA CITTÀ CONTEMPORANEA – Franco Angeli, Milano
2017
[1] La contrapposizione Ordine/Disordine
come chiave di reinterpretazione delle problematiche della pianificazione è
anche al centro del testo di Francesco Indovina “Ordine e disordine nella città
contemporanea” 2, da me recensito su Utopia21 3 ; Francesco Indovina è anche autore di
una recensione 4 sul presente testo di Amendola.
[2]
Non mi hanno convinto, in termini
storici, né la sbrigativa affermazione che solo dal Rinascimento il futuro
scende dal cielo/divino alla terra/umanità (smentita dallo stesso Amendola
richiamando Platone prima e gli affreschi senesi del Lorenzetti poi), né
l’audace accostamento delle costituzioni nate dalle rivoluzioni americana e
francese con il pensiero di Adam Smith e con quello di Charles Darwin, per
l’evidente anacronismo di quest’ultimo
[3]
Secondo Amendola, slogan
situazionista: “Nel dato c’è il possibile…. Nella città esistente c’è il
possibile dei diritti”
[4]
Tale rappresentazione a mio avviso
corrisponde, ad esempio, al personaggio interpretato da Monica Vitti in “Dramma
della gelosia. Tutti i particolari in cronaca”, film di Ettore Scola del 1970,
o ad altri film, come “La rosa purpurea del Cairo” di Woody Allen (1985), che
non alla realtà media dell’uomo medio.